(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo primo — Capitolo secondo »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo primo — Capitolo secondo »

Capitolo secondo

Ricerche sull’attitudine della lingua italiana per la musica dedotte dalla sua formazione, e dal suo meccanismo. Cause politiche che hanno contribuito a renderla tale.

[1] Lascio da banda il quistionare intorno all’origine naturale delle lingue, ricerca importantissima nella storia dello spirito umano, ma come tutte le altre della metafisica, coperta di nebbia foltissima, ove la religione non ci aiuti a diradarla. Lascio le liti intorno all’origine particolare del linguaggio italiano, se si parlasse originariamente dal volgo a’ tempi de’ Latini, o se tutto debbasi al corrompimento della romana favella dopo le invasioni de’ barbari. Lascio finalmente agli altri le liti circa l’introduzione della rima nella poesia moderna, quantunque molte cose potrebbono forse in mezzo recarsi contro alle opinioni più ricevute degli eruditi, e mi restringo ad esaminare soltanto i vantaggi che ha la lingua italiana per la musica: circostanza che più d’ogni altra cosa ha contribuito all’incremento di essa, ai progressi della poesia drammatica, e allo splendore di codesto leggiadrissimo ramo della italiana letteratura. Il che tanto più volentieri eseguirò quanto più opportuna comprendo essere siffatta investigazione alla facile intelligenza di quanto dovrò in appresso narrare, e più scarsamente del bisogno veggo trattarsi dagli scrittori italiani un sì ampio e sì interessante argomento. Ma tale è la disgrazia di quelle facoltà, che chiamansi di genio, e particolarmente di questa. I professori, che hanno tutta l’anima nelle dita, stimano che altre cognizioni non vi siano d’apprendere nell’arte loro fuor di quella di prestar il cembalo, e di seguitare l’usanza. I filosofi paghi di signoreggiare fra le altissime teorie del mondo delle astrazioni appena si degnano di scendere all’esame di alcune quistioni, dallo scioglimento delle quali risulta la perfezione delle arti di gusto: come se l’innocente e sicuro diletto che può ritrarsi da esse, sia un troppo picciolo frutto per l’uomo, la di cui vita è sì breve, e i piaceri sì scarsi, ocome se fosse un miglior uso de’ propri talenti, l’applicarli all’investigazione di certi oggetti, i quali la natura ha bastevolmente mostrato di non voler che si cerchino, o togliendoci affatto la possibilità di conoscerli, o rendendoci inutile la cognizione di essi dopo che si sono saputi.

[2] Affinchè proceda con precisione il discorso d’uopo è scomporre la quistione ne’ suoi primi elementi, e risalire fino alla sorgente, esponendo onde tragga origine la maggior o minore attitudine delle lingue pel canto. La voce considerata in se stessa non è altro che l’aria sospinta in su dai polmoni, la quale introducendosi per canale, che si chiama trachea, indi assottigliandosi per la fessura della glottide, e nella cavità della bocca ripercuotendosi, esce poi dalle labbra formando un romore, o suono inarticolato. La parola non è che il suono medesimo quando nel sortir dalla bocca riceve due modificazioni di genere diverso, che articolato lo rendono. La prima modificazione è quella che forma le lettere vocali, e consiste nella maggiore o minore apertura della bocca nel proferir certi suoni, rimanendo le labbra, la lingua, e i denti in una situazione fissa e permanente senza toccarsi insieme: dalla qual permanenza ne siegue, che il riposo della voce ne’ detti suoni non meno die gli alzamenti, e gli abbassamenti di essa, possono essere più o meno durevoli, secondo che più o meno dura l’espirazione dell’aria, che esce dai polmoni. Attalchè tutte le regole che si danno per li accenti e per l’intonazioni appartengono principalmente alle vocali, anzi non cadono che sopra queste. L’altra modificazione, che forma le lettere consonanti, si fa, qualora passando gli organi della bocca dalla loro posizione fissa ad un’altra momentaneamente variata agiscono l’uno sopra l’altro con qualche movimento, battendo la lingua ne’ denti, o nelle labbra, o questi scambievolmente contro a quella. Le consonanti adunque non si pronunziano se non coll’aiuto delle vocali, laddove le vocali si proferiscono senza l’aiuto delle consonanti, ma accoppiate con esse servono a distinguere più esattamente le sillabe dalle parole, e dall’accoppiamento, ed ordine loro si forma poi la sintassi, e il discorso. I vari climi, diversificando le passioni, e i bisogni, e conseguentemente la maniera di significar le une e gli altri, rinserrando o sciogliendo gli organi destinati alla voce, e modificandoli a misura del caldo o del freddo, influiscono prodigiosamente sulla formazione delle lingue. Quindi la varietà, e l’indole di esse misurata, a così dire, secondo i gradi di latitudine, o di longitudine geografica. Ma di ciò, come ancora delle cagioni morali, che contribuiscono ad alterar i linguaggi, si farà di proposito più ampiamente discorso in un saggio filosofico sull’origine della espressione poetica, e musicale, che da chi scrive si conserva inedito.

