(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Capitolo decimosesto »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Capitolo decimosesto »

Capitolo decimosesto

Ragionamento sopra il ballo pantomimico. Della sua applicazione al teatro. Se convenga o no bandirlo dal melodramma.

[1] Abbiamo finora osservati i fondamenti del brillante edifizio che potrebbero le belle arti inalzare al piacere non meno che alla gloria d’una nazione. Non è colpa nostra se l’esecuzione si è trovata disforme al disegno, e se i pregiudizi hanno sfigurata nella pratica quella sublime idea del bello che negli annali del gusto avea tracciata la penna luminosa del genio. Al presente restano a disaminarsi gli ornati fra i quali il ballo ottiene un luogo così distinto che il passarlo sotto silenzio sarebbe lo stesso difetto che il tralasciare fra le regole dell’architettura quelle che insegnano la maniera ci abbellire una facciata o di render luminoso e capace l’ingresso d’un palazzo. Oltradicchè diventa oggimai tanto più necessario il parlarne quanto che la possente influenza della imitazione francese ha reso il ballo a giorni nostri quasi parte essenziale del melodramma italiano. Però seguitando il mio solito metodo ch’è quello di risalire fino ai principi a fine di cavare più ovvie e più legittime le conseguenze, cercherò di restringere colla brevità e nettezza possibile tutto ciò che nella presente materia ha uno stretto legame col mio argomento ai capi seguenti.

Primo. Dell’origine naturale e della energia del ballo.

Secondo. Della sua applicazione e uffizi ai teatro.

Terzo. Della sua prima introduzione e progressi in Italia.

Quarto. Dei principali abusi introdottisi nel ballo pantomimico italiano.

[2] Ogni passione interna dell’uomo si manifesta in due maniere o coll’azione o col suono. La stessa sensazione che ci strappa un urlo di spavento o un grido di gioia, ci spinge a fare eziandio certi determinati gesti analoghi alla natura dell’affetto che ci predomina. Se l’apprensione è d’un male, i muovimenti del corpo sono diretti a slontanarlo lungi da noi, come si cerca con ogni sforzo di avvicinarlo qualora si crede di ritrovar in queir oggetto la propria felicità. L’uno e l’altro è stato dalla natura con mirabile provedimento ordinato. Negli affetti di gioia i segni esterni servono a comunicare coi nostri simili parte di quell’allegrezza che tanto giova a rinserrare i vincoli dell’amicizia. Negli affetti di spavento o di mestizia servono essi ad eccitar in nostro aiuto l’altrui commiserazione facendo vedere, che ci sovrasta un qualche pericolo. Si vede adunque che l’origine naturale del ballo e del canto è la stessa che l’istinto (quella facoltà indiffinibile, ma vera, che negli esseri sensibili è il supplemento della ragione) è la cagion produttrice dell’uno e dell’altro, e che siccome i suoni inarticolati della voce umana sono la materia elementare della melodia, così le attitudini della fisionomia e del corpo sono, a così dire, la materia primitiva della danza.

[3] Ma non qualunque aggregato di suoni è un canto, né qualunque serie di attitudini è un ballo. Gli accenti scomposti e fuori di regola non formano modulazione nella stessa guisa che i gesti fuori di misura non formano cadenza. Gli uni e gli altri, per costituire un’arte, hanno bisogno d’essere imprigionati fra certe leggi inalterabili e severe, le quali sono le medesime per la danza che per la musica. Come questa ha bisogno d’una misura che regoli la durazione di ciascun tuono, d’un muovimento che affretti o rallenti la misura, d’un’armonia che combini e temperi le parti simultanee, e d’una melodia che disponga i tuoni in una successione aggradevole, così nel ballo fa d’uopo dar un determinato valore e una durazione ai gesti, accelerarli o rallentarli secondo le leggi del ritmo, regolar acconciamente le figure subalterne, e dar ai muovimenti del corpo una continuazione concertata ed armonica. La comparazione fra il canto e il ballo può condursi ancora più avanti. V’è un canto naturale e un canto imitativo. Nel primo chi canta non ha altro disegno che di eccitar in se stesso o in altrui quel diletto meccanico che risulta dalla dolcezza inerente a qualunque tuono. Nel secondo raccogliendo gli accenti precisi della voce umana in qualunque situazione dell’anima, prende a rappresentarli con esattezza tessendone, se occorre, una lunga azione. Dell’uno e dell’altro molto si è parlato in quest’opera. Così due sorta possiamo considerare di ballo. Una dove l’uom non ha altro disegno che di ballar per ballare, cioè di eseguire certi salti regolati o per manifestare la sua allegrezza, o per mostrar il brio e l’agilità della persona, o per porre in movimento i suoi muscoli intorpiditi dall’ozio soverchio. Questo ballo senz’altro fine riflesso si chiama propriamente danza ed è quello che s’usa nei festini, nelle accademie, e nei domestici diporti. Allorché per renderlo più aggradevole vi si mischiano parecchie sortite, evoluzioni ed intrecciamenti, prende comunemente il nome di ballo, o danza figurata. L’altra sorte si è quando chi balla, non contentandosi del piacer materiale della danza, prende ad eseguire un intiero soggetto favoloso, storico od allegorico esprimendo coi passi figurati de’ piedi, coi vari atteggiamenti del corpo e delle braccia, e coi tratti animati della fisionomia tutta la serie di situazioni che somministra l’argomento nello stesso modo che la esprime colla voce il cantore. Questa seconda maniera di ballare si chiama pantomimica, la quale costituisce un linguaggio muto di azione inventato dalla umana sagacità affine di accrescer la somma dei nostri piaceri, e di stabilire fra uomo e uomo un novello strumento di comunicazione indipendente dalla parola.

[4] Noi ignoriamo fino a qual grado di energia potrebbe condursi un siffatto strumento, ma havvi ogni apparenza di credere che se gli uomini non avessero sviluppato giammai l’organo della voce, né inventata l’arte della parola, l’idioma de’ gesti perfezionato dal bisogno, e avvivato dalle passioni avrebbe potuto comodamente supplire all’uno e all’altra. La sperienza ci fa vedere che i fanciulli, non sapendo ancora articolare gli accenti, trovano pure il segreto di farsi intendere a meraviglia dalle loro nutrici, e l’educazion ragionata, onde sono capaci i muti nati, pruova con evidenza che la natura non ha stabilito su questo punto verun impreteribil confine, e che un senso potrebbe acconciamente far le veci d’un altro. La storia inoltre ci insegna che il linguaggio primitivo de’ popoli fu dappertutto più d’azione che di parole composto, e che dalla usanza appunto di parlar agli occhi acquistaron le loro espressioni un carattere di forza, cui tenterebbe indarno agguagliare l’artifiziosa e per lo più inefficace verbosità de’ nostri più rinomati oratori. Tarquinio, il quale invece di rispondere all’ambasciatore de’ Gabini, lo mena nel proprio giardino, e alla sua presenza recide senza profferir parola la sommità de’ papaveri, che grandeggiavano sopra gli altri; Dario re dei Persi, che essendosi inoltrato nella Scizia con intenzione di muover la guerra a que’ popoli, si vede comparir avanti da parte loro un araldo che gli appresenta una rana, un topo, un uccello e cinque freccie, e poi si diparte senza pronunziar un sol motto; il famoso Levita di Efraimo, il quale volendo vendicar la morte della sua sposa barbaramente trucidata da certi Israeliti della tribù di Beniamino, taglia l’amato cadavero in dodici parti, ed una ne manda in regalo a ciascuna delle dodici tribù per eccitarle con sì feroce eloquenza alla comune vendetta; l’Indiana descritta da un poeta orientale, che interrogata dall’amante chi sia il fortunato oggetto de’ suoi frequenti sospiri, e obbligandola il pudore a tacere mentre l’ardenza de’ suoi desideri la sprona a manifestarlo, prende senza dir parola un lucidissimo specchio, e l’affaccia innanzi a chi le avea fatta la dimanda; l’altrettanto bella quanto incontinente Frine, che vedendo i giudici dell’Areopago non essere in suo favore dall’aringa d’Iperide abbastanza commossi, s’inginocchia avanti loro, si straccia i veli che le ricoprivano il seno, offre ai loro sguardi una candidezza abbagliante, e per la muta facondia di due persuasive oratrici si vede assoluta dal delitto d’irreligione nel più rigido tribunale della Grecia; i Salams ovvero sia specie di muta comunicazione inventata nei serragli dell’oriente, la quale consiste nel mandarsi a vicenda in regalo un nastro, un pannizuolo, o qualche altra cosa triviale, ma che avendo nella sua piegatura e configurazione diversi pattuiti significati, serve a trasportare da un luogo all’altro tutti gli arcani della galanteria, senza temer la gelosa vigilanza dei mariti; mille altri esempi di questa natura, de’ quali abbonda non meno la sacra161 che la profana storia, pruovano che certa classe di sentimenti e di passioni ponno dipignersi alla fantasia con più vivaci colori per mezzo della vista che per mezzo dell’udito. E se non temessi diffondermi troppo in una materia ch’è il fondamento del diletto che ci procurano tutte le belle arti, farei ancora vedere che l’ascosa origine del piacere, che certi tratti arrecano nella musica, nella poesia e nella eloquenza, è nel linguaggio d’azione principalmente riposta; che ciò che rende eloquenti i quadri oratori o poetici è l’arte di radunare in una sola idea più immagini, le quali rappresentino muovimento, come la maniera di render la musica espressiva si è quella di far sentire la successione regolata de’ tuoni e del ritmo; che la forza di certe lingue massimamente delle orientali deriva dall’accennato principio: osservazione che può farsi ancora nello stile de’ più grandi scrittori antichi e moderni, la magia del quale allora è portata al maggior grado quando le parole e le idee fanno l’effetto dei colori.

[5] C’è non per tanto l’eloquenza de’ gesti, come c’è l’eloquenza de’ suoni, e la maniera di render efficace quanto si può la pantomima (della quale sola e non delle altre spezie di ballo si farà discorso nel presente capitolo) sarebbe quella d’applicarla all’esercizio delle passioni utili alla società, o ai motivi che interessano generalmente il cuore umano; posciachè i mezzi in apparenza più triviali possono fra le mani d’un legislatore filosofo divenire molle possenti di rinforzo nel governo degli stati, e nella politica.

