ameno : E cercando d’aiuto in quella guerra Alcun, che soccorresse al
suo
bisogno, Incontrò l’huomo ; a cui con prece humil
Ma l’huom, che già l’havea nelle sue mani, E poteva domar a modo
suo
De le forze di lui l’alto valore, Disse : Che, s’
r a modo suo De le forze di lui l’alto valore, Disse : Che, s’egli in
suo
servitio havea Tanto sudato, che vittorioso Fatto
in suo servitio havea Tanto sudato, che vittorioso Fatto l’havea del
suo
fiero nimico ; Era ben degno ancor, ch’esso il se
Era ben degno ancor, ch’esso il servisse Per qualche giorno in alcun
suo
bisogno, E che non intendea per modo alcuno Lasci
e eternamente servo. Così talhora un huomo, ch’è men forte Del
suo
nimico, e che soccorso chiede Ad huom, che più de
men forte Del suo nimico, e che soccorso chiede Ad huom, che più del
suo
nimico vale, Dopo le sue vittorie alfin rimane De
rimane De la sua propria libertà perdente : Che quel, che vinto ha il
suo
nimico, ch’era Di lui più forte, assai più facilm
ndarno speso Il valor proprio : ché raro si trova Chi per un altro il
suo
metta a periglio, Senza speranza di guadagno have
nder lena : Perché già si sentia venir a fine : E negando di farlo il
suo
compagno Cadendo lasso in mezo del sentiero Termi
ezo del sentiero Terminò col viaggio anchor la vita. Allhor il
suo
padron questo vedendo Tutto il carco de l’Asino r
io la gravosa pelle. Allhor si dolse quel crudele indarno Del mal del
suo
compagno, et della pena Del doppio peso : che sch
t della pena Del doppio peso : che schivando in parte Tutto sul dorso
suo
venuto gli era. Così quel servo fa, che de
onservo Non ha pietade : et non consente in parte Talhor levargli del
suo
ufficio il peso Per picciol tempo : onde ne nasce
opra il tergo vile Havea di Giove un simolacro d’oro, Ch’al Tempio il
suo
padron seco trahea, Mentre passava per diverse vi
icca imago. Ma credendo il meschin, che quell’honore Venisse fatto al
suo
nobile aspetto, Del suo stolto parer tanto gonfio
il meschin, che quell’honore Venisse fatto al suo nobile aspetto, Del
suo
stolto parer tanto gonfiossi, Che preso allhor da
’esser nato un Asino del tutto Già si scordava, se non era allhora Il
suo
padron, che con un grosso fusto Percotendo le nat
esto è figura, C’ha di publico honor titolo e nome, E non si porta in
suo
costume, come La prudenza richiede a sua natura.
rtal ferita. Onde il Corvo sentito esser già preso Da lui, che
suo
prigione esser credea, Et mancarsi lo spirto adho
, che intento Tutto al guadagno senza haver rispetto Del mal, che del
suo
oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò che ’l
Del mal, che del suo oprar ne senta altrui, Si mette a far ciò che ’l
suo
cor gli detta : Per che talhor dal suo proprio gu
rui, Si mette a far ciò che ’l suo cor gli detta : Per che talhor dal
suo
proprio guadagno Danno gli nasce di tal cura pien
iti insieme un’Oca e un Cigno Questo per dilettar col dolce canto Del
suo
Signor le delicate orecchie ; Quella per dilettar
ntre. Or venne un giorno il Cuoco Per apprestarne le vivande usate Al
suo
Signor : e col coltello in mano In iscambio de l’
r si diede Così leggiadro e dilettoso canto, Ch’a quello il Cuoco del
suo
errore avvisto Il riconobbe al primo suono, e tos
