(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo duodecimo »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo duodecimo »

Capitolo duodecimo

Decadenza attuale dell’opera italiana. Cause generali di essa. Paralello della poesia e musica moderne con quelle dei Greci. Motivi della perfezion degli antichi, e inconvenienti intrinseci del nostro sistema musicale.

[1] Ma le cose umane non possono rimaner lungo tempo nel medesimo grado. Somigliante alla curva che descrivono nella immensità dello spazio i pianeti d’intorno al corpo che serve ad essi di centro, la carriera delle arti ha un origine, un accrescimento ed una decadenza inalterabile e certa, come lo sono le rivoluzioni degli astri. Non si maravigli adunque il lettore se nel dipigner, che farò, lo stato attuale dell’opera più non udrà risuonar que’ gran nomi che tanto splendore alla nazion loro recarono, se troverà le moltiplici parti che concorrono a formar il dramma, tutte per l’addietro ad un sol fine dirette languir in oggi separate e disciolte, se vedrà finalmente rapirsi dalle altre nazioni qualche ramo del fortunato alloro che pareva destinato dal cielo a crescere ed allignare soltanto sul terreno privilegiato della Italia. Si dovrà bensì maravigliare onde avvenga che in tanta luce di gloria, come abbiamo veduto balenare sinora, con numero sì grande di musici pregiatissimi e con tal fervore ed entusiasmo acceso per coltivare le scienze armoniche, pur tuttavia la musica non abbia in Italia prodotta la menoma particella degli stupendi prodigi che produceva in Grecia l’antica. La qual meraviglia tanto dee crescere maggiormente quanto che la sfoggiata ricchezza della nostra colla povertà paragonata di quella dovea renderci superiori in cotal genere. A tutti scioglierne i dubbi paratamente, e a metter chi legge in istato di giudicare della decadenza attuale del melodramma, d’uopo è fermarsi alquanto intorno alle cause generali di essa per discender poscia a delle particolarità più interessanti.

[2] Bisogna richiamar in mente ciò che abbiam detto in altro luogo, cioè che nel risorgimento delle lettere in Italia, come in tutta Europa, le belle arti non furono che un prodotto della imitazion degli antichi. Ciò si vede nell’origine della tragedia, e della commedia, e l’abbiam più chiaramente veduto in quello del dramma. Ma la nostra imitazion distaccata dai principi religiosi, naturali e politici che sostenevano l’original presso a’ Greci, e trasferita ad un sistema di religione, d’usi e di leggi in tutto differente per non dir contrario, non ha potuto produrre effetti simili a quelli che producevano fra loro le medesime cose. Gli uffizi di poeta, di musico, di cantore, di legislatore e di filosofo si videro nella Grecia per molti secoli riuniti in una sola persona, e cotal riunione fu costantemente adoperata come il più possente e immediato strumento per imprimer negli animi degli uomini i sentimenti necessari alla gloria, ed alla sussistenza delle nazioni: ond’è che la persona del musico o poeta era tenuta dal popolo insomma venerazione, e riguardata come il Palladio, o conservatore della pubblica felicità. All’opposto nelle nostre legislazioni che s’aggirano sopra un perno tutto diverso, la musica e la poesia, lontane dall’esser considerate come oggetti di somma importanza, si considerano al più come una occupazion dilettevole bensì, ma sempre inutile al bene religioso e politico degli Stati. Dal quale principio si ricavano alcune conseguenze, che possono a mio giudizio servire a spiegar lo scadimento presso di noi delle belle arti in generale, e più immediatamente di quelle che contribuiscono a formar il melodramma. La prima è che essendo fra noi da gran tempo separate la filosofia, la legislazione, la poesia e la musica, la loro individuale influenza ha dovuto esser minore perché divisa. La seconda, che essendo ciascuno di essi rami rinato dipersè e cresciuto separatamente dagli altri, la loro unione non ha potuto rendersi tanto adattata e pieghevole quanto la medesima lo era presso agli antichi. La terza, che non avendo né il poeta né il musico alcuna ingerenza negli affari dello Stato, anzi riuscendo loro troppo pericoloso il mischiarvisi, non hanno potuto esercitar il loro talento se non se intorno ad argomenti di puro diletto, e di niuna o pochissima utilità. Difatti qual diversità d’impiego non trovasi fra il Metastasio e lo Zeno costretti di servire ai capricci d’un popolo spensierato e voluttuoso con quello d’Orfeo e di Terpandro, i quali o richiamavano al suono della lira i selvaggi erranti per le campagne a fine di riunirli sotto una legge ed un culto, ovver guidavano alla testa delle armate un popolo di eroi animandalo colla poetica armonia ai trionfi ed alle conquiste? Qual distanza infinita tra gli autori d’un libretto dell’opera e i legislatori o generali d’una intiera nazione? Qual differenza non si scorge nell’onorar, che noi facciamo, la memoria del più celebre musico con una iscrizione od un sonetto, e nel collocare, che facevano gli antichi, tra le costellazioni la lira d’Orfeo come degna di venir al paro coi segni celesti, appur inalzando altari al nome d’un poeta, o coniando le pubbliche monete colla sua immagine, o invocandolo nelle calamità del paese, non altrimenti che soglia farsi col nume tutelare, siccome sappiamo aver fatto quei di Mitilene colla celebre Saffo?

[3] Da ciò si vede naturalmente quanto la diversa maniera di prender codesti oggetti ha dovuto influire sulla loro mediocrità. Imperocché ove le cose non hanno altro interesse se non quello che nasce da passaggiero e insignificante divertimento, la misura della lor perfezione altra appunto non è che il capriccio di chi vuol divertirsene. E siccome il privilegio di promuovere e di giudicare degli spettacoli è intieramente dato al popolo se non (come si dovrebbe) a persone distinte per sapere, prudenza e buon senso, così hanno essi degenerato in quell’assurdità e stravaganza che si osserva: quindi lo scadimento del moderno teatro e il niun effetto che fa sopra di noi l’unione di tutte le belle arti benché cospiranti ad un fine. Indarno la storia ci somministra esempi maravigliosi della possanza della musica presso ai Greci; indarno la filosofia, disaminando la relazione che hanno i movimenti dell’armonia col nostro fisico temperamento, stabilisce sistemi e ne ritrae le conseguenze; la sperienza, quello scoglio fatale contro a cui si spezzano tutte le teorie, ci fa vedere che il superbo e dispendioso spettacolo dell’opera altro non è se non, un diporto di gente oziosa che non sa come buttar via il tempo e che compra al prezzo di quattro o cinque paoli la noia di cinque o sei ore. Per iscacciarne la quale non bastando i prestigi e l’illusione di tutti i sensi, s’appigliano al perpetuo cicaleccio, al cicisbeismo, alla mormorazione, alle cene e al giuoco, né prestano attenzione alcuna allo spettacolo se non quando apre la bocca un cantore favorito per gorgheggiar un’arietta. Allor questa s’ascolta con un profondo silenzio, poi con istrepitose e fanatiche esclamazioni di “bravo evviva” accompagnate di battimenti di mano replicate cento volte; indi si torna all’antico dissipamento che ti par quasi di sentire come si lagnava Orazio dei teatri di Roma, il vento che rimuggia per entro alle boscaglie del Gargano o i fremiti del mar di Toscana109, Gian Jacopo Rousseau nella sua celebre lettera sulla musica francese vorrebbe far l’onore agl’Italiani di non credere che così avvenga ne’ loro teatri, ed attribuisce simili effetti che si veggono costantemente in Parigi, all’indole soporifera e monotona della musica francese. Ma se questo filosofo valicasse presentemente le Alpi per chiarirsene co’ propri occhi di ciò ch’egli immaginava soltanto in sistema, avrebbe veduto che l’Italia non merita in questo punto maggior indulgenza della Francia. Avrebbe veduto che la musica più bella che si canti nelle lingue viventi, né il più bravo poeta dramatico-lirico della Europa, né l’ampiezza e magnificenza de’ teatri, né lo studio perfezionato della prospettiva bastano nel paese delle belle arti a destare in un popolo che cerca solo il piacer passaggiero di poche ore quelle commozioni vive e profonde, quel pathos che pur dovrebbe essere il gran fine di tutte le arti rappresentative.

[4] Niuno crederebbe che la ricchezza appunto della nostra musica fosse quella che la rendesse meno patetica. Eppur questa si è la seconda cagione che prendiamo a disaminare. Noi abbiamo un contrappunto, del quale si dice che gli antichi non avessero alcuna notizia; abbiamo un’armonia via più doviziosa e più raffinata di quella che avevano essi nel tempo in cui s’operavano effetti cotanto maravigliosi; si dice altresì che i moderni strumenti, abbracciando più ottave di quelli, siano più atti a produrre combinazioni più variate di suoni. Ma siffatti presidi, i quali rendono la nostra musica più brillante e più vaga, la rendono parimenti meno acconcia a destar le passioni. Questo, che a prima vista sembra un paradosso, verrà nondimeno facilmente accordato dal lettor giudizioso qualora ei voglia riflettere che la energia de’ suoni musicali nel muovergli affetti non altronde deriva se non se dalla più vicina imitazione della natura, cioè dalla espressione più esatta di quei toni naturali, nei quali prorompe l’uomo allorché si sente oppresso dal dolore, dall’ira, dalla gioia o da qualunque altra passione impetuosa e vivace. Ora egli è certo che quanto più l’armonia diviene artifiziale e complessa, tanto più si scosta dall’accento appassionato, e che a misura che i tuoni acquistano vaghezza e lavoro di note, vano essi deviando dal loro carattere imitativo; sendochè la loro successione nella voce dell’uomo semplice per se stessa e spontanea nulla ha di comune colla successione dei tuoni della musica imprigionata fra i ceppi di tante regole armoniche. Svanendo adunque la rassomiglianza tra la maniera d’imitare e l’oggetto imitato, qual maraviglia è se il cuore, che non ne sente il rapporto, rimane freddo e indifferente in mezzo alle tanto applaudite armoniose ricchezze?

