(1798) Addizioni alla Storia critica de’ teatri antichi et moderni « PARTE II — LIBRO X ed ultimo » pp. 161-344
/ 1560
(1798) Addizioni alla Storia critica de’ teatri antichi et moderni « PARTE II — LIBRO X ed ultimo » pp. 161-344

LIBRO X ed ultimo

ADDIZIONE I*
Traduzioni di alcune tragedie Francesi.

L’Edizione Pepoliana della Biblioteca teatrale francese in ventisette tomi compiuta ha presentato all’Italia varie buone traduzioni di tragedie francesi. Il dottor Mattia Butturini ha tradotta la Sofonisba del Mairet: l’ab. Giuseppe Compagnoni la Marianne del Tristan: l’ab. Agostino Paradisi il Poliutto di P. Cornelio: il marchese Albergati Capacelli felicemente la Fedra del Racine: i prelodati Paradisi e Albergati l’Idomeneo del Crebillon: il sig. Pagani-Cesa Atreo e Tieste del medesimo: il poeta italiano del secolo cadente Carlo Innocenzio Frugoni ottimamente, ancor quando si allontana dal concetto dell’originale, il Radamisto del medesimo: l’ab. Placido Bordoni bellamente l’Ifigenia in Aulide del Racine e l’Orazio di P. Cornelio: il p. d. Bonifacio Collina l’Atalia del Racine: il sig. Pietro Buratti l’Ester del medesimo: l’ab. Gregorio Redi l’Andromaca del medesimo: il sig. Giuseppe Greatti il Cid di P. Cornelio: il co: Federigo Casali il di lui Cinna: il sign. Angelo Anelli il Nicomede dello stesso: l’ab. Angelo Dalmistro la di lui Rodoguna: l’avvocato Luigi Bramieri il suo Pompeo: il nobil uomo Francesco Gritti con garbo il Gustavo Wasa del Piron: il sig. Vincenzo Comarchi la Polissena del La Fosse: il nobil uomo Francesco Baldi eccellentemente l’Ifigenia in Tauride di Guymond de la Touche: il co: Alessandro Pepoli la Zaira del Voltaire: il co. ab. Matteo Franzola l’Alzira dello stesso: l’ab. Melchiorre Cesarotti la Semiramide, la Morte di Cesare, il Fanatismo del medesimo tragico.

ADDIZIONE II*
Nuovo teatro tragico del co: Pepoli: tragedie inedite dell’ab. Bordoni: altre di regnicoli e di altri.

Dopo le surriferite tragedie l’autore ha voluto presentare all’Italia un nuovo suo teatro tragico meglio congegnato, che esige nuove e più vantaggiose osservazioni. Nel darne conto non abbiamo stimato di supprimere ciò che già si è di sopra riferito sulle prime sue tragiche fatighe, perchè secondo me ciò darebbe indizio o di una inutile e non dovuta ritrattazione de’ giudizj profferiti o di un totale disprezzo delle precedenti tragedie del conte, nelle quali scorgonsi certamente varj lampi d’ingegno. Ora dunque esporremo ciò che egli non ben contento de’ primi saggi e conscio delle nuove forze acquistate col crescer degli anni, avendo sentito, come ingenuamente egli stesso si esprime, la necessità di meglio scrivere, va pubblicando in caratteri bodoniani.

Prese in prima per mano l’Adelinda, e adattandola al nuovo suo sistema ebbe il piacere che si rappresentasse con molto applauso nell’agosto del 1789 in Torino. La diede indi alla luce per la stamperia parmense nel 1791 preceduta da una lettera del fu Ranieri di Calsabigi. Lo stile sobrio e naturale, sublime ove l’azione l’esiga, appassionato nel conflitto degli affetti, semplice quando la disposizione della favola richieda apparecchio e non elevatezza, fa risaltare il contrasto de’ caratteri, e corrisponde a i passi dell’azione che con calore si accelera verso lo scioglimento, in cui scoppia l’evento funesto della morte di Romeo e di Adelinda. Essendo il perno intorno a cui volgesi questa tragedia il combattimento in Romeo degli affetti di padre e di sposo, non a torto vorrebbesi nella prima scena del II atto che si vedesser meglio le interne battaglie de’ suoi teneri affetti coll’amore della libertà e della patria. L’autore fa che Romeo sia in un dubbio politico, non parendogli Gualtieri tiranno perchè era stato legittimamente eletto. Ma questo dubbio dovea tra’ congiurati verisimilmente esaminarsi di lunga mano, e fissarsi la sicura tirannia di lui per base della congiura. Le incertezze di Romeo dovrebbero prender l’origine nelle sue private passioni che urtano co’ doveri di cittadino. Non per tanto l’autore non ha negletto questo punto importante; Romeo spinto dalle patriotiche espressioni di Uberto, dice:

        Perchè, gran Dio,
Quale Uberto non son? Perchè rendesti
Un cittadin genero, amante, e sposo?

Uber.

Per renderti di me più grande ancora.

Rom.

Adelinda, Adelinda!

E poichè Uberto l’obbliga a leggere il foglio di Gismonda, il rapido dialogo ben esprime l’interna agitazione di Romeo:

Uber.

Giura.

Rom.

Intesi, oh cimento! oh sposa! oh figlio!

Uber.

Dunque?

Rom.

Ma . . .

Uber.

Non risolvi?

Rom.

Oh angoscia! Giuro.

E’ questa la materia propria di tal situazione. Nullo però a me sembra il dubbio promosso dal Calsabigi sulla generosità dell’appassionata Adelinda nell’implorar il perdono in prò della sua rivale. Imperocchè l’energia del suo carattere che non mai si smentisce, le sue furie gelose sommamente attive, che cagionano il mortal pericolo del marito, la fortezza con cui si uccide, giustificano abbastanza l’elevatezza della sua anima per giugnere a procurar quel perdono. Il mostrarsi sempre più degna di amore all’oggetto amato con atti di rara virtù, suole allettar gli animi nobili e sensibili, ed ispirare eroismo. Anche la scena ottava nell’atto IV parve al Calsabigi stesso manchevole al confronto di Giaffiero e Pietro nella tragedia di Otwai, Venezia salvata. Veramente la ben lunga scena della tragedia inglese in mezzo ad alcune nojosità presenta varie bellezze che avrebbero potuto entrare nella scena di Uberto e Romeo. Ma a mirar dritto la brevità e la rapidezza di questa meglio conviene alle circostanze di esser l’atto in sul finire, di trovarsi Uberto così malconcio da’ tormenti, e del moto della favola che corre al fine; ora una scena diffusa calcata su quella dell’inglese, come la voleva il Calsabigi, potrebbe snervare in quel punto l’azione. Ecco come l’autore se ne disbriga, e come Uberto mostra la sua indignazione avendo udito che Romeo ha palesati i congiurati:

Uber.

    Lasciami. Degno
No, più non sei di questa mano. Io seppi
I tormenti affrontar: debole donna
Gismonda, l’amor mio, la mia delizia
Giunge a imitar la mia fortezza: in quelli
Soffrì: tacemmo. Inferocì schernitæ
La tirannica rabbia. Ambi ci trasse
Quasi all’ultimo scempio. In quale aspetto
Io sia, tu scorgi; in pié mi reggo appena.
Comprendere dal mio quel di Gismonda
Peggiore assai, facil sarà. Ti vince
Una donna in fermezza, anima vile.
Ella tra’ ferri, le tenaglie, il foco,
Tu sol fra imbelli assalti, e ancora illeso.

Rom.

Ma d’ogni strazio più crudel non credi
D’una moglie, d’un figlio? . . .

Uber.

Il più crudele
Per me fora il rimorso. Ah! di vederti
M’è grave ormai: serba i tuoi doni ad altri;
Ne arrossirei: lieto a’ miei ferri io torno.

Rom.

Ah Romeo, che ti resta? . . Infamia e amore.

I passi poi che a me pajono più notabili in tal componimento, sono i seguenti. La scena sesta del III tra Gualtieri e Romeo si rende pregevole sì per la parlata di Romeo, che candidamente esprime i sentimenti del suo cuore agitato e i disegni senza paventar del tiranno, come per la fermezza in rigettar le premure del suocero per sapere i congiurati.

Gual.

Scoprir non vuoi? . .

Rom.

No.

Gual.

Di morire in vece?..

Rom.

Eleggo.

Gual.

Nè il terror d’aspri tormenti,
Agonie della morte . . .

Rom.

Ah che di quelli
E’ più barbaro assai l’amor di padre,
Di consorte l’amor; questi pavento.

Gual.

Risolvi.

Rom.

Udisti.

Gual.

E ben?

Rom.

Silenzio e morte.

La quarta del IV tra Adelinda e Romeo si ammira per la rivoluzione che cagiona nell’animo di Adelinda senza veruno sforzo l’assicurarsi che Romeo non ama Gismonda. Adelinda tuttochè piena di gelosia e di amore estremo pel marito, che forma la tinta imperiosa del suo carattere, vuol salvarlo ad ogni modo; e credendo che non la salvezza della moltitudine de’ ribelli, ma quella di Gismonda indicata senza nominarla, potrebbe muovere il marito, gliela promette compagna nell’esiglio. Romeo risolutamente rigetta l’offerta.

Adel.

Che dici? Tu potrai? . . .

Rom.

Posso smentirti.

Adel.

Oh ciel!) Più non intendo . . .

Rom.

Io se dovessi
Alcun salvare . . .

Adel.

Salveresti . . .

Rom.

Uberto.

Adel.

Ah qual luce . . .!

Rom.

Ben tarda.

Adel.

E i tuoi segreti
Seco? . . .

Rom.

Innocenti.

Adel.

E quelle notti?...

Rom.

In essi.

Adel.

L’amor? . . .

Rom.

Tu sola il mio.

Adel.

Quel di colei?...

Rom.

Uberto.

Adel.

E il padre? . . .

Rom.

Finge.

Adel.

E il foglio?

Rom.

Inganna.

Adel.

Oh Dio, se fosse ver..! ma i chiari sensi
D’impazienza, di speme? . . .

Rom.

In alta impresa.

Adel.

Di patria?

Rom.

Sol di patria.

Adel.

E giuri?

Rom.

E giuro.

Adel.

Ahi non resisto più, vieni al mio seno.

Adelinda disingannata e piena di gioja crede che Romeo voglia palesare i congiurati a prezzo della salvezza sua e di Uberto. Ma la virtù e la costanza di lui la fa cadere nel più profondo abbattimento, al considerare, che ella, lui fedele, non se ne può disgiungere, e che egli fermo nel proposito di tacere rimane esposto a tutta l’indignazione del padre. Le tenere insinuazioni di Romeo, perchè ella si disponga a soffrir con costanza la loro divisione, e i fervidi scongiuri di Adelinda che gli si prostra per ottener che ceda, danno a questa scena molta vivacità; la quale all’arrivo di Erardo loro figlio aumenta a segno, che Romeo intenerito più non resiste, e palesa quanto gli chiede.

L’ottava scena del IV già mentovata de’ rimproveri di Uberto e de’ rimorsi di Romeo chiude egregiamente l’atto. L’ultimo atto con una rapidezza giudiziosa, colla determinazione di Adelinda di correr la sorte del marito, co i consigli di Armanno a Gualtieri di appigliarsi alla clemenza, coll’incertezza del tiranno, che per non perder la figlia quasi è disposto a concedere la grazia, prepara alla compassionevole catastrofe. Romeo si è ferito a morte alla vista de’ congiurati giustiziati; Adelinda scapigliata ne reca la notizia dolorosa empiendo la regia di lamenti. Romeo moribondo abbraccia il figlio e la sposa e spira. Adelinda difperata si rimprovera di averlo con una cieca gelosia condotto a quel punto, riflette di non poter vivere senza Romeo e senza rinfacciarne al padre la perdita, e si uccide. E non si conterà quest’altra tragedia tralle buone dell’Italia?

La seconda tragedia del Pepoli quasi del tutto rifusa nell’economia della favola e nello stile, è Carlo e Isabella rappresentata in Bologna nel 1791, indi uscita per le stampe bodoniane l’anno 1792. Vi si premette una lettera del dotto Melchiorre Cesarotti del 1791, il quale si occupa con varie riflessioni a giustificarne lo scioglimento finale, ed il genere di morte degli amanti sotto le ruine del loro carcere. Questo argomento ben maneggiato dal conte Alfieri alla sua foggia, e tentato da altri anche in Francia1, spinse il conte Pepoli a ritoccare la sua che avea prodotta in Napoli e in Venezia. I miglioramenti sono notabili; il titolo stesso è ora più conveniente all’azione; la traccia procede meglio; vi si conservano bene i caratteri; gli affetti di Carlo e Isabella vi sono ottimamente espressi. Per lo scioglimento, che che ne abbia detto il Cesarotti, non tutti sono del suo avviso; non solo pel genere di morte, ma perchè non dee parer bene in teatro che la punizione de’ due amanti resti giustificata insieme colla gelosia del re dalla loro colpa, e che muojano abbracciati Isabella moglie di Filippo e Carlo figlio del marito d’Isabella.

La terza tragedia del nuovo teatro tragico del Pepoli è l’Agamennone, la quale per compiacenza dell’autore che me la rimise, lessi inedita nel 1791, e si è poi impressa in Venezia nel 1794 con una mia lettera preliminare su di essa e sulle altre antiche e moderne tragedie intorno ad Agamennone, pervenute a mia notizia. Non ripeterò quanto allora osservai su questa del conte Pepoli. Dirò solo che (oltre dell’azione ben congegnata conforme al nuovo sistema assai migliorato, e dello stile nobile e vigoroso per quanto comporta il genere, e nulla stentato, duro, o contorto) merita di notarsi che di tutte le Clitennestre da me lette, questa del lodato autore sembrami la più conveniente al grande evento tramandatoci dall’antichità sull’ammazzamento di Agamennone. Non son molto contento, a dir vero, che alcun moderno abbia voluto rendere interessante e in certo modo partecipe della pubblica compassione un’ empia adultera che di propria mano trucida un gran re suo marito ed obblia i suoi figli per assicurarsi il trono insieme col drudo. Il terror tragico dee prodursi per questo assassinamento ad oggetto di purgar le passioni smoderate di chi ascolta, e di rendere detestabili gli atroci delitti di sì malvagia donna. La compassione dee tutta eccitarsi pel gran marito che pieno di sincera tenerezza per la moglie arriva nella sua reggia, e proditoriamente per mano della rea consorte cade sul letto maritale. E questo appunto si prefisse il Pepoli. Agamennone è un personaggio veramente tragico che chiama l’attenzione e la pietà verso di se, e Clitennestra è una femmina atroce, perversa, perfida, la quale avendo nutrito un odio inveterato contro di lui da che Ifigenia fu sacrificata in Aulide, l’accoglie, e l’immola al suo furor vendicativo.

Prima di chiudere la classe de’ nostri moderni tragici, per dar certo riposo all’ammirazione di chi legge, e per riserbarla agli ultimi due buoni scrittori de’ quali rimane a dire, mentoveremo alcune tragedie latine di questo secolo, indi altre italiane rimaste inedite, ed alcune altre che i proprj autori hanno voluto imprimere.

Di fatti non si vogliono dimenticare le tragedie latine composte nel presente secolo per lo più da’ gesuiti. Marcantonio Ducci fece imprimere in Roma nel 1707 l’Ermenegildo; Giovanni Lascari nel 1709 Stanislao Koska; monsignor Gian Lorenzo Lucchesini di Lucca Maurizio Imperadore e Artavasdo oltre di altre due tragedie italiane. Sei ne produsse in Roma il dotto Carpani nel 1745. Giovanni Spinelli di Napoli de’ principi di San Giorgio compose un Epaminonda verso il 1746, e lo tradusse e stampò anche in italiano. Benemerito al pari de’ prelodati della drammatica poesia latina fu il celebre Francesco Maria Lorenzini nato in Roma dal fiorentino Sebastiano Lorenzini e da Orsola Maria Neri bolognese. Egli che insegnò col suo esempio l’arte di congiungere felicemente nella poesia italiana la forza e l’evidenza dell’Alighieri alla vaghezza e leggiadria del Petrarca, scrisse in latino alcuni melodrammi tragici elegantissimi. La sua Jaele s’impresse nel 1701, Atalia 1703, Sedecia e la Madre de’ Macabei nel 1704, Tamar vendicata nel 1706, S. Maria Maddalena de Pazzis in latino ed in italiano nel 1707, e Bersabea nel 1708, e trasportò ancora in latino i melodrammi del cardinale Ottoboni. Il chiar. Fabroni che ne scrisse la vita, di tali componimenti afferma, satis eleganter ea scripta fuisse, neque aliam laudem praeter hanc elegantiae ex iis quaesisse Lorenzinium. La stessa cosa è a dirsi de’ prenominati, ne’ quali invano si desidererebbe vivacità d’azione, energia di caratteri, perturbazione tragica, ed interesse. Il Lorenzini nella famosa discordia dell’Arcadia Romana attese ad addestrare alcuni giovani a rappresentar in latino le commedie di Plauto, e di Terenzio, che si ascoltarono con indicibile applauso, e con un numerosissimo concorso di persone di ogni ceto, perchè que’ giovani attori erano stati da lui così bene ammaestrati, che anche coloro che non aveano famigliarità con quell’idioma, intendevano ottimamente l’espressioni del poeta.

Sappiamo di non essersi più impresse nè Giovanna d’Arco del sig. Francesco Zacchiroli stimabile scrittore commendata dal chiar. marchese Albergati Capacelli, nè il Corradino composto da circa diciotto anni dal cavaliere Gaspare Mollo fecondo improvvisatore. Sappiamo ancora che su gli ultimi mesi del 1796 si stava occupando della tragica poesia un culto nobil uomo di Lecce il barone Francesco Bernardino Cicala. Egli tiene sotto la lima quattro tragedie, la Zelide, l’Ermione, l’Erode, e l’Eretteo; per indi renderle pubbliche coll’impressione, ma di questo giovane autore attivissimo parleremo nella Coltura delle Sicilie nel Regno di Ferdinando IV.

Sopra tutte le tragedie inedite che io conosco, è desiderabile che vengano alla luce quelle che è andato componendo il molte volte meritamente applaudito ab. Placido Bordoni veneziano. La sua nota erudizione, lo studio che ha fatto del cuore umano, la sua sensibilità, il buon gusto, l’eleganza della sua penna tanto esercitata, le raccomandano al pubblico, e fanno desiderare che si producano. Il breve viaggio fatto in Napoli da questo celebre letterato nel giugno del 1796, mi partorì insperatamente col piacere di riveder dopo tanti anni l’antico amico quello di udirgli leggere tali tragedie, e di ottenerne copia. Il pubblico italiano mi saprà qualche grado che io gliene avanzi alcuna notizia.

L’autor filosofo ha saputo rintracciar nuovi argomenti per la scena tragica ne’ bassi tempi e dove meno se ne attenderebbero. L’istituzione dell’Ordine militare della Mercede per la redenzione degli schiavi dalle mani degl’infedeli, gli ha suggerito per la prima tragedia intitolata Ormesinda un’ azione che risale all’anno 1244. Dallo storico Mariana si sa che Martos castello in Andalusia fu difeso verso il 1239 da una eroina spagnuola colle sue donne essendosene imprudentemente allontanata la guarnigione per una sortita. Dal Vargas nella cronaca di quell’Ordine militare, dal Barbosa, dal Caramuele, dall’Heliot, dal Wion si sa ancora che i Cavalieri ad esso ascritti non solo si destinavano al riscatto degli schiavi colle ricchezze, ma non ricusavano ad un bisogno di rimanere essi stessi schiavi, quando non potessero altrimenti eseguir l’opera del redimerne. Si sa eziandio che i professi facevano pure voti di povertà, castità ed obedienza. Con tali fondamenti e con verisimili eventi vien condotta Ormesinda difenditrice della fortezza di Martos prigioniera in Fez dal re Albumasar che le salvò la vita e ne restò innamorato e ne ambisce con un amor rispettoso, oltre l’uso della sua nazione, la mano, e le offre il suo scettro. Osta al suo amore la fede e la tenerezza che Ormesinda serba a Consalvo già destinatole sposo da suo padre. Questo sposo credendola morta precipitata dal castello di Martos si fa cavaliere della Mercede, e vi diviene professo. Arriva con Alfonso padre di Ormesinda in Fez per riscattare gli schiavi. Alfonso vi trova Ormesinda viva, teme che veduta da Consalvo possa egli vacillare ad onta del suo voto, e tenta di evitar l’incontro dei due, ma non vi riesce. Intanto il generoso Albumasar dona e non vende gli schiavi domandati insieme con Ormesinda, e solo chiede in compenso di sapere il nome di colui che le fu destinato sposo. Alfonso l’assicura che è per lei perduto, e morto, ma Albumasar lo trova vivo. Questa menzogna apparente, e qualche altra variazione rende a lui sospetti que’ cavalieri, e gli fa incatenare, rivocando la grazia degli altri schiavi. Nascono da tali vicende alcune patetiche situazioni, ed esercitano singolarmente la virtù di Ormesinda, che implora per essi la pietà del Sovrano. Intanto alcuni nemici Affricani assalgono la sede di Albumasar, che va a combattergli; in procinto di restare ucciso è salvato da un guerriero ignoto; ne cerca contezza, e trova che dee la propria vita alla grata e virtuosa Ormesinda, la quale gli è condotta innanzi mortalmente ferita.