[6] I Greci, che seppero tutto inventare e perfezionar tutto, i Greci che non lasciarono inoperosa veruna facoltà del corpo o dello spirito, i Greci che fecero servire fino i propri divertimenti agli oggetti più rispettabili e più sublimi, i Greci insomma quel popolo estraordinario il cui nome io non posso leggere né nominare senza entusiasmo, intesero così bene questo gran principio, che non temettero di dover essere accusati di leggerezza divinizzando siccome fecero la danza, e applicandola poi insiem colla musica e la poesia alla politica, alla educazione pubblica, alla guerra e al culto religioso. Come gli dei e gli eroi furono tenuti poeti e musici così furono ancora tenuti ballerini. Ballava Venere, Ebe, e le Grazie; ballavano Castore, Polluce e Minerva; ballarono Teseo, Pirro, Achille e tanti altri, e perfin colui che al detto di Cicerone chiamò la filosofia dal cielo, colui che dall’oracolo fu riputato il più saggio fra gli uomini, il maestro di Eschine, di Platone, e di Senofonte, in una parola il gravissimo Socrate ebbe fama di bravo danzatore. Questa, che nelle nostre idee tanto diverse da quelle sembra una prostituzione della filosofia, veniva accompagnata da un altra spezie di prostituzione in apparenza più scandalosa. Non solo adoperavano i Greci la danza come un atto di religione, o come un incentivo all’amor della patria, non solo si danzava nell’entrare in una battaglia per accendersi al coraggio, nel sortire di essa per ringraziare gli dei, d’intorno al talamo coniugale per augurare la fecondità, nella palestra per indurarsi alla fatica, nelle campagne per implorare dai numi l’abbondanza delle raccolte, fra le mura domestiche per educare la gioventù e in mille altre occasioni, ma eravi ancora una danza chiamata della Innocenza dove le donzelle di Lacedemonia ballavano affatto ignude e divise in più cori innanzi al simulacro di Diana sotto gli occhi della gioventù maschile, e in presenza del rispettabile magistrato degli Efori, il quale autorizzava colla sua compostezza e taciturnità uno spettacolo così strano. Gli occhi nostri lo ritroverebbono senza dubbio biasimevole, né io voglio in modo alcuno giustificarlo avendo la fortuna di professare una religione non meno rispettabile per la purità della sua morale che veneranda per la santità ineffabile de’ suoi dogmi; ma riguardandolo unicamente con occhio politico, né potendo argomentare dalla profonda sagacità del legislatore di Lacedemonia che un sì bizzarro costume fosse privo d’ogni ragion sufficiente che rendesse non solo utile ma legittima la sua istituzione, bisognerà confessare, come dice un moderno filosofo, il quale aveva l’anima Spartana e le viste di Platone, «che l’usanza di cui si tratta conveniva solamente agli allievi di Licurgo; che la vita frugale e laboriosa, il costume puro e severo, la loro naturale robustezza d’animo erano qualità e circostanze atte a render innocente uno spettacolo così stravagante per qualunque popolo non d’altre virtù posseditore che della sola decenza» 162.

[7] I Romani meno sensibili che non lo erano i Greci ai piaceri dello spirito oltre l’applicazione che sul loro esempio fecero della danza propriamente detta ad alcune istituzioni religiose e politiche, furono ancora i primi a introdur sul teatro la danza pantomimica. Dico che furono i primi, poiché sebbene trovinsi fra i Greci surriferiti alcuni gesti esprimenti un qualche fatto, ciò nonostante l’idea d’una intiera commedia o tragedia rappresentata da capo a fine senza il soccorso delle parole e col solo aiuto dell’azione non fu conosciuto per la prima volta fuorché in Roma sotto il comando di Augusto. Il mio metodo non mi permette il trattenermi a narrare i progressi di quest’arte sotto gl’imperatori, né i miracoli de’ celebri pantomimi che tanta impressione fecero su i Romani, e sì pericolosa influenza ebbero sulla loro libertà e su i loro costumi. L’Abate Du Bos 163, il Caliacchi 164, e il Chausac 165 appagheranno ampiamente la curiosità di coloro che di sapere più oltre avessero vaghezza. Tuttavia due cose relative al mio assunto meritano di essere rilevate. L’una si è l’evidenza di espressione che conservavano i pantomimi nonostante la somma difficoltà che dovevano sentire nel rappresentare, essendo privi dell’aiuto degli occhi e della fisionomia a motivo della maschera, onde, come sa ognuno, aveano coperto il volto. L’altra l’energia del ballo pantomimico riconosciuta persin nel guasto che dava ai costumi, e nell’oscurar che fece la tragedia e la buona commedia con ogni altro spettacolo drammatico più giudizioso. La prima delle accennate osservazioni è diretta a far vedere di qual perfezione sarebber capaci fra noi le arti pantomimiche avendo mezzi più efficaci che non avevano essi per ben riuscirvi. La seconda può far temere una sorte uguale per l’odierna musica e l’odierna poesia, qualora si lasci al ballo un’illimitata licenza sul teatro senza restringerlo fra quei cancelli che prescrivono il buon gusto e la sana filosofia. Ma quali sono codesti cancelli? Tempo è ora mai divenire a disaminarlo.

[8] La pantomima può essere considerata sotto due relazioni differenti. La prima in quanto è un’arte rappresentativa somigliante alla poesia e alla musica. La seconda in quanto viene applicata al melodramma o come parte costitutiva di esso e coll’azione intimamente connessa, o come facendo classe di per sé qual semplice intermezzo frapposto tra atto ed atto.

[9] Considerata in genere come un’arte rappresentativa la pantomima è precisamente soggetta alle leggi stesse alle quali soggiacciono tutte le arti d’imitazione, cioè di dare alla spezial materia che scelgono esse come strumento tutta la possibile somiglianza coll’oggetto che vogliono imitare. Così perché la danza rappresenta le azioni umane per mezzo de’ muovimenti e de’ gesti, l’arte del bravo pantomimo consiste nel fare che i suoi gesti e i suoi muovimenti esprimano con tutta la verità ed evidenza compatibile coi principi dell’arte sua l’originale preso a rappresentare. Dissi a bella posta “con la verità ed evidenza compatibile coi principi dell’arte sua” affine di prevenir il sofisma di coloro che indicate vorrebbero nella imitazione delle belle arti tutte quante le particolari circostanze del vero, senza riflettere che l’oggetto di quelle non è la semplice natura ma la bella natura, e che l’arbitraria non meno che stitica teoria di quei pretesi filosofanti sbandirebbe ogni piacere ed ogni decenza dal teatro, facendo apparire in un ballo per esempio di villani o di marinari avvolti i danzatori fra le squallide vesti, coi muovimenti scompassati e colle maniere rozze ed improprie, che realmente in simili personaggi s’osservano. E ciò sotto pretesto di esatta rassomiglianza fra l’imitazione e l’imitato.

[10] Dalla necessità che ha la danza di esser vera e conforme nasce in lei altresì la necessità di esser chiara e distinta. Non basta che il danzatore faccia dei gesti e delle attitudini, bisogna che i gesti abbiano un senso e le attitudini un significato, il quale, essendo dagli spettatori facilmente compreso, faccia loro nascer tosto in mente l’immagine della cosa che vuolsi rappresentare. Senza questo requisito essenziale l’idioma de’ gesti è simile appunto ai simboli degli antichi egiziani, ovvero a quelli inintelligibili caratteri trovati dal celebre Maupertuis nei suoi viaggi alia Lapponia166. Ogni sentimento del cuore umano, ogni slancio di passione ha, come dice Cicerone, i suoi tratti corrispondenti nel volto, nella voce, e nell’atteggiamento167. Il saperli afferrare e il combinarli fra loro, formando una serie ragionata, è quello che costituisce il vero linguaggio d’azione. Se nella serie accennata si trovano dei muovimenti che m’imbarazzano, o perché nulla significano, o perché hanno una significazione ideale, arbitraria, non fissata dall’uso e dalla convenzione, o perché non sono abbastanza connessi cogli antecedenti e coi posteriori, o perché distornano la mia attenzione dalla idea principale, o perché si distruggono a vicenda e si contraddicono; il linguaggio della pantomima è non solo cattivo, ma al fine delle arti imitative perfettamente contrario.

[11] Quindi le qualità generiche richieste nel ballo rappresentativo sono le stesse che esigono le azioni drammatiche, e gli argomenti della oratoria. Debbe cioè apparire la danza una, varia, ordinata, conveniente e patetica. Una, che rappresenti cioè un’unica azione principale senza divagarsi in episodi inutili e fuori di luogo, facendo anzi che tutte le sortite e le entrate, tutte le scene e le mosse corrispondano ad un solo oggetto168. Varia, che senza cangiar il piano generale dell’azione sappia svegliar negli animi degli spettatori la novità che nasce dai diversi incidenti somministrati dall’argomento169. Ordinata, che rappresenti le situazioni in maniera che le ultime cose si confaccino colle prime, e queste colle medie e colle ultime170. Conveniente, che nell’adattare ai personaggi i rispettivi gesti abbia sempre in vista l’indole della passione, i caratteri, il tempo, il luogo, e le circostanze171. Infine patetica, cioè che così acconciamente dipinga i movimenti propri dei vari affetti umani, che lo spettatore sia costretto a risentirli in se stesso172. L’ultima circostanza è più d’ogni altra legge necessaria alla pantomima, perché non avendo verun altro compenso, qualora non esprima una qualche situazione viva dell’anima, essa non significa niente. La ragione si è perché nessuna operazione dell’uomo porta seco un gesto animato e imitabile fuorché la passione. Un re che parla posatamente, un filosofo che silogizza (e in questi esempi si racchiudono tutti gli altri di simil genere) non sono modelli opportuni per un danzatore. Le smanie di Merope, le lagrime di Andromaca, l’iracondia d’Achille, le tenerezze di Aristea, il furore di Oreste, l’ansietà d’Ipermestra, e l’abbandono di Armida; ecco i gran fonti del gesto umano e per conseguenza della pantomima.

[12] Come la poesia ha i suoi diversi stili così gli ha parimenti la danza, e i vizi e le virtù di entrambe tengono regolati cogli stessi principi. Attitudini scherzose e festevoli nei balli buffi, nei tragici animate e terribili, maestose e gravi nei seri, vaghe e semplici nei boscherecci, vezzose e dilicate negli amorosi, regolari ed eleganti in tutti; questi sono i requisiti dello stile nella pantomima. S’aggiunge come prerogativa essenziale che debbano essere aggiustate, perspicue e scelte. L’aggiustatezza richiede che si dia alle cose il loro genuino colore senz’alterarle per eccesso o per difetto, acciocché il danzatore non incorra nella taccia di colui che cita, il quale facendo Aiace furioso si trasportò in modo e cagionò un tale scompiglio in teatro che si sarebbe detto che non contrafaceva il furioso, ma che lo era173. La perspicuità vuole che ogni gesto esprima con nettezza e precisione ciò che vuol rappresentare affinchè lo spettatore non sia indotto in abbaglio. La mancanza di questa virtù rende simile la espression pantomimica alle fosche nebbie, che addensandosi su una valle ne tolgono alla vista ogni vaghezza. La sceltezza esige che il danzatore, non contentandosi di cavar dal suo corpo i movimenti ovvi e comuni i si studi di svegliare e mantenere la sospensione con quelle mosse inaspettate e decisive così atte a produrre il loro effetto, e che sono il frutto più pregiato dello studio e del genio. Bello è il rappresentarmi Galatea nell’atto che scherzevolmente colpisce col pomo l’innamorato pastorello; ma la danzatrice non avrà altro merito che quello d’una imitazione volgare se non mi fa vedere ancora quel misto di ritrosia e d’amabile petulanza, quegli inviti significati in aria di ripulsa, quel chiaro e facile riso interprete non dubbio degli ascosì desideri, insomma quell’inesprimibile atteggiamento della ninfa, che fugge verso il boschetto, e fuggendo cerca di essere più attentamente guardata174.

