(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo primo — Capitolo ottavo »
/ 1560
(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo primo — Capitolo ottavo »

Capitolo ottavo

Stato della prospettiva e della poesia musicale fino alla metà del secolo scorso. Mediocrità della musica. Introduzione degli eunuchi e delle donne in teatro.

[1] Ritornando all’Italia, il dramma giacque fin dalla sua origine affastellato ed oppresso sotto lo strabocchevole apparato delle macchine, dei voli e delle decorazioni. Se i compositori che vennero dopo il Rinuccini avesser tenuto dietro alle pedate di quel grande ingegno, e con pari filosofia disaminato la relazione che ha il maraviglioso col melodramma, avrebbono facilmente potuto, dando la convenevol regolarità ed aggiustatezza alle lor favolose invenzioni, crear un nuovo sistema di poesia drammatica che aggradasse alla immaginazione senza dispiacer al buon senso, come fece dappoi in Francia il Quinaut, il solo tra tutti i poeti drammatici che abbia saputo maneggiar bene il maraviglioso. Ma essendo privi d’ogni principio di sana critica, senza cui non può farsi alcun progresso nella carriera del buon gusto, e stimando che il piacere del volgo fosse l’unica misura del bello, fecero invece di composizioni regolate un caos enorme, un guazzabuglio di sacro e di profano, di storico e di favoloso, di mitologia antica e di mitologia moderna, di vero e d’allegorico, di naturale e di fantastico tutto insieme raccolto a perpetua infamia dell’arte.

[2] Di siffatto disordine tre ne furono le vere cagioni: la prima, la natura stessa del maraviglioso, il quale, ove non abbia per fondamento una credenza pubblicamente stabilita dalla religione e dalla storia, non può far a meno che non degeneri in assurdità, perocché l’immaginazione lasciata a se stessa senza la scorta dei sensi o della ragione più non riconosce alcun termine dove fermarsi. Se dunque avverrà che il maraviglioso, che si vuol introdurre, invece di appoggiarsi sulla popolare opinione, le sia anzi direttamente contrario, allora le poeti che e romanzesche invenzioni, prive d’ogni autorità e d’ogni esempio, non avranno altra regola che il capriccio di chi le inventa. Saranno giudiziose fra le mani d’un Tasso, o d’un Fenelon, ma diverranno stravaganti fra quelle d’un Ariosto o d’un Marini.

[3] La seconda fu l’esempio d’un celebre autore, il quale ugualmente ricco di fantasia lirica, ugualmente benemerito della propria lingua, che sprovveduto delle altre doti che caratterizzano un gran poeta, contribuì coll’autorità che aveasi acquistata fra suoi nazionali in un secolo, che di già inchinava al cattivo gusto, a guastar il dramma musicale. Questi fu Gabriello Chiabrera nel suo Rapimento di Cefalo rappresentato nell’anno stesso, nella stessa occasione, e coll’apparato medesimo di quei del Rinuccini, a cui però rimase di gran lunga inferiore nelle cose drammatiche. Il maraviglioso vi si vede gittato alla rinfusa senz’alcun discernimento, Giove, Amore, Berecintia, l’Aurora, Cefalo, Titone, l’oceano, il sole, la notte, i Tritoni e i segni del Zodiaco, sono gl’interlocutori, se non in quanto vengono interrotti dal coro dei cacciatori, i quali, benché siano mortali, non hanno perduto il privilegio d’intervenire alle più intime confidenze dei numi. La scena si rappresenta nei campi, nell’aria, nel mare e nel cielo, e così gran via si trascorre dal poeta in cinque atti brevissimi. Basta ciò per conoscere che le scene debbono essere disunite, il dialogo slegato e privo del menomo calore, i caratteri immaginari, contradicentisi e senza interesse. Lo scarso affetto che regna è tutto lirico, cioè tratto dalla immaginazion del poeta, ma che lascia il cuor vuoto. Infatti qual espressione di melodia può cavarsi dalla invocazione che fa l’Aurora all’Amore?

«Saettator fornito
D’alto fuoco infinito
Onde ogni cosa accendi,
Deh! perché meco a saettar non prendi
L’aspro smalto onde Cefalo s’indura?»

O qual mezzo di farsi amare da un cuor ritroso è mai quello di addurre per motivo, che se Cefalo non le risponde nell’affetto:

«Il Sol sia senza scorta,
L’aria non avrà lume,
La terra inferma perirà gelata?»

[4] Amabile e tenero Metastasio! Tu non metti in bocca a’ tuoi personaggi simili scempiaggini. Ma il gran nome di Chiabrera legittimò tutti i difetti, e fece tacer ogni critica.