Ciò che vuolsi principalmente notare in tal componimento, è che non vi è personaggio alcuno che non sia buono, o non adempia i proprj doveri, e la differenza che vi si scorge è la graduazione della virtù, la quale in Alfonso è rigida e religiosa, nobile mista di tenerezza in Consalvo, e in Albumasare e più ancora in Ormesinda giugne all’eroismo.

Le seguenti scene mi sembrano le più teatrali. I la quarta del II di Alfonso che trova viva la figlia, e le fa sapere che più non può esser suo Consalvo, perchè tra essi

      Voto solenne
Inviolabil voto alza e distende
Un muro insuperabile ed immenso,

e le impone di fuggirlo. II la quinta del III dell’incontro di Ormesinda con Consalvo, in cui veggonsi i teneri palpiti e la virtù di lei, e l’amor di Consalvo; e sopravvenendo nella sesta Alfonso che gli riprende, e vuole che Consalvo si allontani, alternando rimproveri, preghiere e comandi, diviene vie più interessante. III la scena seconda del IV, in cui Consalvo malgrado del divieto di Alfonso, si presenta ad Albumasar, il quale si maraviglia di Alfonso, che vuol lasciare in Affrica Ormesinda per un arcano che non vuol rivelare, e di Consalvo, che vuol rimaner prigione, finchè l’altro non abbia condotti via gli schiavi. Egli stanco di soffrire ordina che s’incatenino. Arriva Ormesinda che prega perchè sieno liberati, e vuole ella stessa rimaner prigioniera: Albumasar minaccia tutti, e impone che si chiudano in carcere. Ormesinda altro non potendo palesa che Alfonso è suo pae che l’altro è il suo sfortunato amante. Albumasar irritato per le reticenze de i due, e commosso dalle di lei preghiere, rimane sospeso. IV la terza del V, in cui Albumasar intende che chi gli ha salvata la vita è Ormesinda, ed ammira i prodigii che opera in petto de’ Cristiani la Religione. V l’ultima in cui Ormesinda tira a se tutto l’interesse e la compassione. Se ne vegga lo squarcio seguente per saggio dello stile e del patetico che serpeggia in questa favola:

Orm.

Padre amato, ti lascio . . . ed or che il cielo
Pietoso a’ miei lunghi sospir concesse
A me di rivederti ed abbracciarti,
L’acerbità del mio destino obblio . . .
Se un dì la patria rivedrai, ch’io stessa
Più non vedrò, senza rossor potrai
De la tua figlia rammentarti, e forse
Non fia l’ultimo fregio a le tue glorie
Qual viss’ ella fra i ceppi, e qual morio . . .
Oh tu del mio destin compagna amata,
Rimanti in pace . . . tue virtù coroni
La sorte amica, e i giorni tuoi men foschi
Risplendano che i miei . . . . Tu poi, Consalvo,
Che il ciel m’avea già destinato sposo,
E mi ritolse . . . a tue promesse, a i voti
Conservati fedel . . . siegui il cammino
De la fe, de la gloria . . . ama in mio padre
La figlia estinta, e più che i nostri amori
Miseri e sfortunati, un dì le nostre
Virtù possano trarre altrui dagli occhi
Lagrime di pietade e meraviglia . . . .
Sento ch’io vengo meno . . . ah caro padre . . .
Ah Consalvo . . . deciso è il mio destino . . .
Dividerci convien . . . Di tua virtude
Mi fido, Albumasar . . deh tu consola
Tanti infelici ed innocenti . . . io moro.

L’altra inedita tragedia del sig. Bordoni s’intitola i Templarj, e si aggira sulla distruzione di essi seguita in Ispagna. L’opinione degli uomini lascia sospeso il giudizio sull’innocenza o reità di quell’Ordine militare e religioso istituito l’anno 1118; giacchè da una parte vennero que’ prodi cavalieri dopo due secoli di glorie condannati in Parigi da Filippo il bello ed in Roma da Clemente V, ed in Vienna dal Concilio generale del 1312, e dall’altra parte reputati innocenti e sterminati solo per la rapacità del nomato re di Francia che aspirava alle loro immense ricchezze, dai Concilii di Ravenna, di Salamanca, e di Magonza del 1310, e di Tarragona del 1312, come ancora da S. Antonino arcivescovo di Firenze, dal Villani, dal Le Mire, dal Purtler ed altri. L’autore si vale della loro lagrimevole strage di strato e fondamento per la sua favola ricca di quadri tragici e di patetiche situazioni alzata su di grandi passioni che urtansi con doveri grandi.

Anagilda figlia di Ramiro maestro de’ Templarj ama Enrico di Abarca che d’ordine sovrano dovè allontanarsi per guerreggiare in Affrica. Ma Ramiro padre di lei assediato in Morviedro, il quale ha ricevuti potenti soccorsi da Fernando di Ricla, lo destina sposo della figlia; ed ella che vede in Fernando un grande appoggio del suo partito e un valoroso e virtuoso cavaliere, sacrifica la propria tenerezza, e l’accetta. Enrico come ambasciadore viene a far le sue proposte di concordia che sono rigettate; indi terminata l’ambasciata in sensi amichevoli manifesta a Ramiro l’amore che ha per sua figlia, ed egli mostra rincrescimento di non esser più in tempo di gradire i suoi sentimenti. Ode in quel punto che Fernando è prigioniero, si agita, si volge ad Enrico, che promette di salvarlo, e parte. Fernando è liberato; Ramiro ne reca la notizia ad Anagilda, aggiugnendo doversi la sua salvezza alla magnanimità di Enrico di Abarca. Enrico in Morviedro? Enrico vicino ad Anagilda già sposa di un altro? Qual colpo! qual fulmine per lei! Fernando che sorviene, racconta in qual guisa fu liberato, e con sua maraviglia trova Anagilda immersa nel più gran dolore. Torna Enrico che ha saputo esser Ramiro il padre di Anagilda, e trovarsi ella stessa in Morviedro, e facendo premure per parlarle, intende di essere già congiunta in matrimonio con un altro. La vede venire e col maggior dolore le rimprovera la rotta fede. Giugne Fernando da lui liberato, e sente esserne egli il possessore. Questa serie di scene patetiche rende l’atto III pieno di moto e di azione. L’assalto generale dato alla città toglie ogni difesa e speranza ai Templarj, e gli assalitori appressano le scale alle mura. Enrico vincitore viene a salvare Anagilda, ella ripugna di seguirlo, egli s’affanna per liberarla dal pericolo imminente, e si getta a’ suoi piedi. Arriva il generale Rodrigo che di ciò lo rimprovera; e la sua venuta mostra l’esterminio seguito delle reliquie de’ Templarj. Rodrigo vuol condurre Anagilda al campo. Fernando colla spada sguainata vuole impedirlo, e nel dirizzarsi a Rodrigo lo riconosce per suo padre; si confonde, si umilia, pugnando nel suo cuore il rispetto di figlio con l’amor di marito; questa situazione corona l’atto IV. Arde Sagunto: caduti sono tutti i Cavalieri Templarj sotto le spade Aragonesi. Enrico rappresenta al generale il pericolo di suo figlio insieme con la sposa; vuol liberarli; Rodrigo si commuove, l’affretta; Enrico corre fralle fiamme; ma torna colla funesta notizia di esser l’uno e l’altra mortalmente feriti. Sono condotti presso a morire; spirano dandosi la mano; e questo quadro lagrimevole conchiude la tragedia.

Fra tanti passi eccellenti è ben difficile scerne alcuni pochi senza far torto al rimanente; pur ne indicheremo alquanti. Notabile nell’atto II è la scena terza di Enrico che come ambasciadore rileva i delitti apposti a i Templarj, e di Ramiro che mostra la falsità delle imputazioni, e la loro innocenza e virtù con un’ aringa degna della sublimità che si scorge nelle scene politiche di P. Cornelio. Nel III rendonsi pregevoli la seconda e terza, nella quale Anagilda intende che Enrico è in Morviedro, ed ha liberato Fernando: la sesta in cui Enrico vuol vedere Anagilda, e Ramiro lo dissuade: e la settima, dove Anagilda palesa al suo amante di essere già sposa di un altro, che non isdegnerebbe riconoscer per sua l’istesso Racine. Nel IV degna singolarmente di osservarsi è la quinta scena, quando Enrico viene a salvare Anagilda, ed ella ricusa di seguirlo. Vieni meco, Anagilda, le dice Enrico:

Ana.

     Io teco? io sola?
Io figlia di Ramiro, e di Fernando
Sposa con te venir, con te, che sei
L’amante d’Anagilda, ed il nemico
Di Ramiro e Fernando? Ogni soccorso
Che m’offra il braccio tuo per me diventæ
Onta o martir. Su queste mura il padre
Pugna e lo sposo mio; da queste mura
Se non fuggo col padre, e con lo sposo,
Quì restar voglio, e si confonda insieme
Il lor sangue col mio. Ricuso, Enrico,
L’offerte tue, la tua pietà.

Enr.

Vuoi dunque
Perir, ed io deggio soffrirlo?

Ana.

Invano
T’opponi a’ miei disegni.

Enr.

E chi ti sforza
Ad esser teco sì crudel?

Ana.

Virtude.

Enr.

Ma la tua vita?

Ana.

Io non la curo.

Enr.

Oh Dio!
E se perisci intanto, a chi fia grata
Sì rigida virtude?

Ana.

Ad Anagilda.

Anche la settima del medesimo atto è singolare per la riconoscenza di Fernando del proprio genitore in Rodrigo, mentre per disendere Anagilda gli va incontro con la spada sguainata. Una bellezza Omerica si nota nella sesta scena del V, in cui Enrico descrivendo con verità di colori la strage de’ Cavalieri fa senza sforzo un quadro vivace e patetico di Ramiro moribondo sostenuto da Fernando ed Anagilda. Chiude egregiamente la tragedia la scena ultima, in cui spira Anagilda e Fernando:

Ana.

Già sento . . . che la vista, oh Dio . . . mi manca.
Ahi che pena . . . che orror . . . vedermi al fine
Dentro il campo nemico e tra coloro,
Che han dato morte al padre mio . . . se qualche
Conforto trova questo cuor . . . è solo
Nel morirti vicino, o mio Fernando . . .
O difensor dell’innocenza . . . o vero
Sostegno de’ Templarj! Il cielo, Enrico,
Le tue virtù coroni ed a te renda
La dovuta mercede:

Enr.

Ah sventurata!
Ah misera Anagilda!

Ana.

Ombra paterna . . .
Ti vedo e ascolto . . . tu mi chiami . . . e voi
Già m’affrettate di seguirvi, o chiare
Magnanim’ ombre de’ Templari . . . io vengo . .
Vengo . e con me viene Fernando ancora . . .
Da quel globo di luce, ove tu splendi,
Stendimi la tua destra . . . amato padre . . .
Stendila pure al tuo Fernando . . . ah sposo,
Io manco . . . io moro.

Fer.

Io pur ti seguo, o sposa . . .
Ma dove sei? . . più non ti veggio . . . ah dammi . . .
Anagilda la mano . . . ecco la mia . . .

Tragedie impresse che io non ho veduto ancora, sono le seguenti: il Cerauno, che, secondo il conte Pepoli, imita un po troppo la celebre Olimpia col semplice cambiamento de’ nomi; l’Agrippina che l’istesso illustre letterato chiama lirica e feroce: Don Carlo che sento essere stato impresso in questi ultimi anni dall’illustre sig. principe di Caposele Lagnì suo autore.

La Merope poi dell’insigne marchese Maffei dal medico Sarconi deplorabilmente e con pessimo consiglio ridotta in prosa, era impressa sin dal 1772; il Teodosio il Grande del medesimo autore pubblicato nel 1773, era un infelice componimento scenico scritto in affettata prosa mista a frequenti involontarj versi; dramma che rassembra una musicale opera informe per la moltiplicità delle azioni di tre eserciti; di due armate navali, di combattimenti decisivi seguiti in mare e in terra, e di altre azioni che passano in luoghi differenti &c. &c.

Colla falsa data di Londra nel 1790 comparve in Napoli Corradino tragedia senza nome di autore. Se si attenda ai tratti pungenti, che vi si spargono insipidamente contro di Roma e del pontefice, sembra questa produzione di qualche meschino filosofastro alla moda bramoso di lasciare svaporar la sua decisa rabbia ed avversione verso di quella corte. Se riflettasi allo stile, alla versificazione, alla maniera di colorire priva di quella felicità di pennello onde si ritrae al vivo la natura, il componimento pare uscito da penna indigesta, giovanile, e poco esercitata. L’azione è notissima, la morte di Corradino su di un palco colla formalità di un processo accelerata e comandata da Carlo I di Angiò per torsi davanti un perpetuo competitore al trono di Napoli. Vi s’introduce Roberto di Bari atroce e basso personaggio venduto alle mire di Roma, il quale con somma impudenza e con niuno artificio manifesta se stesso e i velenosi suoi disegni. Beatrice moglie di Carlo, carattere insipido, che sedendo sul trono napoletano, al sentire che la misera madre di Corradino armata di lagrime e di ricchezze viene a riscattare il figliuolo, ingombra di sospetti mal fondati paventa di perdere il regno, quasi che l’infelice si appressasse alla testa di un esercito, ed affretta con insidie l’eccidio del prigioniero. Ella dice (scena 3 del II atto):

Dunque indarno sperai che alle superbe
Germane un dì pari sedessi anch’io?

ma perchè dice di avere sperato invano? non è ella già regina?

        Ah pera
Tutto con me, prima che a tal ridotta
Di novo io sia condizion privata.

Reputavasi ella dunque di condizione privata regnando nella Provenza ed in altri stati di Francia con Carlo fratello del santo re Luigi? Ignorava che nata com’ era di real sangue e dominando nella Provenza, la sua condizione era pur di sovrana, e tutto quello che conseguì col regno di Napoli fu un dominio assai più vasto ed il titolo di regina? Il Carlo poi della tragedia è ben lontano dall’Angioino della storia. Non comparisce nè prode, nè magnanimo, nè ambizioso con certa decenza e nobiltà, ma soltanto avido usurpatore infingevole con bassezza, che scende alla viltà delle insidie. Vestito delle picciole e guaste idee dell’autore egli mostra di conoscer male l’importanza del carattere e dell’uffizio di re nell’asserire (scena sesta del I),

Buon re non dee esaminar le leggi,
Ma sol cieco eseguirle.

Questa massima non è punto evidente. Al suo dire dunque, se le leggi per le circostanze de’ popoli esigono cambiamenti o moderazioni, altro non è permesso al buon re che ciecamente eseguirle, dovesse anche soffrirne lo stato? Il buon re perde dunque ogni diritto di provvido legislatore? Spietato poi fuor di misura e basso si dimostra questo Carlo della tragedia, allorchè nell’incaminarsi Corradino, ingannato dall’equivoche sue parole, per seder seco sul trono, egli lo respinge, dicendogli (scena 5 del V) con tutta la grazia e la maestà tragica,

Trono più degno, qual a re sì prode
Conviensi omai, gentil sicario appresti.

Rare volte il coturno è piombato in simili sconcezze. Sicario è posto in vece di carnefice? E l’aggiunto di gentile, anco per irrisione, stà bene a un sicario o a un carnefice, ed in bocca di un re, e in una tragedia? Non avvilisce e degrada la regia potestà, la bassezza, l’impertinenza, l’inutilità ancora, e l’atrocità nel tempo stesso di tale scempio sarcasmo? Il sogno narrato da Corradino (scena 2. del II) quanto poco si confà col suo valor maschile e coll’aspetto della vicina morte che l’attende. E che produce quel sogno? qual nuovo movimento ne risulta all’azione? quale accrescimento al tragico? Si vorrebbe oltre a ciò la favola meglio organizzata, più tendente al fine, meno carica di freddi riposi episodici che la rallentano. Si vede talvolta il teatro lasciato voto, come nell’atto V, partendo Margherita nella scena terza, e venendo poi nella quarta Beatrice. Mancano nello stile quei tratti vivi e potenti che chiamansi colori dell’opera; il dialogo non ha naturalezza, i versi hanno del prosaico, la locuzione manca di purezza e di proprietà1. Ciò che unicamente può lodarvisi è l’esservi introdotta la Madre di Corradino, ed il colpo di scena dell’incontro inaspettato di lei col figliuolo, che potrebbe far qualche effetto in teatro, se questa tragedia potesse rappresentarsi senza scandolo del pubblico. E se meno scempia fosse, meriterebbe lode l’autore per essere sinora stato il primo e l’ultimo che abbia schivato l’avvilire e imporcare il fine lagrimevole di quel giovane principe con uno svenevolissimo intrigo d’amore.

Non ci curammo nell’imprimere il sesto volume di questa istoria di parlare delle tre tragedie stampate di un regnicolo di Brienza, sapendo che l’autore si occupava in ammonticare alcune sue riflessioni sul teatro accresciute successivamente con cartucce, letterine, ed analisi; e nostro intendimento fu allora di attendere l’impressione di simili cose, per ammirar poscia tutto ad un tratto e le sue teorie drammatiche e le sue tragedie, e di confrontare quanto in lui stesso si accordasse il tragico pratico ed il precettore. Ma non essendosi mai in tanti anni date alla luce le promesse o meditate riflessioni, stimiamo ora di non defraudare i nostri leggitori delle notizie delle tre sue tragedie, e sebbene ne tesseremo analisi non saranno quelle che distesi nel 1795, ma più succinte, così consigliati dal cangiamento indi avvenuto nello stato dell’autore.

Egli incominciò la sua tragica carriera con gli Esuli Tebani impressa senza data verso il 1780 (insieme con una sua orazione latina ad Orlow) che non comparve sulle scene. Facciasi ragione al vero, nè la versificazione prosaica, negletta, dilombata, nè lo stile basso, snervato, privo di colori e di affetti, nè la sceneggiatura sconnessa senza incatenamento, e senza motivarsi l’entrare e l’uscire de’ personaggi, nè la favola spoglia d’interesse, di compassione e di terror tragico, nè la lingua scorretta e barbara, ci presenta in questa prima tragedia un componimento tollerabile se non lodevole. Ma avendo l’autore fatto ogni sforzo per abolirne la memoria, si è conformato all’avviso del pubblico, e a noi basta di averla mentovata. Passiamo al Gerbino, ed al Corradino ch’egli accarezzò e riconobbe per sue.

Gerbino si pubblicò nel 1787, e si recitò tre sere da’ comici Lombardi nel teatro de’ Fiorentini in Napoli. Il soggetto è tutto finto; e solo il nome di Gerbino nipote del re Guglielmo di Sicilia, e l’intrigo amoroso di lui con la figlia del re di Tunisi condotta alle nozze del re di Granata, è tolto dalla novella quarta della giornata quarta del Decamerone di Giovanni Boccaccio. Tolse anche l’autore dagli Straccioni del Caro lo scambio della Giulietta con una schiava coperta delle sue vesti e trucidata sul cassaro della nave, e l’appiccò al fatto della sua Tunisina che precede la rappresentazione. Il di più è un romanzo rattoppato di ritagli del Corradino del Caraccio, della Inès del sig. La Mothe e di altri. Eccone una succinta analisi1.