[5] Che se nei suoni non vuolsi considerare la facoltà che hanno d’imitare, ma quella soltanto di agire fisicamente sui nostri nervi, anche a tal fine vedrassi la preferenza d’una cantilena, semplice sopra un’altra più lavorata e composta. Imperocché codesta seconda maniera d’agire dei suoni tanto è più efficace quanto più gagliarde sono le impressioni che per mezzo delle vibrazioni dell’aria comunicano i suoni ai nostro orecchio. Ma una musica troppo raffinata ne infievolisce la energia stritolando di soverchio le note, dividendo e suddividendo i tuoni in porzioni minutissime, indebolendo la voce col tanto assottigliarla e stancando, a così dire, la sensibilità col troppo squisitamente ricercarla. Non havvi che un determinato numero d’inflessioni atte a produrre in tutto il suo vigore un sentimento od una imagine, e cotali inflessioni sono tanto più energiche quanto più fedelmente esprimono la voce della natura. Quindi è che un urlo solo, un gemito, un sospiro d’un infelice tormentato trova subito il segreto d’intenerirci insinuandosi fino a’ penetrali dell’anima. La forza movente della melodia consiste nell’afferrare col mezzo dei suoni quei pochi ma caratteristici tratti, che fornisce l’oggetto preso ad imitare. Tutto ciò che l’arte ne aggiunge non è più il linguaggio dell’affetto, ma una circonlocuzione, una frase retorica dell’armonista. Non è per tanto da stupirsi se la musica moderna, la quale invece di rinvigorir le nostre sensazioni simplificandole, altro non fa che snervarle moltiplicandole all’eccesso, e invece d’afferrar il vero ed unico tuono della passione, non si cura se non di farci sentire trilli, arpeggi, volate con mille altri sminuzzamenti di voce, si ritrova infine come il Mida della favola che moriva di fame in mezzo agl’infiniti ragunati tesori.

[6] La storia ci porge una opportuna conferma della mia proposizione facendo vedere che la musica greca perdette il gran segreto di muover gli affetti a misura che si venne scostando dalla sua semplicità primitiva. Rozza in sul principio come lo erano i costumi degli abitanti, si disse che ratteneva i fiumi, ammansava le tigri e innalzava le muraglie di Tebe al suono della lira per significar con siffatte allegorie la prodigiosa influenza che acquistò sugli animi di quei popoli fra le mani di Lino, d’Anfione e d’Orfeo. Più varia in seguito e più doviziosa, ma semplice ancora e compagna inseparabile della poesia e del ballo animò successivamente i canti d’Esiodo, d’Omero, d’Archiloco, di Tirteo, d’Olimpo, di Simonide e di Saffo, s’innestò col carattere e i costumi della nazione, divenne il fondamento della educazion pubblica e il veicolo della religione, della morale e delle leggi. Allora si può dire senza tema di esagerazione che il suono della lira governasse la Grecia collo stesso dispotismo con cui le nostre monarchie si regolano in oggi coi maneggi del gabinetto110. Sorgevano fra i Lacedemoni dissensioni civili? Ecco veniva Terpandro a placarle senz’altra persuasione, altra forza che quella degli accordi armonici. Un decreto rigoroso vietava sotto pena di morte a qualunque oratore il proporre agli Ateniesi la conquista dell’Isola di Salamina? I canti di Solone fanno andar in tumulto il popolo, se ne abolisce il divieto, se ne allestisce un’armata, e se ne riporta una compita vittoria. Bisognava civilizzare gli Arcadi, perché troppo sanguinai e feroci? Il solo mezzo atto ad ottener questo fine vien creduta la musica. S’adotta un piano economico di pubblica amministrazione fondato sull’armonia si costringono a cantare con certe regole i fanciulli, gli adulti e i vecchi, e l’Arcadia, che dianzi era il soggiorno d’uomini selvaggi, diviene quello della giocondità e della placidezza. Da ciò si rileva il politico fondamento con cui molto prima dello stabilimento della filosofia i governi più illuminati della Grecia vegliavano con tanta cura affinchè la musica perseverasse inmutabile ed incorrotta nella sua istituzion primitiva. Furono singolari fra gli altri quelli di Sparta e di Creta. Tutte le loro canzoni e le loro danze erano, secondo la testimonianza di Platone nel libro settimo delle leggi, consecrate agli dei. Era stabilito qual sorta di sacrifizi doveva assegnarsi a ciascuna divinità, e quali canzoni e cori a ciascun sagrifizio. E se qualcuno si serviva degl’inni e dei cori nel culto degli dei diversi da quelli che sono prescritti dalle leggi, i sacerdoti e i magistrati dovevano scacciarlo dalla comunità. È memorabile ancora su questo proposito il decreto degli Efori di Sparta contro Timoteo, dove codesto musico vien trattato come eretico e corruttore del costume pubblico per aver alterata l’antica musica aggiugnendo due corde di più alla lira. Da ciò si rileva altresì il perché in seguito gli uomini più saggi fra i Greci, persuadendosi che fosse più utile anzi necessario al bene dello stato il moderar le passioni del popolo che il troppo violentemente svegliarle, abbiano appunto nella musica regolata dalla filosofia trovato il segreto d’ottenere siffatta calma. Perciò nei secoli più remoti della Grecia s’introdusse il costume di cantar nei convitti le lodi degli dei e degli eroi affine d’impedire gli affetti della ubbriacchezza tanto più pericolosa a que’ tempi quanto che gli animi non ancor dirozzati si trovavano naturalmente disposti alla violenza. E perciò i generali Spartani allorché erano in procinto d’azzuffarsi in battaglia coi nemici diriggevano la marcia delle truppe loro piuttosto col suono dei flauti che con quello delle trombe, acciocché la temperata dolcezza di quelli correggesse la ferocia dei soldati, il soverchio ardore dei quali mal s’accomodava alla necessaria subordinazione.

[7] Il ritrovamento e progressi dell’arte drammatica siccome contribuirono ad ampliar le richezze della musica via più raffinandola, così ne scemarono a poco a poco la sua antica influenza. Sull’origine del teatro le azioni drammatiche furono talmente considerate dai Greci, che secondo la testimonianza del giudizioso Plutarco gl’inventori delle tragedie si paragonavano coi più gran capitani. «Che giovamento adunque» , dice questo scrittore, «fecero le tragedie cotanto onorate dagli Ateniesi? La sagacità di Temistocle cinse di mura la Città, la diligenza di Pericle l’abbellì, libera la mantenne Miltiade, Cimane sollevò la sua gloria sopra le altre repubbliche. Se parimenti la sapienza di Euripide, la facondia di Sofocle, e l’impetuosità di Eschilo ripararono qualche rovina, ovvero acquistarono novella gloria ed onore agli Ateniesi, ragion vuole che cotali rappresentazioni contendano coi trofei che il teatro s’agguagli alla reggia e che il maestro di siffatte invenzioni al capitano sia paragonato» 111.

[8] Ma guari non andò che la musica affascinata dalle proprie bellezze rinunziò all’imperio che avea fino allora ottenuto sugli animi, contentandosi di vanamente dilettare l’orecchio. La prima epoca della corruttela cominciò dacché sotto il governo degli Anfizioni s’introdussero in Atene le gare fra i ceteratori, cioè fra i poeti che cantavano le proprie poesie accompagnandosi colla cetra, e le sfide fra i suonatori di diversi strumenti. Un certo Polinneste accorciando al suo piacimento, e stangando le corde della lira, fece sentire dei suoni sconosciuti avanti a lui. Alcuni musici, lavorando per domestico diporto alcuni componimenti d’armonia saparata dalle parole, introdussero poscia nei cori dei drammi e in quelli dei giuochi pitici la fatale usanza di render la musica strumentale indipendente della vocale112. Tra poco la danza si separò dalla poesia e dalla musica, e l’una e l’altra non furono più confidate alle mani del legislatore. Allora formando ciascuno di questi rami un’arte da sé, nacque presso a’ Greci la scienza che i moderni chiamano musica, cioè quella combinazione artifiziosa di suoni che può esistere e realmente esiste divisa dalle parole, e che ha i suoi colori, le sue figure, i suoi movimenti, in una parola il suo linguaggio indipendente e proprio; laddove prima di quel tempo l’armonia non era una scienza a parte, ma un rinforzo soltanto della espressione poetica, o per esprimersi con più esattezza, altro non era che l’arte di far valere gli accenti della poesia. Separati che furono codesti rami, divenne necessario il condurli paratamente a quel grado di raffinamento che esigeva la vanità dei professori e la svogliatezza degli ascoltanti. La poesia non ebbe più quel perfetto combaciamento che aveva dianzi avuto colla musica, né questa colle affezioni dell’animo. Invano si tentò di richiamarla alla sua primitiva sorgente: invano Pratina e Pindaro, e Lampro, e qualche altro celebre musico e poeta mossero guerra al nascente corrompimento; gli sforzi loro altro non fecero che ritardar per poco la malattia senza impedirne gli effetti.