i lontanarsi da malvagia sorte : E fugge il mal di violente morte Col
suo
sermone, ond’ei gli animi sforza. Un bel parlar
unto tra ’l gregge, (Tra ’l gregge, il qual non lo temea credendo Dal
suo
vestir ch’ei fosse il suo pastore) E volse dar la
l gregge, il qual non lo temea credendo Dal suo vestir ch’ei fosse il
suo
pastore) E volse dar la voce, onde il volgesse Al
a pieno Rimaner suole a lungo andar, né puote Sempre venir al fin del
suo
pensiero Con la bugia del suo fallace inganno, Ch
andar, né puote Sempre venir al fin del suo pensiero Con la bugia del
suo
fallace inganno, Ché finalmente il ver da sé si s
plicando diè di sé novella A la Volpe, che poco indi lontana Havea ’l
suo
albergo : et tosto al canto corse Dove era il Gal
v’egli alto sedea, E benigno di sé copia facesse A lei, che forte del
suo
amor accesa Già si sentia del suo leggiadro aspet
copia facesse A lei, che forte del suo amor accesa Già si sentia del
suo
leggiadro aspetto, E de l’alta virtù del suo bel
accesa Già si sentia del suo leggiadro aspetto, E de l’alta virtù del
suo
bel canto : Onde abbracciarlo come caro amico Ell
suo bel canto : Onde abbracciarlo come caro amico Ella voleva, et nel
suo
albergo trarlo Per fargli a suo poter cortese acc
o come caro amico Ella voleva, et nel suo albergo trarlo Per fargli a
suo
poter cortese accetto. Il Gallo, che cognobbe il
sentiero Per aspettar il Topo, che pian piano Incontra gli venia per
suo
diporto : E farne ad uso suo di lui rapina. Ma il
o, che pian piano Incontra gli venia per suo diporto : E farne ad uso
suo
di lui rapina. Ma il picciol Gallo, che lo scorse
tornò tosto dove Trovò la madre di sospetto piena, Che la cagion del
suo
fuggir li chiese : Ond’ei tremando a lei così ris
baldanza D’andargli presso, havendo io gran desire Di meglio figurar
suo
bel sembiante. Ma l’altro, che di quello è via mi
in capo Qual sangue rossa ; e fieri occhi di foco ; E veste il dosso
suo
di negre penne. Hor questo tanto parmi empio e su
hiaro intese Quai fusser gli animai da lui descritti, In modo tale al
suo
figliuol rispose. Ahi come, figlio, tua se
atiar di te sua ingorda fame. Però temi lui sempre, e non fidarti Del
suo
falso sembiante in vista pio : E tienti ben lonta
andarti Senza mai farti nocumento alcuno. Dunque non dubitar di quel
suo
vano Impeto, che ti sembra in vista rio : E temi
GGINE. VIDE la Lepre un dì con lento passo La Testuggine andar per
suo
camino, E cominciò sprezzarla sorridendo, E morde
sorridendo, E mordendo con motti acerbi e gravi La gran tardezza del
suo
pigro piede. La Testuggine allhor di sdegno acces
: Né s’accorge, ch’un sol continuo moto, Benché debole sia, giunge al
suo
fine Più tosto assai, ch’un più gagliardo e lieve
lice prole Biasmo, e vergogna, e danno in ogni tempo. Quinci con gran
suo
scorno intende e vede Il suo rival, che debole se
, e danno in ogni tempo. Quinci con gran suo scorno intende e vede Il
suo
rival, che debole seguendo Con un continuar facil
suon, che gli feria l’orecchie, Con generoso core e d’ardir pieno Del
suo
sospetto la cagion fallace. Ma poi ch’ei fu da qu
n con l’insolente grido, Stupido tutto alfin ritenne il passo : E del
suo
proprio error tra sé si rise : E fatto accorto da
roprio error tra sé si rise : E fatto accorto da l’inteso effetto Dal
