(1764) Saggio sopra l’opera in musica « Saggio sopra l’opera in musica — Delle scene »
/ 1560
(1764) Saggio sopra l’opera in musica « Saggio sopra l’opera in musica — Delle scene »

Delle scene

[5.1] Con le tante sconvenevolezze del ballo sogliono andare quasi di compagnia non minori disordini negli ornamenti della persona e dei vestiti dei ballerini. I quali vestiti, come anche quelli de’ musici, hanno da accostarsi, il più che sia possibile, alle usanze dei tempi e delle nazioni che sono rappresentate sulla scena. E dico accostarsi il più che sia possibile; che il teatro pur vuole una qualche licenza, e forse più che in altro luogo si ha ivi da star lontano dalla stitichezza e dalla pedanteria. Ma se non si esige da’ nostri Canziani ch’e’ taglino le vesti all’antica, cosi per appunto come le ci vengono descritte dall’erudito Ferrario, non dovriano né meno farsi lecito di dare a’ compagni di Enea la berretta e i braconi alla foggia olandese52.

[5.2] Perché i vestiti fossero costumati insieme e bizzarri, ci vorrebbono i Giuli Romani e i Triboli, che diedero prova anche in tal genere del loro valore; o almeno faria mestieri che i nostri uomini che presiedono al vestiario fossero inspirati dal genio di quegli eruditi artefici. E molto più saria mestieri che dagli odierni pittori seguite fossero le tracce di un San Gallo e di un Peruzzi, perché ne’ nostri teatri il tempio di Giove o di Marte non avesse sembianza della chiesa del Gesù, una piazza di Cartagine non si vedesse architettata alla gotica, perché in somma nelle scene si trovasse col pittoresco unito insieme il decoro e il costume. Le scene prima di qualunque altra cosa nell’opera attraggono imperiosamente gli occhi e determinano il luogo dell’azione, facendo gran parte di quello incantesimo per cui lo spettatore viene ad esser trasferito in Egitto o in Grecia, in Troia o nel Messico, nei campi Elisi o su nell’Olimpo. Or chi non vede quanto sia necessario che la fantasia del pittore sia regolata dall’erudizione e da un molto discreto giudizio? Possono in ciò essergli di grande aiuto la lettura dei libri, la conversazione degli uomini addottrinati nelle antichità; ma a qual altri dovrà egli aver ricorso piuttosto che al poeta, all’autor medesimo dell’opera, il quale ha concepito in mente ogni cosa, e niente ha d’aver lasciato indietro di tutto quello che può meglio abbellire e render verisimile l’azione che egli ha tolto a rappresentare ?