[3] Dal primo semplicissimo riflesso intorno alla formazione delle vocali, e delle consonanti risulta che la lingua più a proposito per il canto sarà quella: primo, che conti maggior numero di vocali, perché facendosi in esse le permanenze della voce, sarà maggiore il numero delle intonazioni, e per conseguenza degli elementi del canto: secondo, che impieghi maggior numero d’inflessioni diverse nel proferirle, perché ogni inflessione diversa nella pronunzia apporta seco un nuovo tratto di espressione nella melodia: terzo, dove la pronunzia di essi suoni sia più decisiva, e marcata, perché ivi avrà più forza l’accento, e più sensibile renderassi il valor musicale delle note: quarto, che non usi nelle parole di troppo rincontro di lettere consonanti senza l’interruzione delle vocali, perché tardandosi troppo nel proferirle, la misura si renderebbe lesta ancor essa, ed imbarazzata, e perché costretto il compositore a escludere molte parole, come disadatte alla espressione, s’impoverirebbe di molto il linguaggio musicale: quinto, dove il passaggio di parola in parola sia più spedito, e corrente, perché ciò contribuisce non meno alla dolcezza della lingua, che all’agevole collocazione delle note.

[4] Ma i suoni della voce sono incommensurabili, vale a dire, non si distinguono fra loro per intervalli perfettamente armonici, né possono misurarsi per alcuna delle note, che entrano nei nostri sistemi di musica. Il canto è quello che li determina, dando loro un valore e una durazione esprimibile per alcuno dei segni musicali. Ma cosa è egli mai questo canto? In che si distingue dalla favella ordinaria? Quali mutazioni diverse da quelle del parlar comune induce negli organi fisici della voce? Io lascio volentieri agli altri questa ricerca, che non è strettamente ligata col mio argomento, e che apprendersi non potrebbe senza troppo apparato scientifico. Mi contenterò d’osservare che in qualunque sentenza a cui ci appigliamo (nè trovasi alcuna, che alla proposta quistione in ogni sua parte risponda) il canto si distingue specificamente dalla voce pei seguenti caratteri. Primo: per un certo ondeggiamento della laringe, ovvero sia della sommità dell’organo destinato alla respirazione, la cui posizione si muta, alzandosi, o abbassandosi ne’ diversi tuoni. Secondo: per le oscillazioni reciproche dei ligamenti della glottide, i quali or s’increspano, or si rallentano a guisa delle corde musicali ne’ diversi toni grave ed acuto. Terzo: per la volontaria dimora della voce nelle rispettive vocali del discorso secondo tali determinati intervalli, che sono quelli che s’esprimono nella musica coi nomi di seconda, terza, quarta, quinta, ecc.

[5] Da tali differenze introdotte dal canto si scorge ancora quali proprietà si richieggano oltre le accennate di sopra in un linguaggio acconcio a tal fine. Non debbe avere pronunzia gutturale nelle vocali, perché nascendo cotal difetto da troppo aspra percussione nell’apertura della glottide, siffatto percuotimento nuoce alla nettezza e leggiadria del suono, il quale non esce assottigliato nella guisa che si richiede. Non dee averla nasale, perché facendosi una risuonanza troppo confusa nella cavità della bocca, e delle narici, il suono s’offusca, e l’accento perde molto della sua chiarezza. Debbe altresì esser priva di sillabe, o vocali mute, sulle quali, non potendo la voce far le sue poggiature a cagione, che non si pronunziano, i passaggi s’intorbidano, e la misura musicale s’imbroglia, perché bisogna notarle quantunque scommettano nel discorso, dalche nasce che le note di rado o non mai vadano d’accordo coll’intonazione, come spesso adiviene nella musica francese. Non ha d’avere dittonghi di suono indeterminato, e confuso, perché non avendo essi un valore determinato nella pronunzia, non possono né meno riceverlo dalle note, le quali non hanno in tal caso che una espressione insignificante. Facili dovranno essere le articolazioni, le sillabe nettamente divise, le parole di lunghezza giusta, che non assorbiscano, a così dire, tutto il fiato al cantante, ma che gli lascino il tempo di proferirle intiere senz’esser costretto ad affrettar di troppo i riposi sulle vocali. Altre qualità dovrebbe avere eziandio, delle quali farò parola in appresso.