suo
sospetto van, disse in suo core. Stolto ch
: E fatto accorto da l’inteso effetto Dal suo sospetto van, disse in
suo
core. Stolto ch’io non credea, ch’un tanto
[59.] DEL FIGLIUOL DELL’ASINO, E ’L LUPO. L’ASINO già nel
suo
presepio infermo Giaceva giunto assai vicino a mo
r certo foro Dentro guardava ; e l’Asinel vedendo Giacersi a lato del
suo
infermo padre, Chiamollo a sé, pregandol ch’ei l’
pietà de’ casi suoi, Gli domandò qual fosse allhor lo stato Del padre
suo
, ch’esser sentiva infermo. A cui ridendo l’Asinel
i gonfiava il picciol ventre, Subito cominciò gonfiarsi tanto, Che ’l
suo
figliuol, che la mirava in questo, De la sua mort
alcuno Folle patir d’esser minor del Bue, Né creder che colui, ch’era
suo
figlio, Lei madre vincer di saper potesse, Che d’
i saper potesse, Che d’anni e mesi l’avanzava assai, Nulla stimava il
suo
consiglio sano : Ma riputando sue parole vane, E
l giovine saggio Il buon consiglio di ragion matura : E seguitando il
suo
pazzo discorso Si mette a far con cor superbo e v
quella, a cui Stavan sempre nel cor gl’intesi patti Di mai non far al
suo
compagno offesa ; Da molti augelli per gran spati
brutto aspetto, Quando dal giogo d’una eccelsa rupe Sentì ullular del
suo
novo compagno I non mai più da lei veduti figli N
sozza madre, Che di lontan con gran timor la scorse Devorar tutto il
suo
infelice parto : Tal che fuggendo poi colma d’aff
ricevuto torto : E trovando per via l’altero augello Compagno, e del
suo
mal cagion novella, Che di ritorno sen veniva alt
o co i possenti vanni, Con aspra insopportabile rampogna Cominciò del
suo
mal seco a lagnarsi. Quinci l’Aquila intes
oi che bisognò correndo Un certo spatio di lungo camino Viaggio far a
suo
malgrado in fretta : E da principio cominciò supe
a prospera fortuna Divien superbo, e non conosce mai La debolezza del
suo
vil valore : Che, se in contraria sorte avien che
vil valore : Che, se in contraria sorte avien che cada, Si riconosce
suo
malgrado, e sente Non esser quel che si teneva in
modo, onde volar potesse. Il generoso augel, che non volea Al
suo
sciocco pensier dar argomento Di sua ruina, con p
olea. La Testuggine allhor, che affatto cieca Resa era già dal
suo
folle appetito, Le rispose bramarlo oltra ogni st
Ella devesse andar per l’aria a nuoto. Visto alfin l’ostinato
suo
pensiero L’Aquila, e vana ogni ragion con lei, Di
a, che non have L’ali leggiere, onde sostenga il peso Del debil corpo
suo
terreno e grave, Sottosopra voltandosi alfin cadd
’un gran sonaglio al collo Legar del Gatto si devesse al fine, Che ’l
suo
venir al suon si conoscesse Da lor, c’havriano de
e apporta, Dee pensar prima, che la lingua snodi, Se ’l fin del parer
suo
puote eseguirsi Senza pericol di chi ’l pone in o
di chi ’l pone in opra, Se brama esser tenuto al mondo saggio. Del
suo
debito fin manca il consiglio, In cui de l’e
a Cornacchia un giorno Al simulacro de la Dea Minerva, E del convivio
suo
chiamò cortese A parte un can, ch’era suo vecchio
Dea Minerva, E del convivio suo chiamò cortese A parte un can, ch’era
suo
vecchio amico. Il qual mentr’ella al sacrificio i
onor quant’io posso maggiore, Per veder se placar posso lo sdegno Del
suo
superbo cor sì in me crudele : E con carezze miti