[5] Dietro alla scorta di lui non pensarono i poeti che ad abbagliar gli occhi senza curarsi del rimanente. Tanto era più bello un dramma quanto i cangiamenti di scena erano più spessi, e più grandiosi. Può servire di esempio il Dario di Francesco Beverini rappresentato a Venezia, il quale in soli tre atti cangiò fino a quattordici volte. Si vide il campo di Dario cogli elefanti che portavano sul dosso torri piene di soldati armati, una gran valle fra due montagne, la piazza di Babilonia, le tende militari del campo Persiano, magnifico cortile di un gran palazzo, il quartiere dell’armata colle macchine di guerra, la sala reale del palazzo babilonese, il padiglione dei re, il mausoleo di Nino, la cavalleria e la fanteria schierate in ordine di battaglia, prigione di tetrissimo aspetto, rovine d’un antico castello e il palazzo intiero di Babilonia. Eppur questo dramma non fu de’ più spettacolosi. Usaronsi delle invenzioni e delle macchine per rappresentare tutti gli oggetti possibili, favolose, storiche, mitologiche, allegoriche, morali, fisiche, sacre, profane, civili, rusticane, marittime, boschereccie i scientifiche d’ogni genere, e molte ancora di mero capriccio e fantasia, cosicché non si possono ridurre a determinate classi. Non poche tra queste per opera de’ bravi macchinisti, che allora fiorivano, e principalmente di Giacomo Torelli, del Cavalier Pippo Aiacciuoli, del Colonna, del Metelli, del Periccioli, del Mingaccino, e del Sabbattini riuscirono vaghissime ed ingegnosissime. Un dramma, o per dir meglio uno spettacolo frammezzato di poesia drammatica lavorata dal Chiabrera si rappresentò a Mantova l’anno 1608 per le nozze di D. Francesco Gonzaga con Margarita di Savoia con sontuosità e grandezza tale che fa stordire i lettori. Si trova alla distesa la descrizione nel tomo terzo delle Opere di esso Chiabrera. Ingegnose molto e leggiadre furono per lo più le invenzioni de’ drammi a Firenze e a Torino, quella per isquisito gusto di ogni arte bella sempre distinta in Italia, questa pella gara de’ più celebri artefici italiani e francesi ivi quasi in centro di riunione di entrambi paesi insieme raccolti. Massimamente sotto il governo di Cristina sorella di Lodovico XIII re di Francia e vedova di Vittorio Amadeo Duca di Savoia, che a quei tempi regolava come tutrice i popoli di Savoia e del Piemonte, e che molto si compiaceva di siffatti divertimenti insiem col Conte Filippo d’Agliè non men celebre pel suo buon gusto nelle decorazioni teatrali che per politiche disavventure77, Meritano particolar menzione per allegoria opportuna e per vaghezza di ritrovato il cielo di cristallo, e le Glorie di Firenze rappresentate colla solita magnificenza di quella corte nelle nozze di Cosimo de’ Medici con Maddalena d’Austria, e per quella di Torino il Vascello della felicità, e l’Arionne che furono veduti al palazzo reale nel Carnovale del 1628, celebrandosi la nascita di Madama di Francia. Non isgradiranno i lettori che io ne dia ioro un qualche saggio a fine di esporre io stato delle invenzioni sceniche nel secolo scorso. Allo scoprirsi che fece il regio salone con grandissimo strepito di stromenti comparvero in cielo tutti gl’iddi propizi agli uomini, ciascun de’ quali cantò un breve recitatativo, cui rispondeva il coro. Indi furono visti apparir gli elementi diversamente simbolleggiati, cioè un vascello che significava l’acqua, un teatro per la terra, un mongibello per il fuoco, e un iride per l’aria. Ecco il salone riempirsi d’acqua in un subito a guisa di mare, pel quale il vascello lentamente inoltravasi, portando nella prora un ricchissimo trono preparato pei sovrani e gli altri principi della corte. Ne’ lati della nave vedeansi di qua e di là incise in diversi scudi le arme delle provincie soggette al Duca di Savoia, e in mezzo una gran tavola apparecchiata per quaranta persone. Il dio del mare invitò i sovrani, le dame, e i cavalieri a entrar in codesto vascello ove furono serviti a suntuosa cena dai Tritoni i quali portavano le vivande sul dosso de’ mostri marini. Frattanto in uno scoglio, che inalzavasi non molto lontano, si rappresentò la favola d’Arione gittato in mare e salvato dal delfino, opera di Giovanni Capponi, bolognese. La musica fece il prologo. Il primo atto conteneva la partenza di Arione da Lesbo sua patria. Nel secondo vedevasi assiso e cantando sul delfino. Nel terzo si trovava a Corinto dove il re Periandro volle udir narrare le sue disavventure, facendolo dappoi riconoscere dai marinari che l’aveano tradito. Alla perfine le Sirene fecero un balletto, che fu invenzione del Duca Carlo Emanuele.

[6] Vinegia si distinse dalle altre città nella magnificenza ed apparato delle comparse, e memorabile si rendette fra gli altri drammi la Divisione del mondo rappresentato nel 1675 a spese e sotto la direzione del Marchese Guido Rangoni sul teatro di San Salvatore, dove tutte le parti del globo terracqueo si videro simboleggiate con istraordinario accompagnamento di macchine, di maravigliosa invenzione. Nel Pastore d’Anfriso eseguito poco dopo nel teatro di San Giovanni Grisostomo, si vide scendere dall’alto il palazzo del sole di vaghissima e bellissima architettura lavorato di dentro e di fuori con cristalli a diversi colori, i quali con singolare maestria si volgevano in giro continuatamente. I lumi erano in tanta copia e con tal artifizio disposti che gli occhi degli spettatori sostener non potevano il vivace chiarore dei raggi, che dai cristalli venivano ripercossi e vibrati. Nel Catone in Utica lavoro d’un poeta di merito assai inferiore a quello di Metastasio, si supponeva che gli abitanti delle vicine provincie preparassero per Cesare e per la sua armata un magnifico spettacolo lungo la riva del fiume. Lo sfondo del teatro rappresentava una vastissima pianura, in mezzo alla quale si vedeva sospeso in aria un globo che avea la figura di mappamondo. Al romore d’una brillante sinfonia accompagnata dal suono delle trombe, ecco il globo maestosamente avanzarsi verso la parte anteriore del teatro senza che apparissero in modo alcuno le scerete molie, che lo spingevano. Giunto appena sotto gli occhi di Cesare, si spaccò in tre parti che rappresentavano le tre parti del mondo conosciute attempi di quell’imperatore. La faccia interna del globo conteneva una intiera orchestra de’ più bravi suonatori, ed era dapertutto fregiata di molt’oro, di lucenti gemme, e di metalli dipinti a vari colori. E fin qui delle decorazioni.