[9] Il genere ditirambico divenuto alla moda fece coi suoi canti tumultuosi un misero governo della poesia, del ritmo e della musica. I compositori per distinguersi fra gli altri non seppero rinvenir altra via che la novità e la stranezza. Quanto più moltiplicavano essi i capricci dell’arte tanto più si scostavano dalla natura. S’ampliò il numero delle corde e de’ suoni negli strumenti, si confusero insieme le proprietà dei generi, dei modi e delle voci, né più sì conservò per l’avvenire l’applicazione delle cantilene ai loro rispettivi uffizi. Sovente, al dire di Plutarco, l’armonia non aveva alcun riguardo alle inflessioni della voce, e queste sortivano dalla bocca del cantore senz’osservar la legge degl’intervalli. Al vedere tanti e sì rapidi cangiamenti il comico Anassila ebbe a dire che la musica, agguisa della Libia, generava tutti gli anni un qualche mostro di nuova spezie113. Dopo le quali mutazioni di cui Melanippide, Frini, Cinesia, Polissene, e Timoteo di Mileto furono i principali autori, la musica cessò di cagionare i grandi effetti che prima era solita di produrre, e divenuta più artifiziosa e più dotta divenne meno espressiva e patetica. Nella stessa guisa che alla moderna musica, quantunque lontana assai dalle mentovate meraviglie della greca, se pur talvolta riesce di muover gli affetti, ciò non l’ottiene se non se slontanandosi dagli usati metodi per avvicinarsi alla semplicità. Ho udito persone intelligentissime raccontarmi che trovandosi in Roma, ed ascoltando ivi il famoso Miserere del Palestrina eseguito dai cantori della cappella pontifìcia senz’altro ornamento che quello d’una voce fermata e sostenuta a dovere, si sentivano esse rapire in estasi di divozione e di dolcezza interna, lo che non era loro avvenuto di esperimentare sentendo lo stesso salmo cantato in altre città con tutto lo sfoggio delle moderne scuole. Il celebre Tartini asserisce la medesima cosa parlando delle antiche cantilene della Chiesa, fra le quali se si ritrova qualcheduna talmente grave, dolce e maestosa che i moderni durerebber fatica a lavorarne l’uguale, quella riesce appunto così eccellente perché composta con somma semplicità musicale, e perché istituita per una sola voce, e partecipando della natura del recitativo, ma in largo, non è legata a battuta rigorosa114.

[10] Potrebbero l’accennate riflessioni applicarsi con eguale felicità a molti altri popoli, presso a’ quali la musica vigorosa e commovente nel suo principio è venuta poi degenerando a misura che acquistava un maggiore raffinamento; ma basterà per conferma del fin qui detto recar in mezzo l’esempio dei Cinesi e degli Arabi, nazioni entrambe che hanno al paro dei Greci conosciuta l’influenza di quest’arte sui costumi e sulla politica. Le tradizioni della China parlano in guisa dell’armonia che quasi sembrano aver esse voluto copiar fedelmente le favole greche. Ling-lun, Kovei e Pin-monkia avean fatto non meno d’Anfione e d’Orfeo rattenere i fiumi e camminare le selve. Credono i Cinesi che l’antica musica del loro paese avesse fatto scender dal cielo l’intelligenze superiori, e cavati dall’abisso gli spiriti. Credevano altresì che per mezzo dell’armonia si potesse ispirar agli uomini l’amore della virtù e della pratica dei propri doveri. «Si vuol sapere s’un regno è ben governato e se i costumi di coloro che l’abitano sono buoni o cattivi? Si guardi il gusto della musica che vi regna» diceva Confucio. Ma quanto siasi fra loro cambiata questa influenza dacché s’introdusse un maggior artifizio ne’ suoni apparisce fra l’altre pruove dalla dichiarazione fatta dall’imperatore Ngaiti, che sali sul trono l’anno 364 dell’era cristiana, nella quale, lagnandosi che le musiche tenere, artifìziose, ed effemminate ispirino il libertinaggio, ne commanda severamente la riforma, e proibisce ogni sorta di musica a riserva di quella che serve per la guerra e per la cerimonia Tiao 115.

[11] Gli Arabi ne avevano lo stesso trasporto per la musica e le stesse opinioni intorno alla sua possanza. Vantavano anch’essi in Ishac, in Kathab Al Moussouly e in Alfarabi i loro Lini, i loro Ismeni e i loro Epimenidi, che operavano dei miracoli colla voce e cogli strumenti. La loro musica era innestata colla filosofia, e i sapienti sapevano trovare dei maravigliosi rapporti tra i suoni armonici e tutta la natura. Lo strumento chiamato zir era simile al fuoco pei suoni animati ed acuti che rendeva, il metsni somigliava all’aria pella dilicatezza della sua melodia, il bem aveva simpatia colla terra di cui ne imitava coi suoni la pesantezza e la gravità, e i motsellets l’avevano coll’acqua pei suoni freddi che generavano. L’armonia, secondo gli Arabi, era la panacea, ovvero sia rimedio universale del corpo e dello spirito. V’erano le ricette mediche per tutte le malattie fondate sui tuoni dell’oud o liutto, come v’erano gli aforismi morali e i luoghi topici dell’arte oratoria e poetica per eccitare ogni genere di passioni fondati sui moti della musica, e sulle diverse vibrazioni dei loro strumenti. Il Khaschbat e l’oud erano i principali. Accompagnando il suo canto col primo fece il famoso Alfarabi in presenza del Gran Visir passare un gran numero di persone radunate in un salone dalla indifferenza al tripudio, da questo alla tristezza, e dalle lagrime al sonno senza che alcuno potesse resistere a quell’incomprensibile incantesimo. Suonando col secondo una canzone lavorata a bella posta, il musico Ishac intenerì la fierezza del califfo Aaron Raschid, costrignendolo a raccomodarsi colla bella Maridè sua favorita da cui se n’era slontanato con fermo proposito di non più ritornarvi. L’idea che gli Arabi si formavano della musica si potrà meglio comprendere dalla traduzione del seguente squarcio che si trova in uno dei loro poeti, come lo ricavo da una erudita memoria del Sig. Pigeon de S. Paterne interprete delle lingue orientali a Parigi intorno alla musica di quella nazione, alla quale io rimetto i lettori che volessero acquistare più distinte notizie.

«L’impiego della musica è una pruova della sua eccellenza. I nostri imani compagni de geni celesti la impiegano nelle nostre moschee qualora si leggono le sacre pagine del Koran, all’esempio di Daoud (Davide) (possa l’Essere supremo ricolmarlo di favori!) il quale cantava egli stesso i suoi cantici al suono dell’arpa.

«Il piloto vigilante con gli occhi fissi sulla bussola e premendo colla mano il timone del naviglio canta tutta la notte per levarsi la noia, mentrecbè il marinaro rampiccandosi sulle corde e spiegando la vela non pensa ai rischi della navigazione e intuona la sua canzonetta.

«L’empia maga adopera anch’ella una specie di canto nelle misteriose parole che borbotta fra se. Coll’aiuto d’una sconosciuta e barbara musica richiama alla vita il moribondo abbandonato dai medici. Le sue magiche intuonazioni hanno la virtù di riunire l’ossa spolpate e rianimare le fredde ceneri dei morti, di sedare le onde agitate del golfo delle perle, di tarpar le ali all’arenoso vento dominatore dei deserti della Petrea, e d’abbagliare i nostri occhi colle vane appariscente di mille fantastici oggetti.

«Il robusto condottier di camelli, mettendo in non cale i disagi del viaggio, si diverte dalla noia cantando, e la sua musica semplice e naturale rallegra le caravane e affretta il troppo tardo camminare de’ suoi cammelli.

«L’astuto uccellatore adopera una musica che imita il canto dei diversi uccelli ingannati dai suoni omogenei che fa egli sentire nel silenzio della notte. La timida pernice, l’incauto tordo e il francolino che fugge lo sguardo degli uomini, inciampano frattanto negli agguati ch’egli ha teso loro nelle ascose reti.

«Il pastore, riposando allorché l’araldo della luce sferra i campi dopo il mezzogiorno sotto l’ombra d’una palma, o aggirandosi per le campagne allorché biancheggia la luna sull’orizzonte, il suo rustico heiraât, e tien sospesa la gregge colla dolce melodia, ispirando agli stupidi bruti l’amore e il desiderio di perpetuare la propria spezie.

«La madre infine, l’amorosa madre acqueta i pianti del bambino cui ella porge il proprio latte, e l’addormenta al suono delle dolci nenie ec.»