consunto. Venuto al fiume allhor da le sue tane Il Riccio del
suo
mal forte si duole : Et poi le dice con paro
sento lasciarmi. Così la gente tal esempio invita A tolerar il
suo
tiranno avaro, Per non far al suo mal nova f
empio invita A tolerar il suo tiranno avaro, Per non far al
suo
mal nova ferita, Se le è di viver lungamente caro
DI PALLADE, ET DI GIOVE. GIÀ fu che ognun de gl’immortali Dei A
suo
piacer un arbore si elesse D’haver per propria in
e divin restasse infame. Udito ciò la generosa Dea Per dar del
suo
saper degna risposta In sì fatto parlar la lingua
mmo Padre, De gl’immortali Dei qual più gli aggrada Inutil pianta del
suo
pregio insegna, Ch’io quanto a me, cui sempre gio
de gli inganni suoi, Fingendo creder quanto ella tramava, Dal medesmo
suo
dir trovò soggetto Di levarsela allhor tosto dina
che credea Che pur venisser da dovero i cani, Per più non dimorar con
suo
gran danno Oltra lo scorno, ch’avanzar potea, Di
nzar potea, Di fuggirsene allhor disegno fece. E prendendo licenza al
suo
partire Con parlar dolce la pregava il Gallo Ch’e
regava il Gallo Ch’ella aspettasse i suoi novelli amici, Ch’erano del
suo
ufficio a lei compagni : Perché con essi poi part
oce aperta La dileggiava sì, che venne in breve Con lei, c’haveva nel
suo
cor concetto Dal lungo motteggiar un fiero sdegno
rni tue vili et impure Si faccian pasto : anzi di più gli scaccia Dal
suo
bel Tempio come empi e profani. La Scrofa
sei morta, e viva in odio a tutti. Così l’huom saggio, che ’l
suo
biasmo sente Da chi col vero il punge et lo moles
o : Et da stupore, et gran cordoglio mossa, Né senza grave horror del
suo
periglio Tra sé medesma fé cotai parole. O de le
eon di sana mente Scorgeva intorno, alcuna atta non era A sostener il
suo
possente orgoglio ; Che far potrà quand’ei di men
ea del prezzo, Quando l’astuto in un medesmo punto Toccò di sprone il
suo
destrier veloce, E a sciolta briglia in fuga il c
uom donar suole Quel, che per modo alcun vender non puote, Celando il
suo
pensier con finte note Mentre non ne può far ciò,
quell’antica pianta a scorger venne Il Cucuglio, ch’in alto havea ’l
suo
nido : E da certo mal d’occhi oppressa allhora Ma
de le varie piume, Dietro le sibillaro, in mille guise Schernendo il
suo
timor fallace e vano. Ond’ella accorta alf
sdegno. Et però non potrà la tua pazzia Tanto oltraggiarmi col
suo
stolto riso, Ch’io macchi mai la nobiltà nat
Sarebbe a mia virtù di poco honore L’abbassarsi in mostrarti il
suo
valore. Dunque ciò noti ognun, ch’esser si sent
un ci urtiamo, Come allhor salvo la tua forte scorcia Te renderà dal
suo
furor protervo ; Così la mia, che per sé stessa è
o a chi è maggior di forze, Se brama da perigli esser lontano, Et nel
suo
stato ognihor viver sicuro. Non prattichi il ba
aspettava, Senza degnarlo pur d’un guardo solo Ratto fuggendo seguitò
suo
corso. E ’l vil Monton se lo recò ad impresa Del
fuggendo seguitò suo corso. E ’l vil Monton se lo recò ad impresa Del
suo
valor, ch’a ciò fosse cagione. Così talhor
bisogno. Il che fatto più volte alfin commosso Da la pietà del
suo
grave lamento Sceso dal Cielo sopra un nuvol d’or
suole Porger soccorso a l’huom, ch’è neghitoso, S’ei da sé stesso del
suo
ben bramoso Ad aiutarsi cominciar non vuole. Op