Atto I. Apresi la tragedia con una scena di confidenza sugli evenimenti passati fatta da Erbele a Zelinda in quel momento, benchè dimorino sempre insieme. E perchè non gliene parlò prima? perchè il pianto altra volta l’interruppe. Racconta Erbele di essere stata mandata dal re suo padre al re di Granata, e la confidente va tratto tratto interrompendola dicendo, che seguì d’appresso? (e dir voleva che seguì di poi). Gerbino suo amante venne a combattere i legni che la conducevano, e gli distrusse; ma i Granatini trasserla a forza sul palischermo a Granata, intanto che altri di loro trucidano una donna coperta del suo manto reale sugli occhi di Gerbino che lei credendola lanciossi in mare. Ma Erbele che ciò riferisce, come il seppe? come il vide? un udii, un seppi poteva soddisfare gli ascoltatori. Parte Erbele, e l’autore perchè non rimanga la scena vota, fa trattener Zelinda senza perchè, finchè da Ormusse non gli si dica di partire.

Viene Gerbino incatenato fralle guardie reali, e di tutto egli favella alla loro presenza, sicuro forse che essi o non sentiranno, o non parleranno di ciò che si dice. Egli per farsi conoscere agli spettatori nomina se stesso, appunto come si fa ne’ drammi cinesi. Si lagna indi che vedrà Erbele nelle braccia del rivale; ma come ciò teme, se la vide uccidere sulla nave? e se in seguito seppe che era viva, perchè non farne motto? A che poi Filinto dice che essi furono presi da un corsaro? Non è ciò noto a Gerbino? Egli sul gusto lirico de’ secentisti, dice, come potrò

Scacciar dal sen la deitâ suprema
Che tempio ed ara nel mio cor possiede,
Che vi riceve l’idolatro incenso.

Fa poscia una indiscreta confessione a Filinto, la quale non è solo superflua, dovendo già esserne l’amico informato, ma denigra per sempre il carattere di Erbele palesandosene le colpevoli debolezze.

Erbele accolse i miei sospiri, e pari
Ardor accese l’alma sua gentile,
Ed al mio amor ben largo premio ottonni
In quella notte (oh sempre cara notte
Che non cancellerà dall’alma mia
O tempo o sorte) in cui l’audace amore
Mi sospinse a montar l’eccelse mura
Del Serraglio real, a cui d’intorno
Veglia l’orror di morte e lo spavento.
Dolci memorie in fero duol converse!
Deh quali oggetti il mio pensier dipinge!
O voi d’Erbele aurati e lieti tetti,
Ove il tremante piè tacito posi!
O momento fatal quando m’accolse
Tralle sue braccia, e al bianco petto strinse.

La virtù quì fa poco contrasto alla passione, ed Erbele con tutto l’agio accoglie fralle sue braccia un amante ad onta del padre che l’ha destinata ad un altro.

Viene Osmida e dice (forse alla guardia) conduci i prigionieri, che pur gli stanno innanzi. Sapendo che son di Sicilia, domanda se son del perfido Gerbin compagni; e perchè il chiama perfido egli che ignora il congresso notturno de’ due amanti in Tunisi? Oziosa domanda, perchè essi non si direbbero mai compagni di uno che egli abborrisce. Non è meno oziosa l’altra domanda, se sia vero che Gerbino morì in mare, perchè o nulla ne sa chi non era con lui, o nulla ne dirà chi fosse compagno di Gerbino. Passa ad asserire il soldano che egli renderà schiavi quanti Siciliani potrà; minaccia inutile, perchè mandando egli, secondo il costume saracinesco, i suoi legni in corso, è chiaro che ami di far delle prede su i Siciliani, e su altri Cristiani. Tutta la scena è un puro cicalamento. Non è dissimile la seguente di Erbele ed Osmida ancor più lunga. Osmida le rimprovera la memoria che ancor serba di Gerbino estioto. Non ci volea altro per isnodarle la lingua. Ella gli ricorda che fu costretta dal padre alle nozze di lui, ma che ella conserverà sempre il suo ardore, perchè.

Non mai si estingue in nobil cor la face
Che amore accese, e la virtù nutrio.

Passi che una face di amore non mal si estingue; ma ostentar virtù dopo quel notturno illecito abbracciamento, dopo di avere stretto al suo bianco seno un amante, baciatolo, e concesso al foco di lui ben largo premio, è una ipocrisia inescusabile.

Atto II. Nulla passa nell’intervallo de’ due atti; l’azione trovasi nel punto in cui stava. Comparisce un certo Germondo, personaggio affatto estrinseco alla favola, ma che sebbene si enuncii come eroe, Normanno, e Cristiano, ha servito in guerra il re moro, nel cui regno dimora ritirato in campagna. A che viene? Ad implorare che i due prigionieri si tengano senza catene sulla loro parola; e perchè ciò? perchè Gerbino possa introdursi nella reggia. Il re condiscende, e di più a scelta di Germondo, che ciò non richiede, concede ad uno di essi la libertà. Dopo di ciò sarebbe partito il re con Germondo, ma per non lasciar vota la scena, attende che esca Erbele, e poi parte. Ella è venuta fuori per attendere Zelinda, che pur sarebbe andata nel di lei appartamento. Viene questa confidente a darle notizia de’ due prigionieri, ed Erbele al sentire ciò che narra di Gerbino, dice

Questa è l’età di che fiorìa Gerbino.

Entra Gerbino, erbele sviene, Zelinda dice:

Ripiglia il tuo valore: Al re nascondi
L’arcan fatale. Io veglierò frattanto
Per darle in tempo, se verrà l’avviso,
Mentre che il freno a’ dolci affetti scioglie.

Darle a chi si riferisce? ad Erbele o a Gerbino? Non ad Erbele, perchè Zelinda avrebbe detto darti, non a Gerbino, perchè non è femmina. Verrà par che si rapporti al re, scioglie a Gerbino. Ecco la prima espressione di Gerbino:

E m’è concesso d’esalar di nuovo
Sulla tua mano il cor sciolto in sospiri.

Di nuovo? si può dunque più di una volta esalare il core, e non morire? Ma come si esala il core in sospiri? Una falsità iperbolica del seicento a prima giunta. Erbele vuol sapere come siesi Gerbino salvato dal mare; ma se ciò è a lei venuto in mente, come Gerbino non domanda, come ella fosse scampata dalle mani de’ barbari che sotto i suoi occhi l’aveano ferita? Direi ahe il poeta si sovvenne del caso di Gerbino, e si dimenticò di quello di Erbele. Passa Gerbino a domandare,

All’ara infausta innanzi hai tu la fede
A me promessa, al crudo re giurata?

Ed Erbele,

      Non mi legò finora
All’odioso nodo il sacro rito.

Ma innanzi a qual ara, e con qual sacro rito si contraggono i matrimonj de’ Musulmani, presso i quali le nozze sono meri contratti civili? Erra poi Gerbino nel dire che il suo ferro si tinse nel sangue

Del Tunesin sugli occhi tuoi trafitto,

giacchè dicesi nella scena I del I che Gerbino assaltò de’ Granatin la flotta, e non già de’ Tunisini. O dunque menti Erbele nel I, o mentisce Gerbino nel II. Dice Erbele nella stessa scena,

E’ l’innocenza, è la virtù delitto,
Se la punisci, o ciel.

Ma patisce ella forse coll’amante, a cagione dell’innocenza, o almeno della virtù? Al contrario il loro amore è illecito e colpevole. Questa virtù che ella ostenta è l’amore; è la virtù degli eroi de’ romanzi, i quali virtuosamente rapiscono le donzelle, che diconsi eroine mentre si lasciano rapire. Così in fatti l’intende Erbele, che dopo i riferiti abboccamenti notturni, in cui sacrificò l’onor proprio alla passione, si offende perchè Gerbino dubita di lei, e dice con nobil disdegno,

Dammi la morte, e l’onor mio rispetta.

Viene Filinto e si attacca tra lui e Gerbino una gara di generosità, perchè Filinto vuol che l’amico parta libero per la grazia ottenuta da Germondo, ed egli vuol restar prigioniero. E’ imitazione di quella di Oreste e Pilade del Rucellai, e di Corradino e Federigo del Caraccio; ma non produce un pari effetto; perchè i pericoli di Oreste e di Federigo sono evidentemente mortali; là dove Filinto non rimane esposto alla pena sicura di morte. Di più al partir libero Gerbino in forza della grazia regia, ha speranza di esser anch’egli liberato per qualche modo. Ma Gerbino sovvenendosi di Guglielmo suo avo, per voler fuor di luogo imitar l’espressione di Oreste, esclama

      Ah sconsolato vecchio
Questo non aspettavi amaro colpo!

Ma qual colpo, se egli ritorna libero alla reggia Siciliana?

Atto III. Erbele ha già inteso che Gerbino è partito ed è in salvo, ma vuol che Zelinda le ridica gli ultimi suoi detti, gli ultimi sguardi. Dimmi Zelinda,

Il caro amico nel partir che disse?
Che mai t’impose? profferì il mio nome?

E quì l’autore pensò ad imitare le domande di Ermione nell’Andromaca del Racine. Ma Ermione in procinto di perdere Pirro, ha ben ragione di volere indagare per tali picciole cose, se a lei pensi tuttavia; là dove Erbele ha recenti pruove della fede di Gerbino; quindi è che le premure di Ermione svegliano l’attenzione, e quelle d’Erbele fanno svenire; e tanto più che Ermione domanda per la prima volta, ed Erbele ha sentito più volte il racconto di Zelinda, che dice,

Più fiate il labro mio gli estremi detti
A te narrò,

dove se vuolsi pronunziare italianamente, si fa un verso di dodici sillabe dovendosi dire fi-a-te, e non fia-te 1. Contro il costume de’ Musulmani Zelinda non solo senza velo si dimena per la reggia, ma va anche fin sulla soglia per esser vicina a Gerbino a segno di vederne gli sguardi, ed udirne i sospiri e le parole dette da lui che si volgeva alle alte mura.

Nella scena 2 Osmida furibondo esce dicendo alle guardie

O vivo, o l’empia testa a me recate,

e torna dentro; ma perchè non ordinar ciò dentro? perchè il poeta volea far ciò sentire ad Erbele. Anche Ormusse esce a dare un ordine, e si ritira, poi esce di nuovo, e ne dà un altro. Ma perchè tanto scompiglio? Perchè certo nunzio che esce in campo quasi al tocco di verga magica, ha scoperta la falsa morte di Gerbino, ed il re dubita che possa essere il prigioniero che è partito. Ipotesi e supposizioni senza risparmio, per condurre, non una situazione tragica, ma una momentanea sorpresa. Osmida torna fuori di nuovo, e minaccia Erbele veramente senza veruna ragione; pure ella non adducendo discolpa, posta in aria di Megara moglie di Ercole, parla per aforismi sul gusto di Seneca, e prendendo in prestanza l’espressioni di Ezio vincitore di Attila, risponde:

Chi visse ignoto a se, negletto altrui,
Morte paventa.

Ma quali gesta (dirà l’ascoltatore) lascia di se dopo morta Erbele, eccetto l’aver preso di notte un uomo fralle sue braccia, e profanata la reggia paterna? Aggiugne:

      L’onor chi serba,
Morir non teme.

L’ha serbato ella?

Viene nella scena 5 Germondo a scusarsi col re di non aver saputo i nomi de’ prigionieri, e giura

Per questo crine che imbiancò sull’elmo; espressione che letta e udita in teatro produsse varj motteggi per quel crine, che imbiancò sopra dell’elmo, e che obbligò l’autore a rimediare l’inavvertenza con un cartesino.

Ormusse esorta il re a trarre il vero dal prigioniero a forza di tormenti,

Del facondo martir la certa prova
Della tua mente ogni dubbiar dilegui.

Dare il parlare alla corda, è soverchia arditezza fecentista, ma dirla faconda, è un eccedere sopra ogni stranezza.

Atto IV. Liete nuove reca Zelinda; Gerbino è sicuro. Ella, per relazione di un soldato fuggito alla strage, racconta ad Erbele la battaglia che egsi ha avuta con due schiere di soldati a piedi, ed a cavallo. Comincia, è vero, in tuono famigliare ed alla sua condizione ed al suo sesso corrispondente, ma poi quella mora si affibbia la giornea de’ pedanti, e sfoggia in figure rettoriche, e manifesta l’autore. Fra i quaranta versi del suo racconto, havvene ventiquattro, ne’ quali si descrive la pugna satta da Gerbino, e vi s’inseriscono l’un dopo l’altro tre paragoni, uno di leone famelico che rabbioso infierisce nel gregge (ch’è l’impastus ceu plena leo per ovilia turbans dell’epico latino) il secondo di uno scoglio che sostiene l’onde,

Quando de’ venti un fiero turbo mesce
Gli alti campi del cielo, e il mar sconvolge,

l’ultimo peggiore degli altri per le circostanze soverchie al caso, di un silenzio ed orrore,

Qual regna in valle solitaria cinta
D’antiche tombe in taciturna notte.

Oltre poi degli eruditi paragoni la Mora descrive il rapido e certo ferir di Gerbino imitando un altro grande epi o,

Cento colpi ribatte in un momento,
Nè colpo schiva, che non dia percossa,
Nè dà risposta, che non dia ferita,
Nè porta altrui ferita senza morte 1.

Viene Gerbino tralle guardie, il quale essendo lasciato dal loro capitano per darne avviso al re, ha la libertà di amoreggiare a sua posta. Erbele lo chiama Gerbino senza curarsi delle guardie, che per ipotesi del poeta non debbono udir nulla, ed intende come dopo di aver rotte le schiere di cavalleria e di fanteria gli s’infranse il ferro e rimase prigioniero. Giugne anche Filinto pur tra guardie, e nel loro terzetto si nomina Gerbino senza riserba, e senza dissimulare il dolore che può farlo palese. Nè in questa scena il virtuoso Gerbino lascia di dire che l’estremo suo

Fiato accorrà quella leggiadra bocca
In cui rimase l’alma mia nel primo
Bacio felice.

Filinto propone di volersi far credere Gerbino, come Federigo del Caraccio volle passar per Corradino. Ma Filinto sa forse che il re ignora tuttavia qual d’essi due sia Gerbino? sa che quando Gerbino fosse un altro, il re lascerebbe impunito chi gli ha trucidate due schiere di soldati? Ecco come ad ogni passo s’incontra un precipizio, quando si copiano senza destrezza le altrui invenzioni.

Nella scena 5 esce Osmida che dice a Gerbino

Il fuggitivo piè non ti sottrasse
All’ira mia.

O ch’io m’inganno, o il Granatino è uno smemorato o un bugiardo. Non ha egli concesso a Germondo uno de’ due prigionieri libero? Or perchè, se Gerbino è partito, gli rimprovera la fuga? perchè Ormusse confessa lo stesso? perchè Gerbino non si difende con dire che partendo ha usato del real dono? Osmida poi non potendo sapere chi de’ due sia Gerbino, dice

      Voglio che il vero

Dall’uno e l’altro il fier tormento esprima. Per nulla dire di quel dall’uno e l’altro, non ben si vede come il tormento possa esprimere; al più può obbligare a palesare, ad esprimere. Tralle violenze del carattere di Osmida è da porsi il comando che dà, che Gerbino condotto al patibolo

Sugli occhi dell’indegna paghi il fio.

Erbele non è rea di nuovo errore, non è complice nella fuga o nelle prodezze di Gerbino, e pure il Moro la condanna all’infamia di assistere all’esecuzione della sentenza del colpevole:

Atto V. Ormusse narra ad Osmida che Gerbino è stato tratto al luogo del supplizio, e che Erbele

De le sue dame in mezzo al folto cerchio
Seguia di morte la funesta pompa;

benchè paja che le sultane de’ Musulmani non dovessero alla maniera delle principesse Europee avere un corteggio di dame in vece delle schiave usate nelle corti moresche.

Sul punto dell’esecuzione della sentenza ecco il solito Germondo che giugne per domandar grazia per lui al re. Gli espone come egli col suo decreto va in Gerbino a schiantar il germe della famiglia de’ re Normanni di Sicilia, come se ad un re moro non amico, ed offeso, debba ciò importare nè punto nè poco. Nel far poi premure per la grazia per chi può rimanere ucciso al momento, si ferma in una osservazione intempestiva,

Felice è quel che alla Sicilia impera,
Se ben conosce la soggetta terra.

Inutili non meno delle proposte ragioni politiche sembrano le altre che egli ricava dall’amore de’ due amanti, che debbono sempre più irritare il furor geloso di Osmida. A noi sembra che più acconciamente si sarebbe egli appigliato al partito di destare nel re uno spirito di generosità spingendolo a concedere un nobil perdono che lo farebbe amare ed ammirare; ma questo colore appunto è sfuggito a Germondo. Contuttociò, malgrado delle deboli ragioni di quel vecchio, Osmida si determina a liberar Gerbino dalla morte. Come però si accordi l’Osmida di quest’atto con quello de’ precedenti; come si guardi la convenevolezza del costume in un tiranno abituato alla crudeltà colla sua repentina non preparata mutazione; come convenga al tiranno Granatino quel vederlo, per una parlata poco concludente di un cristiano, divenire in un tratto eroe, magnanimo, impaziente dell’esito al pari di Seleuco del Varano e di Tito del Metastasio, nel dubbio che non arrivi in tempo il divieto dell’esecuzione: lo pensi e ne giudichi il leggitore imparziale. Osmida resta a trattener lo spettatore con un monologo di trentasei versi, in cui non solo mostrasi bramoso di gloria e geloso di esercitar la clemenza, virtù sino a quel punto a lui ignota, ma diviene anche precettore di grandezza d’animo. Germondo gli ha chiesta la vita di Gerbino, ed egli con la vita vuol dargli di più la libertà ed Erbele, ed essere il pronubo delle loro nozze. Gerbino è liberato, Osmida gli cede Erbele, ma Erbele si è avvelenata. Quest’ultimo colpo dopo la grazia appartiene alla Inès de Castro del sig. La Mothe. Osmida resta privo della sperata gloria, e Gerbino si uccide.

Così termina il Gerbino, in cui si pongono a contribuzione il Boccaccio, il Caro, il Caraccio, il Ruccellai, il Metastasio, e La Mothe. Risulta da quanto se n’è notato di non esser questa tragedia differente dagli Esuli Tebani, giacchè vi si desidera il decoro del costume più corrispondente alle maniere de’ Mori, l’economia dell’azione meglio organizzata, la locuzione più pura e più propria, lo stile più eguale, e meno infettato di lirici colori e di concetti secentisti, i caratteri più costanti, gli affetti meno svenevoli, le situazioni più convenienti al genere, e soprattutto più rispetto, ed onestà, giacchè vi si fa passare per virtù l’incontinenza e la violazione di una casa reale.

Corradino terza tragedia del medesimo autore non rappresentata si stampò in Napoli colla data di dicembre 1789, benchè si pubblicasse più tardi. Vi si premette un discorso al Lettore, in cui l’autore esalta i pregi del suo componimento e aringa diffusamente contro del Corradino del Caraccio; ed in esso conviene trattenerci alquanto.