[13] Dal semplice abbozzo esposto finora, si vede che l’arte pantomimica è capace di teoria ragionata al paro delle altre facoltà, e che potrebbe acconciamente scriversi la retorica e la poetica de’ ballerini, come Aristotile e Orazio hanno scritto quelle de’ poeti e degli oratori. Ma lasciando cotal impegno (più utile e di maggior conseguenza che non si crede comunemente) ad altri scrittori più profondi, passiamo a disaminare qual uso possa farsi della danza nel melodramma.

[14] In tre maniere può questa entrare in uno spettacolo teatrale o accompagnando costantemente la poesia per tutto il tempo che dura l’azione, o in qualche determinata occasione soltanto, o come un intermezzo frapposto nel silenzio degli atti.

[15] L’unione delle belle arti e il fratellevole combaciamento che hanno insieme la danza, la poesia e la musica esigerebbe forse l’applicazione del ballo nella prima maniera, e così è fama che facessero gli antichi, appo i quali le intiere azioni tragiche o comiche si cantavano, si suonavano, e si ballavano nel medesimo tempo da un solo ed unico attore. Ma siffatto sistema eseguibile forse per poco tempo e mentre gli spettacoli erano sul nascer loro non poteva continuarsi allorché divennero essi più lunghi e più complicati. Così tanto i Greci che i Latini si videro astretti a sciogliere quella rigida alleanza delle tre arti distribuendo in diverse persone le moltiplici incombenze che dianzi erano affidate ad una sola. S’ignora chi fosse il primo nella Grecia a separare la pantomima della poesia; presso a’ Romani fu il poeta Livio Andronico, il quale facendo, secondo il costume di quei tempi, da attore nella sua commedia, fu forzato dal popolo a ripetere diverse volte alcuni passaggi favoriti; per lo che ottenne la permissione di sostituire in suo luogo uno schiavo, che cantasse il poema insieme col musico mentre egli medesimo rappresentava la stessa azione col gesto muto175. In progresso di tempo anche questa usanza fu levata via, e la danza non accompagnò più la tragedia fuorché nei cori, o in qualche scena particolare. Ciò ch’essi fecero mossi dalla necessità, non potendo più reggere alla fatica, è stato poi confermato dalla esperienza e dalla sana ragione. La filosofia, ai dettami della quale fa d’uopo assoggettare non meno le facoltà appartenenti al gusto che le più elevate scienze, ha insegnato ai coltivatori di quelle che un discorso fatto simultaneamente allo spirito in due idiomi affatto differenti non può far a meno di non confonderlo, che se la danza dice lo stesso che la compagna il suo linguaggio diviene inutile, come diviene contraddittorio se dice l’opposto; ch’essendo la pantomima fondata sulla supposizione che debba parlarsi ad un uditorio di sordi o di muti, cotal supposizione diventa ridicola qualora si senta nel medesimo tempo sulla scena un altro linguaggio che distrugga l’ipotesi, e che se gli spettatori si prestano di buon grado ad un genere d’illusione, soffrono però mal volentieri di dover assoggettare la loro imaginazione ad un altro, il quale sia in contraddizione col primo.

[16] Strana non per tanto è da dirsi che fosse l’opinione del Signor Grimm, il quale desideroso di riunire a’ nostri tempi la danza colla poesia vorrebbe, appoggiandosi al testé citato esempio di Livio Andronico, che i ballerini cantassero eglino stessi nell’atto di danzare, oppure che mentre danzano, una voce nascosta dietro alle scene spiegasse cantando l’argomento del loro ballo. Una siffatta idea è non meno stravagante a proporsi che impossibile ad eseguirsi. Lo spiritoso ed elegante autore del discorso intorno al poema lirico non ha riflettuto essere incompatibile colla natura del nostro canto sminuzzato acuto squisito e sottile l’azione violenta che richiede la danza, mettersi i polmoni e la glottide dei cantanti nell’atto d’eseguire l’arie in una posizione che verrebbe alterata necessariamente dal ballo o affatto distrutta, trovarsi nella poesia molte idee astratte, molte relazioni puramente riflessive e mentali che non potrebbono in verun conto eseguirsi dal ballerino, contener la musica strumentale mille artifizi, mille pitture degli oggetti esterni che non possono essere rappresentate coi piedi, dover non per tanto l’imitazione della natura riuscir imperfetta oscura ed equivoca, essere finalmente nel presente nostro sistema la simultanea riunione del ballo e del canto in una sola persona una caricatura non minore di quella che sarebbe il prevalersi d’una traduzione ebraica per facilitare l’intelligenza d’una lettera scritta in latino.

[17] Le ragioni che vietano l’accompagnamento perpetuo della danza nel melodramma, sono le stesse per doverla bandir eziandio come episodio. Un ballo improviso che venga sul più bello a sospender l’azione, indebolisce l’interesse e fa dimenticare l’oggetto principale. E siccome l’effetto d’ogni spettacolo dipende dalla costante e non interrotta impressione che fa esso sull’animo, così qualunque ornamento straniero che vi si frapponga diminuisce l’impressione, e per conseguenza l’effetto; tanto più se l’ornamento frapposto è di tal natura che invece d’agevolare l’intelligenza di ciò che dicono le parole, non serve che a renderla più difficile. Tale appunto è il ballo, il quale per essere meno naturale all’uomo che non è l’uso de’ vocaboli, ha un significato men chiaro e meno intelligibile perché men fissato dalla convenzione, e meno atto a rappresentare l’idee complicate e riflesse dello spirito. Si può nondimeno far uso talvolta di esso purché non si prenda come una vana ripetizione delle parole, o come una voglia indeterminata di ballar per ballare, ma come una usanza propria del popolo o dei personaggi che parlano, appoggiata sulla storia o sulla tradizione. Così perché la storia ci assicura che gli Spartani usavano d’un certo ballo particolare nell’atto d’azzuffarsi coi loro nemici in battaglia, non disdirebbe punto ad un poema melodrammatico che vi s’introducesse acconciamente siffatto ballo, come non disdirebbe nemmeno rappresentandosi un trionfo, uno sposalizio, un’allegrezza pubblica, una festa campestre, o nei funerali degli antichi, nei sagrifizi, nell’espiazioni, nei vari riti o costumanze delle nazioni. Così seppero felicemente innestarlo i Francesi come si vede nell’Orlando di Quinaut, dove il ballo de’ pastori è a meraviglia legato coll’azione, e quello dei piaceri nel palazzo d’Armida, e quello delle Baccanti nella Lavinia, e quello dei lottatori nei funerali di Castore, e in più altri drammi. Ma s’avverta che in questi e simili casi la danza non è propriamente pantomimica, cioè rappresentativa d’una qualche azione determinata, ma soltanto un ballo figurato, che contiene l’espressione vaga d’un affetto passaggiero, o d’un costume nazionale, o lo sviluppo naturale di quell’attività momentanea frutto della giovinezza, del temperamento o della giovialità. Conseguentemente non deve innestarsi nel melodramma fuorché nelle circostanze accennate, e i poeti che si sono dimenticati di farvi riflessione hanno mancato alla filosofia dell’arte propria, come fece il Signore de’ Calsabigi introducendo a ballare nell’Orfeo le furie e le figlie di Danao insiem coi demoni nell’inferno quantunque nessuno al certo dovesse in tal luogo e da tali persone aspettarsi volteggiamenti e carole.

[18] Ci rimane a disaminare se deva o no legittimamente introdursi la pantomima in iscena come intermezzo tra atto ed atto. Se il fatto valesse quanto la ragione, il problema non farebbe nemmeno una questione, poiché basterebbe volger gli occhi a qualunque teatro per vedere quanto spazio di tempo ivi occupi il ballo, come interrompa smodatamente l’azion musicale, e a qual grado d’importanza sia oggi mai pervenuto, cosicché direbbesi non la danza essere un intermezzo del dramma, ma piuttosto il dramma un frammesso della danza. Nondimeno siccome i pregiudizi per quanto siano essi fissi e radicati altamente non distruggono punto l’essenza inalterabile degli oggetti, così riguardando noi la bellezza delle arti sceniche non già nella modificazion passaggiera che ricevono dagli abusi; ma nell’idea archetipa del bello assoluto ed intrinseco, siamo costretti a pronunziar francamente che l’usanza di frammettere la pantomima negl’intervalli del dramma è un’assurdità palpabile, un’eresia in materia di gusto che deve affatto proscriversi innanzi al tribunal del buon senso. Difatti se tutto ciò che distrugge il fine principale d’uno spettacolo è da condannarsi; se il fine principale del melodramma, come d’ogni altro componimento è di produr l’interesse; se niuna cosa contribuisce tanto a produr questo quanto l’illusione; se non è possibile ottener l’illusione ove manchi l’unità; se l’unità non può conservarsi qualora l’azione primaria non continui dal principio sino alla fine senza interrompimento, e se la pantomima è appunto quella che interrompe il progresso dell’azione, ne seguita dunque che la sua introduzione come intermezzo è condannabile perché viziosa e contraria al fine dello spettacolo. Comunque voglia intromettersi sarà sempre una mutilazione che si fa al melodramma, uno svagamento straniero che fa perdere il filo al restante, un riempitivo fuori di luogo che tronca il tutto musicale e poetico in parti independenti, le quali non producono l’effetto perché vien loro impedito lo scambievole rapporto. Se sarebbe cosa sconcia e ridicola in un oratore dopo aver diviso in tre punti la sua orazione, il mettersi a ballare ad ognuno dei punti frapponendo dei lunghi intervalli alla continuazione delle sue pruove, perché dovremo pensare altrimenti di cotesto stravagantissimo ballo che viene appunto a far lo stesso nel melodramma? E se sarebbe deriso uno storico, che sul più bello d’un racconto fatto in volgare mi saltasse in campo con un paragrafo tedesco che da Firenze portasse il lettore fino a Sarmacanda, e dall’epoca dei Medici perfino a quella di Tamberlano, perché il sorriso del buon senso non dovrà parimenti confondere la strana fantasia di coloro che, mentre io porgo attenzione al linguaggio della musica, mi saltano all’improviso fuori col linguaggio dei muti, e togliendomi per forza dal luogo dove sono, mi trasportano in un altro mondo dove non ho per ora genio d’andare e dove cercano di rapirmi il piacere del cuore per darmi in contraccambio quello degli occhi? I Greci, dai quali gl’Italiani si vantano d’aver tratto il loro spettacolo, cosiffatto abuso mai non conobbero. Le loro azioni drammatiche formavano un tutto non mai interrotto dal principio sino alla fine, e persino ignota fu a loro la divisione delle tragedie in iscene oin atti, nomi che noi abbiamo appresi soltanto dai latini autori. Ballavano essi, egli è vero, nella tragedia e nella commedia, ma il loro ballo era innestato col componimento, come lo era anche il coro, il quale non si dipartiva dalla scena per tutto il tempo della rappresentazione. Così fecero ancora i Romani in ciò che appartiene a non mischiare la pantomima colle azioni musicali. Erano queste presso a loro due cose affatto separate, e se ad imitazione dei Greci intromettevano la danza insieme col coro, non lo facevano essi se non rapportandola all’azione principale, come apparisce chiaramente da questi versi d’Orazio nell’Arte poetica:

«D’attor le parti, e d’un sol uom sostenga,
Quando bisogna il coro: e ciò che suole
Cantar fra un atto e l’altro, al fin proposto
Ben s’adatti e convenga…»176

dove ciò che si dice del canto s’intende ancora del ballo che non s’eseguiva da altre persone, che da quelle del coro. Non è questo il luogo d’esaminare se male o bene fossero introdotti cotesto ballo e cotesto coro, né se i poeti conservassero l’uno e l’altro più per l’autorità imperiosa della religione, o d’un inveterato costume che per proprio sentimento177, ma sarà sempre vero a confusione di quelli che vorrebbono legittimare l’abuso coll’esempio degli antichi, che questi non introdussero mai la danza nelle azioni teatrali come un episodio straniero al soggetto, ed io sfido tutti i Pitraot, e tutti gli Angiolini dell’Europa a trovare un ballo pantomimico presso ai Greci e ai Latini che servisse d’intermezzo in una tragedia o in una commedia.