[12] Se non che i componimenti musicali degli antichi Greci benché soggiacessero anch’essi col tempo alla legge di tutte le cose umane, nondimeno conservarono lungamente il loro splendore a motivo della eccellente loro costituzione, e dell’intimo rapporto che avevano insieme tutte le parti che li componevano. Si è parlato in altro luogo della convenienza di siffatti spettacoli colle opinioni religiose del gentilesimo, la quale fu, siccome abbiamo veduto, una delle principali cagioni della lor perfezione: diamone presentemente una occhiata all’interno loro meccanismo, onde rintracciar meglio la differenza che passa tra quelli e i nostri. Simplificando l’idea che noi abbiamo della musica in generale, sembra che altro non intendiamo con questo vocabolo se non se un’armonia grata all’udito prodotta dalle proporzioni dei suoni più gravi o più acuti, e de’ tempi più veloci e più lenti. Il costume in cui siamo fin dalla infanzia di non considerar nella musica che la semplice modificazione del suono secondo le leggi armoniche, ci fa restringer quest’arte in così brevi limiti. Ma gli antichi, i quali aveano di essa nozioni più generali, comprendevano sotto quella parola più cose. Il largo significato che le davano i Greci apparisce più chiaramente dalle seguenti parole che si leggono nell’Alcibiade di Platone. «Socrate: Dimmi primieramente qual arte è quella a cui appartiene il suonare, il cantare, e il ballare? Non ti darebbe l’animo di trovare un nome che significasse tutte le parti comprese in quest’arte? Alcibiade: Non saprei trovarlo. Socrate: Provati un poco. Quali sono le dee che presiedono a quest’arte? Alcib. Intendi forse di dire le Muse? Socrate: appunto. Considera dunque qual nome può ricevere l’arte da loro. Alcib. Pare che tu vogli accennare la musica. Socr. Cotesto appunto». Attenendoci soltanto alla divisione che fa in altro luogo lo stesso Platone 116, la melodia costava appo loro di poesia di ritmo, e d’armonia. Dalla perfezione ove fu condotta da loro ciascuna di esse parti separatamente prese, e dall’intima corrispondenza che metter seppero fra tutte come linee dirette ad un solo centro, devono ricavarsi in gran parte i prodigiosi effetti che ci vengono descritti.

[13] E incominciando dalla poesia quantunque libera errasse in sul principio e vagante senz’altra regola che l’orecchio, né altra misura che gli spazi di tempo impiegati nel proferir le parole, guari non andò che dall’istinto ammoniti i poeti la frenarono con severa legge e invariabile. La lingua che serviva loro di strumento era la più flessibile, la più vaga, la più armoniosa, la più pittoresca e la più musicale che sia stata giammai parlata dagli uomini. Le doti che separatamente prese rendono bello ciascuno dei moderni idiomi si trovavano in lei riunite. La diversità dei dialetti dorico, ionico, eolico ed attico, che indifferentemente s’usavano dai loro scrittori, per mezzo dei quali le cose che non potevano esprimersi bene in una maniera s’esprimevano meglio in un’altra; le trasposizioni o inversioni della sintassi che aggiugnevano grazia, numero e volubilità singolare al periodo; la copia di parole imitative, ovvero sia di quelle che esprimono col suono l’indole dell’oggetto, che rappresentano e che indicano, per così dire, alla fantasia la strada battuta dall’intelletto per rinvenirle; l’uso frequente delle parole composte, onde accadeva che una sola espressione rappresentasse all’anima un gruppo d’immagini, erano vantaggi per loro, ai quali noi per soverchia timidezza abbiamo in massima parte rinunziato con discapito delle lingue e della poesia. Che si dirà poi dell’arte che avevano i loro musici nel contrasegnare gli accenti, onde così spiccata e sensibile rendevasi l’inflessione? Che della minutezza con cui si badava non solo alla natura dei vocaboli, ma anche all’indole e collocazione stessa delle lettere? Aristide Quintiliano ce ne dà un distinto ragguaglio della natura delle vocali, delle semivocali e delle appena vocali che potevano entrare nel verso. Sappiamo da lui cosa fossero le doppie e le liquide, le aspre e le tenui, le mute e le medie. Ci vengono indicati i diversi suoni che corrispondevano a ciascuna delle vocali e delle consonanti ora dolcemente sonori, ora scorrevoli e pieni, ora mollemente scabri, e sempre opportunamente variati; ci si fa vedere la scelta che di essi facevano i compositori, e la scrupolosa esattezza altresì con cui venivano adoperate dai poeti secondo il diverso oggetto che prendevano a dipignere117. I loro poemi, e singolarmente quelli di Omero (genio immortale, cui nessuno ha pareggiato finora nella varietà, nell’abbondanza, e soprattutto nell’arte incomparabile di parlare all’imaginazione ed all’orecchio col mezzo de’ suoni) sono pieni zeppi di simili esempi. Vuol egli significare il sorriso, il vezzo, il favellio di Venere? Fa uso principalmente dell’“e” e dell’“i”, lettere delle più tenui e quasi cascanti.

«Ἰλιὼ δʹ αὐτε προσεενπε φιλομμειδὴς Ἀφροδίτη»

[14] Se vuol esprimere in questo verso

«Ἠῖονες βοόωσιν ἐρευγομένης ἁλὸς ἔξω»

il muggito del mare allorché percuote con impeto le rive, ei replica più volte la lettera “o” la più sonora di tutte e la più rappresentativa nel caso presente. Parimenti se vuol descrivere il galoppo de’ cavalli che traversano su e giù le cime del monte Ida, lo fa con evidenza tale che ti par quasi di sentirne il calpestio.

«Πολλά δʹ ἄναντα, κατάντα, παράντα τε δοχμὶα τʹ ἠλθον.»

[15] Ma lungo sarebbe il rilevare tutte le bellezze di Omero in questo genere, come quelle altresì dei poeti drammatici fra i quali basterà per ultimo l’addurre una pruova tratta dal gran comico Aristofane, che volendo nella sua commedia intitolata il Pluto rappresentar al vivo la golosità d’un parasito, lo introduce girando la scena d’intorno e fiutando senza dir parola l’odore delle carni abbrustolite per il sagrifizio. Il quale atteggiamento viene maravigliosamente espresso dal poeta con questo verso:

«ὒὗ, ὒὗ, ὒὗ, ὒὗ, ὒὗ, ὒὗ.»

dove col solo replicar molte volte quella vocale di suono oscuro e nasale, rappresenta ciò che vuol dire con più energia che da altri non farebbesi in una intiera scena.

[16] Colla stessa avvedutezza aveano pensato alla formazione del metro. Di cento ventiquattro piedi tra semplici e composti onde costava la loro prosodia (numero prodigioso, dal quale solo potrebbe argomentarsi la superiorità della lingua greca rispetto a tutte le altre) non si trovava neppur uno che non fosse stato inventato per adattarlo piuttosto ad una spezie di canto che ad un’altro. Imperocché avendo eglino con sottile filosofia osservato che le passioni dell’animo s’esprimono con movimento analogo alla loro natura, la tristezza, per esempio, e lo scoraggiamento con movimenti tardi ed ineguali, l’allegrezza e lo sdegno con movimenti rapidi e veloci, la speranza con moti più equabili, con più rimessi il timore, e così delle altre, s’avvisarono d’imitare il loro andamento nella poesia dando quantitativo valore alle sillabe, e certa misura alle parole, affinchè esprimessero colla loro durazione, lentezza o velocità l’indole fisica di essi movimenti, dal che trassero origine i poetici piedi e la combinazione loro diversa.

[17] Come una conseguenza di siffatta combinazione ne derivava la influenza prodigiosa del ritmo, il quale preso in generale è un movimento successivo eseguito secondo certe proporzioni determinate, preso in particolare s’applica alla poesia e alla musica. Nella poesia il ritmo è la durazion relativa de’ tempi che s’impiegano nel pronunziar le sillabe d’un verso; nella musica altro non significa che la durazion relativa dei suoni ch’entrano nella composizione d’un canto. Secondo Isaacco Vossio gli effetti di questa misura del tempo si trovano anche nei corpi rozzi purché siano sonori. Se le campane vengono percosse egualmente, e con moti proporzionali, le ondulazioni si propagano con suoni chiari e gradevoli, se però percuotonsi inegualmente, s’apre di leggieri qualche fenditura e qualche volta sconciamente si frangono. Nel tamburo quantunque non ammetta alcuna varietà di suono, vedesi non per tanto che a forza delle varianti percosse escono fuori certi suoni esprimenti l’evoluzioni militari che dispongono i soldati al coraggio, e gli aiutano nella fatica118. Tal era l’affetto che quest’autore portava al ritmo, che lo credeva compagno indivisibile di tutta la natura. Lo ritrovava nel camminar lento non meno che nell’affrettato galoppar dei cavalli. Lo sentiva nell’acqua, che a stilla a stilla grondava chetamente sui sassi. Lo riconosceva nel volo degli uccelli, nella pulsazion delle arterie, nei passi d’un ballerino, e persino arrivava il sagace suo orecchio a ravvisarlo negli alterni battimenti del pettine allorché il suo parrucchiere gli pettinava i capegli.