Vi si dice alla bella prima, che la tragedia è un’ azione pubblica, grande, interessante, e nazionale. Che pregio sia della tragedia l’esser nazionale, s’intende, e si è mille volte detto e ripetuto; ma che per essenza debba esser tale per chiamarsi tragedia, nè s’intende, nè si accorda. Ad esserne questo un requisito essenziale, ne seguirebbe, che per noi moderni non sieno tragedie quelle che ci rimangono del teatro greco, non potendosi avere in conto di nazionali nè da noi, nè dagli Spagnuoli, nè da’ Francesi, nè dalle altre nazioni settentrionali. Con simil norma non riconosceremmo per tragedie le moderne che vertono su’ fatti orientali o americani o affricani. Il Maometto, il Solimano, il Radamisto, il Bajazzette, la Semiramide, l’Orfano della Cina &c. passar non debbono per tragedie fra noi, giacchè non sono nazionali pe’ nostri paesi. Non saranno poi tragedie pe’ Francesi, Inglesi, Spagnuoli, e Alemanni quelle che parlassero di Ugolino, di Giovanna I, del Piccinino &c. Non saranno per noi tragedie la Zaira, il Tancredi &c., Carlo I d’Inghilterra, Carlo figlio di Filippo II di Spagna &c. Dicesi anche in tal discorso che i Greci ciò dimostrarono con esempi e con precetti, e nè anche questo a me sembra vero. Trovasi forse prescritto che la tragedia debba essenzialmente esser nazionale nella Poetica di Aristotile, o nel suo comentatore Eustazio, o in Teofrasto, o in Demetrio Falereo? Nè anche può dedursi tal regola dagli esempj greci, perchè sebbene la maggior parte di quelle a noi pervenute contengano argomenti greci, e perciò ad essi nazionali, chi sosterrebbe che tali sempre fussero tutte le altre che a noi non giunsero? Certo è che alcune delle rimasteci esprimono fatti di popoli stranieri. Il Prometeo al Caucaso p. e. è nazionale a’ Greci? Reso, Frisso, Medea stessa, benchè vi s’introducano alcuni Greci, non per tanto i protagonisti sono stranieri, o straniere ne sono le azioni. Lascio poi la memoria e qualche titolo restatoci di antiche tragedie, che indicano azioni straniere, come i Persi e gli Egizj di Frinico, il Fiore di Agatone &c.

Per non fermarci ad ogni motto di tal discorso, omettiamo diverse cose che vi si affermano discordi dalla verità, cioè che il Gerbino si accolse benignamente in teatro, e che essa sia la prima tragedia dell’autore; altre ne omettiamo avventurate contro la storia e la buona critica, cioè che il Racine ed il Metastasio non hanno introdotto nelle loro favole che amori freddi ed episodici; e che lo stile delle antiche tragedie italiane, cioè di quelle del XVI secolo, manchi di armonia.

Ci fermeremo in ciò che si dice dell’argomento del Corradino. I si maraviglia l’autore, che i Francesi non l’abbiano trattato, e si applaudisce della propria scelta, quasi che fosse stato il primo a recarlo in iscena, quando è noto che il Caraccio se ne valse sin dal cader del passato secolo, che il sig. Mollo son quindici anni in circa che ne scrisse un’ altra tragedia, e che l’anonimo surriferito ne ha pubblicata una terza.

Il Prende l’autore a censurare quella del Caraccio dichiarandola imperfettissima. Egli chiama episodico il freddo amore di Clarice e Corradino, imbecille il re Carlo, la tragedia ripiena di lunghi soliloquii e di scene inutili che non addita, e di espressioni che si risentono dell’infelicità del secolo XVII, che abbiam veduto di non esser punto vero.

III Prevede l’opposizione che gli si farà per avere deturpato il fatto di Corradino con amori nulla interessanti. Confessa in prima che senza amori sarebbe stato più tragico; e perchè dunque ha voluto farlo men tragico? Egli se ne scusa con queste parole: ma come senza episodj riempiere il vuoto (così) di cinque atti, e presentare al pubblico lo spettacolo di due ore? Se così è, perchè si maraviglia che i Francesi non abbiano trattato un argomento incapace di riescire di giusta grandezza in teatro senza frammischiarvi episodii estrinseci e amori impertinenti? Piace che egli confessi di non aver saputo trattare quest’argomento senza amori e senza episodj da riempiere il voto di cinque atti e trattenere il pubblico per due ore. Ma perchè non imparar prima quest’arte da Sofocle, da Eschilo, da Euripide, o almeno tra’ moderni dall’Alfieri, dal Maffei, dal Granelli, dal Pindemonte?

IV Sostiene in fine che l’amore che egli ha introdotto nel suo Corradino, non è quel freddo episodico maneggiato dal Racine, dal Metastasio, dal Caraccio, ma bene dominante e tragico ammesso da’ gran maestri nella scena. Ma questo è recare in pruova ciò che è in questione. Intanto egli poco innanzi ha confessato che questo amore (che ora vuol chiamare dominante) è episodico, che rende men tragico il suo argomento, e che l’ha introdotto per riempiere il vuoto de’ cinque atti. Noi però perchè il pubblico possa decidere se gli amori introdotti nella sua favola abbiano le condizioni che gli costituiscano dominanti e degni della tragedia, prima di esporne una breve analisi, ne accenneremo il piano.

L’atto I rappresenta che Corradino col Duca di Austria prigionieri di Carlo I d’Angiò sono ammessi nella reggia e lasciati liberi senza esser conosciuti per altri che per due guerrieri, e che il re dà loro interamente la libertà sulla speranza di allettar Corradino a fidarsi di lui.

Il II dimostra che Corradino amante favorito di Geldippe figlia di Carlo viene a dirle che egli dee partire; che ella chiede dilazione di un giorno; che Carlo non vedendolo partire si maraviglia dell’indugio, e ne sospetta.

Nel III si vede Corradino di notte che viene a prendere congedo dall’innamorata e si scopre per Corradino: il re con altri due viene nella medesima stanza, vede non veduto, ma non sente quel che dicono, e facendosi avanti, Corradino parte. Carlo sospetta, minaccia, ordina alla figlia che chiami il guerriere, e gli parli mentre egli ascolta da parte, ma le previene che se l’avverte di ciò, lo farà uccidere. Con tale artificio scopre il loro secreto, comanda la morte di lui, e Geldippe manifesta che è Corradioo.

L’atto IV presenta un ambasciadore della madre di Corradino, che per la di lui libertà fa proposte di pace che son rigettate: un legato del papa che insinua a Carlo di non lasciar vivo il suo nemico: Corradino che va alla morte: il popolo che si solleva.

Nel V Corradino è decapitato, Carlo fa venire il cadavere nella reggia per mostrarlo alla figlia, che si uccide.

Questa sola esposizione succinta manifesta che Carlo fa uccidere Corradino per assicurarsi il regno, e che gli amori della figlia con lui non sono essenziali alla morte a cui egli è condannato: che lungi di aumentarsi il tragico naturale del fatto istorico per tali amori, ne viene offuscato, e la favola diventa un’ azione comunale di un principe che si occulta per amore, e che scoperto è ucciso dal padre dell’amata: che i primi tre atti nulla o ben poco contengono che convenga allo svevo Corradino erede del reame di Napoli, e che sotto altri nomi niuno indizio darebbe di quella storia patria. Presi adunque que’ tre atti come parte del satto di Corradino appena formano un episodio tutto alieno dalla morte di lui per ragion di stato, e ben lontano dal presentarci alcuna situazione tragica; or come chiamar questo un amor dominante nel senso che riceve dagl’intelligenti? Vediamone le particolarità.

Atto I. Nella prima scena il Duca di Austria fa menzione con Corradino di cose a lui ben note, per darle ad intendere all’uditorio, cioè della sconfitta ricevuta, della loro prigionia, dell’esser tenuti per privati, e di essersi di tutto passato avviso alla madre di Corradino. Egli rimprovera a Corradino la dimenticanza della vendetta e del regno, e gli dice che miri l’ombre di Federigo II e di Manfredi che vanno per quella reggia invendicate. Aggiugne,

Del tuo periglio nè pensier di regno
Più ti siede sul cor ligio d’amore,

il che vorrebbe dire che più non gli siede sul core nè pensiero del suo periglio, nè pensiero di regno. Dice di poi,

       Vide il tiranno
Te del sangue de’ suoi tinte le schiere
Cacciar in fuga.

Ma qui dee dire

Te del sangue de’ suoi tinto le schiere
Cacciar in fuga,

altrimente si distinguono come due cose diverse le schiere di Carlo da’ soldati di Carlo. Corradino a’ detti del Duca promette di ricordarsi del regno, eludendo però il fine dell’esortazione del cugino che era di rimuoverlo dall’amore di Geldippe.

Vi è il prigioniero Tancredi (nome preso da Corradino) dice Amelia nella scena 2, e Geldippe risponde il cor mel disse. Parlando a Corradino gli dice

       La regia culla
Al tuo valor negò l’iniqua sorte,

complimento poco delicato; tanto più che ella non l’ha veduto da due giorni, e nel dirgli alla prima che è un privato, può indicar certa esitanza o disposizione a mutarsi. Corradino però non vi bada, e le dice, il sole è sorto due volte dall’alto Vesevo, ed io non ho potuto rivedere l’amato sole de’ tuoi begli occhi. Geldippe si discolpa con dire che ha dovuto schivar di vederlo, perchè vi era baciamano in corte e gala grande, quasichè in altri giorni una reggia rimanga solitaria. Il lettore vedrà se tale introcuzione e tal discolpa annunziano un amor dominante lontano dal freddo episodico amore che questo meschino autore osa riprendere insolentemente nel Racine, nel Caraccio, e nel Metastasio. Almeno, domanda Corradino tragicamente, fosti presente col pensiero al tuo Tancredi, come io rimiro presente ognor l’angelico tuo viso? e Geldippe con amorosi accenti non meno tragici narra in ventisei versi che a lui pensava, e che si ricordava quando il padre la condusse con la corte

Di Posilipo in su le amene spiagge,
E voi due prigionier volle ben anche 1;

E quì Geldippe descrive poeticamente la cadente luce del sole tra verdi allori, e i colori che lucean negli opposti dilettosi monti. Allora, soggiugne,

La mia virtù col mio tranquillo stato
Portasti teco. Allor fu tratto il dardo
Del sangue del mio cor fatto vermiglio.

In somma se l’amor di Geldippe non è furioso e disperato quale nella tragedia si richiede, è almeno espresso col linguaggio della poesia lirica che sì poco conviene a un tragico dramma. Quindi Corradino esclama

       Voi, del Ciel potenze,
Non pareggiate il mio giojoso stato.

Terza scena. Carlo dice

Quì venga Ermini e i prigionier ben anche1; indi a Tancredi,

       Vieni Tancredi.

Cor.

Signor che brami?

Car.

Vanne e quì ritorna.

Vieni, vanne, ritorna, scena importante e niente inutile, come quelle che l’autore rimprovera al Caraccio.

Nella scena 4 impazienti sono Carlo ed Ermini per parte di papa Clemente, che Corradino tuttavia si celi alle loro diligenze. Ermini afferma che finchè egli sia libero, la Romana Sede ognor vacillerà. La Romana Sede vacillerà per la libertà di Corradino vinto, ramingo, privo di forze? ella che crollò il gran potere di Federigo II, che a tanti stati aviti accoppiava le forze dell’impero? Il legato Ermini mal sostiene la dignità della sua corte. Dice egli poi a Carlo che Corradino sicuramente anderà errando

O nel tuo regno o nel romano stato,

o (poteva aggiugnere) nel resto dell’Europa. Quai dialoghi! Ma lasciandogli simili inezie, e l’idra del ribelle ardire, osserviamo seriamente, che se conviene talvolta a un ministro di altra corte inspirar ne’ principi i sentimenti del proprio sovrano, non mai si permetterà che se ne mostri alcuno in teatro, il quale insinui delitti grandi, atrocità, e disprezzo per la religione. Nerone, Ezzelino, un corsaro nè anche soffrirebbe che gli si dicesse sul viso ciò che l’empio Ermini dice a Carlo:

Versa il sangue che vuoi. Pietà nasconda
L’insidioso ferro, e al tuo vantaggio
Servendo, fingi di servire al Cielo.
Santamente crudel fia che rassemhri
Divota ognora l’omicida destra.

Codesto ribaldo Ermini non solo non guarda il decoro conveniente a un monarca, ma degrada la corte che rappresenta, esortando a una spietata ipocrisia, e a burlarsi del Cielo sfacciatamente. Ecco poi con quale scelerata e falsa massima l’infame con detestabile insidioso esempio conchiude,

L’arti son queste di fondar gl’imperi.

E che direbbe di peggio un Bulenger, o l’autore del Sistema della Natura? Carlo dice nella scena 5:

      Per me non voglio il crine
Cinger del serto altrui, che son del mio
Stato contento. E cederei del regno
A lui lo scettro, se l’omaggio ei presti
Di Pietro al successor.

Lasciando stare la menzogna impudente contraria al fatto, e l’ipocrita finzione, e notiamo solo che la gramatica vuol che si dica, cederò il regno, se l’omaggio ei presterà al papa, ovvero, cederei, se egli prestasse, o cedo se egli presta.

Atto II. Dopo un cicaleccio inutile sul passato di Geldippe con la confidente Amelia, Corradino viene mesto e confuso per dir che dee partire, e Geldippe l’incoraggisce a parlare con le seguenti scempie ed insipide ragioni:

      Un sacrificio in vero
Il nostro sesso fa, quando palesa
L’ascosa fiamma. Ma il pudor già vinto
Di noi soavi amabili tiranne 1
Come vi piace ognor fate governo.
Questa vita, e quest’alma è tua. Disponi
Arbitro ognor di me, del mio destino.

Io non vò entrare a decidere, se ad una virtuosa principessa convengano queste espressioni onde l’amante può animarsi a tutto intraprendere. Dico solo che tanto cicaleccio precedente il congedo che Corradino viene a prendere, è superfluo, famigliare e comico anzi che tragico. Egli le dice che il re gl’impone di partire dandogli la libertà. Perfido (ripiglia Geldippe) mi hai sedotta, mi hai fatto confessar che ti amo, per lasciarmi e per vantarti del tuo trionfo infame e dello schernito amore di real donzilla, che si è donata tutta in tuo potere; tali querele possono offuscare il carattere di Geldippe, e parer triviali e tutt’altre che di passione tragica e dominante, qual si è p. e. quella della Fedra di Racine, della Zaira di Voltaire, di Alvida nel Torrismondo del Tasso, della Semiramide del Manfredi &c. Al rimprovero di lei Corradino le ripete in dieci versi ciò che avea detto in uno e mezzo, e Geldippe rimane persuasa, e dimanda la dilazione di un giorno. Ma questo breve indugio diviene sospetto al re. Partiremo domani (gli dice il duca d’Austria) perchè cammin non lungo in sì poche ore del cadente giorno avremmo fatto; ed il re gli dice,

Andate pur, ci rivedrem domani.

Un re che ha trattenuti lungo tempo i finti Ubaldo e Tancredi liberi presso di se, gli ha introdotti nella reggia stessa gli ha ammessi alla sua tavola, ha permesso che Tancredi cavalcasse accanto alla principessa, come maravigliarsi che si trattengano altre poche ore dove son trattati amichevolmente? come sospettare che possano essere traditori e ministri infami della vendetta di crudel nemico? Ci voleva nuova cagione, più forti indizj per dubitar di tanto, per dir di Corradino

Di tradigion pensier certo l’arresta.

Lo spettatore vuol vedere le sorgenti delle azioni e de’ raziocinj per essere illuso. Una poi delle più insipide ed inutili scene di quest’atto è la sesta, in cui il ribaldo e basso Ermini legato pontificio improvvisamente affetta amistà grande per Corradino dal suo sovrano esecrato, e cerca con arte scempia e spregevole leggere ne’ pensieri di lui. Un legato fuori della scena che fosse così grossolano e puerile ne’ suoi raggiri, si manifesterebbe più atto alla zappa che a’ maneggi di stato.

Atto III. Scena I di notte. Corradino viene a veder per l’ultima volta Geldippe, si scopre per Corradino, e Geldippe sviene. Ma in quale circostanza indispensabile egli si trova per dire all’amante quello che non ha stimato di dirle prima, che egli è Corradino? Per disporla a questa lontananza, e far che attenda con fiducia, non bastava palesarsi per principe reale degno della mano di lei? Stando Geldippe svenuta vengono in quella stanza senza essere intesi nè veduti Carlo, Ermini e Roberto. A un cenno di Geldippe parte Tancredi, e neppur vede que’ tre personaggi, caminando forse con gli occhi bassi. Carlo si fa avanti, e domanda alla figlia donde nata sia tal dimestichezza di Tancredi con lei. Ella risponde che quel guerriere la vide in corte, e prese in costume di salutarla. Ella anzi dovea rispondere al Padre: ricordatevi che sinora gli avete permesso di parlarmi, di cavalcare a me dappresso in vostra presenza, di esser nostro commensale. Ella nulla di ciò gli risponde, e Carlo le dice, vanne e torna, dovendoti parlare. Ermini dice che senza dubbio si amano, e Carlo che egli laverà la macchia coll’indegno sangue, e fa porre in aguato le guardie pronte a ferire, e perchè l’azione resta come sospesa, per attendere Geldippe, si trattiene seco stesso pensando che non è bastante vendetta la morte di quel vile, e desidera, imitando i raffinamenti de’ pensieri dell’Edipo di Seneca, che torni l’estinto in vita, per dargli novella morte. Viene Geldippe nella scena 4, cui Carlo impone che venendo Tancredi gli parli senza avvertirlo di nulla, mentre egli starà ascoltando inosservato, e se ella mai con parole o con cenni lo rende accorto di lui che ascolta, lo sarà subito uccidere. Il pubblico è omai ristucco di veder mille volte replicato questo rancido colpo di scena appena tollerato nel Mitridate del Racine, e nell’Ipermestra del Metastasio in grazia de’ loro gran nomi e della destrezza usata in prepararlo. Arriva Corradino, e sì chiaramente parla del suo amore, che Geldippe riesce infelicemente nel tentare di scambiarne il sentimento. Carlo non potendola più soffrire si fa avanti, ed ordina che si ammazzi il reo. Un grandinar di colpi, dice,

Piombi sul capo suo, piombi sul petto,

e Geldippe grida

Empj fermate, Corradino è questi,

e i soldati obedendo lei e non il re, si fermano. Ma spera ella con palesarne la vera condizione di salvarlo? Se per Carlo era egli reo di morte come Tancredi, lo sarà meno come Corradino? Se fu imprudente Corradino in iscoprirsi a lei senza necessità, più inconsiderata è Geldippe che ne raddoppia il rischio con informarne il padre. Ma quasi tutto ciò fosse poco, Corradino insulta Carlo aspramente parlandogli come superiore,

Togli al tuo crine l’usurpato serto,
Scendi dal trono, e al suo signor lo rendi.

Il pubblico forza è che veda nel Corradino di questa tragedia minorato l’effetto tragico del Corradino della storia. Imperciocchè il Corradino della storia è degno di ogni compassione come legittimo sovrano scevro di colpa non solo privato del trono, ma condannato a morte come reo da chi gliel toglie: là dove il Corradino di questa tragedia è reo effettivamente, perchè amoreggia colla figlia del re, e perchè insulta con alterigia il padre, onde nasce che la compassione è per lui men viva. Ed ecco il bell’effetto dell’imporcare con amori un fatto che nudamente narrato tira le lagrime della posterità.

Atto IV. Incomincia con una scena inutile del duca con Geldippe, perchè nulla vi si accenna, che non debba ripetersi, come avviene, nella seguente. Nella seconda adunque Iroldo ambasciadore della madre di Corradino dice che viene a trattar di pace e del riscatto di Corradino. Ma Geldippe per dar motivo ad un racconto che arresta l’azione in vece di farla progredire, vuol sapere (notisi la curiosità di un’ amante in procinto di vedere a Corradino troncato il capo!) che cosa gli disse la madre nel partire ch’egli fece; ed Iroldo ne descrive il dolore, e ne ripete le parole quasi ad altro non fusse venuto, o ciò importasse all’azione. L’autore tolse in prestanza il patetico delle parole di Andromaca nelle Trojane di Euripide, non riflettendo che se ne scemava il pregio per la diversità delle circostanze del picciolo Astianatte e del guerriero Corradino; così il buono Iroldo commette un plagio senza frutto. Andromaca madre e regina infelice commuove, perchè ella stessa sotto gli occhi dello spettatore ed in faccia al figlio che timido ed imbelle si accoglie nelle braccia di lei, esprime il dolor materno. Iroldo soldato alemanno narra le parole di una madre lontana tanto dal figlio. Andromaca in Euripide squarcia di pietà i cuori, perchè lo spettatore stà vedendo che il figliuolino le viene da’ Greci strappato dal seno, stà ascoltando questa madre che dice (ci si permetta di accennarlo colla nostra traduzione recata nel tomo primo)

“Figlio, viscere mie, da queste braccia
Ti svellono i crudeli:”

ma Iroldo pone in bocca di Elisabetta una bugia con dire,

Misero figlio, dal materno seno
Deh chi mai ti strappò, misero figlio,

e ciò benchè niuno Ulisse, niun Calcante abbia tolto Corradino dal seno materno, essendo anzi col consenso di lei venuto in Italia con un esercito alla conquista del regno. Andromaca sciogliendosi in lagrime dice a ragione:

“Per dominar sull’Asia,
Non per morir tra’ barbari sì presto
Credei produrti, o figlio . . .
Ahi dolce oggetto de’ timor materni,
A ciò ti porsi il seno, e del mio sangue
Io ti nutrii?”

ma Iroldo ciò copiando fa dire ad Elisabetta, se non un’ altra bugia, un sentimento che soffre eccezioni,

O dolce oggetto de’ materni affanni
Ti ho posto al mondo per regnar sull’ampie
Rive d’Italia, non per far vermiglio
Quel suolo dove il tron t’era serbato;

perchè sebbene Corradino avea diritto al regno, Manfredi però figlio di Federigo II n’era già padrone quando Elisabetta pose al mondo Corradino, nè Corrado stesso gliel contese. Andromaca nella greca tragedia vien trattenuta dal figliuolino, sicchè con sentimento sommamente patetico e con tutta sobrietà espresso, gli dice,

     “Perchè mai stringi
L’imbelle madre tua, e ti raccogli
Nel seno mio, quale augellin rifugge
Sotto l’ali materne?”