[19] Nello stato di decadenza in cui ricevettero i moderni l’arti musicali e rappresentative, e nella poca filosofia di coloro che furono i primi a restituirle, non è maraviglia che s’introducessero non pochi abusi avvalorati in seguito dall’usanza, e dal gusto del popolo. E fu probabilmente il desiderio di piacere a questo che sedusse gl’inventori della drammatica, determinandoli fra gli altri errori a troncar i componimenti per mettervi fra atto ed atto intermezzi d’ogni maniera, i quali facevano, a così dire, da ciascun atto una nuova azione. Giova fermarsi alquanto su questo curioso punto di storia per maggior istruzione dei lettori; tanto più che pochissimo o nulla si trova raccolto dagli scrittori delle arti italiane intorno alla prima introduzione del ballo e le sue vicende in quésta nazione.

[20] Pier Francesco Rinuccini, nel dedicar che fa l’opere d’Ottavio Rinuccini suo zio agli accademici Alterati di Firenze, asserisce essere stato desso il primo a condurre da Francia in Italia l’uso dei balli. Questo elogio non è che un ritrovato dell’amor proprio per accumulare nella sua famiglia tutte le glorie possibili. Il ballo imitativo o pantomimico (giacché di questo solo è il discorso) è tanto antico in Italia quanto il teatro. Nella Calandra del Cardinale Dovizio Bibbiena, la prima commedia in prosa recitata in Italia furono eseguiti quattro balli bellissimi, dei quali eccone la descrizione come la trovo in una lettera di Baldassare Castiglione inserita nella raccolta dell’Atanagi all’anno 1565. «Le intromesse (dic’egli scrivendo al Conte Ludovico Canossa, vescovo di Tricarico) furono tali. La prima fu una moresca di Jason, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all’antica, bello, con la spada ed una targa bellissima; dall’altro furon visti in un tratto due tori tanto simili al vero che alcuni pensorono che fosser veri, che gittavan fuoco dalla bocca ecc. A questi s’accostò il buon Jason, e feceli arare posto loro il giogo, e l’aratro, e poi seminò i denti del dracone; e nacquero a poco a poco del palco uomini armati all’antica, tanto bene quanto cred’io che si possa; e questi ballarono una fiera moresca per ammazzar Jason; e quando furono all’entrare, s’ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedevano morire. Dietro ad essi se n’entrò Jason, e subito uscì col vello d’oro alle spalle ballando excellentisissimamente; e questo era il moro, e questa fu la prima intromessa. La seconda fu un carro di Venere bellissimo sopra il quale essa sedeva con una facella sulla mano nuda; il carro era tirato da due colombe, che certo parevano vive, e sopra esse cavalcavano due amorini con le loro facelle accese in mano, e gli archi, e turcassi alle spalle. Innanzi al carro poi quattro amorini, e dietro quattro altri pur con le loro facelle accese al medesimo modo, ballando una moresca intorno e battendo con le facelle accese. Questi giungendo al fin del palco infocorno una porta, dalla quale in un tratto uscirono nove galanti tutti affocati, e ballorno un altra bellissima moresca al possibile. La terza fu un carro di Nettuno tirato da due mezzi cavalli, con le pinne, e squame da pesce, ma benissimo fatti; in cima il Nettuno col tridente ecc. dietro otto mostri, cioè quattro innanti, e quattro dappoi tanto ben fatti, ch’io non l’oso a dire, ballando un brando; ed il carro tutto pieno di fuoco. Questi mostri erano la più bizzarra cosa del mondo; ma non si può dir a chi non gli ha visti, com erano. La quarta fu un carro di Giunone pur tutto pieno di fuoco, ed essa in cima con una corona in testa, ed uno scettro in mano sedendo sopra una nube, e da essa tutto il carro circondato con infinite bocche di venti. Il carro era tirato da due pavoni tanto belli e tanto naturali, ch’io stesso non sapeva come fosse possibile, e pur gli avevo visti e fatti fare. Innanti due aquile e due struzzi; dietro due uccelli marini e due gran papagalli di quelli tanto macchiati di diverso colore, e tutti questi erano tanto ben fatti, Monsignor mio, che certo non credo che mai più si sia finto cosa simile al vero; e tutti questi uccelli ballavano ancor loro un brando, con tanta grazia quanto sia possibile a dire né immaginare. Finita poi la commedia, nacque sul palco all’improviso un amorino di quelli primi, e nel medesimo abito, il quale dichiarò con alcune poche stante la significazione delle intromesse.»

[21] È probabile che gl’Italiani traessero la prima idea di cotali rappresentazioni dalle azioni mute dei Francesi, presso ai quali erano in uso anche prima. Lo assicura Girolamo Ruscelli, testimonio di veduta, colle seguenti parole cavate dal primo volume della raccolta de’ migliori componimenti del teatro italiano ch’egli fece stampare nell’anno 1554, con alcune note infine, in una delle quali parlando della Calandra dice: «Onde a questi tempi in Francia sogliono rappresentare quelle loro farse mute ove solamente coi gesti senza una minima parola al mondo si fanno intendere con tanta gratia e con tanta sodisfatione degli spettatori, ch’io per me non so s’ho veduto giammai spettacolo che più mi diletti e molto mi meraviglio, che sin qui l’Italia, ove non si lascia indietro veruna sorte d’operatione valorosa, non abbia incominciata a riceverle e rappresentarne ancor ella ecc» 178. Questa lode è tanto più dovuta a quella nazione quanto che in ogni tempo si è in tal genere di gentilezza maravigliosamente distinta. Ciò nonostante gl’Italiani non devono escludersi dalla gloria che giustamente ad essi appartiene. Tre fra loro seppero acquistarsi un gran nome anche fra le nazioni oltramarine, e l’oltramontane.

[22] Il Baltasarini, di cui altrove se ne fece gloriosa menzione, fit l’inventore delle più leggiadre feste, e dei balletti più rinomati che fossero al suo tempo eseguiti nella corte di Catterina de’ edici, e in quella d’Arrigo terzo, tra le quali levò gran fama una intitolata Gl’incanti di Circe rappresentata nelle nozze di Margherita di Lorena col Duca di Gioiosa, dove si spesero venti millioni in circa della nostra moneta.

[23] Il Durandi, italiano anch’egli dimorante in Londra, verso il principio del passato secolo divenne celebre presso agl’Inglesi a motivo d’una singolare rappresentazione in ballo inventata e condotta da lui in occasione delle nozze di Federigo V. Palatino del Reno con Isabella d’ Inghilterra. Lo scopo di quest’opera diretta non meno al progresso dell’arti imitative appartenenti al teatro che a far conoscere il merito della nazione italiana nel coltivamento di esse sembra esiger da me che se ne faccia in questo luogo la descrizione.

[24] Trecento gentiluomini rappresentanti tutte le nazioni del mondo e divise in varie truppe comparvero sul Tamigi sovra piccoli navigli ornati in foggia che annunziava la sontuosità e la leggiadria. Erano essi preceduti e seguitati da un numero infinito di strumenti che suonavano diverse sinfonie rispondendosi gli uni agli altri a vicenda. Dopo aver fatto mostra di sé avanti ad una moltitudine inumerabile, giunsero al palazzo reale dov’eseguirono un ballo allegorico, e magnifico sopra ogni credere. La religione, che univa la Gran Bretagna al resto della terra, era l’argomento di questo spettacolo. Il teatro rappresentava il globo terraqueo. Da una banda della scena vedeasi tranquillamente sdraiata la verità sotto il nome d’Alithia. Terminata l’apertura le Muse esposero l’argomento. Atlante comparve insieme con esse dicendo aver egli appreso in altri tempi da Archimede, che se trovar si potesse un punto d’appoggio fuori del globo sarebbe assai facile il sollevare tutta quanta è la massa della terra; a tal fine esser egli venuto dalla Mauritania nella Gran Bretagna creduta da lui questo punto così difficile a trovarsi, voler non per tanto smuover il globo e scaricarsi da un peso enorme che gli avea per tanti secoli gravate le spalle, consegnandolo ad Alithia compagna inseparabile del più saggio e del più illuminato fra i re. Dopo questo recitativo il vecchiardo accompagnato da tre Muse Urania, Tersicore e Clio avvicinossi al globo, il quale toccato con una verga tosto s’aprì. La prima ad uscire fu l’Europa vestita da regina, e seguitata dalle sue figliuole la Francia, la Spagna, l’Italia, la Germania e la Grecia, le quali avevano al loro seguito la Loira, il Guadalquivir, il Reno, il Tevere, e l’Acheloo. Ciascuna delle figliuole dell’Europa aveva tre paggi caratterizzati cogli abiti delle respettive loro provincie. La Francia menava seco un basso Bretone, un Normanno, ed un Guascone. La Spagna un Castigliano, un Aragonese ed un Catalano. L’Alemagna un Ongarese, un Boemo, ed un Danese. L’Italia un Napoletano, un Veneziano, ed un Bergamasco. La Grecia un Turco, un Albanese, ed un Bulgaro. Questo seguito numeroso danzò una spezie di prologo in ballo, e i principi di tutte le nazioni, che sortirono dal globo- con un sontuoso corteggio, danzarono successivamente facendo più sortite di diverso carattere coi personaggi che si trovavano sulla scena. Atlante fece sortire coll’ordin medesimo l’altre parti del mondo, lo che formò una divisione naturale e semplice del balletto, ciascun atto del quale fu terminato cogli omaggi, che dalle mentovate nazioni furono resi alla giovine principessa d’Inghiltera e coi magnifici presenti che le furono fatti.

[25] Ottavio Rinuccini, inventore del dramma musicale in Italia nel lungo tempo del suo soggiorno in Francia dove, come in altro luogo179 si disse, era andato con Maria de’ Medici, e grandemente promosso in quella nazione il gusto delle cose musicali, si distinse ancora colle più gentili invenzioni ne’ balli eseguiti a Parigi, dove la danza era stata a gran incremento condotta. I balli, che in allora avevano voga presso ai Francesi, erano quelli detti della corte antica, ne’ quali fra gli altri compositori si distinse particolarmente Benserade. Formavano essi una spezie di dramma composto di parole e di danza. La poesia consisteva in qualche piccola canzonetta, a ciascuna scena delle quali si ballava in diversa foggia. La loro musica non meno che la loro cadenza consisteva in una serie di note lunghe lente e posate accompagnate dal pochi strumenti, e questi de’ più gravi, cosicché i brillanti giovani e le vezzose giovanette rassomigliavano piuttosto ad un coro di Certosini che volteggiassero, che non ad una truppa di giulivi danzatori.