[18] I Greci lo consideravano come una successivi rappresentazione o immagine degli oggetti dell’universo imitati dalla musica col mezzo del tempo e del movimento, i quali, risvegliando nell’anima la memoria o l’idea di quella tal cosa fanno che si riproduca in noi la stessa passione che ecciterebbe se sopposta fosse ai nostri sensi. Ora, siccome gli oggetti dell’universo agiscono sopra di noi con varie spezie di movimenti, così faceva di mestiere che i ritmi poetici e musicali comprendessero nella imitazion loro tutta la varietà di movimenti degli oggetti imitati. E l’eccellenza della poesia e della musica greca consisteva in ciò appunto che nessun effetto naturale poteva concepirsi che non venisse espresso dall’una e dall’altra colla maggior esattezza ora col numero de’ tempi sillabici impiegati nel formar un piede, ora colla rapidità o lentezza del movimento impresso alle parole o al suono, ora coi vari generi di ritmo di cui potevano far uso, ora finalmente colla successione e intrecciamento diverso dei medesimi ritmi secondo la differenza e il numero dei versi, e l’ampiezza e volubilità del periodo. Si voleva, per esempio, esprimere i movimenti snelli e leggieri, come sono quelli del ballo dei satiri? I poeti adoperavano il piede tribraco, che costava di tre sillabe brevi, e la misura musicale corrispondeva esattamente a queste. Si dovea rappresentare un qualche oggetto che agisse con imbarazzo, tardità, o fatica? Ecco gli spondei, e i molossi venivano in aiuto del compositore, il primo dei quali costando di due sillabe lunghe, e il secondo di due lunghe precedute da una breve, mostravano col loro tardo andamento la lentezza della cosa rappresentata. S’aveva intenzione di eccitare l’allegrezza e il giubbilo? Ciò s’otteneva col dattilo, i cui moti sono d’indole conforme. Per non dilungarmi oltre il bisogno il ritmo presso ai Greci e Latini era come un orologio, che misurava con tutta la precisione possibile l’andamento fìsico delle passioni, e il suo carattere individuale n’era talmente fissato che la trasposizione d’una sillaba sola bastava per cangiarne gli effetti. Di ciò ne basti arrecar una pruova. Essi facevano uso più volte nei loro versi di due piedi il giambo e il trocheo composti egualmente d’una sillaba lunga e d’un’altra breve con questa differenza però che il giambo incomincia da una breve, ed il trocheo da una lunga. Ora siccome il primo di codesti piedi sembra che ad ogni passo raddoppi altrettanto del suo vigore quanto ne va scemando il secondo, così i poeti satirici (alla testa dei quali fa d’uopo metter Archiloco) adoperavano il giambo per guerreggiare coi loro nemici mentrechè gli autori drammatici all’incontro facevano uso del trocheo allorché introducevano a ballar sulla scena i vecchi. Come fece Aristofane nella commedia degli Acharnensi, dove a motivo del metro che vi si adopera, sembra che venga mancando di mano in mano il vigore ai vecchi che ballano nel coro. Secondo gli accennati principi il sistema della prosodia antica, nel quale i nostri ciurmatori grammatici altro non sanno vedere che un accozzamento insignificante di sillabe era fra le mani d’Omero, d’Alceo, e di Pindaro il pennello delle Grazie, la fiaccola del genio, e la cagion effettrice della musicale possanza.

[19] Ben più elevato e più sublime era l’altro vantaggio che aveva il ritmo d’influire cioè sui costumi nazionali, e sulla pubblica educazione. Benché tal proposizione paia ridicola agli occhi di coloro i quali tengono per favolosi tutto ciò che non è conforme alle loro picciole idee, nondimeno la testimonianza degli antichi filosofi su questo punto è così decisiva che non si può a meno di non assentire qualora non si voglia cadere in un biasimevole pirronismo. Di molte che potrebbono addursi, basti solo l’autorità di Platone e quella di Plutarco. Il primo dice espressamente: «Voi dovete adattare il modo al soggetto ed alle parole, e non queste al modo o all’armonia; su queste materie concerterete con Damone quali piedi o misure siano più adattate per esprimere l’avarizia, la petulanza, il fanatismo e gli altri vizi, e quali metri esprimano meglio le virtù contrarie. Quindi è che il ritmo e i numeri acquistano la loro forza nella educazion musicale, ed esercitano la loro grande influenza sulle passioni dell’anima». 119 Il secondo si mostra così persuaso della verità di questa opinione che riguarda il cangiamento del ritmo come una delle corruzioni della melodia. «Se noi mettiamo (egli dice) a confronto i tempi antichi coi no stri, troveremo che anticamente v’era una gran varietà di misure, delle quali se ne faceva un gran uso, perocché nell’età trascorsa la varietà del piede e del tempo era in grandissimo credito. Noi studiamo presentemente, e ci applichiamo alla varietà de’ modi, gli antichi a quella del ritmo». 120 Indi ne ricava poi la cagione per cui l’arte musicale, che tanta influenza aveva dianzi avuta sulla pubblica educazione, si trovasse allora ridotta a servire di mero insignificante diletto sui teatri.

[20] Ma in qual maniera il ritmo poteva essere così intimamente legato coi costumi d’un popolo che dallo stato di quello se ne dovesse cavar conseguenza allo stato di questi? Gran problema accennato da molti, ma da niuno (ch’io sappia) sciolto finora. Tentiamo di rispondervi insistendo sui principi che ci hanno fin qui servito di scorta. Il ritmo musicale era in tal guisa modellato sul ritmo poetico che l’indole, natura e durazione dell’uno era precisamente conforme all’indole, natura e durazione dell’altro. Il ritmo poetico non era che una successiva imitazione dei diversi moti delle passioni; il ritmo musicale adunque non poteva essere che una rappresentazion successiva dei medesimi moti. Ma le passioni degli uomini e la maniera d’esprimerle si vanno cambiando in un popolo a misura che va egli passando dallo stato di rozzezza a quello d’una progressiva coltura; lo strumento adunque destinato a rappresentar le passioni dee per conseguenza rappresentare i suddetti cangiamenti. Ecco il perché dalla natura del ritmo musicale si ricavava presso ai Greci una pruova dello stato attuale dei costumi, che hanno un così stretto rapporto coll’indole e la forza delle passioni. Esso era precisamente come il termometro, il quale indica con tal esattezza le variazioni accadute nell’atmosfera che dallo stato dell’uno s’argomenta a vicenda allo stato dell’altra. Ciò serve a spiegare altresì in qual parte della musica greca fosse riposta la tanto da loro vantata qualità d’ispirar le virtù, e di correggere i vizi. Da quanto si è detto finora risulta ch’ella consisteva sovra ogni altra cosa nel ritmo, il quale operando per via di metri o misure proporzionate all’indole di ciascuna passione, poteva facilmente con una serie di movimenti a bella posta scelti e diretti ad un solo fine temperare, correggere, o divergere altrove i movimenti delle passioni contrarie, onde nascono in noi le tendenze al bene od al male; essendo principio incontrastabile in filosofia che le virtù e i vizi puramente umani (non le virtù teologali, le quali suppongono un abito soprannaturale infuso dalla grazia divina) sono per lo più un effetto della sensibilità e del fisico temperamento, i moti de’ quali dipendono dalle impressioni che vengono loro comunicate, o che ponno comunicarsi dalla educazione non meno privata che pubblica. Qualora non per tanto si trovi un oggetto che agisca fortemente e immediatamente sulla sensibilità degli uomini, egli è chiaro che fra le mani d’un saggio filosofo diverrà esso uno strumento della virtù, come fra le mani d’un accorto legislatore diverrà il veicolo delle massime che si vorranno ispirare ad una nazione. Meditando sovra siffatti principi, si troverebbe lo scioglimento di tanti che a noi sembrano paradossi ne’ costumi degli antichi popoli, e si vedrebbe non essere cotanto favolosa, né contraria al senso comune l’opinione, che avevano i Greci intorno alla morale influenza dell’armonia. Mille pruove di fatto mi fornirebbe la storia loro se il mio scopo fosse quello di far pompa d’erudizione121.

[21] Dal particolare studio posto da loro nella formazion della poesia e del metro non meno che nella scelta e nel maneggio del ritmo s’arguisce con evidenza la cura con cui trattarono tutto ciò che concerne la musica propriamente detta. Noi siamo all’oscuro della natura intrinseca della greca armonia, chechè abbiano voluto dirci in contrario gli scrittori della storia musicale e i traduttori e commentatori dei Greci senza eccettuarne i più recenti e più accreditati. Noi non possiamo abbastanza comprendere cosa fossero i loro generi diatonico, cromatico, edenarmonico, parole che la moderna musica prende in significazione affatto diversa da quella che da essi ci vien tramandata. Non sappiamo con esattezza cosa fossero i modi, quale il loro uffizio invariabile, e l’accezione comune di siffatto vocabolo presso a loro. Ignoriamo la costruzione e l’uso preciso dei loro strumenti, il numero delle consonanze che potevano entrar nei loro sistemi, mille altre circostanze insomma, senza le quali riesce impossibile non che difficile il formar un positivo e sicuro giudizio122.