[5.3] Quantunque la pittura sia arrivata al colmo della perfezion sua nel secolo felice del Cinquecento, non è però che l’arte del dipingere le scene non abbia per molti riguardi ricevuto nella trascorsa età di considerabili aumenti. Né altrimenti esser poteva; perché essendo sì innalzati in quella medesima età per dare ricetto all’opera tanti nuovi teatri, è necessariamente avvenuto che abbia posto lo studio nel dipinger le scene un assai maggior numero d’ingegni che fatto non avea per lo addietro. Le invenzioni di Girolamo Genga tanto magnificate dal Serlio, che nel teatro di Urbino fece gli arbori ed altre simili cose di finisssima seta, si riporrebbono oggigiorno tra le fanciullaggini quasi direi da presepio. Ed io punto non dubito che l’istesso Serlio, dal cui trattato sopra le scene si può ricavare per altro qualche buon lume, non si compiacesse pur assai considerando come senza l’aiuto dei rilievi di legname sia da noi vinta qualunque difficoltà di prospettiva, come in siti ristrettissimi si facciano da noi apparire di grandi luoghi e spaziosi, considerando sin dove sia giunta al dì d’oggi in tal parte la scienza degli pittoreschi inganni. Fanno dipoi i più belli effetti e un gioco grandissimo all’occhio le scene vedute per angolo, che con gran discrezione di giudizio conviene per altro mettere in pratica, e in quelle vedute di faccia i punti accidentali che vi fa nascere il movimento vario della pianta su cui si alzano. Di tali scene fu l’inventore Ferdinando Bibbiena, il quale con la nuova sua maniera chiamò a sé gli occhi di tutti. E già parvero cose pur troppo secche quelle strade, que’ viali, quelle gallerie che corrono sempre al punto di mezzo, dove insieme con la veduta se ne va anche a finire la immaginativa dello spettatore. Avea egli sotto buoni maestri studiato i principi dell’arte sua nel Vignola; e dotato di fantasia pittoresca, s’avvisò di muovere, dirò così, di atteggiar le scene a quel modo che fecero i pittori del Cinquecento delle figure dei Bellini e dei Mantegna. Ferdinando, in una parola, fu il Paolo Veronese del teatro53. E come, al pari di Paolo, ebbe la gloria di aver recato l’arte al sommo, per quanto si appartiene alla magnificenza e a un certo che di maraviglioso, così ancora, egualmente che Paolo, ebbe il destino di averla messa in fondo per conto degli allievi che crebbero sotto di lui. Rivolti costoro ad imitare ciò che nelle sue invenzioni vi era di più facile, cioè la bizzarria, e lasciato il fondamento dell’arte che le rendea verisimili, si allontanarono via via da lui, facendo professione di seguirlo. Le più nuove fantasie, i più gran ghiribizzi del mondo, trabiccoli, centinamenti, tritumi, trafori, ogni cosa è messo da loro in opera, purché abbia dello strano. E per non parlare di una certa loro arbitraria prospettiva che sonosi creati in mente, danno dipoi il nome di gabinetto a ciò che potrebbe a un bisogno chiamarsi un salone, o un atrio, e chiamano prigione ciò che servir potrebbe per un cortile e forse anche per una piazza. Racconta Vitruvio come, avendo un pittore di quadratura dipinto a Tralli una scena, e avendovi figurato non so quali cose là dove per la verisimiglianza figurarle non si conveniva, erano i cittadini per approvare quell’opera eseguita per altro con intelligenza e gran bravura di mano. Quando saltò su un certo Licinio matematico, che aperse loro gli occhi. «E non vedete voi», disse loro, «che se voi nelle pitture quello approvate che non può stare in fatto, la vostra città corre gran pericolo di esser posta nel numero di quelle che non hanno gran riputazione per isvegliatezza d’ingegno54 Ora che direbbe quel matematico vedendo come nelle nostre scene da noi si applaudisce a quei laberinti di architettura, dove si smarrisce il vero, a quelle fabbriche che non si possono né reggere, né ridurre in pianta, e in cui le colonne in luogo che si veggano ire a tor suso l’architrave e il soffitto, si vanno a perdere in un mare di panneggiamenti posti così a mezz’aria? E il simile avviene anche talora delle volte, che si rimangon zoppe o monche, posano da una banda e non trovano dove impostarsi dall’altra, quasi sogni di gente inferma, che non hanno nelle loro parti connessione veruna. Ma dei Licini ne saltano fuori di tanto in tanto anche tra noi55 . E quello che avvenne all’antico pittore di Tralli, ebbe a provarlo il Padre Pozzi, uno de’ più rilassati maestri nella moderna scuola; basta dire ch’egli fu il creatore di quel nuovo mostro in architettura delle colonne a sedere. Avea egli nella pittura di una cupola fatto reggere le colonne, sopra cui ella posava, da mensole; cosa alla quale si storcevano alcuni architetti, protestando ch’essi per conto niuno non l’avrebbon fatto in una fabbrica, e dandogli per ciò non lieve carico; quando tolse loro ogni pensiero, secondo che riferisce egli stesso, un professore, amico suo, il quale si obbligò a rifare ogni cosa a sue spese qualora, fiaccando le mensole, le colonne con la cupola fossero venute a cadere: magra scusa, quasi che l’architettura non si avesse a dipingere secondo le buone regole, e ciò che offende nel vero non offendesse ancora nelle immagini di esso.