Iroldo però innamorato di quell’augellino ha voluto incastrarlo nel suo racconto ozioso, tuttochè vero non sia che Corradino sia fuggito in braccio alla madre,

Come augellin che il cacciator crudele
Da sotto l’ali della madre, dove
Palpitante fuggì, svelse ed uccise,

nelle quali parole si espongono circostanze assai diverse da quelle di Corradino, oltre di peggiorarsi il concetto di Euripide, perchè il greco tragico usa di quella similitudine detta di volo in tre parole, e l’italiano, sul gusto di quelle di Seneca sconvenevoli al dramma, ne riempie tre versi. Ma il più curioso di questa scena episodica rubata senza vantaggio si è che Iroldo studiasi di muovere la pietà, quando al contrario il disegno del duca nel presentarlo a Geldippe è stato di animarla con liete speranze della vicina pace, e forse delle sue nozze. E’ poi da osservarsi che il duca d’Austria sino alla scena 3 è tuttavia in libertà, ma si sente poi condannato e decapitato senza essersi inteso arrestato.

Carlo nella scena 4 siede sul trono. Iroldo propone i tesori di Elisabetta per riscatto del figlio, e Carlo gli rifiuta dicendo che il destino di Corradino dipende dalla decisione del suo Consiglio. Iroldo che non può ignorare che il diritto di Carlo sul regno nasce tutto dall’invito del pontefice, risponde con poco senno

      Corradin rebelle?
Alla tiara la real corona
Chi mai sommise? Il successor di Piero
Qual dritto vanta mai su i regni altrui?

E con ciò lavora contro l’oggetto della sua ambasciata, non essendo questo il camino di ottener la libertà di Corradino. Carlo giustifica i diritti della tiara colle antiche investiture, Iroldo rivendica quelli della corona. Ma un ambasciadore più saggio e più sedele alle premure di una madre che teme per la vita del figlio, avrebbe schivato di suscitar le gelosie di Carlo, restrignendosi a trattar l’ammenda che offre Elisabetta di cedere, per la libertà del figlio, le ragioni degli Suevi al trono di Napoli, ed a proporre l’unione di Geldippe e Corradino. Iroldo tradisce per ignoranza il disegno dell’afflitta madre, e propone le nozze e l’ammenda dopo di avere empiuto di sospetti il re.

Sciolta l’udienza viene Geldippe ad implorar dal padre la libertà di Corradino, e Carlo gliene dà speranza contro ogni suggerimenti del suo interesse. Chiamati indi i suoi consiglieri Ermini il legato e Roberto, loro manifesta le proposte dell’alemanno oratore, ed Ermini lo consiglia a rigettarle ripetendo l’empio suo intercalare, il sacro ferro al petto indegno santamente crudel spingi, e Carlo costantemente imbecille subito cangia e risolve che mora. Geldippe che intende la risoluzione del padre, e che Corradino è condotto al palco, freme, minaccia, inveisce contro del padre. Sente poi che la città sollevata è in armi, e spinge Amelia a recarsi sulla piazza del Mercato per saper ciò che accade; e forse a que’ tempi era questo l’uffizio delle dame di corte.

Atto V. Si apre con un soliloquio di Geldippe che si figura di vedere uno spettro. Iroldo viene a dire che le guardie reali sono state disperse dal popolo, e che Corradino è vicino ad esser liberato. Vicino? e non l’ha veduto egli sciolto? no, perchè ha voluto prima recarne a Geldippe la novella; quest’ambasciadore opera in tutto con saviezza uguale. Ma la dama Amelia che è stata nella piazza presente al tumulto, narra che Corradino è stato decapitato. Ella al pari di Zelinda del Gerbino ornando il suo racconto con tinte rettoriche narra l’esecuzione della sentenza. Geldippe apostrofa al carnefice che non disarmi il fero braccio che sostenga in alto il ferro, che lo faccia cadere sul capo di lei. Vuol poi sapere da Amelia l’estreme parole del suo diletto. Amelia che malgrado della zuffa de’ cavalieri col popolo e della calca, e del decoro conveniente al suo sesso, è stata presso al palco, le ha tutte raccolte, e le ripete prima quel che Corradino disse al duca, che si chiude in nove versi appresso in altri sette quel che profferì sulla sua Geldippe, e termina ripetendo in sei versi quel che disse apostrofando i principi Aragonesi e gettando il guanto nella piazza. Carlo poi viene a riprendere la figlia, e le mostra i due cadaveri che ha fatto trasportare nelle regie stanze con istrana cura e contro la storia, e Geldippe toglie a un soldato il pugnale, e si uccide.

Noi non vogliamo epilogare le sconcezze del piano e dell’esecuzione di questa tragedia, troppo manifesti essendone gli amori freddi e svenevoli che offendono il tragico di tale argomento, i concettuzzi lirici, le scene inutili, le ripetizioni, l’imbecillità di Carlo, l’oziosità di Roberto, le smemoraggini dell’autore sul personaggio del Duca d’Austria condannato e decapitato senza dirsi preso, la malvagità scandalosa di Ermini, le insipide narrazioni di Amelia, le sconcezze del personaggio d’Iroldo &c. . Solo ci restringiamo ad animar la gioventù a prender per mano quest’argomento, ed a renderli il patetico naturale senza lo scambio che vi fa entrare il Caraccio, senza la malignità e la debolezza dell’anonimo, senza gli amori che lo sconciano enormemente nella tragedia dell’autore del Gerbino. Per riescirvi altro non occorre che cercar di obbliare tutte queste tessiture fantastiche, e rileggere la semplice storia. Il patetico naturale che ne ritrarrà, render dovrallo superiore a tutte queste dipinture fattizie*.

Il sig. ab. Vincenzo Monti ha finora composte due tragedie &c.*.

Dieci se ne pubblicarono dall’impressore Graziosi &c.**.

ADDIZIONE III***
Le nove ultime tragedie dell’Alfieri.

L’elevarsi sopra la turba de’ volgari scrittori, e confondere i freddi parodisti e i meschini follicularj, sarebbe stato trionfo comunale pel merito del conte Alfieri, se non si fusse ancora più appalesato degno di figurare tra’ nostri migliori tragici, e di venire al confronto de’ buoni Francesi. Egli nell’edizione di Parigi del 1788 non solo ha riprodotte le dieci tragedie surriferite con opportune rettificazioni circa lo stile, ma ve ne ha aggiunte altre nove inedite ricche di novelli pregi. Esse sono: Maria Stuarda, la Congiura de’ Pazzi, Don Garzia, Saul, Agide, Sofonisba, Bruto primo, Mirra, Bruto secondo. Vi si scorge in generale miglioramento notabile nello stile divenuto più naturale senza perder di grandezza, nella versificazione più scorrevole senza allontanarsi dal suo genere, nella lingua tersa ed elegante senza sacrificar la grazia nativa per lo studio di esser cruschevole, nell’economia più giudiziosa, per l’entrar de’ personaggi in iscena meglio motivato, pe’ monologhi men frequenti, pel numero de’ personaggi accresciuto che rende l’azione più verisimile senza la nojosità de’ confidenti. Se ne vegga alcuna particolarità su ciascuna di esse.

Maria Stuarda. Conviene lo stile alla tragedia, nè vi si osservano durezze e trasposizioni stentate e fiorentinità rincrescevoli: l’economia più saggia manifesta l’esperienza dell’autore: l’azione non si arresta in oziosi episodj: i caratteri sono al vivo espressi con maestria. Tutto però vi operano Ormondo e Botuello intriganti e scellerati, e nulla quasi i personaggi principali. Arrigo principe inetto che non sa distinguere nè la verità in bocca della regina, nè la menzogna negli altri, varia sentenza ad ogni spinta, e muore senza tirare a se l’interesse della favola. Maria poco attiva ancora diventa scherno delle insidie di Botuello, e riscuote qualche pietà senza partorire il giusto effetto tragico. Il ministro protestante Lamorre ha i distintivi de’ falsi divoti che insinuano guerre e stragi predicando pace e tolleranza, e nell’atto quinto comparisce profeta veridico degli eventi di Maria. Se pronunziasse enfaticamente presagj generali per atterrir la regina e per lavorar in pro della sua setta, ciò a lui ben converrebbe. Ma adombrando con circostanze individuali i futuri casi di Maria, come ciò avviene senza una superna ispirazione? Quindi è che lo stesso sagace autore ha pronunziato su questa sua tragedia, che i personaggi principali son deboli e nulli, che il tutto riesca languido e freddo, e che per ciò la reputa la più cattiva di quante ne ha fatte, o fosse per farne, e la sola che egli non vorrebbe forse aver fatta.

La Congiura de’ Pazzi. Ha l’elocuzione elegante, aperta, energica e conveniente al genere, e i personaggi cresciuti al numero di sei la preservano dalla necessità della frequenza de’ monologhi, e dalla noja di veder alternar sempre sulla scena quattro soli personaggi. La veemenza del carattere di Raimondo diffonde per l’azione tutta un estremo vigore. Bianca dolce, tenera, buona madre, buona moglie, contrasta ottimamente colle violenti intraprese di Raimondo, il quale ama lei, ama i figli, ma congiura contro i fratelli di lei che tiranneggiano la patria. L’avversione contro di Roma traluce, nè foscamente, nella scena 4 dell’atto IV da i detti di Lorenzo. Il V riesce vivace trasportandosi felicemente la finale azione alla presenza dello spettatore. Ottima è la scena di Bianca insospettita e di Raimondo impaziente di trovarsi al tempio, ed agitato per la tenerezza che ha per lei, e pe’ figli. La sua venuta col pugnale insanguinato alla mano, essendo egli stesso mortalmente ferito, cagiona in Bianca in prima timore pe’ fratelli, indi dolore pel marito. Questa tragedia di personaggi troppo moderni di picciolo stato non regge al confronto di quelle ove intervengono Romani, Greci, o Barbari antichi grandi nella pubblica opinione, i quali opprimano o difendano la libertà. Contuttociò l’autore ne eleva al possibile l’azione, e Raimondo diventa personaggio importante e grande. La delicatezza del gusto dell’autore gli fa ravvisare per attivi solo il terzo e il quinto atto, e certa inazione ne’ due primi e nel quarto, benchè ne’ primi due si prepari, e nel quarto ben si sostenga l’interesse relativo de’ personaggi. L’amor dell’arte lo rende rigido censore di se stesso e meritevole anche per ciò di particolar lode.

Don Garzia. Presenta i medesimi pregi delle ultime tragedie dell’autore: stil nobile e tragico, lumi filosofici sparsi senza l’affettazione e il portamento di massime ed aforismi, affetti posti a buon lume, elocuzione scelta senza durezze ed ornamenti superflui, azione che corre rapida al fine senza riposi oziosi. In Cosimo si delinea al vivo un tiranno dedito al sangue: in Diego un giovane principe virtuoso e sincero: in Eleonora, personaggio subalterno e poco tragico, un’affettuosa madre parziale per Garzia, nel quale si ritrae un principe candido alieno dagl’infingimenti: in Pietro un pessimo, cupo, ambizioso, malvagio calunniatore, dissimulato, privo di ogni virtù e di affetti di fratello, e di figlio. Sventuratamente egli è il solo fabbro dell’infelicità e dell’atroce delitto di Garzia uccilore, per la perfidia di lui, dell’innocente Diego, ed è il solo che rimane nella tragedia impunito, la quale perciò potrebbe dirsi il trionfo della malvagità. Ed in vero un’ azione indegna, aliena assai da’ sentimenti di Garzia enunciato per buono, mi sembra quel liberare da un imminente pericolo mortale (fosse anche sicuro) la sua Giulia, per mezzo di un assassinamento del padre di lei a tradigione. No, non mai mi parrà atta a svegliar pietà una scelleragine, in cui l’ottimo precipita ad un tratto nel più vile, abominevole, esecrando misfatto. Nel leggerla preso non fui da quel tragico terrore che vuolsi eccitare nella tragedia, ma si bene da orrore, da raccapriccio, da rincrescimento. Di grazia Garzia potrà meritamente riscuotere compassione, poichè si è determinato a così esecrabile esecuzione, per cui trafigge per equivoco un buon fratello, volendo pero assassinare deliberatamente il padre innocente della sua amata?

Saul. La tenera figlia e sposa Micol, il giusto e prode David, il buon amico di lui Gionata, lo zelante Achimelech, Abner invido nemico di David, e sopra tutti l’agitato Saul da’ rimorsi, dall’invidia, e dalle proprie furie, talmente nella semplicità dell’azione, nella giudiziosa traccia e nel ben condotto disviluppo, e tutto ciò animato da stil sobrio e maschio, talmente, dico, tengon viva e sveglia l’attenzione del pubblico, che parmi potersi contar questa tralle buone tragedie del lodato autore. Tutte le parlate di David mi sembrano eccellenti, e producono grande effetto in Saul, per cui tace in lui l’interna invidia, e ne restano sospese le penose smanie. La quarta scena dell’atto I dell’incontro di David con Micol è tralle più appassionate. Bella è la terza del II, in cui dopo le insidiose insinuazioni di Abner a Saul contro di David, questi inopinatamente presentandosi manifesta candidezza e grandezza d’animo. Nella terza del III esprimonsi acconciamente le notturne agitazioni di Micol nell’assenza di David. Nella quarta i canti di David ora enfatici ora soavi con diversità corrispondente di metri per calmar le furie di Saul, dilettano nella lettura, e più diletteranno, se si rappresentino bene. Contrastano nella quarta del IV l’energiche profezie di Achimelech coll’empietà pronunziate da Saul contro de’ Sacerdoti. Bellissima è la patetica divisione di David da Micol nella prima del V, nè men pregevole è l’appassionato monologo di Micol nella seguente. L’aumento delle furie di Saul, la sconfitta degl’Israeliti enunciata da Abner colla morte de’ figli di Saul producono il funesto trasporto di lui, pel quale infierisce contro se stesso:

       Ecco già gli urli
Dell’insolente vincitor, sul ciglio
Già lor fiaccole ardenti balenarmi
Veggo, e le spade a mille . . . Empia Filiste,
Me troverai, ma almen da me quì . . . . morto.

Agide dedicata con curiosa lettera a Carlo I d’Inghilterra nel 1786, ha pregi degni del genere. Robusto, appassionato, sublime n’è lo stile. Il piano mirabilmente semplice compete all’eroico carattere dello Spartano re Agide. Le due virtuose donne Agesistrata madre e Agiziade moglie di Agide hanno distintivi eroici proprj della loro nazione, Ansare nemico di Agide, subalterno dell’ingrato vendicativo re Leonida, vela col manto del pubblico spartano l’odio privato, e lo studio di affrettar l’estrema ruina di Agide per timor di perdere le ricchezze col rimettersi le leggi di Licurgo. Ne addito come parti singolarmente pregevoli le scene seguenti. I nell’atto II la seconda, in cui Agide esorta la moglie a soffrir la di lui morte, ed allevar da Spartani i figli:

Non assetato di vendetta io moro,
Ma di virtù spartana, ancorchè tarda.
Purch’ella un dì da’ figli miei rinasca,
Ne sarà paga l’ombra mia.

Agiz.

Mi squarci
Il cor . . . oimè! . . . Perchè di morte?. . .

Ag.

O donna,
Spartana sei, d’Agide moglie; il pianto
Raffrena. Il sangue mio giovar può a Sparta,
Non il mio pianto a te. . .

Il nell’atto III la seconda, in cui segue l’abboccamento d’Agide con Leonida. La sua franchezza eroica, che tutti palesa i proprj nobili sensi patriotici, e le insidiose mire del suo collega nel regno, disviluppano a maraviglia l’eroismo spartano che lo riempie. In seggio, ei dice,

Riponi or tu, non le mie, no, ma l’alte,
Libere, maschie, sacrosante leggi
Del gran Licurgo: povertà sbandisci
In un coll’oro, ella dell’oro è figlia:
Del tuo ti spoglia: i cittadin pareggia:
Te fa Spartano, e in un Spartani crea:
Ciò far voll’io, tu ’l compi, e a me ne involi
La gloria eterna.

III nel IV la scena terza del giudizio di Agide. Egli distrugge le altrui imputazioni con evidenze, tutta discopre l’anima sua spartana, e colla sicurezza di morire torna al suo carcere. IV nell’atto V la prima che è un monologo di Agide, in cui si vede a un tempo la fermezza dell’eroe, e la sensibilità di figlio, di marito e di padre. V la quarta di lui con Agiziade, in cui si disviluppano i suoi teneri sensi che non iscemano l’amor dominante della patria. Bella separazione è la seguente!

Agia.

Parlar non posso ... Io di lasciarti ...

Ag.

Un fido
Consiglio avrai nella mia degna madre,
S’ella pur resta! Or via, lasciami, vanne:
Moglie, regina, madre, cittadina,
Spartana sei: tuoi dover tutti adempi.

Agiz.

Per sempre? Oh ciel! ...

Ag.

Deh cessa ...

Agiz.

Il piè tremante
Mal mi regge.

Ag.

Deh vieni, uscita appenæ
Troverai scorta e appoggio.

Agiz.

Oimè! si schiude
La ferrea porta . . .

Ag.

Guardie, a voi la figlia
Del vostro re consegno.

Agiz.

Agide . . . Ah crudi!
Lasciar nol voglio ...Agide ... addio ...

VI la quinta, in cui all’additata tenera divisione della moglie succede la venuta dell’eroica Agesistrata. Ella gli reca in dono un ferro onde liberarsi dal poter del tiranno; Agide ne gioisce:

Ag.

Oh gioja . . or dammi . . .

Age.

Scegli,
Due ferri son, quel che tu lasci é il mio.

Ag.

Oh cielo! . . . E vuoi . . . . . .

Age.

In te (pur troppo!)
Sparta or si estingue ... Ed alla patria, al figlio
Sopravviver vorrà Spartana madre?
Figlio, abbracciami.

Ag.

Oh madre, anco m’avanzi
Nell’altezza de’ sensi ... Or dammi, e prendi
L’ultimo amplesso.

La conchiusione del tutto corrisponde robustamente a sì belle parti. Leonida ed Ansare vengono per fare uccidere Agide. I soldati, ad onta del comando di Leonida, rimangono immobili. Agide gli dice, che egli stesso lo trarrà d’impaccio; raccomanda a lui la figlia, e si ferisce. Ansare si maraviglia che avesse un ferro; Agesistrata ripiglia, due ne recai, e s’uccide.

Leon.

Di maraviglia e di terror son pieno!
Che dirà Sparta?

Ans.

I corpi lor si denno
Alla plehe sottrarre . . .

Leon.

Ah mai sottrarli
Mai non potrem dagli occhi nostri ...Oh Dio!