[6] Ora se alcuna lingua d’Europa riunisce tutte, o la maggior parte delle doti accennate, essa è l’italiana sicuramente. Per chiarirsene d’altro non abbisognasi che di farne l’applicazione. Il numero delle sue vocali è uguale a quello delle più belle lingue del mondo la greca, e la latina, e sebbene non le adegui nel numero de’ suoni adoperati nel profferirle, tuttavia è assai ricca anche in questi, distinguendo molto bene il suono che corrisponde all’“a” semplice, da quello che corrisponde all’“a” con aspirazione, l’“i” breve dall’“j” disteso, l’“e” e l’“o” aperto, ch’equivalgono all’eta, all’omega de’ Greci dall’“e”, ed “o” chiuso, che rassomigliano all’“e” breve, e all’omicron. né minore si è la varietà di proferire le lettere consonanti, poiché, secondo le osservazioni del Buonmattei 11, da venti soli caratteri che s’annoverano nel toscano alfabeto, si ricavano nella pronunzia più di trentaquattro elementi. Le quali diversità non vengono comunemente notate nella Lombardia, ma sono principalissime presso a’ toscani, come si vede negli autori loro, ed io ho non poche fiate osservato. E maggiore e più copiosa ricchezza in questo genere avrebbe il linguaggio italiano, se i nazionali da cieca venerazione sospinti verso i toscani, quantunque appoggiata su ragionevoli fondamenti, non si fossero lasciati imporre un despotico giogo di tribunale e di lingua, per cui vien tolta ad essi la facoltà di prevalersi di tanti modi leggiadri di profferire, di tanti suoni, ed accenti diversi che s’usano ne’ moltiplici e vari dialetti di questa penisola. né sono molto lontano dal credere, che se di comune consenso della nazione sene facesse una scelta giudiziosa di siffatte maniere, la quale poi avvalorata venisse dall’uso di scrittori egregi e di cantori bravissimi, la musica ne acquisterebbe un pregio maggiore assai di quello che attualmente possegga, udendosi ora l’accento molle de’ sanesi, che appena toccano a mezzo suono le vocali, e rendono alcune consonanti pressoché insensibili massimamente nel fine: ora l’intenso e veloce de’ napoletani, che squartano, a così dire, le sillabe colla loro larga pronunzia, che sarebbe perciò opportunissima a’ canti guerreschi, e vivaci: ora la soavità e la grazia del veneziano per la copia delle vocali, e per la prestezza nel profferirle atto all’espressione della voluttà: ora la chiarezza e sonorità del romano, che alle gravi e seriose melodìe mirabilmente si confarebbe. Il dialetto bolognese (checché ne pensi in contrario Dante, o chiunque sia l’autore dell’antichissimo libro della volgare eloquenza) il genovese, il romagnuolo, il piemontese con pochi altri di niun giovamento sarebbero alla musica pel duro e frequente accozzamento delle consonanti, pei suoni oscuri, offuscati, ed ambigui delle vocali, per la sintassi mal definita, e per altre cause.

[7] La collocazione delle consonanti non può essere più opportuna, non essendoci alcuna sillaba, che ne contenga più di quattro, né trovandosi tre in seguito senza l’aiuto di qualche semivocale, che temperi la rozzezza del suono. E i passaggi da una parola in un’altra fansi con agevolezza grandissima, atteso che tutte le dizioni, siano nomi siano verbi, terminano in vocale, eccettuati alcuni monosillabi, come “sur, in, con”, o quando per accrescer forza al discorso, per ischivar le troppe elisioni, o per terminar più speditamente il periodo, in una cadenza si troncano infine alcune vocali, come “finor, fedel” da “finora fedele”. Siffatte desinenze in vocali, e l’abbondanza di esse, oltracchè spesseggiano le dizioni, moltiplicando le elisioni, rendono la lingua italiana molle e dolcissima sopra ogni credere. Non sò s’altra favella vi sia nella Europa, ove possano farsi otto versi paragonabili nella mollezza a questi del Tasso:

«Tentri sdegni, placide, e tranquille
        Ripulse, cari vezzi, e liete paci,
        Sorrisi, parolette, e dolci stille
        Di pianto, e sospir tronchi, e molli baci:
        Fuse tai cose tutte, e poscia unille,
        Ed al fuoco temprò di lente faci,
        E ne formò quel sì mirabil cinto
        Ond’ella avea il bel fianco succinto».

[8] Inoltre la giusta misura e proporzione delle parole, che più acconci e le rende a ricever il valor delle note, a fissar con esattezza il tempo, e a seguitar il movimento, unita all’intervallo così proporzionato, che trovasi ne’ versi italiani tra parola e parola, tra sillaba e sillaba, tra vocale e vocale, tra articolazione ed articolazione, e alla felice mescolanza delle medesime fanno sì che la poesia italiana, ove maneggiata venga a dovere, abbia una certa evidenza d’armonia maravigliosa. Chi non sente subito il musicale nell’artifiziaìe combinazione de’ suoni, che compongono la seguente ottava?

«Sommessi accenti, e tacite parole,
        Rotti singulti, e flebili sospiri
        Della gente, che in un s’allegra, e duole
        Fan che per l’aria un mormorio s’aggiri,
        Qual nelle folte selve udir si suole
        S’avvien che tra le frondi il vento spiri,
        O quale infra gli scogli, o presso ai lidi
        Sibila il mar percosso in rauchi stridi».

[9] Nè dalla delicatezza, che scorgesi in questi e simili esempi si debbe argomentare, come fanno alcuni critici francesi, i quali si compiacciono di giudicare di ciò che mostrano di non intendere, che la lingua italiana sia troppo effemminata e cascante12. Tale sarebbe certamente se gl’Italiani non avessero a ciò provveduto ora col frequente raddoppiamento delle medesime consonanti, come “alloppiare, oggetto”, il quale, oltre il sostenere che fa la pronunzia, serve a dividere più esattamente i tempi nella musicale misura: ora battendo fortemente su alcune consonanti “b, ff, r” come “arruffa, vibrato”, sulle quali, principalmente sulla prima, i toscani formano un suono, ch’io assomiglierei volontieri al romore, che fanno le penne degli augelli nel tempo, che spiccano il volo: ora colle frequenti elisioni, che spesseggiano il rincontro delle consonanti, dando alle parole una certa asprezza e gravità, ora colla inversione della sintassi i della quale parleremo tra poco. Si paragoni colle precedenti questa ottava parimenti del Tasso:

«Chiama gli abitator dell’ombre eterne
        Il rauco suon della tartarea tromba,
        Treman le spaziose atre caverne,
        E l’aer cieco a quel romor rimbomba
        Nè sì stridendo mai dalle superne
        Regioni del cielo il folgor piomba,
        Nè sì scossa giammai trema la terra
        Quando i vapori in sen gravida serra.»