[7] La terza causa dell’accennato disordine negli spettacoli fu l’uso smodato dei framessi, ovvero sia intermedi musicali. Nella invenzione del dramma siccome i ritrovatori pretesero d’imitar i Greci, presso a’ quali le rappresentazioni non erano mai interrotte dal principio sino alla fine, così non introdussero né intermezzi, né balli, e riempirono gli intervalli coi soli cori; ma tosto degenerando fra le mani degli altri compositori, né sapendo questi come fare per sostener l’attenzione degli spettatori cori azioni prive di verosimiglianza e d’interesse, cominciarono a tagliar i componimenti in più parti frammezzandovi tra atto ed atto intermezzi di più sorta. Alle volte erano d’argomento differente, e ciascuno formava un azione da se, alle volte s’univano cori qualche rapporto generale e formavano uno spettacolo. Sul principio i poeti e i direttori cercarono d’accomodar in qualche riiodo i suddetti intermedi alla natura del dramma, e frapposero quelli di genere boschereccio alle pastorali in musica, i seri al melodramma tragico, e i comici all’opera buffa. Così l’Aurora ingannata servì di favoletta per gl’intermedi musicali nel Filarmindo, favola pastorale, il Glauco schernito per gl’intermezzi del Corsaro Arimante, favola pescatoria, la Dafne conversa in Lauro nella tragicommedia intitolata l’Amorosa clemenza, la tomba di Nino per gli intermezzi dell’Ercole in Eta, dramma eroico, il Disinganno per la virtù in cimento, dramma morale, e il Capriccio con gli occhiali per i Diporti in Villa, dramma giocoso scritto nel dialetto bolognese. Ma tosto inoltrandosi la corruttela, gli accessori divennero l’azion principale, si moltiplicarono gli intermedi senza modo né regola, e lo spettacolo divenne un mostro.

[8] Intanto la poesia era quella parte del dramma cui meno si badava dai compositori. Regolarità, sentimenti, buon senso, sceneggiare, caratteri, orditura, passioni, interesse teatrale erano contati per nulla. Ora si vedeva nell’assedio di Persepoli, capitale antica della Persia, una mina sotterranea, che coll’aiuto della polvere faceva andar in aria una parte della città, ora il leggiadro Alcibiade che veniva in sulle scene sopra un carrozzino alla moda preceduto da corrieri e da volanti. Alle volte Prassitele innamorato di Frine le donava in regalo un orologio da saccoccia di questi che si chiamano mostre; alle volte la stessa cortegiana compariva nell’Areopago di Atene vestita in maschera alla veneziana. Nel Clearco del Moniglia, Clearco re della Colchide e protagonista del dramma comparisce ubbriaco in teatro, inciampa, cade, s’addormenta, e poi si sveglia vaneggiando. Nella Didone del Businelli, poeta veneziano, il primo atto comprende l’incendio di Troia; il secondo l’arrivo di Enea dopo sett’anni di navigazione e di travagli alle spiagge di Cartagine dove s’innamora di Didone; nel terzo l’abbandona, Didone s’uccide, e Jarba diventa pazzo da uomo stimato prima il più saggio di tutti. V’erano dei drammi, e fra gli altri quelli di Giulio Strozzi, fiorentino, dove per mezzo di gran caratteri mobili di fuoco si leggevano in aria degli anagrammi, dei bisticci, degli enigmi e delle divise allusive ai personaggi ch’erano presenti. Non si potrebbe senza infastidirne i lettori indicar tutte le sconvenevolezze di simil genere. personaggi fantastici, numi ed eroi mischiati tra buffoni, un miscuglio di tragico e di comico, che non aveva né la vivacità di questo né il sublime di quello, ne facevano allora il più cospicuo ornamento del dramma. Divenne un vezzo della poesia; anzi un costume l’introdurre dei serventi scilinguati e gobbi, che interrompessero con mille buffonerie gli avvenimenti più serii. Che bel sentire, per esempio, il seguente vezzosissimo soliloquio che fa Sifone nell’Ercole in Tebe:

«Go-go-go-gobo a me?
Non mi conosci affè,
Gente a vedere eroi po-poco avvezza;
Io son colui che taglia, buca e spezza.
Ho la lingua col restio
Ma per dar mazza che vola
No che gobbo non son io.
Ma me-menti per la gola.
Son ca-ca-camerata
D’Ercole trionfante,
E questo coso tondo
Sulle re-rene è un pezzo di quel mondo,
Che regger gli aiutai col vecchio Atlante.
Mi fece Natura
Nel viso
Narciso
E Marte in bravur:
Pa-pa-ri è il valore alla bellezza:
Io son colui, che taglia, buca e spezza.
Con questa bizzarria
Tutti di casa mia
Padre, figlio, fratel, nonno e bisavolo
Van cercando le risse a casa il dia-dia
dia-dia-dia. A casa il dia-dia a
casa il diavolo»

bellezza che può essere agguagliata soltanto da quest’altro amabile dialoghetto fra Egeo e Demo nel tanto decantato Giasone di Giacinto Andrea Ciccognini, fiorentino.