Sofonisba. Non può negarsi all’Alfieri il vanto di tragico egregio al veder trattato con superiorità quest’argomento da molti abili Francesi maneggiato con poca fortuna. Ha questa tragedia, come le prime impresse, quattro personaggi. Spicca tra essi il carattere di Sofonisba. Siface non è men generoso per amore di quello che si dimostra la consorte per fuggir la propria vergogna. Massinissa ama fervidamente, nè scarseggia di grandezza, benchè trascorra a qualche proposito poco misurato. Scipione però grande per se stesso, quì non fa vedere che la sua amicizia per Massinissa in salvarlo, scusarlo, compatirlo, e diviene il personaggio meno importante dell’azione. Ben sel vide il valoroso autore, e candidamente affermò, che egli la raffredda ogni volta che se ne impaccia.

Bruto primo è dedicata al generale Washington, e v’intervengono sei personaggi, oltre del Popolo Romano che anche parla. Dopo varie buone tragedie italiane e francesi di Giunio Bruto, il conte Alfieri ha maneggiato quest’argomento senza amori, e con nuovo interesse ed energia. Lo spettatore vede sotto gli occhi suoi nascere la potestà popolare in Roma., e prendere il romano eroismo un maraviglioso incremento scosso il giogo de’ Tarquinj. La parlata di Bruto nell’atto I e la vista del corpo trafitto di Lucrezia infiamma l’indignazione del Popolo, che decreta l’espulsione de’ tiranni, e nomina i primi consoli. L’esame del delitto de’ figli di Bruto nell’atto IV, i quali veggonsi come rei in mezzo a’ littori, disviluppa egregiamente il carattere di Bruto che obblia d’esser padre, e si rammenta sol della patria. Il pentimento de’ figli più inconsiderati che colpevoli di tradimento, lacera il cuore di si gran padre sensibile al pari di ogni altro ove non si tratti della patria. Oh figli, ei dice,

Deh per or basti. Il vostro egregio e vero
Pentimento sublime a brani a brani
Lo cuor mi squarcia . . . . .
A far rinascer Roma
L’ultimo sangue or necessario è il mio.
Purch’io liberi Roma, a voi nè un solo
Giorno, o miei figli, io sopravviver giuro.
Ch’io per l’ultima volta al sen vi stringa,
Amati figli . . . ancora il posso . . . Il pianto
Dir più omai non mi lascia...Addio, miei figli.

Tutto l’atto V che consiste in due non brevi scene contiene l’esposizione della congiura al Popolo, e la venuta de’ rei alla sua presenza. Nel dispiegarsi il delitto di Tito e Tiberio il Popolo cade quasi ad eccettuarli dalla punizione degli altri. Ma Bruto con eminente costanza aringa mostrando l’ingiustizia che si commetterebbe salvando solo que’ due; e i suoi sentimenti sono degni del primo de’ Romani liberi. Conchiude:

E’ necessario un memorando esempio
Crudel ma giusto. Ite, o littori, e avvinti
Sieno i rei tutti alle colonne, e cada
La mannaja sovr’essi . . . .
L’orrido stato
Mirate or voi del padre . . . Ma già in alto
Stan le taglienti scuri ... oh ciel! partirmi
Già sento il cor ... Farmi del manto è forza
Agli occhi un velo . . .
Eterna
Libera sorge or da quel sangue Roma.

Collat.

Oh sovraumana forza!

Valer.

Il padre, il die
Di Roma è Bruto.

Popolo.

E’ il dio di Roma ...

Br.

Io sono
L’uom più infelice che sia nato mai.

Mirra dedicata alla contessa Luisa Stolberg d’Albania con un sonetto. Non avverrà mai più che si vegga un amor più criminoso maneggiato con maggior decenza e destrezza. Mirra si rende degna di tutta la compassione, e pure è macchiata del più abominevole ardore che trovisi dall’antichità favoleggiato. Il più rigido filosofo non prescriverebbe rimedj più attivi di quelli che a se Mirra stessa impone per seppellire nel fondo più cupo del cuore la sua passione fatale e per trionfarne. A costo di morir languendo ella tace, ella sceglie uno sposo amabile che l’adora, ella impetra di abbandonare i suoi come celebrate siensi le nozze, ella è vinta dagl’interni tumulti, è soperchiata, e fa svaporare l’intenso suo do lore, cagiona senza volerlo la morte dell’appassionato Perèo suo sposo, ed incorre nello sdegno di Ciniro suo padre. Al fine chiamata viene alla sua presenza colla più tormentosa ripugnanza. Tutte le vie tenta Ciniro per astringerla a parlare; dolcezza, minacce, insinuazioni; intravede che ella ama, ed ella lo confessa col più angoscioso stento. Dubita Ciniro che sia oscura ed ignobile la sua fiamma, ed ella nega:

       Ah non é vile . . . è iniqua
La fiamma mia, nè mai . . .

Cin.

Che parli? iniqua?
Ove primiero il genitor tuo stesso
Non la condanna, ella non fia: la svela.

Mir.

Raccapricciar d’orror vedresti il padre,
Se la sapesse . . . Ciniro . . .

Cin.

Che ascolto!

Mir.

Che dico? ahi lassa! non so quel ch’io dica . .
Non provo amor ... Non creder, no . . . Deh lascia,
Te ne scongiuro pur l’ultima volta,
Lasciami il piè ritrarre.

Ciniro al fin le dice che i suoi modi le hanno tolto l’amor del padre.

Mir.

        Oh dura,
Fera, orribil minaccia! . . Or al mio estremo
Sospir che già s’appressa ... alle tante altre
Furie mie l’odio crudo aggiugnerassi
Del genitor? . . . Da te morire io lungi?
Oh madre mia felice! almen concesso
A lei sarà . . . di morire . . . al tuo fianco.

Cin.

Che vuoi tu dirmi? ... Oh qual terribil lampo
Da questi accenti! . . . Empia tu forse . .

Mir.

Oh cielo!
Che diss’io mai? Me misera! . . Ove sono?
Ove mi ascondo? Ove morir? Ma il brando
Tuo mi varrà.

Si trafigge con la spada del padre. Ciniro resta abbattuto dall’orrore, dall’ira, dalla pietà; non sa nè appressarsi a lei per le ree sue fiamme, nè abbandonar la figlia che spira. Arriva Cecri, ode che Mirra giace svenata di propria mano, vuole appressarsi, Ciniro l’impedisce:

Cin.

        Più figlia
Non c’è costei. D’infame orrendo amore
Ardeva ella per . . . Ciniro.

Cec.

Che ascolto!
Oh delitto!

Cin.

Deh vieni: andiam, ten priego,
A morir d’onta e di dolore altrove.

Cec.

Empia . . . Oh mia figlia! . . .

Cin.

Ah vieni.

Cec.

Ahi sventurata!

E’ condotta via a forza da Ciniro.

Mir.

        Quando io . . . tel chiesi . . .
Darmi . . . allora, Euriclea, dovevi il ferro,
Io moriva ... innocente ... empia ... ora ... muojo.

Tutto in essa è patetico, tragico, ed in ottimo e puro stile espresso1. Non ci voleva che l’Alfieri sagace investigatore del cuore umano a trattar quest’argomento scabroso e detestabile colla più dilicata decenza. Questa è forse, o ch’io m’inganno, la tragedia che meglio scopre i rari suoi talenti tragici.

Bruto secondo indirizzata bizzarramente al Popolo Italiano futuro, in cui confabulano, oltre del Popolo, sei personaggi, Bruto, Cesare, Antonio, Cicerone, Cassio, Cimbro. Grandeggia l’Alfieri dove tratta di libertà. V’ introduce i più grandi uomini de’ Romani del tempo di Cesare segnalandoli co’ distintivi del lor carettere tramandatoci dalla storia. Cesare è grande ed ambizioso, nè offusca col suo splendore il carattere dell’intrepido Marco Bruto, come si nota nel Marco Bruto, tragedia per altro pur pregevole di Antonio Conti. L’Alfieri pone in azione lo stesso contrasto adoperato dal Voltaire di Bruto libero cittadino Romano con Bruto figliuolo di Cesare; ma oso dire che in alcun tratto se ne prevale con qualche superiorità. Qual cosa v’ha di più grande della 2 scena del III tra Cesare e Bruto? Il parlar veramente romano astringe Cesare a dire:

        Io vorrei solo al mondo
Esser Bruto, s’io Cesare non fossi.

Bru.

Ambo esser puoi, molto aggiugnendo a Bruto,
Nulla togliendo a Cesare, ten vengo
A far l’invito io stesso. In te stà solo
L’esser grande davvero: oltre ogni sommo
Prisco Romano, esser tu il puoi: fia il mezzo
Semplice molto: osa adoprarlo: io primo
Te ne scongiuro . . . .
Ardisci, ardisci, il laccio infame scuoti,
Che ti fa nullo a’ tuoi stessi occhi, e avvinte
Ti tiene schiavo, più che altrui non tieni.
A esser Cesare impara oggi da Bruto.

Ma che lasciare e che scerre de’ forti tratti della maschia eloquenza di Bruto? Tutto a me sembra degno della gravità del coturno. Cesare indi gli svela l’arcano che egli è suo figlio, e la scena nel nuovo oggetto prende vigor nuovo per la natural tenerezza che in entrambi traluce, nulla togliendo al carattere ed al proposito di ciascuno. Oh colpo inaspettato e fero! grida Bruto scorso il biglietto di Servilia,

Io di Cesare figlio?

Ces.

Ah, sì, tu il sei.
Deh fra mie braccia vieni.

Bru.

Oh Padre . . . oh Roma!
Oh natura! . . . oh dover! . . .

Ma dopo qualche espressione ripiglia,

        La vita
Dammi due volte: io schiavo, esser nol posso,
Tiranno, esser nol voglio. O Bruto è figlio
Di libero uom, libero anch’egli, in Roma
Libera: o Bruto esser non vuole. Io sono
Presto a versar tutto per Roma il sangue,
E in un per te, dove un Roman tu sii,
Vero di Bruto Padre ... Oh gioja! ... Io veggo
Sul tuo ciglio spuntare un nobil pianto.
Rotto è del cor l’ambizioso smalto,
Padre or tu sei.

Ma dicendo Cesare

Troppo il servir di Roma è ormai maturo.

Bruto esclama,

        Oh parole!
Oh di corrotto animo servo infami
Sensi! A me no, non fosti, nè sei padre ....

Ces.

Oh figlio!

Bru.

Cedi, o Cesare ...

Ces.

Ingrato! ... snaturato! ...
Che far vuoi dunque?

Bru.

O salvar Roma io voglio,
O perir di tua mano.

Si separano fermi l’uno di secondare la propria ambizione, l’altro di rendere a Roma la libertà. Bruto nell’atto V prende la parola in Senato, e dice che Cesare vi è venuto per mostrare che sa trionfar di se stesso, e per far certo il Senato che saranno ristabilite le leggi. Cesare col dar ordini in tuono di signore disapprova i detti di Bruto, e risolve l’impresa de’ Parti. Allora Bruto dà il segno, e i congiurati si avventano a Cesare e l’uccidono. Compiesi la tragedia coll’aringa di Bruto al Popolo, il quale da prima s’irrita alla vista di Cesare trafitto, indi ascolta Bruto con attenzione, e finalmente detesta il tiranno e corre a difendere la propria libertà. L’Alfieri termina la tragedia colla parlata di Bruto che persuade il Popolo; nè a lui era lecito di far comparire Antonio, il quale, presentando al Popolo stesso il cadavere di Cesare, lo svolge, l’inflamma, e lo spinge a perseguitarne gli uccisori. Ciò ben convenne al Voltaire che volle rappresentare la Morte di Cesare, e sarebbe disconvenuto all’Alfieri che si prefisse di dipignere l’eroismo di Bruto che fa rinascere la repubblica.

L’illustre autore nell’edizione parigina chiude la collezione de’ suoi tragici lavori colla licenza che prende dal pubblico con una terzi na:

Senno m’impon ch’io qui (se il pur calzai)
Dal piè mi scinga l’italo coturno,
E giuri a me di nol più assumer mai.

Ponendo noi pur fine al ragionarne aggiugniamo, per chi amasse di udirlo, il nostro avviso qualunque siesi sul merito di ciascuna sua tragedia nella guisa che si presenta a’ nostri sguardi. Esse possono contarsi tralle migliori del secolo; e con quelle del Varano, del Maffei, del Granelli, con alcune delle ultime del Pepoli, coll’Aristodemo del Monti (mal grado delle eccezioni che vi s’incontrano) formano il più ricco corredo tragico che possano gl’Italiani additare agli stranieri. Che se a chi legge piacesse ancora d’intendere la differenza che in quelle dell’Alfieri a me par di vedere, saprà che io tengo per eccellenti coll’ordine seguente Mirra, Bruto primo, Bruto secondo, Merope, Timoleone, Agide: per buone in secondo luogo rapportato alle nominate Agamennone, Polinice, Virginia, Oreste, Saul, Sofonisba: per buone con varj nei che io credo di osservarvi, Filippo, Antigone, la Congiura de’ Pazzi, Ottavia: in ultimo luogo per tollerabili soltanto, in grazia di alcune bellezze che pur vi si notano, Don Garzia, Rosmunda, Maria Stuarda 1.

ADDIZIONE IV*
Versione dell’Epidico, e di alcune Commedie Francesi.

Abbiamo ancora una bella versione inedita dell’Epidico fatta dal più volte lodato sign. ab. Bordoni rimessami cortesemente dall’autore nel 1796. Si rende essa notabile per una fedeltà signorile che fa conoscere talmente le grazie latine di Plauto nelle maniere italiane, che pajono originali. Si farebbe torto al rimanente col recarne alcuni squarci; pure altro quì non potendosi trascriveremo una parte solo della vaga scena seconda dell’atto II, in cui avendo inteso da parte Epidico il disegno de’ vecchi Apecide e Perifane, e la spina della sonatrice che punge il cuore di quest’ultimo, perchè amata dal figliuolo, fabbrica sul punto la sua macchina, e bellamente la colorisce per ismungerne la borsa. S’introduce con avvisare che quelli che andarono alla guerra di Tebe, ritornano alle loro case. Chi può (gli dice Apecide) aver tutte queste notizie? Io (risponde) che ho vedute tutte le strade piene di soldati; ed aggiugne:

“Epid.

Quanti prigionieri poi non ho io veduti! Quanti ragazzi! quante ragazze! Chi ne avea due, chi tre, alcuni fino a cinque. Che concorso, che folla di gente! I padri vanno ad incontrare i loro figliuoli che vengono dall’esercito.

“Peri.

L’impresa non potea andar meglio.

“Epid.

Non vi dico niente delle cortigiane: tutte quelle che vi sono in Atene, vedevansi uscite dalle loro case azzimate e linde andar incontro a’ loro amanti, nulla obbliando per accappiarli; e ciò che mi diè più nell’occhio si fu, che quasi fosser tante pescatrici, avean tutte delle reti sotto le loro vesti. Arrivando al porto, vedo tosto quella cara sonatrice, che stavasene aspettando, e che avea seco altre quattro virtuose sue pari.

“Peri.

Chi è costei?

“Epid.

Quella che da tanto tempo è amata da vostro figliuolo, per la quale è quasi divenuto pazzo, e per la quale è sul punto di rovinare la sua riputazione, il suo stato, ed il vostro. Questa gioja dunque stavalo aspettando al molo.

“Peri.

Ah strega maledetta!

“Epid.

Se l’aveste veduta! che vestito! che pompa! come magnifica, galante, ed aggiustata all’ultima moda!

“Peri.

Dinne, dinne com’ era dessa vestita. Era in abito succinto, o con gran falbalà, o avea forse il cortile, giacchè v’è l’uso di dar in oggi ai vestiti de’ nomi stravaganti?

“Epid.

Sì, sì; ma il cortile addosso?

“Peri.

Forse ti maravigli che all’abito che esse portano, diano il nome di cortile, quasichè non ne veggiamo tutto il giorno che hanno indosso il prezzo di un podere intero? Il male si è, che i nostri Zerbinotti, che profondono a braccia quadre per le loro signorine, quando si tratta poi di pagar le gravezze, dicono che non sono in istato di metter fuori un quattrino. Ma ci pensino essi. Chi potrebbe poi tener a mente la lista de’ nomi ch’esse inventano ogni anno pe’ loro vestiti? L’ermisino, la saja, il linon trasparente, la musolina ricamata, la camicia d’amore, l’abito color d’oro o ranciato, la gonnella, il gonnellino, il velo da testa, il manto alla reale, quello alla forestiera, l’abito verde mar, il cangiante, il bianco di cera, quello a color del mele. In somma, per vedere sin dove giunga il loro delirio, hanno tolto il nome sino ai cani.

“Epid.

In qual maniera?

“Peri.

Chiamano col nome di Laconici certi loro vestiti. Queste continue mode, queste eterne novità obbligano gli uomini alla fine a vendere i loro effetti per contentar le loro belle” ec.

Vogliono altresì rammemorarsi varie buone versioni dal francese inserite nella Biblioteca teatrale della stamperia Pepoliana. Sono: del prelodato sig. Bordoni la Metromania del Piron, il Bugiardo del Cornelio, i Litiganti del Racine, il Malvagio del Gresset; del sig. Francesco Apostoli la Madre Civetta del Quinault; del sig. Luigi Roverelli l’Amante imprudente del medesimo; di Antonio Simon Sografi il Tartufo del Moliere; di Francesco Tortosa l’Avaro del medesimo; di Elisabetta Caminer Turra l’Ammalato imaginario del medesimo; dell’ ab. Giuseppe Compagnoni il Dispetto amoroso del medesimo; dello stesso sig. Compagnoni l’Anfitrione del medesimo; dell’ab. Giacomo Bartoluzzi il Circolo, ovvero la Serata alla moda del Poinsinet; dell’ab. Giacomo Faini la Contessa d’Escarbagnas del Moliere; dell’ab. Carlo Pezzi l’Amor Medico del medesimo; di Girolamo Zanetti Giorgio Dandino del medesimo; del nominato ab. Pezzi il Signor di Porcognacco del medesimo; di Gaetano Faini le Furberie di Scapino del medesimo; del sig. Stefano Dada gli Originali del Fagan.

ADDIZIONE V*
Epoca della morte del Goldoni.

Egli godeva di una pensione che gli fu tolta nella grande rivoluzione della Francia; e sebbene gli venne poscia ridonata, ne godè molto poco, essendo morto a’ 9 di febbrajo del 1793.

ADDIZIONE VI*
La Tirannia domestica in versi, e la Commedia nuova in prosa del Signorelli: altre commedie degli ultimi anni.

Scrisse in seguito l’autore un’ altra commedia in due atti in versi intitolata la Critica della Faustina di un genere diverso da quello della commedia premiata, che pensava a produrre fra’ suoi Opuscoli Varj; ma non ha poscia più curato di pubblicarla. Nel 1781 compose un altra commedia tenera parimente in versi ed in cinque atti intitolata la Tirannia domestica, ovvero la Rachele. In essa volle mostrare come potevasi satireggiare comicamente l’abuso de’ nobili e de’ ricchi che gli emulano, i quali costringono le loro donzelle a chiudersi ne’ chiostri per non recare scapito alle sostanze della famiglia destinate a passare a’ primogeniti; la qual cosa con mal consiglio e con poco frutto intrapresero in Francia gli autori della Melania e dell’Eufemia tragiche e lugubri rappresentazioni senza fortuna e senza merito. Rimase la Tirannia domestica inedita sino al 1793, quando si è pubblicata nel terzo volumetto de’ nominati suoi Opuscoli 1. Oltre a questa ha prodotta l’autore in due atti in prosa la Commedia Nuova traduzione dal castigliano di quella già riferita del prelodato sign. de Moratin. Il Signorelli segue l’originale, usando solamente di qualche libertà nel dipignere i caratteri di Donna Rosina e Don Ermogene. Trovasi tal commedia impressa nel quarto tometto de’ riferiti Opuscoli pubblicato nel 1795.