[10] Si leggano inoltre alcuni pezzi scelti di Dante e d’Ariosto come sono la morte d’Ugolino, e le prodezze di Rodomonte in Parigi, indi si giudichi se la lingua italiana ad altro non è buona che ad esprimere l’effemminatezza.

[11] Sebbene non ogni evidenza di stile, non ogni numero che alla poesia si confà, sarebbe a proposito per la musica, come alcuni affermano innavertentemente. L’armonia poetica e l’armonia musicale, quantunque convengano in alcune circostanze generiche, hanno però delle differenze, alle quali bisogna far avvertenza per non confonderle. Tanto l’una quanto l’altra consistono nella convenienza delle parole e de’ suoni colla natura dell’oggetto, che esprimono: l’una e l’altra dipende dalla prosodia della lingua non meno che dalla cadenza ritmica del periodo, e da quella dimensione artifiziale, che cerca gli intervalli e i riposi. Ma nell’armonia puramente poetica cercasi sopra tutto la forza de’ vocaboli, e l’eleganza del fraseggiare: voglionsi parole scielte, grazie di lingua, torni d’espressione inusitati, versi talora rotondi talora spezzati colla scelta di voci più ruvide, le quali composte di maggior numero di consonanti elidano il suono troppo vivace e sonoro delle vocali, rendendo così la poesia più sostenuta e robusta. Ne’ versi fatti per musica cercasi non tsnto la forza determini quanto la relazione che hanno essi col canto: per lo che voglionsi parole composte di vocali chiare ed aperte, vuolsi un tal collocamento d’accenti, che affretti o rallenti in proporzione il movimento senza che abbia a inceppare in articolazioni troppo difficili, o in suoni confusi, dal che ne risulti sintassi più facile, e, a così dir, più scorrevole, che metta ne’ suoni una opportuna distanza tra il piano, e il forte, e tra le variazioni, e le pause della voce. Le lingue e le poesie più perfette sono quelle che sanno combinar meglio insieme codeste due spezie d’armonia: onde un giudizio sicuro può ritrarsi eziandio circa lo stil de’ poeti, e il vario loro carattere. Ed è siffatto carattere musicale, che distingue i versi di Virgilio da quelli di Lucano, e di Lucrezio, che fa comparir sì gentile il Petrarca dirimpetto al fiero e rugginoso Dante, che rende Metastasio superiore a Zeno, e Frugoni, e che mette Torquato Tasso al di sopra di Chiabrera, e d’Ariosto, i quali, e principalmente l’ultimo, benché ricchi siano di poetico stile, benché forniti d’altre qualità eccellenti, non sono in questa parte paragonabili all’autore della Gerusalemme. Il vivace e pittoresco Signor Abate Bettinelli gran difensore del poeta ferrarese13 dimanda perché invece del «Chiama gli abitator dell’ombre eterne» del Tasso non recansi in mezzo a provare la robusta asprezza della lingua italiana tante altre stanze dell’Ariosto ricche d’evidenza e di suono al paro di quella. Io rispondo che la espressione che scorgesi nei versi del ferrarese, è piuttosto poetica che musicale, che non percuote soltanto l’orecchio ma la pronunzia, e che l’accozzamento de’ suoni fra le vocali e le consonanti, di cui fa egli uso comunemente, è atta bensì a grandeggiare nell’epica declamazione, ma meno acconcia si rende pel canto. Mettasi sotto le note il primo verso di quella stanza, che fra le altre s’adduce in prova dal Bettinelli.

«D’alte querele, d’ululi, e di strida.»

[12] Qual vaghezza troverà il cantore arrivando al muggito sordo di quello sdrucciolo “ululi”? Quai riposi, o quai gorgheggi netti e chiari di voce nel cupo suono di quelle “uuu” replicate? Qual passaggio spedito e facile nell’unione non temperata di tre consonanti in “strida”? All’incontro la ruvidezza di quella del Tasso vien raddolcita dal concorso di vocali piene e sonanti, la disposizione dell’“a”, e dell’“o” oltre l’esprimer che fa mirabilmente la vacuità, e il silenzio delle caverne infernali, mitiga la pronunzia delle “rr”, e delle “tt” a bella posta replicate affine di rappresentare il suono grandioso di quella tromba: il chiaroscuro de’ colori vedesi a maraviglia osservato, onde ne risulta un tutto, che riunisce il colorito alla evidensa, e l’espressione poefica alla musicale armonia.