Egeo Re. E verso dove andranno?
Demo balbuziente. S’imbarcano per co co, co, per co, co, co.
Egeo. Per Coimbra?
Demo. Per co, co, co, co.
Egeo. Per Coralto?
Demo. Oibó! Per co, co, co.
Egeo. Per Cosandro?
Demo. Nemmeno: per co, co, co.
Egeo. Per Corinto?
Demo. Ah! bene, bene
           Mi cavasti di pene

[9] Gli amori introdotti sempre come principale costitutivo dei drammi non solo erano ricercali, falsi e puerili, ma in siffatta guisa indecenti che sembravano rappresentaci a bella posta sulle scene per giustificar il rimprovero che diè il Conte Fulvio Testi ai poeti italiani di quel tempo:

«Fatto è vil per lascivia il Tosco inchiostro.»

[10] Alcuni tratti scelti a caso ne faranno comprendere maggiormente lo spirito. In un’opera dell’Aureli, Socrate vuol cacciar via dalle scuole dove insegnava la filosofia una donna, che vi si era furtivamente introdotta. Ella resiste, il filosofo insiste, per dimesticare il quale la cortegiana, che conosceva per isperienza tutto l’impero delle proprie attrattive, si squarcia i veli, e gli mostra il seno scoperto. In un altro dramma del Norris si legge un duetto dove due amanti dimandano, ricusano, ridomandano a vicenda e si danno dei baci. E quello che v’ha di più obbrobrioso si è che una musica tenera, voluttuosa e rinforzata dagli strumenti dava tutto l’agio possibile ai lazzi scandalosi degli attori. Nella Ipermestra del Moniglia la castissima sposa, apostrofando alle labbra dello sposo, dice in piena udienza:

«Belle porpore vezzose
Onde Amore i labbri inostra
Pur son vostra:
Di rubini almo tesoro,
Mio ristoro, idolo mio,
E che più bramar degg’io?»

indi affrettando la notte troppo lenta ai pudici suoi desideri, ripiglia:

«Graditi orrori,
Coprite il dì:
Ammantate sì sì l’eterea mole
Se fra l’ombre degg’io godere il Sole.»

[11] Nella Dorinda d’un poeta sconosciuto si trova un monologo fatto ad imitazione di quello d’Amarilli nel Pastor fido, dove fra le altre cose Dorinda dice:

«Niso amato ed amante,
Se giugnesti a veder quanto mi costa
Questo finto rigore,
So che avresti pietà del mio dolore.
Anch’io vorrei potendo
Arciera fortunata
Dall’arco di due labbra
Scoccar contro il tuo sen dardi amorosi
E delle braccia mie
Far zona al fianco tuo salda, e tenace;
Ma, sopportalo in pace,
Forse verrà quel giorno
In cui del fato a scorno
Potrai, caro Ben mio,
Stemprare in vivo fuoco il tuo desio.»

[12] Circa lo stile a tutti è nota la viziosa maniera ch’erasi in Italia per ogni dove introdotta. Il lettore può senza scrupolo cavare una conseguenza intorno al gusto generale del secolo dal seguente squarcio di un monologo tratto da un dramma che fu con sommo applauso rappresentato in pressoché tutti i teatri d’Italia, il quale divenne lavoro pregiatissimo d’un rinomato poeta. Egli è Ercole, che indirizza in questa guisa il discorso alle donne:

«Donne, coi vostri vezzi
Che non potete voi?
Fabbricate nei crini
Labirinti agli eroi.
Solo una lagrimetta
Che da magiche stille esca di fuore,
Fassi un Egeo cruccioso,
Che sommerge l’ardir, l’alma e il valore;
E il vento d’un sospiro
Esalato dai labbri ingannatori,
Dai campi della gloria
Spiantò le palme, e diseccò gli allori.»

[13] Se tal era il linguaggio riserbato ad un semi-deo, ognun prevede in quale stile si doveva far parlare gli uomini. Nell’Elio Pertinace dell’Avverara havvi un personaggio che si spiega pei seguenti termini:

«Orologio rassembra il mio cuore
        Di quel sole, ch’è l’anima mia
        Serve d’ombra crudel gelosia,
        E di stilo spietato rigore.
S’egli è a polve, la polve è l’arena:
        S’egli è a ruota, la ruota è il tormento,
        E del tempo misura è la pena,
        Ma la pena non passa con l’ore.»