Camillo Federici piemontese esgesuita, commediante infelice a cagione (dicesi) della sua figura, volendo riparar coll’ingegno ai torti che da questa gli venivano, prese a scrivere commedie per l’ottima compagnia lombarda di Giuseppe Pelandi, delle quali il pubblico rivede la maggior parte in iscena con piacere. Vanno in sei tomi nell’edizione prima di Torino del 1793 e 1794, e si sono impresse anche in Firenze nel 1794. Non pare che il maggior trionfo dell’autore provenga dalla piacevolezza e dalla forza comica. Conduce però spesso varie situazioni interessanti opportunamente, colorisce bene i caratteri, rileva con vigore la culta bricconeria e insinua la morale e la virtù. Le sue favole sono tutte scritte in prosa, ad eccezione di alcuna, come lo Schiavo, ossia il Ritorno dalla Soria scritta in versi sciolti e chiamata commedia non essendo tale in conto alcuno. Havvene delle lagrimanti sulle tracce delle inglesi e francesi. Tale è certamente in prima il Cappello parlante, ossia l’Elvira di Vitrì, in cui misti a situazioni lugubri e tragiche leggonsi motteggi comici; 2 tale il Ciabattino consolatore de’ disperati, la quale prende il titolo da un personaggio episodico, ed ha caratteri comici insieme con varj eccessi di disperazione che oltrepassano i confini della commedia, e presenta in Carlo Sundler un ritratto di quel padre che nella favola francese dell’Umanità si trasporta ad assalire un uomo di notte in una piazza pubblica per procacciar soccorso alla propria famiglia; tale 3 il Giudice del proprio delitto fatto per niun conto comico; tale 4 Totila o i Visigoti, in cui si osserva ancora con rincrescimento una deflorazione violenta. Alcuna tralle commedie del Federici dee riconoscersi per totalmente tragica, come lo Schiavo già nominata, in cui si trovano varj intoppi nella traccia, ne’ caratteri, e ne’ disegni. Ve ne sono varie ripiene di apparenze alla spagnuola, come il Tempo e la Ragione, che si dice allegoria comica, e v’intervengono esseri allegorici, Incostanza, Astrea, Capriccio, Ragione, Tempo, Scrutinio Segretario del Tempo, Errore, e vi si vede or la reggia di Astrea or della Fortuna, ora una Spezieria del Tempo, ora una officina dell’Errore, ora il gabinetto della Verità; nè di apparenze ed allegorie è men ricca la favola detta il Dervis, o Savio di Babilonia, ove si presentano Genj, Ninfe, la Disperazione, una Principessa che prende le spoglie della Gratitudine, e si vede la selva de’ Magi, e in un grande specchio compariscono gli eventi che accadono altrove a’ personaggi lontani. Non ne mancano di romanzesche, e tetre, ma però istruttive. Tali sono 1 la Vedova di prima notte, nella quale è singolarmente pregevole, e chiama l’attenzione, l’abboccamento della scena sesta dell’atto quarto tralla donna e un suo antico amante, che giugne e la trova maritata con un altro, il quale si scopre fratello di lei, cosicchè la disposizione della donna di non unirsi col marito trovasi fortunatamente di avere impedito un incestuoso congiungimento: 2 l’Uomo migliorato da’ rimorsi favola corrispondente al disegno dell’autore, interessando il carattere del Brigadiere Senval colla sua beneficenza e col ravvedimento che consola gli spettatori: 3 la Disgrazia prova gli amici, in cui si trova la dipintura di un ottimo Ministro che esperimenta tutte le umiliazioni da’ malvagi che lo credono disgraziato: 4 l’Udienza, ove si dimostra il vantaggio che reca al Sovrano ed a’ popoli la benignità de’ Principi che ascoltano di presenza le suppliche de’ vassalli; mostrandovisi un Ministro tiranno ed empio che occupa la gioventù del Principe in dissipazioni e piaceri, ed intanto egli opprime 1 popoli con atrocità ed ingiustizie enormi; ma il buon Principe d’ottima indole al vedere lo spettacolo di un indigente meritevole si scuote, risolve di ascoltare di faccia a faccia i vassalli, e con l’Udienza stabilita scopre gli sconcerti dello stato e le malvagità del suo Ministro che vien punito: 5 il Tempo fa giustizia a tutti, commedia di due antichi abbandoni, e di riconoscimenti, e vi si dipinge un libertino che si colma di delitti per le donne, e che in procinto di eseguire un ratto riconosce l’abbandonata sua amante e suo figlio e si ravvede. Piacevoli commedie di carattere sono poi le seguenti: 1 i Pregiudizj de’ paesi piccioli, in cui si dimostra la ridicola picciolezza de’ paesi provinciali pieni di nuovi nobili divenuti tali per danaro di plebei che erano, i quali ricusano di ammettere ne’ loro casini un Uffiziale che non è meno che l’Imperadore: 2 i Falsi Galantuomini, in cui anche un sovrano va incognito, e scuopre le bricconerie di molti birbanti che prendono il nome di galantuomini, e le ingiustizie ed oppressioni di un Presidente che riduce all’ultimo esterminio un innocente colla speranza di acquistarne la moglie: 3 l’Avvertimento alle Maritate, dipintura di un giovane ingannato da un Don Geronimo che lo aliena da una buona Moglie, l’avvolge in dissipazioni, in debiti, in prodigalità, gli presta con esorbitanti usure sotto l’altrui nome, e lo riduce all’orlo del precipizio; ai quali sconcerti ripara la Moglie colla propria saviezza e colla sua dote: 4 l’Avviso ai Maritati, ossia la Correzione delle Mogli capricciose, nella quale una Dama vana, indocile, ritrosa, inobediente vien trasformata in umile, rassegnata, e modesta negli abiti, e nelle maniere da un ricco Uffiziale che la sposa, l’allontana da tutto ciò che prima a lei piaceva, e mostrando con forza un apparente rigore alla bella prima, la guarisce; solo in tal favola si mira come ozioso il personaggio del conte Ippolito che si enuncia come suo marito, e si fa credere morto, e nulla poi produce per l’argomento: 5 Non contar gli anni a una Donna si aggira sul risentimento di una giovane innamorata, il cui amante ha avuta l’imprudenza di contraddirla allorchè ella si faceva di anni ventidue, e di sostenere che ne contava ben ventisette; i parenti si adoprano per calmarla, ma prendendo l’amante a lor consiglio una freddezza ed indifferenza apparente, ella ne smania, vuol ricondurlo al suo amore, e finge di essersi avvelenata, ma scoperta la sua macchina n’è derisa, e calmata al fine sposa il suo amante: 6 la Fanatica per ambizione di quattro atti rappresenta una figliuola di un negoziante ricchissimo, la quale presa da matta vanità e da superbia intollerabile, disprezza quelli che aspirano alle nozze di lei, dice a tutti sul viso i lor difetti, e se ne concilia l’odio; uno di essi la tratta con pari alterigia ed insolenza, la rimprovera alla sua volta e la mortifica; ne vien poi procurato il cangiamento con un fallimento apparente del padre e con un abbandono e un’ alienazione di tutti quelli che la bramavano quando era ricca: 7 il Matrimonio in maschera è un capriccio di una Signora che s’intalenta di sperimentare, se un Cavaliere che ella ama, saprebbe ravvisarla e distinguerla a viso nudo in una festa di ballo, non avendogli mai parlato senza maschera; a forza di tali ipotesi condotte con certe non molto verisimili circostanze ella si assicura che l’ama, si smaschera, e lo sposa: 8 la Cambiale di matrimonio, ossia la Semplicità che non è delle più vivaci e graziose, rappresenta l’avarizia di un negoziante Inglese Europeo, e la semplicità di un Inglese Americano; l’Europeo accetta la commissione di trovare all’Americano una sposa, e pensa di darle sua figlia, la quale è già prevenuta di un onesto giovane; l’Americano zotico e selvaggio nelle maniere, ma semplice e benefico, al vedere le ripugnanze della sposa e all’intenderne la sorgente, risolve di fornire al giovane amato colle proprie ricchezze i mezzi di soddisfare l’avarizia del Padre che ricusava di dargliela per non esser ricco; ma uno zio del giovane più ricco dell’Americano gli dona il suo, e tutto si calma. Questo novello scrittore drammatico prosegue ad arricchire le scene italiane con profitto considerevole delle compagnie comiche.

Il conte Alessandro Savioli ha prodotto in Trento nel 1793 il Pregiudizio della Nobiltà commedia in tre atti mentovata nel giornale della Letteratura Italiana di Mantova nella Parte I del tomo II. Il conte Tommasini Soardi Veronese ha composte varie commedie in prosa ed in versi raccolte in quattro tomi avute in pregio dagl’intelligenti, e singolarmente quelle scritte in prosa. Nè queste nè quella del Savioli sono state da me lette per render loro come converrebbe la dovuta giustizia.

L’autore delle tragedie surriferite gli Esuli Tebani, Gerbino, e Corradino, volle scrivere anche una commedia intitolata l’Emilia in cinque atti ed in versi recitata da’ commedianti Lombardi nel teatro de’ Fiorentini di Napoli, che fu sollennemente fischiata. S’impresse indi nel 1792 pel Raimondi coll’epigrafe di due passi di Terenzio, i quali col testimonio dell’autore ne comprovano la caduta mortale. L’impressione giustificò il giudizio del pubblico che la derise. Essa è in fatti una prosa mal misurata in lingua non assolutamente italiana, o napoletana, o forense, o scolastica, ma tutto ciò rimestandosi ne risulta la locuzione dell’Emilia. Lo stil dimesso e triviale si eleva facendo camino con salti or lirici, or tragici, or secentisti; l’azione è nulla, e priva di ogni interesse, l’economia mal disposta, i caratteri falsi o inetti, lo scioglimento addotto puramente a volontà dello scrittore1.

Terminiamo il racconto de’ nostri poeti comici ecc.

ADDIZIONE VII*
Fisedia del co: Pepoli

Piacque al fecondo conte Pepoli di produrre nel 1796 in Venezia sul teatro, e per le stampe un nuovo componimento intitolato Ladislao in quattro atti. Non è nè tragedia, nè commedia, e porta il nuovo titolo di fisedia, cioè canto della natura ristretta agli uomini. L’azione di questo dramma di lieto fine presentato dall’autore come un nuovo genere passa in Buda, sul Danubio e nelle montagne del Crapac nello spazio di più di due mesi. V’intervengono due re, una regina che tratta l’armi, una principessa innamorata di un vassallo, un militare che ama la figlia del suo re, una pastorella che amoreggia e scherza e motteggia, un veterano bevitor di vino interdettogli dall’innamorata, un astrologo sciocco, avaro e furbo. Vi si parla in prosa e in versi in ogni stile da’ medesimi personaggi. Varj colpi teatrali ed alcune situazioni che interessano, hanno contribuito a cattare applauso a questo dramma in uno de’ teatri di Venezia. Singolarmente debbono lodarsene le scene quinta, sesta e nona dell’atto III, terza e sesta colla conchiusione del IV. Non sono così persuaso bene di alcune cose del II. Passi che Rodolfo tornato dal Crapac in Buda, in trenta giorni non ha colta nella reggia l’opportunità di abboccarsi colla regina Adelarda, per dirle che Ladislao suo marito vive. Sorge però in me singolarmente qualche dubbio per gli eventi che in esso accaggiono. Sofia nella scena settima senza prenderne consiglio dall’amante si presenta, e si fa conoscere ad Adelarda sua madre; Rodolfo subito propone per prima impresa di salvar l’una e l’altra. Ma perchè renderla doppiamente ardua e pericolosa per la necessità di salvarne due? Perchè Sofia che non osservata è venuta ed ha in quel punto parlato alla regina, non esce dalla reggia, lasciando a Rodolfo la sola cura di salvar la madre che è piena di coraggio virile? Perchè esporre una tenera fanciulla al pericolo di un precipizio per via scoscesa e per una scala in tempo di notte, quando poteva uscir di giorno, com’ era venuta, dalla porta? Ciò è fatto perchè salvata Adelarda, lo spettatore vegga Sofia rimasta in potere di Otogar e nel pericolo stesso della madre. Non parmi poi di vedere un nuovo genere nel Ladislao; e se in vece di dividerlo in atti, si distingua alla spagnuola in giornate, si ravviserà in esso una pretta commedia del Vega o del Calderòn ec.; ovvero in dodicimila commedie spagnuole, ed in altrettante inglesi, alemanne e francesi ancora del tempo di Hardy, Monchretien e Jodelle, si riconosceranno altrettante fisedie. Il Ladislao occupa due mesi, o poco più di rappresentazione, per osservar la legge II della Fisedia: e molte commedie del Solis del Roxas, del Moreto, non eccedono pel tempo quale i tre e quale i dieci giorni. Il Ladislao conforme alla III legge non distende la libertà del luogo contro la verisimiglianza, benchè l’azione segua or nella reggia di Buda, or sul Danubio, ora in varj siti dei monti del Crapac lontani dalla capitale dell’Ungheria più giorni di camino: e l’azione di qualche commedia del Roxas non oltrepassa poche miglia di distanza accadendo in tre luoghi differenti. Il Ladislao giusta la legge V bandisce tutto quello che suol farsi avvenire per macchina: ed in più migliaja di commedie spagnuole di spada e cappa ed eroiche ancora, punto non ha luogo macchina di veruna sorte. Nel Ladislao il Pepoli si serve della prosa e del verso a norma delle circostanze e della natura, giusta la legge VI: e tutte le favole inglesi di Shakespear, Otwai, Dryden ecc. osservano la medesima legge. L’autor del Ladislao mesce liberamente l’interesse ed il ridicolo colla preponderanza del primo per la legge VIII: e tutte le favole inglesi, spagnuole ed anche francesi prima del XVII secolo, servano la stessa regola. Nel Ladislao non si estende il ridicolo all’oscenità per la legge X: ma l’oscenità se è stata talvolta usata nelle commedie da alcuni autori, non è stata mai nè lodata nè prescritta per la stessa commedia bassa, ma detestata dovunque trovisi. Il Ladislao per la legge XIV termina lietamente: e tutte le favole spagnuole e tante inglesi ed alemanne sono di lieto fine, e per questa parte ancora sono fisedie. Ciò m’induce a credere che una fisedia è un nome nuovo, e non un nuovo genere ma vecchio oltremodo ed oltremodo e meritamente riprovato.

ADDIZIONE VIII*
Teatro di san Ferdinando in Napoli.

Il migliore dei descritti teatri napoletani è quello che si costrusse nel sito detto Pontenuovo terminato nel 1791 intitolato san Ferdinando. L’ingegnere napoletano Camillo Leonti ne fu l’architetto, Domenico Chelli toscano il dipintore. La figura della platea è ellittica, ha palmi quaranta di larghezza nel maggior diametro, quarantadue di lunghezza, e quarantatrè e mezzo di altezza dal pavimento alla finta volta; la scena che in faccia agli spettatori ha un orologio, di lunghezza è palmi ventisette. Vi sono cinque file di palchetti, delle quali ciascuna ne contiene tredici di otto palmi di altezza ognuno. Ha inoltre una facciata regolare e senza tritumi, un atrio con due stanzini laterali, e comodi corridoi. Se l’oggetto d’un teatro, musicale specialmente, è che ben si vegga da ogni parte, e che le voci e l’armonia si diffondano nettamente, questo teatro è uno de’ pregevoli che se ne sono costruiti. Ad ottenere un continuato concorso altro non manca al teatro di san Ferdinando se non che fosse collocato men lontano dagli altri teatri e dal centro della città e dalle vicinanze della Reggia.

ADDIZIONE IX*
Altre opere buffe in Napoli.

Altre opere del Federico sono le seguenti: la Rosaura del 1736 colla musica di Domenico Sarri: Da un disordine nasce un ordine del 1737 colla musica di Vincenzo Ciampi: l’Alidoro del 1730 colla musica di Leonardo Leo: l’Alessandro del 1742 colla musica del medesimo Leo: la Lionora del medesimo anno colla musica del Ciampi nelle parti serie e di Niccolò Logroscino nelle buffe. Commedie pur furono benchè di bellezza minore le opere di Pietro Trinchera autore della Vennegna cantata colla musica di Gaetano Latilla nel teatro della Lava, e dell’Abate Collarone cantata nel medesimo teatro colla musica di Domenico Fischetti, che poi dal medesimo autore si rifece per cantarsi in quello de’ Fiorentini nel 1754 col titolo le Chiajese Cantarine colla medesima musica del Fischetti, ma con alcune mutazioni fattevi dal Logroscino. Scrisse il Trinchera molte altre opere buffe, e singolarmente la Tavernola abbentorata ecc.

ADDIZIONE X*
La Pietra simpatica del Lorenzi.

Dopo molti anni di silenzio il medesimo sig. Lorenzi ha data al teatro de’ Fiorentini l’anno 1795 la Pietra simpatica colla musica di Silvestro di Palma. In questa piacevole farsa in due atti si motteggiano i filosofi falsi naturalisti e vulcanici. Vi si rilevano comicamente le ridicolezze di coloro che vogliono dare ad intendere di studiare per dieci o dodici anni la natura de’ ragni e de’ gatti. Vi si proverbia la filosofica credulità di chi sostiene che nuvoloni gravidi di sassi vulcanici cadono poi giù lontanissimi da’ paesi dove si generano. Con una pretesa pietra simpatica, detta altrimenti cornea, si conchiude un matrimonio conteso dal naturalista zio della giovane destinata ad un ridicolo suo discepolo, il quale è preso a sassate, che gli si fanno credere cadute dal cielo. Per farne comprendere lo spirito e la piacevolezza, ne adduco qualche squarcio. Una finta dama oltramontana che si millanta studiosa de’ vulcani, si presenta al naturalista Mario, il quale l’invita a vedere la sua casa:

Macar.

Vedrà gatti in famiglia,
Serpenti in società, ragni in amore,
Studj profondi e varj
Di noi naturalisti
Che siam della natura i segretarj.

Errighet.

Ma voi da questi studj
Che ricavate poi?

Macar.

Molto, Ma dama.
Primieramente apprendo
Il linguaggio de’ gatti,
Per poi darne alle stampe
Un dizionario a comodo
Delli studiosi. Ne’ serpenti poi
Noto il talento, come
Nel darli da mangiar, dalle stantive
Distinguon le uova fresche.

Errigh.

E ne’ ragni?

Macar.

Rifletto,
Che per essi potrebbe
Fiorire un altro ramo di commercio.

Errigh.

Da’ ragni?

Macar.

Certo: ed ecco il come: di esse
Moltiplicando per le case il numero,
E raccogliendo poi li ragnateli,
Cardarli, e poi filati
Farne vaghi lavori:
E in tante balle poi mandarli fuori.

Un altro squarcio è dell’ultima scena dell’atto I. I congiurati contro i due sciocchi naturalisti a favore degli amanti, fanno piovere una tempesta di sassi sulle spalle di Don Sossio destinato sposo della nipote di Don Macario suo maestro. I letterati stimando che tali pietre sieno cadute dalle nuvole, vogliono sapere la sostanza di esse; Sossio obbliando il dolore risponde,

Soss.

Io parlando con creanza
L’ho per pietre piritose . . .

Corrad.

Oh che porco!

Soss.

Mi perdoni:
Piritose concrezioni
Son . . . cioè . . . mi spiego . .

Macar.

Taci.
Cachelonie le cred’io . . .

Corrad.

Peggio peggio.

Macar.

Padron mio,
Cachelonie son chiamate,
Perchè intorno al fiume Cach
Nel paese de’ Calmuchi
Son trovate . . . E vengon quà.

Errigh. & Corrad.

Cachelonie! ah ah ah.

Corrad.

Questi son mattoni cotti.

Errig.

Son vulcanici prodotti.

Si risolve di farsene l’analisi. E mentre si recano i reattivi, i carboni ec., vengono dal giardino i servi dicendo spaventati che non solo tutti i gatti sono fuggiti pel giardino, ma che i serpenti ancora rotta la rete che gli chiu. dea sono scappati, e tutti fuggono atterriti. La musica piena di armonia, di verità e di novità si accordò colla grazia comica esagerata e propria della farsa, e la riuscita su piena e si recitò per moltissime sere con gran concorso, e nel 1796 si è ripetuta col medesimo diletto e con frequenza di ascoltatori.

ADDIZIONE XI*
Altri melodrammi istorici.