i gli dava, Entrato in speme di quel vano honore, Che gli augurava il
suo
finto sermone, Per mostrarle c’haveva e voce e ca
stro il cibo in terra cadde. Così scorgendo la sagace Volpe Esser del
suo
disegno al fin venuta, Gli prese il pasto, e quel
altri un bando fece Gridar, ch’ogni animal, che senza coda Fusse dal
suo
tener gisse lontano, E in esiglio da lui lontan v
mpaurita al suono Del novo editto si metteva in punto D’abbandonar il
suo
natio paese, Quando la Simia di tal fatto accorta
r nova paresse, Se la tenesser con gran cura a mente Per riferirla al
suo
ritorno a lei. Or del campo il padrone un giorno
a gli invitati amici A la sua stanza quel padron del campo, Alfin col
suo
figliuol venne in su ’l loco Per veder se gli ami
Gli augelli allhor l’ordine udito havendo Tutti tremanti nel ritorno
suo
A la madre ne dier subito aviso. Et ella inteso t
enti : Ma pon sé stesso con le voglie ardenti A dar debito effetto al
suo
pensiero. Non aspettar, s’esser servito vuoi,
e, che principio dava A fabricar una nobil cittade, Che ad ogni amico
suo
prestasse albergo. Ma poi ch’a l’opra insidiosa d
e vepri si nascose. La semplicetta allhor, c’havea creduto Del
suo
falso parlar vero il concetto, De l’arbor scese s
un, che temerario ardisce Quella impresa tentar, ch’a la bassezza Del
suo
grado e valor mal si conviene, Sovente va d’ogni
Sovente va d’ogni miseria al fondo : E divenuto favola del volgo Con
suo
danno e dolor schernito giace. Ogni opra tua co
hor l’afflisse, Con la memoria de i passati guai Cresceva il duol del
suo
presente affanno. E come quel, ch’a tedio havea l
ad alta voce Più d’una volta richiamò la Morte. Tal ch’ella alfin dal
suo
parlar commossa Con faccia horrenda, e minaccioso
de l’adusta carne Con alquanti carboni accesi intorno Rapida salse al
suo
superbo nido. Onde soffiando a maggior furia il v
l foco spinse. Tal ch’uscita la fiamma, e circondando Tutto del vampo
suo
già intorno il nido, De l’Aquila i figliuoli per
mportante assai, Che dal giusto si trovi esser lontana, Offesa far al
suo
fedele amico ; Non havendo a piacer l’esser da qu
ingea, l’unghiava con le zampe adunche, E lo sbranava, e ne ’l rendea
suo
pasto. Così più giorni fece insin che venne L’ast
accorta a salutarlo prese Lontana un poco per mostrar gran doglia Del
suo
languire sospirando alquanto ; E a dirle del suo
trar gran doglia Del suo languire sospirando alquanto ; E a dirle del
suo
stato lo pregava. Le rispose il Leon con v
ar altero Dirgli, che mal faceva, e da insolente A turbar l’acque col
suo
bere a lui, Ch’era persona di gran pregio e stima
per natura forte L’inferior di forza e di valore, Quando li piace, a
suo
diletto offende, Cercando le cagioni, o vere o fa
xor deerat ; nunc autem senex desum uxori. » Hæc fabula innuit omnia
suo
tempore peragenda.
Abstemius 150 De delectore militvm DElector quidam missus a duce
suo
ad milites deligendos, qui rebus bellicis magis i
Che colui, che tornando a me con prova Maggior de le sue forze e del
suo
grado, Men darà indicio con più degno effetto, Co
rto. Così il giusto Signor, che tien in corte Diversa gente al
suo
servitio ; deve Sol prezzar più colui, che maggio
res seruant non minus facere, quamuis ociosi uideantur, quam qui eas
suo
labore congregarunt.