[22] Ma da un complesso di ragioni indirette cavate dai fatti si diduce che i Greci mostraron nell’uso che facevano della musica vocale e strumentale la medesima profondità di riflessione che nelle altre cose. Siccome in tutte le belle arti riguardavano essi come oggetto principale l’imitazione della natura, e siccome la possanza imitatrice della musica, massimamente nello svegliar le passioni, dipende, come si provò nel capitolo ottavo del primo tomo di quest’opera, dalla sola melodia, così rivolsero ad essa principalmente la loro attenzione, la costituirono il fine ultimo dell’arte del suono, e il centro, quasi direi, intorno al quale aggirar si dovessero come subalterne e inservienti tutte le parti dell’armonia. Si privarono, egli è vero, con siffatta idea, di molte squisite ed artifiziose modulazioni che questa produce presso di noi, e delle quali va così orgogliosa la nostra musica, ma non mostrarono di far gran conto di simili privazioni, stimandosi abbastanza ricompensati coll’acquisto d’altri fini assai più importanti e più propri d’ogni arte imitativa. Rilevando che l’energia dell’effetto è sempre in ragione dell’opportunità e della convergenza delle cause, si studiarono con sommo impegno d’adattare ad ogni effetto particolare che dovea generarsi dalla musica l’individuale cagione che dovea generarla. Però sempre gli vediamo intenti a trascegliere quei tuoni, quelli intervalli fra gli altri, quei menomi componimenti specifici che sembravan loro acconci ad eccitar piutosto certa classe di affetti che d’un’altra. Talché ogni genere, ogni cantilena, ogni modo aveva il suo particolar uffizio che lo distingueva. Il diatonico per le gravi e semplici materie, il cromatico, languido ed effemminato perché composto di semituoni e di terze minori, era fatto per esprimere la tenerezza e gli amori. L’enarmonico, il più complicato e difficile, si serbava per le situazioni più concitate dell’animo. Similmente l’armonia dorica non ilare o sciolta, non varia o molteplice, ma magnifica bensì, veemente e severa, s’adoperava singolarmente nella guerra. La frigia e la lidia riputavansi atte ad ispirar la mollezza con uffizio conveniente all’indole e costumi di quelle nazioni dalle quali aveano preso il nome. Ad ognuna delle anzidette cantilene, come ancora alla eolica ed alla iastica, due tuoni collaterali furono aggiunti col progresso di tempo l’uno verso il grave, e l’altro verso l’acuto talmente che da cinque divennero quindici cantilene o melodie diverse123. Ciascuna di esse era altresì a qualche particolar uffizio destinata colla esclusione d’ogni altro, dal che ne risultava una riunione di cause una convergenza di linee dirette ad un unico centro, che veniva a rinforzar la espressione in ragione dei mezzi. Mutavansi anche i modi, ovvero siano arie o cantilene secondo il senso delle parole, e al cangiamento di queste teneva dietro quello degli strumenti. Il modo dorico, che era il più grave, suonavasi con due tibie destre, il lidio più acuto con due sinistre, e il frigio mezzo tra l’uno e l’altro con due tibie parimenti una destra e l’altra sinistra. Nella poesia lirica modulata a più voci il coro cantava e danzava al suono degli strumenti, e singolarmente delle tibie chiamate coriche dall’uso loro, siccome corauli s’appellavano i suonatori. La loro esattezza arrivava fino a determinar il gener di strumenti che si conveniva all’età ed al sesso. Secondo Giulio Polluce gli uomini adoperavano le tibie perfettissime, e secondo Ateneo le perfette e più che perfette. V’erano le tibie verginali, le puerili, e le virili, e siccome varie erano le spezie di esse, così le più brevi servivano pei fanciulli e per le fanciulle, le più lunghe si destinavano agli uomini, e le medie erano verosimilmente serbate per le donne124.

[23] Dal picciol saggio ch’io non ho fatto se non brevemente abbozzare, e che meriterebbe forse di esser trattato con maggior estensione, si comprende facilmente quanto sia rimasta addietro l’avvedutezza dei moderni. S’io volessi fare un processo formale alla nostra musica, larga messe mi si presenterebbe di riprensione disaminando l’imbarazzata e difficil maniera d’impararla, l’imperfezione delle chiavi che servono di regola all’armonia, i vizi radicali del nostro solfeggio, e la falsità di tanti principi ricevuti come incontrastabili unicamente perché nessuno ha voluto chiamarli a contrasto. Come la musica risorse fra noi ne’ più barbari secoli, nei quali gli spiriti non ancor digrossati erano incapaci d’abbracciare l’ampiezza d’un sistema, o di conoscere la fecondità d’un principio, così non facevano distinzione alcuna tra le arti di bisogno e quelle di puro diletto. In conseguenza gli autori o inventori delle note musicali contenti d’agevolare lo studio al solo fine che richiedevano le circostanze loro, non sospettaron neppure i cangiamenti che doveano col tempo sopraggiungere alla musica, e le novelle vie che aprir poteva in quest’arte lo sviluppo successivo del genio. Però a misura che l’armonia fece dei progressi trovossi ognor più difettoso il metodo d’impararla, al quale volendo ovviare i maestri, stabilirono di mano in mano regole nuove che palliavano gl’inconvenienti presenti senza prevederne i futuri, e che non recidendo il vizio nella sua radice, raddoppiavano le difficoltà moltiplicando i mezzi termini. Attalchè la musica si trova in oggi agguisa di quelle città, le quali fabbricate in origine su una pianta assai ristretta, e dappoi lentamente aggrandendosi, hanno qua un veicolo senza uscita, là una strada di diversa spezie, colà un borgo fuori delle mura, dappertutto aggiunte posticele che ne turban l’ordine e ne sfigurano la simmetria. Ma siccome a sviluppar bene tante e sì spinose materie vi si vorrebbe un intiero volume, e che altronde il fermarsi su tali cose non è necessario al mio assunto, così mi restringerò a toccar brevemente quei difetti che nella nostra musica impediscono, secondo il mio avviso, i maravigliosi effetti che dovrebbono attendersi dalla sua unione colla poesia. Quanto più avanti s’anderà col pensiero si ricaverà che cotai difetti si riducono a due, l’uno al non aver saputo noi mettere un rapporto abbastanza confaccente ed intrinseco fra queste due facoltà, l’altro all’usarsi da noi un genere d’armonia poco o niente opportuno all’espressione individuale delle passioni.

[24] E primieramente per una generale inavvedutezza, le cui cagioni bisogna ripetere dalla natura dei secoli, ove nacque l’una e l’altra di queste arti, abbiamo esclusi dal genere musicale quasi tutte le diverse e moltiplici spezie della poesia. Noi non contiamo in questa classe che le sole cantate, qualche canzonetta, e il melodramma. Il madrigale, che prima era in uso nelle musiche di camera, giace oggidì inoperoso fra le raccolte dei rimatori. Il sonetto, la canzon petrarchesca, la pindarica, l’anacreontica, l’elegia, la satira, l’ode, l’epigramma, l’idilio, l’egloga, la sestina, gli sciolti, le terze rime, l’ottava rima, la pastorale, la commedia, la tragedia, e soprattutto il poema epico, capo d’opera dell’umano ingegno, vengono trattati da noi come generi puramente poetici che mai non debbono accoppiarsi alla musica. Quindi non è da maravigliarsi che ridotta quest’arte a trattar pochissimi generi non abbia acquistata né la perfezione, né la varietà di quella degli antichi, presso a’ quali non mai disgiugnendosi l’una dall’altra, i confini della musica erano gli stessi che quelli della poesia. I nostri compositori si troverebbono fortemente imbarazzati se fossero costretti a metter sotto le note il più bel sonetto del Petrarca, o del Casa, o il più magnifico squarcio dell’Ariosto e del Dante: né saprebbero qual modulazione applicare al genere epico, ovvero al pindarico; laddove i Greci sapevano a meraviglia adattare a ciascuna spezie la sua particolar melodia. E diversamente cantavansi i poemi d’Omero e di Esiodo che gl’idili di Teocrito, o di Bione; altra era la composizion musicale fatta sull’elegie di Callimaco, e di Mimnermo, altra quella sulle odi d’Alceo e di Saffo; differente il canto dei ditirambi da quello dei giambi di Archiloco, la musica de’ Nomi da quella di teatro, e così via discorrendo.

[25] In secondo luogo, nella parte che veramente ci resta siamo ben lontani dal poter venire in paragone con esso loro. Imperocché consistendo senza controversia ogni regolata armonia nella combinazione del tuono e del tempo, ogni poesia che non sia egualmente felice nella combinazione dell’uno e dell’altro non potrà adattarsi perfettamente alla musica, e per conseguenza non sarà musicale in tutta l’estensione del termine. Ora la nostra poesia, che tutta quanta è appoggiata al regolamento del tuono, altro ella non considerando nella formazione dei versi fuorché l’ordine degli accenti e il numero delle sillabe, è sommamente difettosa nel regolamento del tempo non avendo veruna misura fissa con cui poter regolare la durazion relativa della pronunzia nelle parole. Non così accadeva nella poesia musicale degli antichi, la quale era eguale alla nostra nel primo pregio, e superiore assai nel secondo. Eguale nel regolamento del tuono, perché sebbene non badassero eglino per formare i versi al numero materiale delle sillabe, avevano tuttavia la stessa cura, che abbiamo noi nella opportuna collocazione degli accenti sulle parole, della quale nasceva in gran parte il numero, e la cadenza delle loro poesie125.