[13] Alla dolcezza, ed al collocamento delle parole succede nell’esame delle qualità proprie pel canto la maniera di misurarle, ovvero sia la prosodia. Ma siccome a sviluppar bene questo punto d’uopo sarebbe inoltrarmi in ricerche troppo scientifiche, e per conseguenza troppo moleste alla maggior parte de’ miei lettori intorno alla natura de’ tempi, e degli accenti; così stimo miglior consiglio il rimandar coloro che vorranno sapere più oltre, ai musici di professione, e ai matematici14. Basti per ora il sapere, che sebbene la prosodia italiana sia di gran lunga inferiore alla latina e alla greca, nelle quali la velocità, o lentezza de’ tempi impiegati nel proferire qualunque parola venivano determinate dal valore, e dalla quantità delle sillabe che formavano la parola stessa, laddove nella favella italiana i tempi del poetico ritmo non possono esattamente determinarsi a cagione, che la maggior parte delle sillabe non ha quantità fissa, e sensibile; nondimeno cotal difetto è minore in lei che nelle altre lingue viventi. Imperocché ha ella una variazione d’accento che la rende molto a proposito per la formazione de’ piedi: può, per esempio, in una parola di cinque sillabe, mettendo l’accento sulla seconda, far brievi le tre che le rimangono, come in “determinano”: può fare lo stesso in una parola di quattro sillabe, come in “spaventano”: abbonda moltissimo di piedi dattili come “florido, lucido”, piedi che molto giovano all’armonia a motivo dell’ultima, e penultima breve precedute danna sillaba lunga, circostanza, che più agevole rende la musicale misura: adatta l’accento ora sulla penultima, come in “bravura, sentenza”, ora sull’ultima, come in “morì, bontà, virtù”, dal che vario e differente suono risulta sì nelle rime che nei periodi, e più facile diviene la poggiatura nella cadenza. Misura altresì molte parole alla foggia de’ Greci, e de’ Latini, o almeno la pronunzia di esse è tale che facilmente potrebbero misurarsi, ond’è che può formare dei piedi il trocheo, come “venne fronde”, il giambo come “farò virtù”, l’anapesto, come “gradirò”, lo spondeo, come “sogno”, e il dattilo, come “timido”, dal vario accopiamento de’ quali può conseguentemente imitare dei versi l’esametro, il pentametro, l’asclepiadeo, il saffico, l’idonico, il faleucio, l’anapesto e il giambo15.

[14] Da ciò ne siegue che la melodia della lingua e del canto italiano è la più viva e sensibile di quante si conoscano, perocché traendo questa nobilisima parte della musica da sua origine, e la sua forza dalla imitazione trasferita al canto delle diverse successive inflessioni, che fa l’uomo nella voce ordinaria, allorché è agitato da qualche gran passione, ed essendo esse inflessioni tanto più variate, e moltiplici quanto maggiore è la varietà degli accenti nella sua pronunzia; egli è per conseguenza chiarissimo, che più espressiva sarà la melodia a misura, che la lingua sarà più abbondevole e varia in questo genere, perché l’imitazione della natura diverrà più perfetta. Che se alcun m’opponesse che i vantaggi di sopra indicati nella lingua italiana appartengono all’accento prosodiaco e non all’accento naturale, o per dir meglio, patetico, assai diverso da quello, e che in questo è riposto il principio ascoso della melodia, io rispondo che l’accento prosodiaco il naturale necessariamente conseguita, poiché le regole della pronunzia nel proferire le sillabe non si sono altronde ricavate, che dalla continua osservazione di ciò che succede in natura, e dai diversi alzamenti, o abbassamenti di voce, dalla diversa rapidità, o lentezza, con cui nell’uomo le passioni si esprimono: e l’asserire che tali regole niente hanno di comune coll’accento naturale, o patetico, sarebbe ugualmente assurdo, e ridicolo, che il dire che la musica strumentale ha fondamenti contrari o diversi della vocale. Ogni lingua dunque, la quale sarà doviziosa di accenti, sarà ricca parimenti d’espressione, e di melodia, come all’opposto, chi ne scarseggia avrà una melodia languida, fredda, e monotona. La francese si trova forse nel secondo caso, e l’italiana nel primo.

[15] Dal medesimo fonte deriva la bellezza musicale e poetica del recitativo italiano, poiché le moltiplici e variate poggiature della voce cagionate dagli accenti, siccome avvicinano il discorso ordinario alla natura del canto per la maggior facilità d’intuonazione, così accostano vieppiù il recitativo alla declamazion naturale, nel che la sua bellezza è a giudizio degli intendenti principalmente riposta. Il qual vantaggio non può avere la lingua francese, dove tutte le parole si pronunziano coll’accento sull’ultima sillaba; ond’è che i cantanti per rendere men monotono il recitativo loro, e più gradevole all’orecchio, si veggono costretti a discostarlo dal naturale, caricandolo di falsi ornamenti. Al che s’aggiugne eziandio l’indole de’ loro versi, i quali, essendo dappertutto rimati, e dovendo la musica fare su ogni rima una qualche pausa, l’andamento del recitativo divien tardo, noioso, e difficile. Al contrario nella poesia musicale italiana l’accento può liberamente per quasi ogni sillaba scorrere, e la natura del verso sciolto permette al poeta di far la cesura dove più gli torna: conseguentemente il periodo può secondo il bisogno slungarsi, o accorciarsi, e può dal compositore rapidità or maggiore, or minore ricevere. La lingua italiana ha dunque un discorso che facilmente divien poesia, ha poesia che s’avvicina alla natura del canto, ha finalmente il recitativo, che dalla declamazione poetica non molto si scosta: del che somministra una pruova il vedere, che i drammi dello Zeno, e del Metastasio sono ugualmente acconci per recitarsi che per cantarsi. Il Signor D’Alambert pretende che siffatta indifferenza per la recita e per il canto sia un difetto nell’opera italiana16. Io lontano dall’acconsentire al suo parere porto anzi opinione che ciò sia un pregio grandissimo, e maggiore ancor lo sarebbe se la declamazione poetica potesse nel canto intieramente trasfondersi cosicché la poesia fosse dalla musica inseparabile, come avvenne alla lingua greca nel suo principio. L’illustre Geometra ha dovuto poco dopo convenir egli stesso, poiché tra i mezzi, che da gran maestro addita per migliorar il recitativo francese, il principale, sù cui si ferma, è quello d’italianizzarlo l’italianiser, avvicinandola alla declamazione17.