[26] Vennero in seguito i balli tratti da soggetti allegorici dove gli enti di ragione, e le figure imaginarie come il Riso, la Paura, l’Odio, la Verità, l’Allegrezza, la Moda, la Curiosità, la Vendetta, e simili altre ballavano alla foggia umana insieme cogli Uomini. Ma una imitazione così imperfetta che non aveva verun modello nella natura, una rappresentazione così misteriosa che faceva pensare agli spettatori tutt’altro che quello che s’offeriva ai loro sguardi, un linguaggio de’ gesti così oscuro che mai non si comprendeva il significato, una serie d’argomenti dove tanta parte n’aveva la fantasia, e tanto poca n’aveva il sentimento, un’arte insomma così sterile che non somministrava alla musica né sentimenti né immagini, non poteva lungamente resistere ai progressi della critica. Così dopo d’avere lusingata per qualche tempo la vanità di coloro che si contentavano di far pompa d’ingegno colà dove abbisognavano di far mostra di buon senso, sparì il gusto dei balli allegorici insieme con quello degli acrostici, degli anagrammi, delle paranomasie, degli equivoci, delle antitesi, e dell’altre argute putidezze ch’ebbero tanta voga nel secolo passato180. Quinaut e Lulli, quegli come poeta e questi come compositore, furono i primi a dar qualche idea d’una danza teatrale più ragionevole. Sotto la direzione del primo il canto s’intrecciò più felicemente col ballo in varie feste teatrali rappresentate alla corte, in qualcheduna delle quali, cioè pel Trionfo d’Amore ballò il medesimo re Luigi decimoquarto accompagnato dalla reale famiglia, e dal fiore della nobiltà francese. Sotto la direzione del secondo s’udirono per la prima volta l’arie dette di prestezza, perché in esse il movimento divenne più vivo e la cadenza più marcata, dalla qual novità commossi secondo il solito gli adoratori del rancidume si diedero tosto a gridare che la musica si corrompeva, e che il buon gusto andava in rovina. Per fortuna dell’arte Lulli non badò punto alle loro declamazioni, e seguitò l’intrapresa riforma contentandosi di segnar talvolta le figure e i passi a’ maestri di ballo, che pon ben sapevano tener dietro al suo violino. Dalle arie di prestezza passò a quelle di carattere, dando alle nazioni e ai personaggi rappresentati l’atteggiamento e le mosse che convenivano loro, e si vide Plutone per la prima volta conservar danzando la maestà propria d’un imperador degli abissi, e la fuggiasca Galatea, e il selvaggio Polifemo, e i nerboruti ciclopi, e i satiri, e le nereidi, e i tritoni uniformi insino allora e indistinti nell’arte di menar carole cominciarono anch’essi a variar le loro danze, come variavano altresì le arie negli strumenti. Il ballo divenne allora un ornamento essenziale del dramma, e vi fu impiegato ora come parte costitutiva, ora come intermezzo. Lambert, Campra e più altri compositori di sommo merito perfezionarono a tal segno la musica de’ balli che «al mio tempo (dice l’Abbate Du Bos, da cui tratte abbiamo in parte le predette notizie) i maestri assegnano fino a sedici diversi caratteri nella d’anca teatrale» 181.

[27] L’Italia frattanto non potendo uguagliare non che superare i Francesi, in cotal genere di gentilezza, contentavasi d’imitarli frammettendo balletti d’ogni maniera e graziosi intermezzi all’opere in musica tratti per lo più da argomenti buffi o mitologici. Di già erasi veduto fin dalla prima origine del melodramma Emilio del Cavalieri, il quale all’altre sue abilità congiugneva quella d’essere danzatore bravissimo, inventar balli assai leggiadri per la rappresentazione delle pastorali da lui modulate e celebre fra gli altri divenne uno chiamato il Granduca. In seguito la corte di Torino si distinse in questo genere con vaghissime invenzioni. Diamone anche un qualche saggio di esse rimettendo coloro che più oltre cercassero alla storia della danza del Cahusac e al bel trattato de’ balletti del gesuita Menestrier.

[28] Il gridellino fu il titolo d’un ballo eseguito a Torino in un carnovale, così denominato perché tal era il colore di cui compiacevasi negli abiti la duchessa. All’alzarsi la gran tela compariva l’Amore, il quale, levandosi dagli occhi la benda, chiamava la luce invitandola che venisse a diffondersi dappertutto, affinchè dando alle cose co’ suoi colori mille forme diverse, egli ne possa scegliere quella che più a grado le sia. Giunone ode gl’inviti d’Amore e cerca di secondarli. L’Iride vola per ordin suo mostrando l’arco fregiato di mille colori un più vivo dell’altro. L’Amore dopo averli tutti osservati, ne sceglie il gridellino come il più vivo e il più perfetto, volendo che in avvenire codesto colore divenga il simbolo dell’amor senza fine. Comanda inoltre ch’esso si vegga brillare ne’ fiori, che traluca nelle pietre più preziose, che gli uccelli più rari se ne adornin le piume, e che serva di fregio agli abiti de’ più felici mortali. Tutte le quali cose avvivate dalla danza e da gran numero di decorazioni sorprendenti rappresentarono uno de’ più ingegnosi divertimenti in quel genere. Nella medesima corte si fece mostra d’un altro ballo assai leggiadro nel 1634. celebrandosi la nascita del Cardinal di Savoia. Il titolo fu: la verità nemica dell’apparenza sollevata dal tempo. All’aprirsi la scena apparve un coro de’ falsi romori e de’ sospetti, i quali givano avanti all’Apparenza e alla Menzogna. La parte più interna del teatro si scopri. Sopra una gran nube portata dai venti si vide l’Apparenza vestita a colori cangianti, e con piccole striscie d’argento collo strascico a guisa di pavone, e coll’ale. Veniva adagiata su una spezie di nido, onde sortivano le menzogne perigliose, gl’inganni, le frodi, le menzogne piacevoli, le lusinghe, gli artifizi, le buffonerie, le lepidezze, e le novelle galanti. Questi personaggi fecero per ordine le loro sortite, dopo le quali comparve il tempo, che mandò via l’Apparenza. Indi facendo aprir la nube su cui era venuto, si vide in lontananza un gran orologio d’arena, onde uscirono la Verità e l’Ore, che fecero varie mutazioni e sortite, dalle quali si formò il gran ballo.

[29] Ma la danza non era per anco pervenuta nell’Europa moderna a quel grado di perfezione a cui, secondo i suoi partigiani, era giunta presso ai Romani, a quel grado di perfezione cioè che nasce dall’eseguire col solo aiuto de’ gesti e senza intervento alcuno delle parole una intiera tragedia o commedia condotta secondo le più esatte regole della drammatica. La gloria di condurla a tal segno era riserbata ad una nazione tenuta fin allora comunemente più abile nel promuovere l’erudizione e le scienze che nel coltivare l’arti di leggiadria e di gusto. I Tedeschi svegliandosi ad un tratto nella carriera delle belle lettere, e di tutte quante l’arti d’imaginazione, aveano fatto vedere all’Europa col mezzo di Klopstock, di Haller, di Gessner, di Zaccaria, di Gleim e d’altri poeti stimabili non meno che cogli Hendel, gli Stamitz, i Bach, i Nauman, i Gluck, gli Hayden, i Graun e tanti altri rispettabili professori di musica quanto fosse stato indecente e ridicolo il quesito proposto dal Bouhours, gesuita francese, «se un Tedesco poteva aver dello spirito». Essi fecero ancora di più. Mostrarono d’averlo in quelle cose che sembrano appartenere soltanto alla sveltezza ed agilità delle nazioni meridionali. Verso l’anno 1740, Hilverding offri agli occhi di tutta la corte per la prima volta sul teatro di Dresda (altri dicono su quello di Vienna) il Britannico del Racine eseguito nell’accennata maniera cui poi tennero dietro l’Idomeneo di Crebillon e l’Alzira di Voltaire. I Francesi disposti ognora a perfezionare l’invenzioni altrui, e adatti per educazione e per istudio alla scienza del ballo, si prevalsero tosto della scoperta rendendola in tal guisa propria di loro che parve affatto francese all’altre nazioni. Contribuì non poco a rinforzare la comun opinione il celebre Noverre pubblicando le sue lettere intorno alla danza, dove partendo dall’esempio degli antichi si cerca con molto ingegno e con eguale spirito di ristabilirla nelle forme e col metodo usato da Ila, Pilade, e Batillo. Giammai scrittore ha tanto nobilitato il ballo quanto Noverre. I misteri ch’egli vi ritrova sono così mirabili, l’eloquenza con cui assalisce la fantasia per finir poscia colle gambe e coi piedi è tale che per lui non istà se tutti i letterati non abbandonano le altre scienze per far i ballerini. Né si contentò egli di letterarie specolazioni, ma volle ancora mettere in pratica quanto colla voce e colla penna insegnava agli altri. Lodati furono e da tutti concordemente ammirati la morte d’Ercole, l’uccisione de’ propri figli fatta da Medea, ed altri balli da lui ritrovati e felicemente eseguiti sul teatro di Stougard sotto la protezione del Duca di Vitembergh Mecenate dichiarato delle arti drammatiche e musicali. La sua Semiramide inoltre cavata da Voltaire, posta in musica dall’immortale Gluck e rappresentata in Vienna fece quasi fremere dallo spavento e dalla sorpresa gli spettatori lasciando in dubbio gli astanti se il prodigioso effetto che risentivano provenisse dal terribile argomento, o dalla forza e semplicità dell’azione, oppure dalla espressione e verità dell’armonia.

[30] Trovata in tal guisa la pratica e stabilita la teoria non è maraviglia che si propagasse subito cotesto genere di pantomima eroica nei teatri esteri, e per conseguenza in quelli d’Italia. Pitraot, che s’era distinto a Parigi col famoso ballo di Telemaco allorché fugge dall’isola di Calipso, fu il primo a introdurre l’usanza di qua dai monti, dove prese gran voga e trovò maestri bravi e compositori eccellenti che perfezionaron la musica e rappresentarono i più rinomati componimenti182. Angiolini campeggia in oggi fra gli altri non meno per la bravura nell’inventare e nell’eseguire che per le sensate dottrine esposte da lui nelle lettere scritte su questa materia. Dietro agl’insegnamenti di questo maestro e d’alcuni valenti Francesi, s’è coltivata altresì la pantomima comica, e quella di mezzo carattere cosicché il ballo rappresentativo può dirsi in oggi salito (se crediamo agli encomi de’ suoi partigiani) ad un grado di maggioranza quale non ebbe mai per l’addietro sulla scena italiana fra le mani principalmente di le Picq, di Vestris, di Giuseppe Salomoni, di Viganò, di Clerico, e d’altri professori di minor grido.