a quod posset grauibus succurrere morbis, et uitam ingenio continuare
suo
. Nec se Paeonio iactat cessisse magistro, quamuis
es sibi mordicus præcideret. Deinde quom inter loquendum diceret, præ
suo
in Vrsam amore, se propriis armis exuisse. « Quid
ut filiam eius sibi traderet in uxorem. Nec abnuit leo ut benefactori
suo
rem gratam faceret. Noua autem nupta ad uirum uen
eis occideret alter incredibili afficiebatur læticia, uidens inimico
suo
iam iam esse moriendum. Paucis autem post diebus,
ce Rana : Che allhor mirando gli atti, ch’ei facea, Haveva il fin del
suo
pensiero inteso : Et aprendosi il calle innanzi o
possente lena Si sostentava ; e risurgeva in modo, Che rendea vano il
suo
malvagio intento. Or mentre quella al fond
malignità cominciò solo Ad accusarla di superbia e fasto, E verso il
suo
Signor di poco amore. E già sul colmo de l’accuse
tenta Con falsitate, e non inteso inganno L’innocente in assentia al
suo
Signore. Spesso sopra chi ’l fa torna l’inganno
l, che indosso havea. Ma colui, che dal freddo era assalito Del fiato
suo
, tanto più stretto e involto Stava ne i panni, et
sì di voler proprio abbandonolla Con speme di poter forse trovarla Al
suo
ritorno nel riposto loco : E ’l Sol di quella imp
erat SAcerdos gulæ deditus decem turdos pingues ueru infixos puero
suo
assandos dederat, dicens oportere ab illo omnes a
erat, sibi mitteret, qui tandem paternis precibus motus imperat filio
suo
puerulo, ut expetita ad auum lintea ferret. Puer
ente vt felix evaderet VIr fatuus uxorem ducturus audiuit a uicino
suo
illum futurum in pecoribus fortunatum qui uxorem
: E sentitosi il piè punto e ferito Di lui si dolse, e del
suo
rio destino. Dicendo che ferita era da lui,
me impulit. » Tunc dæmon adductis testibus probauit id ab anu absque
suo
factum esse consilio. Fabula indicat homines min
uos emit et arma et in militiam profectus est, ubi quum ab imperatore
suo
male pugnatum esset, non solum quæ habebat perdid
nemorum custos fertur miseratus in antro exceptum Satyrus continuisse
suo
. Quem simul aspiciens ruris miratur alumnus, uimq
or facea ; Onde il mischin ragghiava, e in van scoteasi. Il
suo
padron vedendol sen ridea : Né per quello ai
più brama, Spesso sprezzar, se da accidente strano Reso gli vien dal
suo
pensier lontano Quel, che più d’acquistar s’indus
solea le bianche piume, Se gli fa incontra, e la cagion li chiede Del
suo
cantar poi ch’è vicino a morte, Che per natura og
nuno Dee star contento, e far legge a sé stesso De la ragion, che dal
suo
santo senno Con dotto mezzo a noi discende e piov
È pronto a ricercar l’altrui governo, Senza pensar qual sia l’ufficio
suo
: Né suole ambition di cure altrui Mover il cor d
cure altrui Mover il cor di chi conosce e vuole Far sempre quanto al
suo
dever conviene. Chi tien l’honor, e le sue cose
l’altro insieme a cena. Ma fu primo il villan, che ’l caro amico Nel
suo
povero albergo ricevesse. E tra le canne, che ser
rato carro Portò di novo in Oriente il giorno, L’hospite cittadino al
suo
compagno Con festevol parlar gioioso disse. Che t
a dal sonno, Ma molto più da la paura stanco, In cotal modo a l’hoste
suo
rispose. Gratie ti rendo del cortese accet
gò la madre, Che facesse per lui preghi a gli Dei Ch’ei ricovrasse il
suo
vigor primiero. Onde la madre rispondendo disse.
attraversato in modo, Che sentiva di morte estrema pena. E per medico
suo
la Grue richiese Con assai largo premio pattuito
spesso impazzo : ché benigno e pio L’intende, e che non suol cangiar
suo
stile. Contra bontade ogni viltate è ardita.