[26] Superiore nella esattezza del tempo, perché venendo assegnato a ciascuna sillaba poetica il suo valore intrinseco o di breve o di lunga, e tardandosi nel pronunziare la lunga un tempo duplo di quello che si tardava nel pronunziare la breve, ne veniva in conseguenza che la misura musicale fosse regolata perfettamente dalla prosodia, così che il musico per batter con precisione il tempo non doveva far altro che seguitar alla cieca il poeta. La qual cosa non osserva da noi, poiché ignorandosi nella nostra poesia la quantità sillabica, e badando per la formazione del verso al solo numero di esse sillabe, la misura musicale fa tutto da sé, e poche volte va d’accordo colla poesia. Per esempio, se si dovesse metter in musica questo verso di Virgilio:

«Dulces exuviae dum fata, Deusque sinebant.»

e quest’altro d’Annibal Caro, che gli serve di traduzione:

«Spoglie, mentre al Ciel piacque, amate e care.»

egli è chiaro che al maestro resterebbe pochissimo da fare nel primo, poiché, trovando di già misurata ogni sillaba, non doveva far altro che impiegar quattro tempi nella parola “dulces” composta di due lunge, due nell’“ex”, un solo nell’“u”, un altro nel “vi”, e così per tutto il verso di mano in mano, al fine del quale si troverebbe esattamente aver corrisposto al pensier del poeta. Tutto ciò che il musico poteva metter del suo, era il movimento più veloce o più tardo; sebbene anch’esso veniva indicato dal poeta o col senso delle parole esprimenti lentezza, e velocità, oppure col vario intrecciamento dei ritmi, i quali guidavano la misura. Non così accade nell’italiano, poiché non sapendo se la sillaba “spo” sia più lunga o più breve della sillaba “gli” o della sillaba “e”, non sa precisamente se alla prima corrispondano più o meno tempi che alla seconda, e alla terza. Si vede non per tanto costretto ad abbandonare la poesia per badare al valor delle note musicali, le quali non avendo nella collocazion loro altro regolatore fisso che il solo arbitrio del musico, formano di per sé un ritmo musicale distinto per lo più dal poetico, e non poche volte contrario. Lo che si vede da ciò che sovente la stessa composizion musicale produce il medesimo effetto applicata a parole di sentimento intieramente diverso, siccome notarono alcuni nel famoso monologo di Armida di Giambattista Lulli, e nello stabat mater del Pergolesi.

[27] Quindi è che invece di formar, come si dovrebbe, un unico e solo linguaggio, invece di concorrere unitamente al medesimo effetto che è quello di risvegliar nell’animo una cotal sensazione o imagine, nascono all’opposto due linguaggi diversi, quello cioè del poeta e quello del musico, ciascuno dei quali, cercando vestirsi di bellezze sue proprie e independenti dall’altro, ha posto quei rilevante divario che pur sussiste nei nostri moderni sistemi ad onta degli sforzi di tanti uomini illustri che vi si sono affaticati per levarlo di mezzo. E ciò che si dice della poesia rispetto alla musica, si dice ancora della musica strumentale rispetto alla vocale, cioè che vicendevolmente si nuocono per voler ciascuna primeggiare da sé, sottraendosi dalla dipendenza della sua compagna.

[28] So che i fautori della moderna musica, alla testa de’ quali fa d’uopo metter il Signor Don Saverio Mattei napoletano (nome caro alle lettere ed alla sua patria)126 mostrano di far poco conto del vantaggio che avevano gli antichi nel regolamento del tempo, quasi che simili finezze non siano necessarie atteso l’attuale sistema della lingua e della poesia italiana. Ma parlando in tal guisa qual idea si formano essi della imitazion poetica e musicale? Ignorano forse che queste non producono il loro effetto se non in quanto rappresentano simultaneamente all’anima una medesima sensazione o immagine? Che dove la misura non s’accorda esattamente colle parole queste dicono una cosa allorché la frase musicale ne esprime un’altra, e che un medesimo oggetto rappresentato sotto due aspetti differenti altro non fa che dividere l’attenzione dello spirito senza fissarla? Non s’accorgono essi che dove la lingua non ha una prosodia regolare e stabile, la misura musicale debbe anche partecipare di siffatta irregolarità? Che mai si può accordare il valor delle note ove le sillabe prive siano di quantità determinata? Che il movimento ed il tempo mancheranno della dovuta precisione se vogliono tener dietro alle parole? Che al più solo potranno averla nei concerti puramente strumentali, cioè nel genere meno perfetto della musica, siccome quello cui manca il principal fonte della energia, che consiste nella espressione di qualche individuale concetto dell’animo? Che a motivo di cotal incertezza il musico si vede sovente costretto a cangiar di misura, principalmente in quei luoghi dove gli intervalli della voce essendo meno marcati, e conseguentemente più veloce la pronunzia, le note non possono seguitar l’ordine delle sillabe? E che nelle arie stesse dove il riposo della voce sulle rispettive vocali è più durevole, e più facilmente possono accomodarsi le note, troppo è grande tuttavia l’incertezza del compositore nel numero delle note che a ciascuna sillaba dee corrispondere, e nei tempi che debbono impiegarsi nel proferirle? Però la mancanza di prosodia esatta è un vero e positivo difetto nelle nostre lingue, il quale per l’influenza che ha nella musica, spiega altresì sufficientemente le cagioni della sua diversità rispetto all’antica, dove per molti secoli non si conobbe l’uso delle prolazioni, ovvero sia d’affastellare più note sopra la stessa sillaba. Se prestiamo fede all’erudito Bochard, un siffatto costume fu tramandato a noi da quei poeti e musici antichi chiamati Bardi dai settentrionali, parola che, secondo lui, significa in ebreo lo stesso che “cantar in suoni sminuitati e rotti”. Non so se la conghiettura di questo erudito possa dirsi abbastanza fondata; dirò soltanto che l’usanza è tale da non ismentire la sua barbara origine.

[29] Ma che vo io parlando della mancanza di misura poetica quando la moderna armonia è tanto difettosa persin nella misura musicale? Acciochè questa fosse atta a produrre ogni genere d’espressione farebbe di mestieri ch’ella potesse esprimere ogni e qualunque ritmo o durazione relativa di tempo atto a svegliare un muovimento nell’anima. Così faceva la misura musicale presso agli antichi, la quale, essendo perfettamente modellata sulla prosodia poetica, rappresentava lo stesso numero di piedi ritmici che la poesia. La ricchezza non per tanto dell’una si comunicava alla sua compagna, dal che ne risultava la varietà prodigiosa dei ritmi non meno musici che poetici, onde lungamente abbiamo parlato di sopra. Ma qual è il numero di tempi che ponno esprimere le misure musicali accettate da noi? Se si parla delle misure semplici, le quali non sono che due la dupla cioè, e la tripla, la prima non esprime che due soli tempi, e la seconda tre. Se si parla delle composte, queste non sono che quattro, cioè la quadrupla, ch’è una dupla doppia, la dodecupla, ch’è una dupla triplicata, le sestupla, ch’è una tripla doppia, e la noncupla, la quale è una triplicazione della tripla. La prima di esse misure esprime quattro tempi, la seconda sei, la terza altri sei, e la quarta nove. Ora egli è chiaro che con siffatta divisione non si possono misurar molti ritmi che attissimi sono a muover gli affetti. Con qual misura, per esempio, si renderebbero il giambo, e il trocheo, il primo de’ quali costando d’una breve e d’una lunga, e l’altro d’una lunga e d’una breve, hanno per conseguenza bisogno d’impiegar tre tempi in due sillabe sole? Colla dupla? No, perché questa divide il valore in due soli tempi. Colla tripla? Ma, così facendo, la musica viene a cadere in due massimi inconvenienti. Il primo di metter due note in una sillaba sola, lo che, slungando e distraendo la pronunzia più del dovere, fa che affatto si perda il senso delle parole; ed ecco l’origine del gran difetto del canto moderno, dove a motivo di non trovarsi la dovuta proporzione tra il numero delle sillabe e quello delle note, si spendono talvolta tre o quattro minuti nel profferire una vocale. Il secondo di non assegnare la loro individuale differenza ai ritmi che costano di tre tempi, come sono il giambo, il trocheo e il tribraco; poiché misurandosi tutti tre ad un modo, cioè con una tripla, rimangono fra loro indistinti. né sono il trocheo ed il giambo i soli piedi esclusi dalla nostra misura, ma per le ragioni allegate finora anche gli altri che dai grammatici vengono chiamati anfimacri, anfibrachi e bachii, come ognuno può esperimentare da sé tentando di ridurli all’odierno modo di misurare. Quanto ciò ne ritardi l’effetto lo sanno coloro che hanno filosofato sull’origine e i fonti della espressione musicale, e che conoscono altresì come una sola spezie di misura non può se non che con discapito della espressione rendersi comune ai mentovati piedi, ciascuno de’ quali ha la sua individuale e privativa energia.