[14] Il mentovato Ciccognini verso la metà del secolo trasferendo al melodramma i difetti soliti allora a commettersi nelle altre poesie drammatiche, accoppiando in uno avvenimenti e personaggi seri coi ridicoli, interrompendo le scene in prosa colle poeti che strofi, che arie s’appellano, e mischiando squarci di prosa alle scene in verso, confuse tutti gli ordini della poesia, e il melodramma italiano miseramente contaminò. Fu nondimeno tenuto a’ suoi tempi per ristorator del teatro: i suoi drammi furono ristampati non poche volte come cose degne di tenersi in gran pregio: i letterati sel proponevano per modello d’imitazione, e le muse anche elleno, le vergini muse concorsero a gara per onorar con inni di laudi chi più d’ogni altro recava loro vergogna ed oltraggio. Tanto è vero che il giudizio de’ contemporanei è poco sicuro per gli autori, come lo è pei sovrani; che il pregiudizio a quelli, a questi l’adulazione tributano sovente degli omaggi insensati, o talvolta l’invidia gli calpesta con ingiuste criminazioni; e che alla imparziale posterità solamente appartiensi il diradar con quel raggio di luce regolator del pubblico sentimento la nebbia che intorno agli oggetti si sforzano d’avvolgere le nostre passioni.

[15] Però non si può immaginare al mondo cosa più bislacca di codesto ramo della poesia teatrale, onde esattamente la diffinì il Marchese Maffei «un’arte storpiata in grazia d’un altra, e dove il superiore miseramente serve all’inferiore, talché il poeta quel luogo ci tenga che tiene il violinista ove suoni per ballo» 78. Non giudico pertanto pregio dell’opera il trattenermi intorno agli autori che scrissero in secolo così sventurato79 né intorno ai titoli dei drammi loro, de’ quali può a ragione asserirsi che ne perisse la memoria col suono. Chi tanto abbondasse d’ozio e di voglia troverà ampiamente nel Quadrio di che soddisfarsi. Aggiugnerò soltanto che fra i moltissimi componimenti che mi è convenuto leggere per formarmi una giusta idea del gusto di que’ tempi, a fatica ho trovato alcuni pochi che non partecipano quanto gli altri della universal corruzione. Questi sono que’ d’Andrea Salvadori, il quale meglio d’ogni altro seppe dopo il Rinuccini far versi accomodati alla musica, alcuni del Conte Prospero Bonarelli, dell’Adimari, del Moniglia, il Trionfo d’Amore di Girolamo Preti, e pochi altri.

[16] Minore fu il contagio nelle opere buffe sì perché avendo in esse meno luogo il maraviglioso più ne rimaneva pei caratteri, e sì perchè il loro stile più vicino al familiare non ammetteva le frascherie e gli stravizzi dell’eroico. Perciò si trovano alcune degne di miglior secolo, e quali a stento si vedrebbono nel nostro. Darò per saggio la Verità raminga di Francesco Sbarra fornita di sollazzevole critica con pittura di caratteri assai bene delineati. Il tempo fa il prologo. Escono un medico e uno speziale, che si rallegrano scambievolmente di ciò che i mali degli uomini fanno il loro guadagni, e che la terra seppelisce tutti i loro spropositi. La verità comparisce avanti chiedendo loro aita per trovarsi tutta pesta, e mal concia dalle mani de’ procuratori e degli avvocati, ma accorgendosi chi ella è, la sfuggono, dicendo:

«A duo. E tu sei la verità?
              Va pur via fuggi di qua.
Medico. Chi sapesse ben il vero
              Del mestiero
              Di chi va cercando i mali
              Manderebbe alla mal’ora
              Tutti i medici, e speziali
              Per goder la sanità.
              Via pur via fuggi di quà.»

Un cavaliere accorre al pericolo per difenderla, ma riconoscendola per dessa l’abbandona al momento.

              «Vanne, vanne da me,
              Che se solo consiste il far il grande
              In bravar a credenza:
              Se solo e un’apparenza
              Questa che oggi si chiama
              Cavaglieresca vita:
              Se tu fossi tra noi saria spedita.»

Un soldato fa la medesima cosa perché la verità lo beffeggia per le sue millanterie. Otto villani, che ballano al suono d’una bizzarra sinfonia di zucche, la scacciano da sé parimenti:

              «Vanne pur, vattene via,
              Non entrar in questa cricca,
              Se chi dice il ver s’impicca
              Non sei buona compagnia.
Tutti. . Non vogliam di questa razza:
              Dalle dalle, ammazza, ammazza.»

[17] Nella seconda parte (poiché in due sole è divisa) viene un mercante, il quale fra le altre recita la seguente arietta:

              «Al Perù che occorre andare,
              E disagi ognor soffrire:
              Basta solo esercitare
              Il mercante, e poi fallire:
              Questo è il modo d’arricchire
              Inventato da più scaltri,
              Far a mezzo di quel d’altri.»

Esce in seguito un sensale, per la cui opera il mercante vorrebbe disfarsi della sua coscienza come di merce scomoda per sé e affatto inutile, ma il sensale si scansa adducendo per motivo che:

              «Questa roba non ha spaccio:
              Oggi più non se ne tratta,
              All’usanza non è fatta,
              A chi l’ha serve d’impaccio.»