[31] Dopo avere in succinto narrate le rivoluzioni del ballo pantomimico siami lecito in mezzo al plauso generale e le grida d’approvazione che dappertutto si sentono per così fatta scoperta, fare due richieste al rispettabile pubblico italiano. Questa mimica tanto da lui pregiata è ella veramente giunta al grado di perfezione che comunemente si crede? Nel caso che realmente potesse perfezionarsi converrebbe ai progressi del teatro il coltivarla con tanto impegno? Attendendo una convenevole e decisiva risposta, verrò svolgendo i motivi di dubbio che m’hanno suggerita l’idea delle due accennate interrogazioni.

[32] Un’arte qualunque ella sia, allora soltanto può dirsi aver toccata la perfezione quando i mezzi che adopera sono in perfetta corrispondenza col fine, quando la corrispondenza apparisce chiara e sensibile agli occhi dell’ottimo giudice, e quando gli effetti che ne risultano sono tali appunto quali l’arte stessa mi prometteva di produrli. Così conosciuto il fine che si propone una facoltà, disaminata la convergenza de’ mezzi che vi pone l’artefice, e ponderato l’effetto che in me cagiona il rapporto tra questi e quelli, io n’avrò una misura inalterabile e certa per giudicare dello stato d’essa facoltà. Il fine dell’arte oratoria è di persuadere, i mezzi che adoperava Cicerone erano i più atti alla persuasione, egli otteneva l’intenta di volgere ovunque gli tornava in acconcio le menti e lo spirito dei Romani; l’arte oratoria toccò dunque la perfezione a’ tempi di quel celebre oratore. Lo scopo della musica è quello d’eccitar le passioni per mezzo d’una combinazione aggradevole di suoni. Presso a niun altro popolo seppe ella rinvenire le vie di conseguirlo come presso ai Greci; la musica greca fu dunque e dovette essere fra tutte la più perfetta. Per la ragione de’ contrari se conosciuto il fine ultimo d’un’arte in se stessa nol riconoscerò più nelle operazioni degli artefici, se vedrò che le linee tirate da loro invece di tendere ad un centro comune gli sono anzi divergenti, se attenuta non ritroverò né dalla parte di quella facoltà né dalla parte di coloro che la coltivano veruna di quelle magnifiche promesse che m’erano state fatte da essi; allora io conchiuderò (e conchiuderò con ragione) che o l’arte è fallace e imperfetta di sua natura, o che gli artefici lontano dall’averla perfezionata l’hanno piuttosto avvilita e corrotta.

[33] Applichiamo questi principi semplici, chiari e verissimi all’odierna pantomima.

[34] Qual è il fine che si propone la mimica? Quello di rappresentare coi gesti un’azione in maniera che s’ecciti in chi la guarda l’interesse e l’illusione. Che mi promette l’inventore d’un ballo teatrale? Di farmi distintamente comprendere l’azione ch’egli mi metterà sotto gli occhi, di regolarla colle leggi che prescrive il buon senso, d’accrescere maggior energia allo spettacolo drammatico riunendo la danza all’altre due sorelle germane la musica e la poesia. Che mi promette l’esecutore del ballo? Di non iscostarsi dal disegno propostogli dall’inventore, di scordarsi d’essere ballerino per non essere che pantomimo, d’usare di que’ gesti soltanto, la significazione dei quali essendo fissata da una convenzione generale e non dal capriccio, può facilmente essere intesa dagli spettatori. Ecco le belle parole che mi danno l’arte e gli artefici. Le attengono in pratica? Esaminiamolo.

[35] Non negherò già che la mimica, considerata in quanto è un linguaggio muto d’azione, non abbia in se stessa, come l’osservai sul principio del presente capitolo, una grande energia per generare l’interesse e l’illusione. Ciò che per mezzo degli occhi si tramanda allo spirito comunica, generalmente parlando, a’ nervi del sensorio delle scosse più efficaci e più veementi che non sono quelle che per mezzo degli altri sensi vi si trasmettono; perocché gli altri sensi non rappresentando all’anima se non se alcune poche qualità de’ corpi, e queste delle più inerti non isvegliano se non se uno scarso numero d’imagini, laddove per gli occhi manifestandosi tutto quanto è l’oggetto alla potenza visiva, e riconoscendosi anche le proprietà intrinseche dell’animo per mezzo de’ movimenti che partono da tutte le membra, la fantasia di chi lo riguarda ne raccoglie un maggior numero d’immagini, e il di lui sensorio ne riceve maggior copia di vibrazioni, onde i nervi subalterni che sono scossi più fortemente mettono in maggior esercizio la sensibilità, dalla quale in ultima analisi nasce l’interesse che ci attacca alle cose rappresentate. Da ciò ne conseguita che la mimica ha tutti i vantaggi della pittura e della scultura nella varietà, nella scelta, e nella forza delle attitudini avendo di più l’impareggiabile prerogativa di poter mettere ne’ suoi quadri una successione, un muovimento che mettervi non ponno i pittori o gli scultori condannati a non esprimere fuorché un solo atteggiamento nelle figure, né tampoco negherò che veduto non si sia un qualche ballo pantomimo in Italia, il quale ben composto, ben eseguito, accompagnato da una musica espressiva, e afferrando nella sua imitazione i tratti più caratteristici e più terribili d’un argomento, abbia prodotto sugli spettatori un effetto eguale e forse maggiore di quello ch’è solita a produrre la tragedia recitata. Ma quello che dirò sempre e costantemente affermerò si è che tali effetti della mimica, come si coltiva fra noi, sono accidentali, ch’ella ha dei vizi intrinseci che non potranno estirparsi giammai, e che se riesce bene una qualche volta per mille altre volte è uno spettacolo assurdo. La cagione si è perché la materia primitiva de’ gesti su cui s’esercita l’imitazion pantomima, essendo di già molto scarsa nella natura, è divenuta scarsissima nella società, cosicché si rende assai diffìcile, per non dire impossibile, il tessere un’azione di qualche durata che condotta sia colla necessaria chiarezza, e che interessi per la novità. Che l’idioma de’ gesti deva essere scarso nella natura apparisce da ciò che accompagnandosi ogni concetto mentale dell’uomo espresso al di fuori con due segni il gesto cioè, e la voce; ciascuno d’essi segni dee perder molto della sua influenzi a misura che prevale e si perfeziona quell’altro; dimodochè ove l’arte della parola è molto in uso, ed ovunque sia stata ad un cetto grado di raffinamento condotta, ivi l’espressione del gesto è più rara e meno efficace, come all’opposto dove il costume o le circostanze o la necessità diminuiscono il vicendevol commercio della voce, il linguaggio de’ gesti diviene più comune e più energico, siccome accade ne’ fanciulli, ne’ muti presso alle nazioni selvaggie, e in quegli stati altresì della politica società dove l’educazione o il rispetto, la convenienza o il timore impongono freno all’ardente e talvolta troppo pericoloso desiderio di spiegar con parole i propri sentimenti. Ora i progressi della società e il successivo sviluppo della cultura ci hanno messi appunto nel primo caso. Obbligandoci ad un numero senza fine di riguardi ci hanno costretti a stare in perpetua veglia sopra di noi. Prescrivendoci una compostezza che annunzia la disuguaglianza delle fortune e dei ranghi ci hanno ispirato un contegno che imprigiona la naturale scioltezza. Avvezzandoci ad una dissimulazione cui la malizia degli uomini rende necessaria, ci hanno parimenti insegnato a frenare i gesti perché non ci tradiscano a dare ad essi un significato contrario a quello che vorrebbe la natura, a reprimere i primi movimenti delle passioni, i quali appunto per essere i più genuini e i meno artefatti sarebbero i più acconci ad essere imitati dal mimo. La facilità inoltre di spiegare le nostre idee in un linguaggio ripolito abbondante e pieghevole ha renduta se non del tutto inutile almeno men necessaria la copia e la veemenza dei gesti. Conseguentemente a quanto si è detto la mimica eroica dev’essere più scarsa di modelli che non la pantomima comica, perocché nella prima l’influenza di quella qualità, che si chiama “politezza”, non può far a meno di non rendere i personaggi sublimi che vi si rappresentano, misurati, contegnosi, e lontani da quello sfogo spontaneo onde traggono i gesti la loro espressione; dovechè nella seconda la più rozza, o se vogliamo pur dirlo, la men travisata educazione, rendendo le persone imitate più spensierate e più schiette, fa sì che s’abbandonino al loro istinto con minore ritegno secondando più liberamente gl’impulsi della loro sensibilità.

[36] A siffatta scarsezza nella materia primitiva della danza s’aggiunge l’altra che risulta dalla costituzione intrinseca di qualunque lavoro rappresentativo. È impossibile ordire un’azione che abbia il suo cominciamento, il suo mezzo e il suo fine senza intrecciarla di mille circostanze che suppongono un significato convenzionale, una relazione, un rapporto, né può trovarsi alcun argomento dove non si faccia allusione frequentemente a cose passate o future, ad oggetti lontani o segreti, a riflessioni puramente mentali che non cadono sotto i sensi, per non dir nulla delle infinite idee accessorie e subalterne che hanno bisogno d’un vocabolo ad esser comprese, e senza le quali il voler continuare pel lungo corso di tante scene diverse una rappresentazione sarebbe lo stesso che l’accingersi a compiere un quadro senza prepararne opportunamente e degradarne i colori. Ma tali preparazioni, degradazioni e circostanze sono affatto perdute per la mimica, la quale circoscrivendosi come la pittura e la statuaria nella sua imitazione alle cose presenti, e incapace di significare le preterite o le future, l’idee di pura convenzione, l’interrogazioni, l’ironie, la speranza, l’agnizioni od altre cose somiglianti, è acconcia bensì a mostrare una rapida successione di quadri che siano in movimento e in azione, ma non può se non che troppo difficilmente farci vedere la connessione fra essi. Come ci farà ella, per esempio, conoscere ciò che dipende dalla memoria, come sarebbe a dire che Bruto nella Morte di Cesare è figliuolo di Giulio, che l’ebbe egli da Servilia sorella di Catone, che l’ha colmato insin allora di benefizi, e che ha fatto di già il suo testamento dove gli lascia un immenso retaggio? Come mettere avanti gli occhi l’idee riflesse di Bruto, i suoi rimorsi, le alternative tra l’amore della patria e quello del padre? Come far sapere a questo giovine per mezzo d’un gesto o d’una capriola, che Cesare è suo genitore? Come esporre alla vista ciò che accadde dietro alle scene cioè il biglietto trovato da Bruto sotto la statua di Pompeo, l’intrapresa di Marcantonio di voler incoronar Cesare re dei Romani, il simulato rifiuto del lottatore, le trame ordite dai congiurati? Come far sentire la gradazione diversa nei caratteri de’ personaggi, per esempio in Cesare la nobiltà dell’animo mista d’ambizione e di tenerezza, in Marcantonio il cortigiano che serve senza perder di vista il proprio interesse, in Cassio il republicano inesorabile, in Bruto lo stoico feroce che porta fin nell’esercizio della virtù, i pregiudizi della sua filosofia? Nessuna di queste cose, né molt’altre ancora può rappresentare la pantomima, eppure ognun vede quanto essenziali siano esse all’orditura di quella tragedia, cosicché chiunque levarle di mezzo volesse, verrebbe a tessere un insipido canevaccio anziché un ordinato drammatico componimento. Talmente avverrà in qualsivoglia azione continuata che si prenda ad imitare dalla mimica, la quale non potendo per mancanza intrinseca di mezzi proporzionati esporre agli occhi la legatura degli oggetti fra loro, né il risalto che acquistano dalla riflessione, altro non farà che mutilare sconciamente i teatrali componimenti, e rendere la propria imitazione confusa inintelligibile oscura, e per conseguenza non atta ad eccitare quell’interesse che mai non si genera senza la chiara percezion dell’oggetto. Come farebbe uno scultore che si credesse d’aver maravigliosamente espresso Racine per aver messo in una serie di gruppi alcune figure ch’egli volesse far passare per Tito, Berenice, ed Antioco, ma che altri collo stesso diritto prender potrebbe per Ezio, Fulvia, e Valentiniano.