[16] Un altro vantaggio della lingua italiana per l’oratoria, la musica e la poesia è la trasposizione, cioè quando il collocamento delle parole si fa non secondo l’ordine naturale delle idee, ma come più torna a proposito per la bellezza del periodo, e per il piacere dell’orecchio. A conoscere quanta grazia aggiunga allo stile la sola inversione, quando si fa secondo i movimenti dell’armonia, basta osservare i periodi di Cicerone, l’inesprimibile bellezza de’ quali diverrà un suono rozzo e insignificante, un cadavero senz’anima soltantochè si cangino dall’ordine loro le parole, mettendo sul principio quelle, che sono al fine, ovvero sul fine quelle, ch’erano in principio. né avviene altrimenti nella lingua italiana. Prendete per esempio i due primi versi dell’Ariosto così poeti ci:

«Le Donne, i Cavalier, l’armi, gli amori
Le cortesie, l’audaci imprese, io canto.»

ognun vede quanto accresca loro d’armonia quell’“io canto” messo infine. Si pongano le parole secondo l’ordine analitico

«Io canto i Cavalier, l’armi, gli amori
Le cortesie, le Donne, e imprese audaci.»

chi vi ravvisa più il pennello dell’immortal ferrarese? Non è per questo ch’io approvi l’inversione troppo intrelciata di alcuni cinquecentisti specialmente quando è affettata, e lunga, come adiviene fra gli altri nello Speroni, nel Dolce, e nel Casa, i quali ti fanno sfiatare i polmoni prima che arrivi a terminar un periodo: né che non preferisca sì in verso che in prosa uno stile conciso, e pieno di cose all’abbindolato e pieno di parole massimamente nel genere filosofico, di cui la precisione, la chiarezza, e la disinvoltura sono i principali ornamenti. Ma dico bensì che la lingua che avrà il vantaggio della trasposizione farà in uguali circostanze progressi più sensibili nelle belle arti ora per la facilità maggiore d’accomodar le parole al sentimento, onde nasce l’evidenza dello stile: ora per la maggior attitudine a dipignere cagionata dal diverso giro, che può darsi alla frase, e dalla varietà, che da esso ne risulta, onde si sfugge la monotonia, e il troppo regolare andamento; ora schivando la cacofonia nel rincontro sgradevole delle vocali, o l’asprezza in quello delle consonanti inevitabili spesse fiate nelle lingue, che hanno sintassi sempre uniforme: ora questo medesimo accozzamento a bello studio cercando, come lo richiede la sostenutezza e gravità dell’oggetto: ora facendo opportuna scelta di quei suoni, che più alla mimetica armonia convengono: ora per la sospensione, che fa nascer nello spirito lo sviluppo successivo d’un pensiero, di cui non si sa il risultato sino alla fine del periodo. Nel che è da osservarsi che le lingue, le quali per conservar rigorosamente l’ordine analitico delle parole non sanno preparar cotal sospensione, mettono in certo modo la poesia in contradizion coll’orecchio, poiché mentre il sentimento dei versi è completo, quello della musica, che va poco a poco spiegandosi, non finisce se non colla cadenza.