A loro altresì ricorre la verità, ma, come può ben credersi, ambedui la sfuggono. Si presenta alle dame ma con eguale riuscita. La loro risposta è:

              «Sebben conforme è il sesso
              Non è il genio lo stesso;
              Tu del finger non sai la nobil arte.
              Nobil arte alla fè,
              Queste s’ingegnan solo
              Far comparir altrui quel che non è.»

Finalmente Talia, che è la musa del teatro, l’accoglie, ma solo a condizione che la verità, se vuol comparir in pubblico, dovrà cangiar abito, sembianze, favella, e maniere.

              «Così forse avverrà che mascherata
              Più dal mondo scacciata
              Non sia la verità.»

Infatti alcuni buffoni chiamati da Talia dopo aver riverita la verità finiscono con un ballo allegro.

[18] Frattanto la musica faceva pochissimi progressi. Dai surriferiti inventori del melodramma fino a più della metà del Seicento non si trova un solo maestro che abbia promosso d’un passo la espression musicale. Il desiderio di variare, d’alterare, di far delle repliche, delle fughe, de’ rovesci, e altri simili avanzi della fiaminga ruvidezza erano il gusto allor dominante, nel quale ebbe gran nome il Soriano tenuto perciò dagl’intelligenti piuttosto come buon contrappuntista che come buon musico. L’armonia era ben concertata, e spiccava la pienezza degli accordi, ma niuno, o pochissimo studio si metteva nell’osservar la relazione tra la parola e il canto, e nel perfezionare la melodia. Tale a un dippresso era lo stile del Giovanelli, del Teofili, del Ferrari, del Tarditi, del Frescosialdi, del Cornetto, ed altri, eccettuato Claudio Monteverde che seguitò più da vicino le pedate del Caccini e del Peri, e che avrebbe fatto epoca nella storia della musica scenica come la fece nella madrigalesca se i principi di quella fossero stati meglio conosciuti a’ suoi tempi. Un nobile tedesco chiamato Kansperger dimorante allora in Italia insieme con Galeazzo Sabattini inventore di nuova sorte di tastatura negli stromenti, con Nicola Ramarini, con Lelio Colista, romano, con Manfredo Settali, con Giammaria Canario, con Orazietto, celebre suonatore d’arpa, e Michelagnolo Verovio di violino, introdussero nella musica strumentale mille chiamato da loro galanterie, che si riducevano a trilli, strascichi, tremoli, finte, sincopi e tal cose, che accrebbero maggiormente la corruzione. Uno dei vezzi musicali più stimati a quel tempo era di esprimere colla possibile evidenza il romore materiale degli oggetti compresi nelle parole. Non si può meno di non ridere nel vedere nella musica fatta dal Melani sul dramma intitolato il Podestà di Coloniola affaccendato sommamente il compositore per rendere cogli strumenti il suono dei rispettivi animali descritti ne’ seguenti versi:

«Talor la granocchiella nel pantano
Per allegrezza canta qua quarà:
Tribbia il grillo tre, tre, tre:
L’agnellino bè, bè, bè:
L’assiuolo uhu, uhu, uhu,
Et il gal cucchericcù;
Ogni bestia sta gaia, io sempre carico
Di guidaleschi a ugni otta mi rammarico.»

[19] Come non può a meno di non recar meraviglia la pena che si prese il Pardieri, compositore ignoto d’un più ignoto componimento rappresentato in Bologna, e che aveva per titolo L’Amore in cucina, di esprimere colla orchestra il suono del papagallo e dell’artiglieria unicamente perché nel dramma si faceva menzione del canto dell’uno, e un personaggio diceva dell’altra.

«Io del cannone al suon
Solo risponderò bun - ban - bun - bon».

[20] Siffatta mediocrità delle cose musicali proveniva da varie cagioni. Il piacere, che gustava il popolo nelle macchine e nelle decorazioni, faceva che si stimasse più un buon macchinista che un poeta o un musico: quindi mancò l’emulazione tra i professori, la quale non si riscalda, ove il pubblico grido non la risveglia. Nel secolo antecedente, secolo di attività e d’invenzione, erano usciti alla luce parecchi trattati eccellenti indirizzati a migliorare la musica. Vi furono delle gare e delle dispute celebri tra Vincenzo Galilei e il Zarlino. Si tentarono tutti i mezzi di trasferire alla musica moderna le impareggiabili bellezze dell’antica, nel qual tentativo si distinsero il Vicentino, il Mei, il Glareano, il Bottrigari, il Fogliani con altri minori, ma nulla vi fu di ciò fino alla metà del Seicento, onde mancò a’ musici la istituzione convenevole. Gli è vero che visse a que’ tempi Giambattista Doni, scrittore grandissimo, il quale solo varrebbe per tutti, ma la più bella tra le opere sue, e la più acconcia a spargere il buon gusto, cioè il Trattato della musica scenica, rimase fra le tenebre inedita fino a’ nostri giorni. Anche il celebre gesuita Atanasio Kirchero mandò l’anno 1650 in luce la sua Musurgia, opera ove s’imprende a trattare tutta, quanta è, l’armonica facoltà, ma che incontrò la disapprovazione degli scienziati pei molti abbagli presi dall’autore, e per l’infedeltà nel tradurre i musici greci. Marco Meibomio critico di prima sfera fortemente il riprende di ciò, stendendo la sua accusa a tutta l’Italia, e «maravigliandosi (sono le sue parole) che non solo dal più celebre paese del mondo ma da uomo così famoso potessero venir fuori cotante inedie. Che se in questa guisa s’anderà avanti nello studio delle lettere e dell’antichità, ben tosto, cangiato l’ordine delle cose, vedrem la barbarie sortita dalla coltissima regione d’Italia diffondersi per tutta l’Europa» 80. Per rimuovere dalla sua nazione un rimprovero così umiliante fatto da uno scrittore il più capace di giudicare di quanti fossero allor tra i viventi, s’ingegnò Angelini Buontempi, perugino, nella sua Storia della musica 81 di far vedere che i musici e i compositori italiani che fiorivano in Roma allorché si pubblicò ivi la Musurgia, niuna mano aveano avuta in quell’opera, cosicché gli errori giustamente ripresi nel Kirchero a lui doveano imputarsi, non già all’Italia. Ma, così parlando il Buontempi, o ingannò se stesso, o volle gittar la polvere sugli occhi a’ lettori: imperocché basta scorrer soltanto di volo le due prefazioni poste dal Kirchero avanti alla Musurgia per veder ivi espressi i nomi di quelli stessi compositori romani citati dal Buontempi con più altri assai de’ più famosi, i quali o consultati, o pregati, o con musica, o con trattato, o in altra maniera concorsero al compimento di quell’opera, di che l’autore ne ricava per essa un buon augurio di durevole fama.