[5.4] A volersi contenere dentro a’ limiti di una savia invenzione, non potrà mai il pittore studiare abbastanza le fabbriche, che sono tuttavia rimase in piedi, della veneranda antichità. Molti nobili esempi ce ne fornisce l’Italia e la Grecia, a’ quali siam pur debitori del risorgimento della buona architettura; e molti ne potrebbe al pittore fornir medesimamente l’Egitto, maestra primiera di ogni disciplina. In effetto qual cosa vi ha egli di più grandioso e severo, lasciando stare le piramidi, di quegli avanzi del palagio di Mennone che torreggiano tuttavia lungo il Nilo, e della Tebe dalle cento porte, che, mercè l’opera dell’accurato Nordeno, sono ora di pubblica ragione? Nelle forme di essi e ne’ sobri ornamenti che ricevono da’ colossi e dalle sfingi onde sono accompagnati, spicca singolarmente la maniera terribile e, se vogliamo cosi chiamarla, michelagnolesca, la qual potrebbe anche talvolta con buonissimo effetto mostrarsi sugli teatri.

[5.5] La Cina ancora, antico nido delle arti e colonia, come alcuni vogliono, dell’Egitto, fornir ne potria di bellissime scene. Non è già che io ne volessi adottare quegli strani ghiribizzi che appresso di noi sono entrati in luogo delle erudite grottesche di Gioan da Udine, dell’India e degli altri maestri di quel secolo. Non vorrei né meno che da noi s’imitassero quelle loro pagode e quelle torri di porcellana, salvo se cinese non fosse il soggetto dell’opera. Ma bensì per le deliziose e per li giardini, che spesso occorrono nelle scene, di assai vaghe idee si potriano ricavare da quella in parecchie cose ingegnosissima nazione. I giardinieri della Cina sono come altrettanti pittori, i quali non piantano mica un giardino con quella regolarità ch’è propria dell’arte dell’edificar le case; ma, presa la natura come esemplare, fanno quanto sanno d’imitarla nella irregolarità e varietà sua.

[5.6] Loro costume è di scegliere quegli oggetti che nel genere loro piacciono il più alla vista, disporgli in maniera che l’uno sia all’altro di contrapposto, e ne risulti dall’insieme un non so che di peregrino e d’insolito. Vanno tramezzando ne’ boschetti alberi di differente portamento, condizione, tinta e natura. Vari sono i siti che nel medesimo sito, per così dire, rappresentano. Qua ti raccapriccia una veduta di scogli artifiziosamente tagliati e come pendoli in aria, di cascate d’acqua, di caverne e di grotte, dove fanno giocare variamente il lume; e là ti ricrea una veduta di fioriti parterri, di limpidi canali e di vaghe isolette con di belli edifizi che nelle acque si specchiano. Dal sito il più orrido ti fanno tutto a un tratto trapassare al più ameno; né mai dal diletto ne va disgiunta la maraviglia, la quale, nel porre un giardino, essi cercano egualmente che da noi fare si soglia nel tesser la favola di un poema. Simili ai giardini della Cina, sono quelli che piantano gl’Inglesi dietro al medesimo modello della natura. Quanto ella ha di vago e di vario, boschetti, collinette, acque vive, praterie con dei tempietti, degli obelischi ed anche di belle rovine che spuntano qua e là, si trova quivi riunito dal gusto dei Kent, dei Chambers e dei Brown, che hanno di tanto sorpassato il Le Nôtre, tenuto già il maestro dell’architettura, dirò cosi, de’ giardini. Dalle ville d’Inghilterra ne è sbandita la simmetria francese, i più bei siti paiono naturali, il culto è misto col negletto, e il disordine che vi regna è l’effetto dell’arte la meglio ordinata56.

[5.7] Ma per tornare a cose più vicine a noi, che non istudiano i nostri pittori quelle che pur hanno negli occhi? Oltre agli antichi edifizi che tuttavia sussistono in Italia, le più belle fabbriche moderne, che si potriano senza inverisimiglianza trasportar sulle scene? Che non istudiano i campi di architettura che adornano molti quadri di Paolo, co’ quali ben si può dire ch’egli ha reso teatrali gli avvenimenti della storia? I paesi del Pussino, di Tiziano, di Marchetto Ricci e di Claudio, che nella natura hanno saputo vedere quanto vi ha di più bello e di più caro? Ed anche chi non fosse di gran fantasia fornito farebbe gran senno a ricopiare così a puntino que’ loro paesaggi, imitando quel valentuomo il quale, piuttosto che far del suo delle cattive prediche, imparava a memoria e recitava quelle del Segneri.