[37] Adoperando l’inventore dei balli uno strumento così difettoso come lo è una tragedia od una commedia fatta coi soli gesti non è da maravigliarsi che non possa mantener le promesse fatte allo spettatore. È bensì da stupire ch’ei non conosca la difficoltà d’eseguire ciò che promette, oppur conoscendolo, abbia il coraggio d’accingersi a così malagevole impresa. Peggio per noi se cotesto sconsigliato ardimento ci costringe a non vedere se non mostri ed enimmi sul teatro pantomimico. Per tali devono stimarsi la maggior parte degli odierni balli che ad eterna infamia di Tersicore, a perpetuo scorno del coturno e del socco sulle degradate scene italiane superbamente passeggiano. Balli, che niuna connessione avendo col dramma né pel genere, né pell’argomento, interrompono quell’unità ch’è la regola fondamentale d’ogni spettacolo, ne distruggon l’effetto generato in prima dal canto, mi trasportano violentemente dal buffo al serio e dal patetico al buffo, e quasi a colpi di verga incantata mi fanno all’improvviso passare dalle sponde del Tevere dove condotto m’aveva il poeta tra Romolo ed Ersilia o tra Clelia ed Orazio, al castello di Langres tra Eponnina e Sabino coi loro figliuoli, compagnia non per tanto di cui non potrei dolermi riflettendo a quella che toccò in sorte ad altri, che dall’isola di Lemno tra Isipile, Giasone e gli Argonauti si videro trasferiti dal pantomimo ai campi di Montiel in Ispagna tra Don Quisciotte e Sancio Panza, tra Rozzinante il più leale fra i cavalli e Ruzio il più mansueto fra i giumenti183. Balli dove niuna convenienza si serba al paese, al grado, al luogo e alla età dei personaggi, dove s’atteggiano nella stessa foggia il freddo svedese e l’Asiatico voluttuoso, il severo Bruto e il leggiadro Alcibiade, l’attempata e dignitosa regina e la fanciulla vivace, dove non si mette veruna differenza tra chi danza nel proprio gabinetto e che si diverte in sollazzevole compagnia, tra chi si trova oppresso da un amaro cordoglio e chi s’abbandona ad una spensierata allegrezza. Balli dove si fanno gambettare gli esseri meno a proposito traendo dal loro ritiro i solitari e penitenti bramini, e persin dall’inferno i non troppo galanti né troppo gesticolatori demoni, dove non solo si da senso e vita agli spettri (lo che pur si concede ai pittori ed ai poeti) ma si fanno vedere dibattendosi in iscena colle donne come nella Semiramide dell’Angiolini; lo che sebbene formi un quadro spaventoso e terribile, fa tuttavia esposto sotto gli occhi troppo gran violenza all’imaginazione184. Balli per lo più di soggetto così recondito che pochissimi spettatori ne sanno la storia, d’orditura così complicata che non vi si può tener dietro da chicchesia, d’azioni così cariche d’episodi, che il principale si confonde e si travvisa nell’accessorio, di significazione così arbitraria che ad ogni sortita vi si vorrebbe il suo dizionario, ogni scena rassembra un indovinello, né cotal difetto d’oscurità si scontra soltanto nei balli dozzinali, ne sono ripieni anche i più celebrati. Io sfido il leggitore più acuto e lo spettatore più sagace a sapermi dire dopo averlo letto o veduto cosa significhi il seguente ballo di cui ne soggiungo in appresso la descrizione, il quale passando dai teatri di Francia in quelli d’Italia viene dai facoltativi considerato come il modello dei balletti chiamati di mezzo carattere.

[38] La scena s’apre rappresentando una pianura deliziosa posta in sulla riva del mare. Una truppa di danzatrici s’avvanza abbigliata in guisa che non sapete se greche siano od orientali, giacché le vesti teatrali eroiche pressoché tutte si rassomigliano. Viene quindi a non molto a scontrarsi con esse un’altra bella fanciulla vestita parimenti all’eroica, la quale parlando all’orecchio ad una delle anzidette, la scosta dal coro, e si danno scambievolmente ballando segni di tenerezza, senza che gli spettatori possano comprendere il perché. Ecco apparir in lontananza un vascello che veleggia verso la riva. I marinari sbarcano, adocchiano l’incaute danzatrici, e divisano fra loro di rapirle. Quella ch’era arrivata l’ultima fa degli sforzi per sottrar se stessa e la sua compagna dalla invasione. Un’altra truppa di marinari che sopraggiunge improvvisamente si scaglia contro la prima per rubbar quelle prigioniere, che con mille salti e scambietti esprimono la sorpresa e il terrore. Ma i rapitori stanchi della reciproca pugna vengono ad un accomodamento, i cui patti sono di dividersi fra loro l’amabil preda. Benché le greche si mostrino paurose non mancano di significare la loro paura cogli stessi salti, e coi passi medesimi con cui esprimerebbero la tranquillità e la sicurezza. Frattanto il fischio de’ venti, i cupi tuoni, i lampi interrotti, e il cielo che tratto a tratto nereggia annunziano la vicina procella. Una pioggia dirotta cade sul teatro accompagnata da fulmini. Durante la tempesta, le due truppe si ricoverano in una grotta che giace sulla riva del mare. Ivi le fanciulle non più impaurite si lasciano ammansare dai rapitori, mangiano, beono, e si trastullano con loro, escono mezzo ubbriache dalla grotta, intrecciano scompostamente una breve danza finché oppresse dal sonno e della stanchezza cadono sdraiate sul terreno insieme coi marinari che non le perdono d’occhio giammai. Né prima s’erano addormentate che si vede muovere verso la scena un fanciullo appariscente e bello come l’amore, ma in assai cattivo arnese, e pressoché intirizzito dal freddo. Le sue vestimenta sono ancor bagnate dalla pioggia. Egli si dibatte volteggiando per riscaldarsi, e dopo aver eseguito alcune fanciullesche riprese s’adagia con non soverchia decenza sul seno della danzatrice ch’era venuta in ultimo. Le greche si svegliano, si mettono attorno al fanciullo, il vezzeggiano, e consigliate da lui divisano d’uccidere i rapitori, e fuggirsene. Ma destatisi questi inseguiscono il pargoletto, che s’invola frettoloso ai loro sguardi. Tornate in iscena le danzatrici lo cercano dappertutto, finché trovatolo che s’era nascosto dietro ad uno scoglio, il riportano in mezzo alla scena, e danzano in segno di ringraziamento. In mezzo a siffatta allegrezza il fanciullo fa un cenno, lo scoglio si trasforma in un carro trionfale, sul quale egli ascende. Nell’atto di partire avventa un piccolo dardo contro alla giovine greca che resta facendo delle contorsioni apparentemente pel dolore della ferita. Le compagne la sollevano portandola dietro alle scene. Qui la decorazione si cambia. La grotta, il mare, il boschetto e la pianura spariscono per dar luogo alla piazza d’una città dove una folla di raccolto popolo sembra congratularsi a forza di salti colle danzatrici del loro fortunato ritorno.

[39] Ho cercato di mettere sotto gli occhi l’argomento dell’anzidetto ballo con una chiarezza che certamente da niuno fra gli spettatori si ravvisava sul teatro di Bologna dov’io lo vidi per la prima volta. Io stesso non lo compresi allora, né avrei giammai potuto comprenderlo se procurata non m’avessi in particolar modo la spiegazione. Eppure ancora dopo la mia esposizione chi è quel lettore che abbia capito rappresentarsi in questo ballo le Feste d’Imeneo? La giovane danzatrice essere Imeneo stesso travestito in ninfa per poter più liberamente vagheggiare la sua vezzosa Temira? Le compagne altrettante donzelle dell’isola di Gnido? Il fanciullo esser l’amore fratello d’Imeneo, che viene a secondar le sue brame? La freccia scagliata contro Temira significare la corrispondenza di questa ninfa verso Imeneo? Davvero, farebbe d’uopo diventar una Tiresia senz’occhi od una chiaroveggente sacerdotessa di Delfo per capir tutto ciò dalla sola rappresentazione. Sfido poi quel Tiresia e quella sacerdotessa a capire cosa abbiano a fare colle feste d’Imeneo la grotta, il mare, il vascello, i marinari, la tempesta con tutti gli altri episodi posticci ed inutili.

[40] A tale pressoché irremediabile oscurità comune alla maggior parte dei balli credono d’ovviare gl’inventori del ballo, presentando il programma che spiega l’argomento. Ma la necessità d’un sì meschino ripiego che spesso è insufficiente a capir l’orditura, e che sempre ne distrae l’attenzione dello spettatore dividendola fra lo spettacolo e il libro, non pruova ella più d’ogni altra cosa che i balli sono altrettanti enimmi, i quali hanno bisogno di commento e d’interprete? «Ciò è lo stesso, diceva un uomo di spirito, che se un pittore dopo aver fornito un quadro mi presentasse nell’atto di mostrarmelo un paio d’occhiali per poterlo vedere».