[21] La terza e principal cagione fu il dicadimento della poesia, giacché tale è il vincolo che passa fra codeste due facoltà sorelle, che, ove l’una si guasti, è pressoché indispensabile che si corrompa anche l’altra. Con parole vuote d’interesse e di affetto non poteva congiungersi se non musica, che nulla esprimesse, e quando il sentimento era carico di concetti viziosi o puerili, l’armonia non sapeva aggirarsi se non intorno ad ornamenti superflui. Aggiungasi inoltre che i versi piccoli di quattro e cinque sillabe soliti a usarsi allora ne’ drammi mettevano i compositori in necessità di valersi di note minutissime, lo che rendeva la musica stemperata, e che la frequenza de’ versi rimati gli costringeva a far sentir troppo spesse, e vicine le consonanze, lo che la rendeva monotona.

[22] Dallo stato svantaggioso in cui si trovava la musica e la poesia, presero occasione i cantanti di uscir di mano a’ poeti e ai compositori, e di rapirsi il primato in teatro, rivolgendo a sé l’attenzione del pubblico . Giulio Caccini, del quale si è parlato a lungo di sopra, era stato il primo a raffinar il canto monodico, introducendovi non pochi ornamenti di passaggi, trilli, gorgheggi, e simili cose, le quali saggiamente e parcamente adoperate contribuirono a dar espressione e vaghezza alla melodia. Questa maniera coltivata in appresso con molta grazia da Giuseppe Cenci, fiorentino, per cui divenne assai celebre dentro e fuori della sua patria, fu poi condotta a maggior perfezione da Lodovico chiamato il Falsetto, dal Verovio, dall’Ottaviuccio, dal Niccolini, dal Bianchi, dal Lorenzini, dal Giovannini, e dal Mari cantori bravissimi, ma principalmente da una singolar genia di persone, che cominciò nel secolo decimosettimo a comparir sulle scene.

[23] Nel principio delle drammatiche rappresentazioni in musica il carattere di soprano era per lo più eseguito da fanciulli. Ma l’ingrossamento della voce, che succedeva in loro col crescer dell’età, e la difficoltà che si trovava nel conseguire, ch’eglino dassero al canto tutta quella espressione d’affetto, della quale non sono capaci gli anni più teneri, costrinsero i direttori degli spettacoli a prevalersi degli eunuchi. La relazione sconosciuta, ma da tutti gli anatomici avverata, che passa tra gli organi della generazione, e que’ della voce, impedisce in colpco, cui vien proibito lo sviluppo ulteriore del sesso che s’ingrossino i ligamenri della gola per la minor copia di umori che vi concorre, gli rende più atti a vibrarsi, e conseguentemente a eseguire le menome graduazioni del canto, assottiglia l’orifizio della glottide, e la dispone a formar i tuoni acuti meglio degli altri. Cotali circostanze doveano dar ad essi la preferenza in teatro. Non può dirsi a punto fisso l’epoca della introduzion loro. Da una bolla di Sisto V indirizzata al Nunzio di Spagna si ricava che l’uso degli eunuchi era molto comune in quella nazione probabilmente per la musica delle chiese o per quella di camera. Dico probabilmente, poiché sebbene la surriferita bolla nulla indichi di ciò (riguardando soltanto l’abuso introdottovisi, di congiungersi gli eunuchi in matrimonio colle donne) non apparisce per qual altro motivo si potessero permettere. Da una lettera del celebre viaggiatore Pietro della Valle a Lelio Guidiccione scritta nel 1640 si vede ch’erano di già comunissimi sulle scene italiane a quel tempo. Il trasporto di codesta nazione pel canto e le voci di tai cantori proporzionate alla mollezza, o per dir meglio, alla effemminatezza della nostra musica mi fa credere che gl’Italiani se ne prevalessero subito dopo l’invenzione del melodramma. I più famosi in allora furono Guidobaldo, Campagnuola mantovano, Marco Antonio Gregori, Angelucci, e sopra tutti Loretto Vittori, di cui Giano Nicio eritreo fa tali elogi, che sembrano ad uom mortale non poter convenire82.