s pro exemplo fabulas et Socrates diuinis operibus indidit et poemati
suo
Flaccus aptauit, quod in se sub iocorum communium
ria. Allhor fermato il Lupo, e nulla mosso A sdegno del parlar
suo
dispettoso, Ma con la mente tutta cheta a quello
trovar cibo, Che gli gustasse fuor de l’onde salse ; Onde pascendo a
suo
diporto andava Lungo a la spiaggia del vicino lit
ortarla il lungo impaccio : Così stimando col comune scorno Coprir il
suo
, che non saria notato. Dunque chiamando tutte l’a
cui già nata Gran tempo si vivea tranquillamente, Rese alfin vano il
suo
cortese invito. Ma non sì tosto tal rispos
oglie in certo fiume Sendo caduta alfine estinta giacque, Il cadavero
suo
cercava indarno Incontra ’l corso de le rapid’ond
am suam accedens, quæ in remotis orbis partibus morabatur, eam nomine
suo
regaret, ne plures diuitias sibi concederet. Paup
’improviso colpo. Et veduto lo stral tutto nascoso Nell’intestine del
suo
proprio ventre, S’avvide ancor, che de lo stral l
umi a tutti infesti. Così l’huom savio dee scacciar coloro Dal
suo
commercio, ch’egli esser intende Di poca fed
lavori. Ella, che per natura era cortese, E ricca intorno del
suo
gran tesoro, Gli ne fé parte, gratiosamente Donan
sua propria favella Si scopre quel, che sua natura il fece, Con gran
suo
scorno, e riso di chi ’l vede. D’un folle cor l
par che ’l giusto Dio merto gli renda, Quand’ei nol crede, eguale al
suo
peccato. Non far oltraggio a chi ti fu cortese
urosa belva In un momento tanto avanti passa, Che quasi nel
suo
centro si rinselva. E mentre i cacciator lontan
o il cortile Di seta, e d’or superbamente adorno, Mentre aspettava il
suo
Signor, ch’armato Montasse in sella, e ’l conduce
padre sempre Mostrarsi a i figli di virtute esempio, Se vuol, che ’l
suo
parlar, che li riprende Del vitio appreso, habbia
: Io cedo a tutti, e sani ho i rami miei. L’humil, che cede al
suo
maggior, ventura Miglior s’acquista, e lunga
vita il fine, il dì loda la sera. Chi vuol da savio oprar pensi al
suo
fine.
al consueto albergo. Ma dopo lungo spatio rivenuto Il Lupo alfin nel
suo
primiero senso A sé medesmo tai parole mosse. M’è
poco consiglio. Il figlio tosto ubidiente cede A le parole del
suo
buon parente, E fa quel, ch’ei gli dice, e ’
i l’adusto, Né pur Venere stessa a tutti piace. Chi vuol de l’oprar
suo
far pago ognuno Sé stesso offende, e non con
omun guadagno, Il tutto giustamente in tre divise : Perché ciascun il
suo
dovere havesse. Ma il superbo Leon questo vedendo
volge l’anno. E sempre quello in buona parte prese, Che dal parer del
suo
consiglio venne. Così devrebbe ognun fidar
riglio posto : E secondo il bisogno e l’occorrenza Cangiar nell’oprar
suo
sermone e stile : E servirsi hor di questa, hora
ocivo al lor bramoso gusto. Allhor colui da meraviglia preso, E da un
suo
certo a lui sano rispetto In cotal modo a l’huom
parole. Ecco il Lin nasce, et ella, che pur serba Nel cor del
suo
presagio il gran timore, Disse di novo con r
no, Od altra cosa, onde sua forza penda : Perché puote avenir, che ’l
suo
nimico Vedendolo del tutto inerme e privo Di quel
ivenne. E già venuto nel medesmo loco Per tagliar legna, quel, che il
suo
compagno A caso fece, fece egli con arte Di lasci
sino, e ’l cavallo » P357 Faerno, 84 24. « Del gambero, e
suo
figliuolo » P322 25. « Del cane, e ’l
ne vicine di albergo » P69 Faerno, 38 34. « Del cervo, et
suo
figliuolo » P351 Faerno, 23 35.