[5.8] Una cosa importantissima, alla quale non si ha tutta quella attenzione che si vorrebbe, è il dover lasciar nelle scene le convenienti aperture, onde gli attori possano entrare ed uscire in siti tali, che con l’altezza delle colonne abbia una giusta proporzione la grandezza degli stessi attori. Veggonsi assai volte i personaggi venir dal fondo del teatro, perché di là solamente ci è l’uscita nella scena; ed ognuno può avere avvertito con quanta disconvenienza ed offensione dell’occhio. La grandezza apparente di un oggetto dipende dalla grandezza della sua immagine congiunta col giudizio che si forma della distanza di esso. Cosicché, posta l’immagine della stessa grandezza, l’oggetto sarà veduto tanto più grande, quanto più sarà giudicato lontano. Quindi è che appaiono come torrioni di giganti quei personaggi che si affacciano dal fondo della scena, facendocegli giudicare oltre modo lontani la prospettiva e l’artifizio appunto di essa scena. E cotesti giganti impiccoliscon dipoi e diventan nani di mano in mano che si fanno innanzi ed all’occhio più vicini. Lo stesso è delle comparse, che non si vorrebbon mai far andare colà dove i capitelli delle colonne giugnessero loro alle spalle o alla cintola, dove venissero a toglier via l’illusione della scena. E generalmente parlando, nel mescolare il vero col falso sono necessarie le più grandi cautele, perché l’uno non ismentisca l’altro, e il tutto paia di un pezzo.

[5.9] Un’altra cosa importantissima, a cui non si bada più che tanto, è la illuminazione delle scene; ed a torto. Mirabili cose farebbe il lume, quando non fosse compartito sempre con quella uguaghanza e così alla spicciolata, come ora si costuma. Distribuendolo artifiziosamente, mandandolo come in massa sopra alcune parti della scena e quasi privandone alcune altre, non è egli da credere che producesse anche nel teatro quegli effetti di forza e quella vivacità di chiaroscuro che a mettere ne’ suoi intagli è giunto il Rembrante? E quella amenità di lumi e d’ombre che hanno i quadri di Giorgione o di Tiziano, non saria forse anche impossibile trasferirla alle scene. Ben può ognuno ricordarsi di que’ teatrini che vanno attorno sotto il nome di vedute ottiche matematiche; e sogliono rappresentar porti di mare, combattimenti tra armate navali e simili altre cose. Il lume vi è introdotto a traverso di carte oliate, che ne smorzano il troppo acuto; e la pittura ne viene a ricevere un tale sfumamento, un tale accordo, che nulla più. Ed io mi ricordo, in occasione di uno di quei sepolcri che soglionsi fare in Bologna, di alcune grossolane pitture di quadratura ch’erano su per li muri della chiesa, e di alcune statue che meglio si direbbero fastellacci di carta, le quali ricevendo similmente il lume a traverso di certe carte oliate poste ne’ lunettoni, parevano finite con l’anima, benché vicine all’occhio, e di purissimo marmo. In un teatro illuminato a dovere si verrebbe a manifestare più che mai il vantaggio che noi abbiamo sopra gli antichi, di fare le nostre rappresentazioni sceniche di notte tempo. E già non è dubbio che, vistesi in tale teatro delle scene inventate da bravi pittori con decoro e con giudizio, non piacessero sopra tutte le strane fantasie che sono ora tanto in voga, e vengono tanto esaltate da quelli che niente considerano e di ogni cosa decidono. Avverrebbe in questo ciò che avvenne in Francia, quando, dopo gli arzigogoli spagnuoli che vi avevano lungo tempo sfigurato Talia, usci primamente la commedia di Molière costumata e naturale. Grandissimo fu il colpo ch’ella fece in virtù dell’imperio che sugli animi del pubblico ha il vero; e il Menagio ebbe a dire esser venuto il tempo di abbatter quegl’idoli dinanzi a’ quali avevano i Francesi sino allora abbruciato l’incenso.