[41] Se grandi sono i difetti che si veggono nella composizione, non sono minori quelli che nella esecuzione s’osservano. Privi per mancanza d’educazione e di studio d’ogni idea filosofica dell’arte propria, i ballerini non sanno distinguere ciò che vuole una danza artifiziosa da ciò che vorrebbe una facoltà imitativa, ma mischiano l’una coll’altra, e la confondono in guisa che tu sei costretto a non vedere che il danzatore colà dove non cercavi che il pantomimo. Ciò si scorge ora nell’adoperar che fanno sì spesso e senza verun discernimento il ballo chiamato “alto” dai facoltativi, il quale per ogni buona ragione dovrebbe dal teatro pantomimico onninamente sbandirsi siccome quello che nulla immitando, ed ogni muovimento del corpo ad una insignificante agilità riducendo, è inutile a produrre qualunque buon effetto drammatico; ora negli atteggiamenti uniformi e consimili con cui si presentano in iscena, cosicché in ogni circostanza, in ogni situazione, in ogni carattere ti si fanno avanti colla testa sempre alzata ad un modo, colle braccia incurvate a foggia di chi vorrebbe volare, coi talloni in aria sospesi, o premendo il terreno leggierissimamente come se Ninia, Ulisse, Idomeneo, Telemaco venissero allora da una sala da ballo dove pigliata avessero insieme lezione da uno stesso maestro; ora in quella smania di far ad ogni menoma occasione brillare le gambe quasiché in esse riposte fossero l’imitazione della natura e l’espressione degli affetti, e non piuttosto nei muovimenti delle altre membra, negli occhi e nella fisionomia lasciati per lo più da essi pressocchè inoperosi e negletti. Non così la intende il loro capiscuola Noverre, il quale nella decima delle sue lettere assai chiaramente e distintamente intuona loro all’orecchio: «Se vogliamo approssimare l’arte nostra alla verità, farebbe d’uopo curarsi meno delle gambe e dar più attenzione alle braccia; lasciar le cavriuole per l’interesse dei gesti; abbandonar i passi difficili, e far più conto della fisionomia; non mettere tanta forza nell’esecuzione, ma apportarvi più senso; discostarsi senz’affettazione dalle strette regole della scuola per seguitare gl’impulsi della natura; dare infine al ballo l’anima e il muovimento che deve avere per generare l’interesse.» Quindi è che gli eroi della favola o della storia imitati dai ballerini fanno presso a poco la stessa figura che i personaggi d’una tragedia rappresentata dai burattini, non comparendo meno sconcio né meno ridicolo agli occhi di chi stima dirittamente un Vespasiano, per esempio, che vestito all’eroica e in maestoso paludamento decide della vita di Sabino con una cavriola od un mulinetto che un Augusto, il quale perdona a Cinna col gesto e la voce di Pulcinella: né contrario è meno all’idea della vera imitazione drammatica l’introdurre, per esempio, Achille librandosi con artifiziosa proporzion d’equilibrio in un “a solo” sulla punta d’un piede, poi girando lentamente coll’altro, e dandosi leggieri gentilissimi calci all’intorno nell’atto che si tratta di liberar Ifigenia dal sagrifizio di quello che lo sia il far vedere Pilade ed Oreste, che con un palmo e mezzo di statura vanno qua e là saltellando pella scena guidati da segreti invisibili ordigni.

[42] Questi raffinamenti dell’arte mal applicati che travisano e sformano qualunque idea d’imitazione, hanno avuta nel ballo la stessa origine che nella musica. Perciò quanto s’è detto dell’una è perfettamente applicabile all’altro. E siccome abbiam veduto che i vizi introdottisi nella scienza armonica non altronde hanno avuto principio se non se dall’aver voluto i musici primeggiare colla sveltezza della loro voce o de’ loro strumenti senza curarsi punto della subordinazione comune, così il volerne ora i ballerini far pompa dell’agilità della loro persona e della destrezza delle loro gambe (nel che non può negarsi che molti e bravi professori non annoveri in oggi l’Italia) senza badare alla vera espressione degli affetti, quello è che ha rovinato la pantomima. Al che s’aggiunge come un altra causa il cercar di spiegare ad ogni modo col mezzo de’ gesti cose, che per le ragioni addotte di sopra non sono in verun modo spiegabili; onde avviene che i ballerini si veggano costretti parte per impossibilità, e parte per ignoranza a dar ai loro atteggiamenti un significato così strano, così capriccioso, così involuto che rimpetto ad esso diverrebono chiarissimi i cinesi gieroglifìci e la scienza simbolica degli egiziani. Potrei ad evidenza dimostrare quest’asserzione prendendo a disaminare le prima pagine, a così dire, del dizionario ballerinesco185; ma basti il fin qui detto per far comprendere al lettore che l’arte pantomimica o si riguardi la facoltà in se stessa, o si ponga mente all’invenzione e all’esecuzione, lunghi dall’essere stata condotta a quel segno di perfezione, cui giunta pur la vorrebbono a’ nostri tempi i suoi fautori, appena può dirsi che sia nella sua fanciullezza, della quale havvi ogni apparenza di credere che non sia per sortire così presto.

[43] Ma facciasi pure la supposizione che arrivi un giorno a perfezionarsi, converrebbe forse ai progressi del gusto lasciar che la mimica regni sulle scene dispoticamente, come fa ora, in compagnia del dramma? Permettasi ai miei giusti timori la dura sentenza che m’ispirano essi. Se vogliamo conservare gli altri piaceri più delicati e più gentili farebbe d’uopo assolutamente bandirnela. Il primo e più immediato effetto della pantomima sarà sempre quello di disgustarci d’ogni altro spettacolo drammatico agguisa dei liquori forti che incalliscono, a così dire, il palato, e insensibile il rendono al gusto più indebolito degli altri vini. Ella ha in se tutti i mezzi onde rendersi gradita dal volgo, e richiamare la moltitudine. Piace ai sensi, e ne parla d’una maniera efficace. Se la intende cogli occhi più facili ad essere ingannati che non lo sono le facoltà dell’anima. Mette in particolar movimento l’imaginazione. Coltiva una qualità comunissima all’umano spirito ch’è l’inerzia mentale, ovvero sia la cessazione di riflettere invitando lo spettatore a vedere senza obbligarlo a pensare. Dispensa da quell’attenzione laboriosa che richiede una tragedia recitata, od una commedia. Colpisce l’anima con una folla di sensazioni complesse, che tengono in perpetua azione la sensibilità. Unisce all’energia del gesto l’impressione vaga e indeterminata ma viva e voluttuosa de’ suoni. Offrendo alla vista le varie mosse, e le seducenti attitudini che possono prender le membra del corpo umano regolate dall’arte, risveglia altresì l’idee della bellezzan fisica, e con esse l’immagine dei diletti che ne vanno congiunte. Gli occhi veggono, la fantasia idoleggia, il pensiero si spazia per entro alle delizie create da lui

«Poscia al desio le narra, e le descrive,
E ne fa le sue fiamme in lui più vive».

[44] Questo complesso di cause che producono quasi sempre il loro effetto, siccome rende ragione del trasporto che mostra il pubblico per la pantomima, così ne porge fondati motivi di credere che ovunque sarà coltivata quest’arte torrà infallibilmente la mano alla tragedia, alla commedia, al canto, e ad ogni altro spettacolo che abbisogni di più dilicatezza a comporsi, e di maggiore finezza a comprendersi. Bisognerebbe conoscere assai poco il sistema dei teatri italiani per lusingarsi che possa altrimenti accadere. Il volgo (e in questo nome comprendo non la sola plebe, ma tutti coloro che nella mancanza di coltura e di gusto s’avvicinano ad essa) il volgo, dico, è quello che regola gli spettacoli, e della sorte loro imperiosamente decide. Serve per tutt’altrove, ma nel teatro la moltitudine è la sovrana. Come dunque si può con qualche ragionevolezza aspettare da lei che diventi sobria di propria scelta e regolata nell’uso de’ suoi piaceri? Che voglia preferire i divertimenti men vivi e più difficili ad un altro più piccante e più facile? Che si procacci con una riflessione faticosa quel godimento ch’è sicura di conseguire in maggior dose in mezzo alla disattenzione e alla spensieratezza? Ah, che tale non è il pendio dell’umana natura, né tale l’esperienza costante di tutti i secoli! Si faccia riflessione ai progressi sorprendenti della mimica presso ai Romani, e si vedrà non solo il guasto che diede ai costumi, ma il danno che indi si derivò alla drammatica più giudiziosa, cosicché a misura che venne crescendo il regno de’ pantomimi disparve affatto dalle scene latine quello dei buoni poeti. S’attenda al piede che va ora pigliando in Italia, e se v’ha qualcheduno che assistito si creda da profetico spirito, mi dica di grazia cosa debba aspettarsi o temersi dalla sua pericolosa influenza.

[45] Nulladimeno la sua totale proscrizione potrebbe sembrar troppo rigorosa a più d’uno de’ miei lettori. Ned io contrasterò che atteso lo stato attuale degli spettacoli in Italia, dove la mancanza di ragionevolezza nel tutto rende pressocchè necessario un qualunque compenso, e attesa l’indole degli spettatori, cioè di que’ sibariti in materia di gusto, che vogliono il godimento senza la fatica di ricercarlo e che amano la diversità nei piaceri perché si confà colla loro intolleranza, l’esiliare affatto la pantomima dal melodramma sarebbe lo stesso che togliere un diletto di più senza rimediare alle altre sconvenenze che vi s’osservano. Però se si vuol lasciare si lasci, ma in guisa tale che punto non nuoca all’effetto del dramma spezzandolo e dividendolo negl’interatti, donde pei sovraccennati riflessi la vorrei esclusa irremissibilmente. So che mi s’opporrà in contrario l’usanza, ma io ho avvezzato tanto i miei lettori a non regolare i loro giudizi sull’esempio di essa, che un’autorità di più non avrebbe oramai a generare in loro un effetto diverso da quello che una scomunica del muftì produrebbe su un controversista romano. Dovrebbe soltanto la pantomima aver luogo terminato che fosse il dramma, e se questo sarà troppo lugubre e tragico, il ballo che vi s’introduce potrebbe convenevolmente essere d’un genere diverso; dal che ne risulterebbero non pochi vantaggi. Il primo di temperare la troppo forte impressione di mestizia che lasciata avesser nell’animo dello spettatore i tuoni imitativi della musica. Il secondo di non iscemar nell’atto della rappresentazione l’interesse prodotto dalla continuità dell’azione. Il terzo di schivar il difetto della trasposizione di scena nel tempo che si suppone esistere ancora quella del dramma, difetto che rinuova in certo modo sul teatro il miracolo della “bilocazione”. Il quarto vantaggio si è di poter rappresentare colla pantomima qualunque argomento senza discapitare nel buon senso; perocché allora si suppone che sia essa non un intermezzo ma uno spettacolo nuovo, il quale non è obbligato ad averne verun riguardo, veruna relazione col primo.

[46] Ma come riempiere allora (m’obbietterà taluno) lo spazio di tempo che resta tra un atto e l’altro del dramma? Nel modo stesso che suol riempirsi nella tragedia anzi più acconciamente. Il dramma musicale è una spezie di libro scritto nel linguaggio de’ suoni, e però fa d’uopo conservare dappertutto lo stesso idioma. La musica strumentale dee non per tanto seguitar a parlare nel silenzio degl’interatti mantenendo nel cuore degli spettatori le disposizioni che vi lasciò l’ultima scena, preparandoli a gustare i sentimenti che verranno dopo, e mettendo in tal modo una connessione, un vincolo fra tutte le parti dello spettacolo. Costume che riesce quivi assai meglio adattato e più naturale che nella tragedia o nella commedia recitata, perocché nel dramma si mantiene così facendo l’ipotesi ammessa fin dal principio, ma negli altri componimenti, essendovi soltanto ammessa la convenzione di parlare e non quella di suonare, il sentir poi gli strumenti che fanno in certo modo da interlocutori, non va disgiunto dal sospetto di piccola eresia in materia di gusto. Così quando dopo le vive agitazioni di Seid e di Palmira, che tanto m’aveano intenerito alla fine dell’atto quarto del Maometto, sento all’improviso la prima arcata dei violini, parmi che questi vogliano rasciugar le mie lagrime dicendomi: «Non istate a creder niente; non è altro che una traduzione dell’Abbate Cesarotti