io, et la morte » P60 Faerno, 10 38. « Della rana, et
suo
figliuolo » P376 39. « Del drago, et la
um operibus majus inveniunt, novo Si marmori adscripserunt Praxitelen
suo
. Malheureusement on est obligé de le croire sur
pro exemplo Fabulas et Socrates divinis operibus indidit, et poemati
suo
Flaccus aptavit, quod in se, sub jocorum communiu
pro exemplo fabulas et Socrates divinis operibus indidit, et poemati
suo
Flaccus aptavit ; quod in se, sub jocorum communi
. Gui de Peiregnes, Joscinev Audoi de Perulla. Seg. Helias cum fratre
suo
. et multi alii. Sed pace inter eos reformata, qui
os coronat ; Pudicitia contra Libidinem pugnat. — Fol. 38. Ira gladio
suo
se interficit ; Pacientia victrix Iram mortuam in
omini, nec inde reversurus, multos libros, in quibus sudaverat, eidem
suo
pastori ac nutritori reliquit, ex quibus hic est
ête des fables commence par ces mots : Romæ imperator Tiberino filio
suo
salutem. Ce titre pompeux d’empereur, ainsi ajo
um operibus majus inveniunt, novo Si marmori adscripserunt Praxitelen
suo
. Cette idée, qui se faisait jour, n’empêcha pas
l’avait un peu ébranlé : Romulus urbis Romæ imperator Tiberino filio
suo
salutem mittit303. Se fondant sur ce texte, il av
Atheniensis ; puis il commence ainsi : Romæ Imperator Tiberino filio
suo
salutem. Æsopus quidam græcus sapiens, etc. Quant
le prologue qui le suit : Romulus urbis Romæ Imperator Tiberino filio
suo
salutem mittit. Æsopus quidam græce sapiens, etc.
civitate Attica, et la dédicace commence par ces mots : Romulus filio
suo
Tyberio de civitate Attica. Esopus quidam homo gr
atore alumno. xxii. De boue et mure. xxiii. De ansere et domino
suo
. xiv. De simea et gemino fetu. xv. De nimbo
quintum est de coruo et sturno. Et est de eo qui confidit de inimico
suo
et quid vltimo accidit ei. Capitulum sextum de sy
ritissimo : magneque virtutis et nobilitatis viro prestātissimo : dño
suo
| et patrono obseruātissimo Sebastianus Brant Arg
et qui est intitulée : Sebastianus Brant : Onophrio Thedigene filio
suo
salutem. Elle est suivie d’une dissertation sur
est Petronio Arbitro et relata à Joanne Sarisberiensi in Policratico
suo
. Le distique Fine sui , etc., qui d’ordinaire
ducuntur. Et dicitur quatuor. Istis moralibus tractat esopus in libro
suo
et ponit duos tantum : ponit licteralem et allego
exempli. En voici la fin : Et questa Pistola mando egli scripta al
suo
maestro in lingua Grecha, et poi si trallatò in F
comperatore , finit ainsi : E lo buono huomo si ripigliò lo puledro
suo
, e andossene via con esso, et par bene parlate su
en ces termes : Qui commencia li capitoli de Eso-||po et prima fa il
suo
prologo. Cette nomenclature indique soixante-qu
fette sponde, Volgarizando con stillo sincero. Et egli a me con
suo
parlar severo, Experto e dotto, accotto mi ri
Cosi con tal licentia. Commeato presi, et egli mi benedisse El
suo
commento poi per me si scrisse. Le volume n’est
tenebat. Rom. de F. : Canis, flumen transiens, partem carnis in ore
suo
ferebat. Phèdre : Lympharum in speculo vidit s
Patefecit os suum ut aliam caperet. Rom. de F. : Patefacto autem ore
suo
illam dimisit quam prius tenebat. Ces trois dern
es détails sont fournis : Rana illud circa collum firmiter, necnon et
suo
proprio pedi, insidias sibi tendens, ligavit. Si
Romulus de Nilant. Rana illud circa Muris collum firmiter necnon et
suo
proprio pedi, insidias Muri tradens, ligavit. Dé
le dernier soupir. 309. « Reverendissimo in Christo patri et domino
suo
, precipuo domino, Antonio tituli sancti Chrysogon
iotheca codices manuscriptos, exoletasque editiones nonnullas, quarum
suo
loco mentio fiet. » Mythologia Æsopica etc. Fran
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