[24] Egli è un problema assai difficile a sciorsi se convenga o no alla morale pubblica che le donne rappresentino negli spettacoli. L’esempio degli antichi Greci e Romani, che escluse le vollero costantemente; il rischio, cui si espone la loro virtù esercitando una professione, ove per un orribile ma universal pregiudizio, non ha alcun vantaggio il pudore, ove tanti ne ha la licenza; l’ascendente che prendono esse sugli animi dello spettatore non meno contrario al fine del teatro, che pericoloso al buon ordine della società; la mollezza degli affetti, che ispirano coi loro atteggiamenti espressivi di già troppo avvalorata colla seduzione naturale della bellezza e del sesso; lo spirito di dissipamento che spargono fra giovani scapoli, i cattivi effetti del quale si risentono in tutti gli ordini dello stato politico, sembrano legittimar il divieto ad esse pur fatto sul principio delle drammatiche rappresentazioni in Italia di comparir sul teatro. Ma dall’altra parte i disordini forse maggiori che nascevano dal sostituir invece loro giovinastri venali e sfacciati, ai quali, dopo aver avvilito il proprio sesso coi femminili abbigliamenti, non era troppo difficile il passaggio ad avvilir la natura eziandio; la influenza grande nella società, e maggiore in teatro, che i nostri sistemi di governo permettono alle donne, dal che nasce, che essendo elleno la parte più numerosa e la più pregiata degli spettacoli, cui vuolsi ad ogni modo compiacere, amano di vedere chi rappresenti al vivo in sul teatro i donneschi diritti; l’amore, il quale per cagioni che non sono di questo luogo, è divenuto il carattere dominante del moderno teatro e che non può debitamente esprimersi, né convien che si esprima da altri oggetti, che da quelli fatti dal ciclo per ispirarlo; la ristrettezza de’ nostri teatri picciolissimi a paragon degli antichi, dove la distanza che passa tra gli attori e gli spettatori è tale, che i personaggi non possono agevolmente prendersi in iscambio, e dove troppo è difficile il mantener l’illusione; altre cause insomma facili a scoprirsi dal lettore filosofo costrinsero alla perfine i saggi regolatori delle cose pubbliche ad ammetter le donne sulle scene. La qual permissione tanto più divenne necessaria nel dramma quanto che non ci era maniera di supplire per altro verso alla dolcezza delle voci loro così acconcie ad esprimere e comunicare gli affetti, primo e principale scopo del canto. Trovasi per ciò di buon’ora stabilita cotal usanza, e celebri si resero in Mantova la Muranesi e la Martinelli, sul sepolcro della quale si legge tuttora una elegante e patetica iscrizione latina fatta scolpire dal duca Vincenzo suo protettore ed amante83. In Firenze levarono grido le due Lulle Giulia, e Vittoria assoldate dalla corte colla Caccici figliuola di Giulio Caccini uno degl’inventori del melodramma, e altrove le Lulle, la Sofonisba, la Camilluccia, la Moretti, la Laodamia del Muti, le Valeri, le Campane, le Adriane con altre che furono con indicibil plauso sentite in diversi teatri d’Italia. Allora sdegnando il volgar nome di cantatrici e di cantori prederà quello di virtuose e di virtuosi per distinguersi anche dagl’istrioni, coi quali non vollero più accomunarsi. Allora l’utilissimo talento di gorgheggiar un arietta divenne una strada sicura per giugnere alle ricchezze ed agli onori, e ne fu dal popolo riguardato collo entusiasmo medesimo, con cui avea ricevuta in altri tempi Vetturia, allorché liberò Roma dal giogo di Coriolano, ovver Pompeo conquistatore dell’Asia e di Mitridate 84.

[25] Tuttavia la maniera di cantare che regnava nell’universale, non sembra che meritasse cotanti applausi. A eccezione di que’ pochi mentovati di sopra gli altri cantori si erano di già lasciati infettare da quel vizio che ha pressoché in ogni tempo sfigurata la musica italiana, cioè gli inutili e puerili raffinamenti. I ghiribizzi della musica e della poesia si trasfusero nel canto eziandio, né poteva avvenire che la melodia fosse naturale, ove le note e le parole nulla significavano. Sentasi come parla uno scrittore contemporaneo, il quale, dopo aver ragionato alla lunga dei difetti del canto, soggiugne: «Mentre i nostri cantori cercano di schivare la durezza e la troppa sterilità delle modulazioni, le stemperano poi e le triturano in maniera che si rendono insopportabili. Dal qual morbo sono particolarmente attaccati gl’Italiani, i quali, credendo se stessi i Virimagni della facoltà, stimano il restante degli uomini altrettante pecore o tronchi. Ciò gli fa meritevolmente ridicoli agli occhi degli stranieri: non so se questi giudichino con piena cognizione di causa, ma so che almeno non cadono in simili inedie così frequentemente». Non è colpa mia se il testo surriferito è alquanto sfavorevole all’Italia. Basti sapere per mia difesa, che l’autore non è uno straniero, ma un italiano, e un celebratissimo italiano. Egli è il mentovato Giambattista Doni 85.