[17] Se fosse mio avviso il diffondermi su questa materia, molto ancora rimarrebbe adirsi intorno agli altri pregi dell’italiana favella, della evidenza delle sue frasi imitative, delle quali si trovano esempi maravigliosi negl’autori, della ricchezza determini cagionata dal gran numero di dialetti, che sono concorsi a formarla, della sua varietà nata appunto dalla ricchezza e moltiplicità delle sue forme, dell’abbondanza d’augmentativi e di diminutivi, che la rendono opportuna quelli per lo stile ditirambico, questi per l’anacreontico, e della pieghevolezza che in lei nasce dal concorso di queste e d’altre cause. Potrebbe ancora farsi vedere in qual guisa sappia essa congiungere l’ordine colla vivacità e colla chiarezza la forza, imbrigliare l’immaginazione senza rallentarne la possa, accomodarsi a tutte le inflessioni, e a tuti gli stili, conservando, ciò nonostante, l’indole sua propria, e nativa: quanto vaglia a esprimer tutte le passioni, e a dipinger tutti gli oggetti, e come divenghi lo strumento egualmente dallo spirito della fantasia, e degli affetti. Ma assai si è detto onde si conoscano le sue prerogative per la musica, e l’ingiustizia altresì con cui parlano di essa alcuni scrittori francesi, tra quali il gesuita Bouhours colla leggerezza sua solita nel giudicare non ebbe difficoltà di dire: «Che è una lingua affatto giochevole, che altro non intende che di far ridere coi suoi diminutivi», e notisi, che molti di quelli ch’ei nomina non si trovano frale parole toscane: «Che le continue terminazioni in vocale fanno una musica molto sgradevole», quando le principali bellezze della musica italiana nascono appunto da queste: «Che la lingua italiana non può esprimere la natura, e ch’essa non può dare alle cose l’aria, e vaghezza lor propria, e convenevole: Che le metafore continue, e le allegorie sono le delizie degl’Italiani, e degli Spagnuoli ancora: Che le loro lingue portano sempre le cose a qualche estremo: Che la maggior parte delle parole italiane, e spagnuole è piena d’oscurità, di confusione, e di gonfiezza», come se la gonfiezza, e l’oscurità fossero un vizio delle parole, e non degli autori: «Che i Chinesi e quasi tutti i popoli dell’Asia cantano, i tedeschi ragliano, gli Spagnuoli declamano, gli Inglesi fischiano, gli Italiani sospirano, né ci ha propriamente che i Francesi, i quali parlino». Dopo i quali spropositi non ci dobbiamo punto maravigliare dello spiritoso, e leggiadro giudizio, che dà intorno alle tre lingue sorelle: «Cioè che la lingua spagnuola è una superba di genio altiero, che vuol comparir grande, ama il fasto e l’eccesso in ogni cosa, l’italiana è una fraschetta, e una vanerella sempre carica d’ornamenti e di belletto, che altro non cerca che piacere ad altrui, e che ama molto le bagatelle. La francese è una matrona ma una matrona avvenente, la quale, benché savia, e modesta, nulla però ha dell’aspro né del fiero» 18. Chi così parla intendeva egli la lingua italiana né la spagnuola? Oppure si credeva abbastanza ricompensato dal dispregio, che meritano dagli stranieri le sue decisioni coll’applauso di qualche scioperato parigino19?

[18] Che se alcun volesse filosofando ricercare onde abbiasi la lingua italiana acquistata quella dolcezza, che sì abile al canto la rende, e da quai fonti siano derivati i successivi cangiamenti ad essa avvenuti dai Romani in quà, potrà egli a mio giudizio rinvenirli nelle cagioni seguenti. La prima, che non essendo stata l’Italia né tutta intiera, né lungo tratto di tempo soggiogata dai barbari, la favella italiana ha potuto conservar i suoi primitivi caratteri meglio delle altre nazioni, dove la lingua, e i costumi non men che la religione, e le leggi hanno dovuto piegare sotto il furore delle conquiste, come si vede nella lingua francese, la quale altro non è, se crediamo a’ loro autori più illustri, che un antico dialetto celtico diversamente alterato, e nella spagnuola tutta impastata di latino, e di gotico idioma, cui s’aggiunse dell’arabo non piccola parte. Ora l’origine del moderno italiano non dee tutta ripetersi dal latino parlare o dal settentrionale, ma dai rottami ancora della lingua italica primitiva anteriore alla latina, e che formavasi dai dialetti etrusco, indigene, osco, greco, sabino, e tant’altri usati dai rispettivi popoli che abitavano questi paesi. Di ciò appaiono manifesti vestigi in molti vocaboli secondo le dotte e riflessive osservazioni di Celso Cittadini, e del Muratori assai cognite agli eruditi. Cotal lingua confusa poi colla latina, e notabilmente alterata in seguito da gotiche, e longobardiche mischianze ha conservato nondimeno nella volgare favella l’originaria dolcezza di suono in gran parte orientale, onde molti di essi popoli traevano principio, per quella ragione avverata in tutti i secoli e da tutte le genti, che l’accento naturale è più durevole delle leggi e dei governi. Quindi il pregio di soavità e di mollezza sopra gli altri popoli dato al canto italiano da Giovanni Diacono fin dal secolo ottavo dell’era cristiana, e quindi parimenti l’accusa d’effemminatezza intentata contro ai cantori italiani da Gregorio Sarisberiense, che fioriva verso il 1170.