[30] Non mancano di quelli, i quali stimano la nostra musica abbastanza ricompensata colla invenzione di comporre a più parti, e col ripolimento e perfezione cui portata abbiamo l’armonia. Senza decidere se cotesta invenzione sia propria dei secoli moderni e del tutto sconosciuta agli antichi (questione oziosa, intorno alla quale non potremo assicurarci giammai, nonostante i molti e celebri autori che l’hanno trattata) egli è chiaro che la sua utilità almeno per la musica teatrale è tanto problematica che poco o niun motivo abbiamo d’insuperbircene. Questa proposizione è tanto conforme alla esperienza che Vincenzo Galilei, Giulio Caccini, e Jacopo Corsi, allorché vollero inventare la vera musica drammatico lirica, non trovarono a perfezionare la melodia mezzo più spedito di quello di sbandirne e screditarne il contrappunto allora regnante127. Se non è concepibile in qual guisa le voci diverse e gli strumenti cantassero tutti all’unisono nei cori degli antichi, più difficile è ancora l’immaginarsi come la moltiplicità e varietà degli accordi che richiede il contrappunto possa produrre una determinata e individuale passione. Conciosiacchè ad eccitar questa fa di mestieri una serie di movimenti tutti dal principio sino alla fine conformi all’indole di essa, lenti, per esempio, ove si vorrà esprimere la maninconia, più spediti dove si tratti dell’allegrezza, velocissimi poi ove della iracondia, e così delle altre affezioni dell’animo in guisa tale che se fra loro si mischiano movimenti di diversa natura, non è possibile ottenere il desiderato intento, sendochè l’azione dell’uno viene scambievolmente distrutta dall’azione contraria dell’altro. Ora delle quattro parti principali che costituiscono la nostra armonia equitemporanea, cioè il basso, il tenore, il contralto e il soprano, il basso, che è l’estremo più grave e per conseguenza quello che procede con moti più lenti, si congiugne nella stessa cantilena col soprano, che è l’estremo più acuto e che procede con movimenti più celeri; dalla qual congiunzione risulta una mischia, una opposizione di forze che distruggono l’animo dell’uditore in parti contrarie senza fissarla ad un movimento determinato.

[31] Quanto si dice della moltiplicità delle parti si dice altresì della scelta degli intervalli che sono in uso nella nostra armonia. Si riducono questi (parlando de’ semplici, onde si formano poi i composti) all’ottava, le due settime, le due seste maggiore e minore, la quinta, la quarta, le due terze maggiore e minore, la seconda, il tuono e il semituono. La natura intrinseca di essi intervalli, e soprattutto di quelli che entrano ordinariamente nell’armonia, vale a dire l’ottava, la quinta, la quarta, le seste e le terze, n’è, e ne debbe essere affatto diversa, poiché la modificazione del suono che risulta da ciascuno, e conseguentemente l’azione fisica indi prodotta, è proporzionale alla sua estensione, gravità ed acutezza, le quali essendo rispettive in ciascun intervallo, differente altresì esser debbe l’effetto individuale che ne vien generato. Ciò è tanto vero che se in una cantilena fa il musico valere piuttosto una quinta, per esempio, che una terza, il risultato del suono e dell’effetto sarà conforme al tuono della quinta, e non della terza. Posto questo principio incontrastabile, facciasi la supsizione che il compositore debba esprimere un sentimento di allegrezza, e che gli intervalli più a proposito per rappresentare siffatto sentimento siano le due terze. Egli è chiaro in tal caso che la base fondamentale della modulazione dovrà principalmente raggirarsi intorno alle terze, che il movimento dovrà colla sua velocità aumentarne l’effetto, e che fra tutte le voci dovrà scegliersi quella del soprano come la più agile e in conseguenza la più atta a significar l’allegrezza. Mentre la cantilena non si modulerà che all’unisono, le cose tutte anderanno a dovere, ma modulandosi secondo le leggi dell’armonia equitemporanea necessariamente avverrà che le parti del tenore, del contralto e del basso procedano simultaneamente per gli altri intervalli mentre il soprano corre successivamente per quelli delle terze, i quali essendo d’indole diversa dagli altri e operando anch’essi secondo la propria disposizione, o rintuzzeranno la forza del tuono dominante, o faran nascere una cotal distrazione fra la voce principale e le aggiunte, che non potrà mai generarsi il dovuto effetto per cui voglionsi, come abbiam veduto, movimenti omogenei. Non si niega che da siffatto contrasto non possa per opera d’un valente compositore cagionarsi talvolta una combinazione dei suoni che diletti l’udito per la sua vaghezza ed artifizio e tale è appunto il merito intrinseco della moderna musica, dove l’arte d’intrecciare le modulazioni, la bellezza delle transizioni e dei passaggi, l’artifiziose circolazioni intorno al medesimo tuono, la maestria nello sviluppare e condurre i motivi, in una parola le bellezze estetiche dell’armonia sono pervenute ad un grado d’eccellenza sconosciuto affatto agli antichi; ma egli è indubitabile che siffatto artifizio non è atto ad eccitar le passioni, e che l’intrinseca ripugnanza che regna nel sistema della nostra armonia (ripugnanza nata dal comprendere insieme più spezie contrarie di movimento) le toglierà sempre mai il diritto di gareggiar colla greca nella quale siccome non trovavansi le squisitezze armoniche della moderna, così non si trovavan nemmeno le sue contraddizioni; il tutto era anzi al suo scopo maravigliosamente diretto.

[32] Il grande svantaggio della nostra musica è non per tanto quello che qualunque principio di conmozione venga eccitato da essa verso un tale oggetto è per sua natura indeterminato e generico, non individuale e preciso. Ciò si ricava, oltre l’intrinseca contrarietà, che abbiamo provato esistere nell’armonia, anche dalla natura stessa della cantilena o composizione, la quale a eccezione del tuono principale che varia secondo l’indole del motivo, in tutto il restante è costretta a prevalersi di que’ tali elementi che sono gli stessi per esprimere ogni e qualunque spezie d’affetto, ma che dovrebbero variarsi a misura del bisogno e delle circostanze. Dovrebbe, per esempio, la nostra composizione essere obbligata, come lo era la greca, a scegliere non solo gli intervalli in genere tra il grave e l’acuto, ma gli intervalli in ispezie di maggiore o minore estensione secondo il carattere della cantilena, non solo la voce, ma la voce determinata in quel tal dato grado d’intensione o di remissione, non solo i ritmi procurati in generale dalla misura, ma i ritmi specifici propri in tal modo di quella passione che non potessero trasferirsi a verun’altra, non solo la tendenza vaga della cantilena verso un tale oggetto, ma la tendenza individuale altresì di tutte quante le parti che la compongono.

[33] Ma fintantoché il movimento totale verrà in qualunque composizione accompagnato da movimenti parziali che ne distruggon l’effetto; fintantoché i minimi componenti dell’armonia non avranno fra loro un essenziale e perfetto combaciamento; fintantoché non si leverà di mezzo quella opposizion negli estremi inerente ed intrinseca al nostro sistema musicale; fintanto insomma che non ripiglieremo il metodo antico ch’era quello di dirigere la sua azione verso d’un solo punto, noi avremo un bel vantare la nostra musica e dileggiare quella dei Greci, ma la verità, ch’è sempre la stessa malgrado il sorriso della prevenzione e i sofismi della pedanteria, ci farà vedere che noi non abbiamo della musica fuorché la parte più materiale e meno importante, che non conosciamo lo spirito vivificante che l’animava altre volte, che non possiamo scontrare in essa la vera espressione se non rare volte, e per puro accidente, che quale noi la coltiviamo non é atta in se stessa a produrla, e che finalmente cotesta facoltà incantatrice e prodigiosa non è presso ai moderni, come lo dice a chiare note il celebre Tartini 128, se non «l’arte insignificante di combinare i suoni».

[34] Ricercata filosoficamente l’intima differenza che corre tra il nostro sistema musicale e quello degli antichi, e indicati in generale gli inconvenienti annessi alla nostra armonia, pare che la serie di ragioni addotte fin qui bastar dovesse a pienamente confermare il mio assunto. Ma siccome nel numero dei lettori haccene ancora di quelli che facendo professione di vivere eternamente attaccati ai pregiudizi della lor nazione e del loro secolo come le cariatidi al piedistallo delle statue, m’accuseranno di troppa baldanza per aver osato chiamar in giudizio la moderna musica, così a costoro incapaci di sentir per se stessi la forza d’una pruova, fa d’uopo venir avanti coll’autorità spezie di argomento che l’inerzia adotta volentieri perché la dispensa dal ragionare, e che il pregiudizio accarezza talvolta a fine di nasconder colla stima che mostra verso le opinioni d’un solo, il disprezzo che ha per la capacità di tutti gli altri. Sentano essi adunque parlare due scrittori cogniti alla Europa non che alla Italia per la loro perizia nelle scienze musicali, e che non possono venire accagionati di giudicare senza cognizione di causa. Il primo è il celebre Padre Martini, il quale sembra avere epilogato nel testo seguente quanto da me è stato detto finora intorno alle due musiche. «La loro musica (parla dei Greci) era finalmente e precipuamente diretta a muover gli affetti dell’animo, dove la nostra ha per iscopo principalmente l’allettare e pascere il senso, e a trarre in ammirazione gli ascoltanti mercè la finezza dell’arte praticata in tutte le sue parti. Che se qualche rara volta giugne la nostra musica a muovere qualcuno degli affetti, per esser caso raro, ci fa conoscere che ella intrinseca mente e di sua natura non possiede codesta attività». 129 Il secondo è il famoso Marcello, che nella prefazione alla sua Parafrasi musicale sopra i primi venticinque salmi, parlando di tutte quelle cose che nella musica greca concorrevano ad eccitar le passioni, si spiega in tal guisa: «Ma quanto poi siano queste in oggi tolte a noi da nuovo costume, o trascuratone l’uso di esse, egli è ben facile da comprendersi dal non udirsi che appena o di rado da canti nostri, benché da vari consonante copiosi, e di vari movimenti e leggiadri produrre nell’animo nostro qualche menoma parte di quelli antichi tanto ammirabili effetti, i quali a chiunque odali raccontare sembrar convengono piuttosto favole che veri»130.