[19] La seconda, della immaginazione pronta e vivace, che tanto influisce sul naturale degli Italiani, la quale fra le molte modificazioni degli organi destinati all’esercizio della parola trova subito quelle, che alla maniera loro di concepire maggiormente si confanno. Avvegnaché il linguaggio delle passioni sia, generalmente parlando, lo stesso in tutti gli uomini, e che la natura si spieghi con certi segni comuni ad ogni nazione, egli è nondimeno certissimo, che la differenza de’ climi e de’ temperamenti, il maggior o minor grado di sensibilità e d’immaginazione siccome contribuiscono assaissimo alla formazion delle lingue, così ancora mettono gran divario nella maniera di esprimer gli affetti non meno tra popolo e popolo che tra individuo ed individuo. Bisogna scorticar un moscovita per far ch’ei senta, dice con molto spirito il Montesquieu. Lo svizzero nella collera grida egualmente e fortemente, mantenendo a un dipresso la voce nello stesso tuono. Non è così nell’italiano, cui somministrate venendo dalla pronta fantasia cento cose alla volta, percorre in fretta tutti i tuoni, e modifica in mille guise l’accento naturale. Perlochè è mirabile la vivacità, e l’evidenza, che osservasi non solo nella collera, ma anche nel discorso familiare, ovvero nella narrazione d’un fatto, per cui pigli qualche interesse. Allora il sembiante dell’italiano prende anima e vita: gli occhi, le mani, il portamento, tutto diviene eloquente: il suo linguaggio sentesi pieno d’interiezioni, d’esclamazioni, di suoni spiccati e sensibili: l’idioma degli accenti rinvigorisce quello delle parole, ed ecco il gran fonte onde scaturisce il modello, che il musico dee per ogni verso cercar d’imitare, e al quale la melodia è debitrice della sua possanza.

[20] Un’altra ragione potrebbe addursi per ultimo, ed è che essendosi vedute di buon ora in Italia signorie grandi, e possenti, come quella di Genova, Pisa, Firenze, Vinegia, Roma, Milano e Napoli, dove la magnificenza, il lusso, le arti, e il commercio contribuivano non meno ad ingentilir l’ozio che a fomentarlo, la tendenza al piacere, che da tai radici germoglia, e della quale la storia italiana ci somministra esempi sorprendenti, s’introdusse per entro a tutte le facoltà del gusto, che hanno per immediato strumento la parola. Le donne inoltre, dalle quali ogni civile socievolezza dipende, avendo per cagioni che non sono di questo luogo acquistata una influenza su i moderni costumi che mai non ebbero appresso gli antichi, giovarono al medesimo fine eziandio ora per l’agio, e morbidezza di vivere, che ispira il loro commercio, onde s’addolcì la guerresca ferocia di que’ secoli barbari: ora per l’innato piacere che le trasporta verso gli oggetti che parlano alla immaginazione ed al cuore: ora per lo studio di molte posto nelle belle lettere, e nelle arti più gentili, dal che nacque il desiderio d’imitarle ne’ letterati avidi di procacciarsi con questo mezzo la loro grazia, o la loro protezione, massimamente nel Cinquecento, secolo illustre quanto fosse altro mai per le donne italiane: ora per le fiamme che svegliano esse nei petti degli uomini, onde questi rivolgonsi poi a cantare la bellezza, e gli amori, piegando alla soavità lo stile, e la poesia. Così fecero Petrarca, e Bocaccio, prime sorgenti della mollezza della loro lingua come Dante fu il primo ad aggiugner la robustezza purgando la dizione dai Gotici e Latini avanzi che vi rimanevano nelle ruvide desinenze, nella sintassi poco ben istabilita, nelle articolazioni disagevoli, ne’ passaggi troppo confusi, e in altre cose. Lo che essi non avrebbero mai eseguito se il desiderio di celebrar la sua Laura nel primo, e di far leggere il suo Decamerone dalle femminette nel secondo, non avesse lor fatto nascere il pensiero di divenire scrittori.

[21] Se non che siffatto donnesco ascendente, come giova a far germogliar il gusto, e perfezionarlo, così serve non poche fiate a corromperlo. Ciò allora adiviene quando i licenziosi costumi d’un secolo, rallentando tutte le molle del vigore negli uomini, ripongono in mano alle donne quel freno che la natura avea ad esse negato: quando una gioventù frivola e degradata sagrifica alle insidiose tiranne della loro libertà insiem col tempo che perde anche i talenti, di cui ne abusa: quando gli autori veggonsi costretti a mendicar la loro approvazione se vogliono farsi applaudire da un pubblico ignorante o avvilito: quando i capricci della moda, della quale seggono esse giudici inappellabili, mescolandosi nelle regole del bello, fanno perder il gusto delle cose semplici, perché non si cercano se non le stravaganti: quando ci è d’uopo impicciolire gli oggetti e le idee per proporzionarle agli sguardi delle saccenti che regolano imperiosamente i giudizi e la critica di tanti uomini più femmine di loro: quando bisogna per non recar dispiacere ad esse, travisar in ricciutelli parigini i sublimi allievi di Licurgo, o impiegar il pennello grandioso d’un Michelagnolo a dipignere i voluttuosi atteggiamenti di qualche Taide: in una parola quando i geni fatti per illustrar il suo secolo e per sovrastarlo sono malgrado loro sforzati a preferire lo stile d’un giorno, che nasce e muore, come gli insetti efimeri, alle bellezze maschie e vigorose altrettanto durevoli quanto la natura, ch’esprimono. Tali furono a un dipresso le ascose cagioni, che fecero degenerare la poesia e la lingua dopo i secoli d’Alessandro e d’Augusto, e che corruppero ogni bella letteratura in Italia dopo il Cinquecento. Felici le arti e le lettere se di tal rimprovero potessero incolparsi soltanto i passati secoli, senza che nulla avessimo a rammaricarci pel nostro!