Non è mancato qualche altro melodramma istorico in Italia, come il Pirro del toscano sig. Gamerra, il Creso del sig. Pagliuca napoletano, ed il Socrate dell’esgesuita Antonino Galfo attualmente vivente in Modica sua patria. Il primo si cantò nel real teatro di san Carlo in Napoli, e piacque; il secondo sento che non ebbe simil destino; il terzo non si è mai rappresentato. Trovasi il Socrate impresso in Roma nel 1790 nel tomo quarto del suo Saggio poetico. Disse nella prefazione l’autore di non averlo chiamato dramma per musica, ma componimento drammatico, non avendolo composto per andar sulle scene; ed in fatti egli si allontana da tutto ciò che determina gl’impresarj alla scelta dei drammi. Il Metastasio in una lettera che gli scrisse, n’encomia lo stile come robusto e lusinghiero, la ricchezza de’ pensieri, la vivacità delle immagini, la solida dottrina sparsa nelle numerose massime morali, i lampi poetici delle comparazioni. E certamente si riconosce nel suo stile forza e dolcezza; le immagini abbondano e forse oltre il bisogno in qualche situazione; le moralità copiose non disconvengono al filosofo rappresentato e alla di lui famiglia. Quasi tutte l’arie contengono studiate comparazioni sulle tracce di qualche splendido difetto del Poeta Cesareo. Quelle di passione non oltrepassano le sette, altrettante sono le parlanti, e ben quindici di comparazioni, fralle quali una ve n’ha fin del Cavallo Trojano che entra in Troja col manto della pietà. Che che sia di ciò si ravvisa in lui uno de’ migliori imitatori dello stil Metastasiano, che però si preserva dalla languidezza e trivialità della maggior parte di chi si lusinga di seguir Metastasio quando si abbandona alla propria mediocrità. Il Galfo si dimostra vigoroso, vario, abbondante e facondo nel dire. L’economia e la traccia dell’azione forse richiedevano più artifizio ed incatenamento, e situazioni più tragiche in siffatto argomento. Non vi si desiderano scene interessanti, e tale è singolarmente la 12 dell’atto II. Compose ancora l’autore non poche cantate, che ora introducono a parlare Alcina e Ruggiero, ora Armida e Rinaldo, or Mentore e Telemaco. Vi campeggia la copia delle immagini, la scelta delle maniere, l’armonia della versificazione. Lo stile è fiorito e talvolta lussureggia, ma la varietà delle idee, e l’eloquenza poetica lo rende pregevole.

L’erudito conte della Torre Cesare Gaetani nato nel 1718 nell’età di anni 78 in cui si trova non ha tuttavia tolto congedo dalle muse sceniche. Nel 1794 pubblico in Siracusa le Nozze di Ruth cantata nel Duomo di quella città nell’anniversario di santa Lucia. Pel medesimo oggetto compose il Giudizio di Salomone nel 1795, nel quale veggonsi con maestria scolpiti i caratteri di Giosaba madre falsa del bambino conteso e di Bersabea madre vera, che chiama l’attenzione in ogni occorrenza co’ palpiti materni nell’attendere e nel sentire la strana decisione. In una lettera del sig. conte scrittami a’ 26 di ottobre del 1796 condiscendendo cortesemente alla mia richiesta mi rimise una nota degli altri suoi Oratorii e di altre produzioni sceniche. Esse sono: il Trionfo di Giuditta, Mosè bambino al fiume, il Sacrificio di Jefte, l’Eccidio di Sisara, la Luce degli occhi, la Scala di Giacobbe, il Viaggio di Tobia, Aretusa ed Alfeo ed altre per la ricorrenza del santo Natale.

Antonio di Gennaro già Duca di Belforte morto nel gennajo del 1792 lasciò tralle altre sue poesie alcuni componimenti drammatici da cantarsi verseggiati con eleganza e con armonia. Oltre di varie cantate assai vaghe trovasi in prima nel volume terzo dell’edizione nitida, in cui non si desidera che un poco più di correzione, fattasene nel 1796, un Oratorio per musica nella liquefazione del sangue di san Gennaro nel maggio del 1765, in cui intervengono Onnipotenza, Religione e Partenope, e vi si mentovano acconciamente le calamità che afflissero la nostra città e buona parte del regno nel 1764. Vi si legge poi la Primavera componimento drammatico scritto pel solito omaggio di fiori e di frutta presentato a’ Sovrani nel primo di maggio del 1775; si ammira in esso il più bell’elogio fatto dalla Primavera personificata ai pregi naturali del sito e del clima di Partenope e delle ubertose campagne che soggiacciono al Vesuvio cagione della squisitezza de’ prodotti e della salubrità delle acque e dell’aria. Havvi altresì due favole boscherecce musicali, l’Isola incantata, e l’Amor vendicato, delle quali s’ignora l’epoca. E’ però noto che la prima si scrisse e si pose in musica a privato trattenimento di una brillante compagnia di dame napoletane che dettavano allora leggi al gusto e alle maniere. Vi s’introducono quattro ninfe caeciatrici vivi ritratti di quelle dame, e gli evenimenti ideati adombrano il vero col velo misterioso della poesia. L’Isola incantata che seduce le ninfe, e la pianta che al cadere rompe l’incanto, discendono dall’isola e dal ponte varcato da Rinaldo del Tasso, e dalla pianta recisa nella selva incantata. Si osservino le istantanee mutazioni cagionate dal troncarsi la pianta fatale, che servirà anche per saggio dello stile:

Ma che! . . . s’oscura il giorno! . . .
S’addensano nel ciel nubi improvvise! . . .
Fischian orridi i venti! . . . impetuosa
La grandine si scaglia . . . il suol si scuote . .
Dalle radici immote
Par che l’orbe vacilli! e par che avvampi
L’isola tutta allo strisciar de’ lampi! . . .

L’altra favola boschereccia si aggira sulla vendetta presa da Cupido di Apollo rendendo schiva e severa a’ suoi prieghi Dafne figlia di Peneo. L’autore ingentilisce la favola rendendola di lieto fine con mostrar Dafne restituita alla vita, ed Apollo placato e sol contento di cingersi la fronte e la cetra dell’immortale alloro che svelse dall’amata pianta. Lo stil drammatico del Gennaro è quello, a mio credere, signorile, che nè serve al metastasiano nè si eleva oltre la naturalezza e la proprietà del genere, che nulla ha di snervato e prosaico, e nulla acquista di stento e di durezza per affettare eleganza.

ADDIZIONE XII*
Morte d’Ercole del Pepoli: tragedie in musica del Calsabigi.

Non tutti però i pochi partigiani dichiarati dell’opera mitologica costantemente a questa si attennero. Due di essi per avventura i più infervorati a sostenerla, hanno pur voluto coltivar l’opera istorica, il conte Alessandro Pepoli di cui mi si avvisa la morte inopinata seguita in Firenze nel dicembre del 1796, e il consigliere imperiale Ranieri de’ Calsabigi morto nel luglio del 1795.

Fece il primo imprimere in Venezia nel 1790 la Morte di Ercole melodramma istorico in cui abbandonato il rancido presidio delle furie danzatrici, e delle trasformazioni a vista, si spiega la pompa delle decorazioni naturali che abbelliscono lo spettacolo. Havvi balli analoghi sacri e festivi, pantomimi di soldati e prigionieri introdotti ne’ varj passi dell’azione, un’ entrata trionfale di Ercole, un ecclissi repentino che cangia in palpiti la festa e l’allegria, e accresce moto e vivacità all’azione, sacrificj decorati, l’apparenza del rogo ardente sull’Oeta. Singolarmente dee notarvisi il decoro conservato ne’ caratteri di Ercole e Dejanira, il patetico delle situazioni, e la convenienza dello stile alla scena. Non vi si veggono sparsi in copia gli ornamenti lirici, l’interesse de’ principali personaggi non vien distratto o raffreddato da que’ meschini amori subalterni delle tragedie francesi e de’ melodrammi eroici italiani, che noi non perdoniamo nè anche al Metastasio.

Ranieri de Calsabigi ha prodotto non ha molto due melodrammi istorici col titolo di tragedie in musica, Elfrida ed Elvira, la prima rappresentata nel real teatro di Napoli l’anno 1793, l’altra nel 1794. Essendosi questo letterato mostrato in ogni incontro avverso affatto al sistema metastasiano, ed alcune volte con qualche fondamento, non fia senza vantaggio della gioventù l’esame de’ passi dati dal Calsabigi tanto allorchè giugne al suo fine, quanto allorchè lo veggiamo o in procinto di traviare o smarrito.

La storia d’Inghilterra de’ bassi tempi somministrò all’autore il soggetto della prima. Edgar succeduto a Edwy udì celebrare dalla fama l’estrema bellezza di Elfrida (Elfthryth) figlia del ricco conte di Devon, e pensando di averla in moglie nel caso che tal fosse quale si decantava, spedì Athelwold suo favorito al padre di lei. Preso però il messo dalla bellezza singolare di Elfrida, riferì al re che era di un volto comunale e poco degna per le maniere delle reali nozze. Il re se ne svogliò, e permise al favorito di ottenerla per se stesso. Celebrate le nozze, Athelwold lasciò la sposa in provincia, perchè nè la vedesse nè altro ne udisse il re deluso. La fama e l’invidia bentosto diedero al re indizio della perfidia di Athelwold; ma dissimulando obbligò il favorito ad accompagnarlo, volendo fare una visita alla sposa. Athelwold sconcertato stimò di palesare alla moglie il proprio inganno, e la pregò di presentarsi al re con poco garbo e inornata, e dissimulare al possibile le proprie grazie e i pregi naturali. Elfrida al contrario o per voglia natural di piacere, o per disdegno nato nel suo cuore contro dello sposo, si presentò al re con tutta la pompa de’ proprj vezzi, a segno che rimastone il re sorpreso venne in tal furore per l’inganno scoperto, che in una partita di caccia pugnalò di sua mano il favorito, e sposò Elfrida. Questo è il fatto tramandatoci dagli storici Inglesi. Il sagace autore, come conviensi a’ poeti che non ignorano il proprio uffizio, ha migliorato e abbellito quest’argomento ne’ caratteri d’Elfrida facendola innamorata di suo marito, e di Edgar dandogli spiriti di generosità che contrastano colla sua passione. Vediamo la traccia, e qualche particolarità di questo dramma colla imparzialità che ci guida.

Atto I. Elfrida impaziente per l’assenza del marito si trattiene a parlar con Evelina sua confidente, e il dialogo è proprio e naturale. Pure se valessero le censure esagerate fatte dal Bettinelli allo stile metastasiano ripreso talvolta come inelegante e spesso come prosaico, potrebbe dirsi altrettanto dello stile del Calsabigi, e si potrebbero addurre molti squarci che scrivendosi senza dividerne i versi, parrebbero prosa e non iscelta.

Sopravviene Orgando in abito di cacciatore; Elfrida vede il padre, nol ravvisa, e s’inselva; egli le va incontro:

Org.

Nobil donna . . .

Elfr.

Straniero . . .
(Oh importuno) che vuoi?

Org.

Di, non è quello
Il romito castello
Del felice Adelvolto? . . . Amico io sono
Del signore di queste
Remote solitudini, e confido . . .

Ed in tutto ciò la figlia non riconosce il padre, perchè va vestito da cacciatote. Un vestito trasforma a tal segno la voce, il volto, l’andamento di un padre agli occhi d’una figlia? Ciò è ben duro e fuori del verisimile. Evelina lascia Elfrida col padre, e dopo cinque versi ritorna; ma perchè parte? perchè ritorna? Lo spettatore esige sempre il motivo dell’entrare e dell’uscire de’ personaggi. Forse Evelina parte per ispiare, se giunga Adelvolto, e torna per dire, che giugne, la qual cosa con pace d’Evelina non è punto vera, nè poi si sa che cosa voglia da ciò ricavare in vantaggio di Elfrida. Orgando ed Elfrida si abbracciano, e co’ rispettivi confidenti cantano un quartetto, poco veramente vantaggioso per la musica, perchè gli affetti non sono punto riscaldati al giusto segno, dicendo appena Elfrida,

      in quest’amplesso
Perchè così adombrato . . .
Severo sei con me? . . .

ed Orgando,

Nella mia figlia io trovo
Un non so qual timore.

dal che pare che nascer non potessero le tetre espressioni de’ confidenti,

Minaccia il ciel turbato,
S’ammanta a nero il giorno,
Mormora il tuono intorno.

Si vede che il poeta vorrebbe in grazia della musica elevare il tuono del quartetto che non può esser se non parlante. Questo pezzo concertato; come suol chiamarsi, abbraccia 34 versi, e conchiude cosi:

Org.

Torni d’Elfrida al core . . .

Elfr.

Torni del Padre al core . . .

Evel.

Torni nel nostro core . . .

Osm.

Torni d’un Padre al core . . .

a 4

La calma che perdè.

Quattro personaggi che interrompono il proprio sentimento o per volontà o per inciviltà reciproca, che attendono ciascuno alla sua volta il parlar dell’altro a metà, che conchiudono in coro con un sol verso comune venuto in mente a tutti, rassembra quello appunto che si riprende in certe scene finali degli spagnuoli del passato secolo. Si dirà che altri ancora l’ha fatto: ma si domanda, se con ragione e proprietà? Si dirà che la musica anche oggi astringa la poesia a tradir se stessa e la verità: ma dunque nel sistema musicale presente vi son pure ostacoli all’imitazione del vero, ad onta di tanti censori severi del Zeno, e del Metastasio? Lascino dunque codesti censori che non sanno far meglio, di riprendere chi tanto e tanto ha meritato.

Viene Adelvolto nella scena quarta e s’incontra con Elfrida, e prima che nel recitativo si snervi la passione, dopo cinque soli versi acconciamente spezzati a vicenda, esprimono bene i loro affetti in un duetto.

Buona sembra ancora la scena sesta, in cui Elfrida rassicura Adelvolto riguardo al padre; e quando poi lo vede agitato per la venuta del re, stupisce, e lo rincora; Ti perdo, Elfrida, dice Adelvolto; ed ella: Come! minacci me con quel funesto presagio tuo più che te stesso . . . Non ti smarrire, son tua, voglio esser tua... Non so morire? Anche acconcia alle circostanze di Elfrida è l’aria

Di furor per me si accenda,
Arda il volto de’ tiranni ec.

col la quale si conchiude l’atto primo.

Atto II. Il re palesa ad Adelvolto di voler passar seco nel delizioso suo giardino alquanti dì, e veder la sposa. Orgando che sin dalla scena 7 del I, al dir di Evelina, ito era ad ossequiare il re, giugne un poco tardi nella 2 scena di quest’atto, e il re l’invita alla sua mensa colla figlia. Adelvolto si allontana per andare a prevenire Elfrida; ma dopo soli otto versi recitati dal re che poi parte, egli ritorna senza perchè nel medesimo luogo, prima di parlare colla sposa. Ma il poeta volea trarre partito dall’incontro loro alla presenza dello spettatore senza mutar la scena. Essi dunque si veggono nella scena quarta, che interessa ed è appassionata, malgrado di un terzetto che vi si legge alla prima, il quale colle sentenze e ripetizioni della musica serve anzi a stancar Elfrida e lo spettatore per le troppe esitazioni del marito. Ciò che la rende importante è il segreto che a lei palesa dell’inganno fatto al re, il quale pone l’uditorio in attenzione sospeso per intendere la deliberazione che prenderà Elfrida.

Segue altra mutazione di scena nella quinta scena, in cui il re si trattiene, come ha pur fatto nella prima, a far riflessioni di antiquario, dicendo, che quivi probabilmente le regine vissero un tempo remote. Elfrida dando voci di dentro e contrastando col padre vien fuori con impeto dopo di aver chiamate in soccorso (poderoso al certo!) contro del padre Evelina e le compagne nella guisa che fan no le ninfe fuggendo da’ satiri. La bellezza d’Elfrida incanta il re, il quale ordina che si chiami Adelvolto, che già veniva da se, e gli rimprovera il tradimento; egli chiede la morte. Orgando lo sfida a duello che viene accettato da Adelvolto con disegno di morire per le sue mani; Elfrida affannata prega il re perchè non permetta la pugna; egli duro risponde, questa è la legge. Quartetto finale, in cui Elfrida prega tutti l’un dopo l’altro, e nulla ottiene. Forse in alcune espressioni si desidererà più precisione, e meno generali idee.

Atto III. Anfiteatro boscareccio. Siede il re col suo seguito. Vengono i combattenti. Orgando dice ad Adelvolto: se il cielo abborre i rei e ne fa vendetta, io lascerò nel tuo scempio un tremendo

Della giustizia sua celebre esempio;

dove quel celebre è pura borra, che riempie il verso, è ozioso, e minore del tremendo. Adelvolto risponde che si difenderà sol per onore di Orgando. Il re dice,

Non più si dia della battaglia il segno,

verso del Metastasio, nella Semiramide, Olà si dia della battaglia il segno. E’ vero che le parole che lo compongono appartengono a tutti; ma così infilzate son del nominato poeta picciolo tanto e spregevole agli occhi del gran Calsabigi.

Sopravviene nella scena 2 Elfrida con armato seguito alla barriera, e protesta contro l’ingiustizia della pugna. Eggardo dice, questa è la legge, ed ordina che le s’impedisca il passo. Elfrida che finora ha mostrato affetto e virtù, ma non già prodezza di guerriera, divenuta un’ amazzone, impone al suo seguito che spezzi la barriera, e si avanza sino alla loggia dove sta il re, seguita poi da chi? da’ vassalli forse del marito; ma questi vassalli esser altri non possono che villani del ritiro campestre di Adelvolto; Or pare verisimile che dovessero osar tanto in faccia al re circondato da’ soldati, da cavalieri ec. ribellandosi manifestamente? E tanto ardisci! le dice il re; ed impone alle guardie, le quali non han saputo resistere all’attentato della barriera, di circondare i combattenti. Ma che pro? Elfrida è già sulla carriera delle Camille; chiama barbaro il suo sovrano, urta, dissipa le guardie, si scaglia verso Adelvolto, e li strappa di mano la spada. Poteva giunta a tal segno l’azione restare oziosa e sospesa? E pure così avviene. Elfrida dee esigere dal re, dal padre e dalle guardie tutto l’agio per cantare un’ aria di diciotto versi, la quale, benchè troppo verbosa e lontana dalla vibratezza e dal nerbo che Metastasio con tanta gloria ha usato, non ha sentimenti sconvenevoli ad Elfrida, ad eccezione di arrestar la rapidità che qui si richiedeva, e di far rimanere il re e tutti come ascoltatori oziosi in un’ accademia di musica. In fine Elfrida approfittandosi del letargo universale conduce via fieramente il marito ad onta del padre e del re. Adelvolto è condannato all’esiglio. Egli però rapito dalla sua sposa si è ritirato alle sue stanze, quasi potesse rimanere ozioso al punto, in cui stanno le cose. L’azione naturalmente richiedeva che Elfrida dopo il suo attentato avesse atteso senza dimora a ritirarsi altrove con lui, non già che si trattenesse nelle sue stanze. Ciò che non ha fatto per iscelta, è obbligata a proporlo pel comando del re che esilia il marito. Ella vuol seguirlo. E se, dice Adelvolto, ne impedisce il re ed Orgando? Ella magnanimamente risponde,

      Schernir possiamo
Il Padre, il Re . . . per sempre
Essere inseparabili . . . Rimira . . .
Rifletti . . . . Quest’acciaro
E’ mio ... tuo se lo vuoi ... Ti basta il core
D’impugnarlo e imitarmi? Ah questo solo
Dalle sciagure estreme
Liberarci potrà . . . Morremo insieme.

Ciò mi pare patetico e nobile. In vece però di dirsi, che un marmo istesso in un eterno amplesso gli chiuderà, ed in vece di quell’urna sola che confonderà le loro ceneri, espressioni fredde, consuete e poco energiche, questa scena poteva forse produrre un duetto più appassionato e più utile alla musica. Poteva p. e. esprimersi con calore il pensiero che dee occupare Adelvolto di aver egli formata l’infelicità d’Elfrida: poteva ella corrispondere riflettendo di aver ella coll’infausta sua beltà ridotto a quel punto l’amante. Ciò avrebbe senza dubbio somministrato alla musica un oggetto più capace di vere espressioni, in cambio di quell’eterno amplesso nel marmo e di quell’urna che vale la stessa cosa esangue.

Resta Elfrida, e viene il re, cui ella dice che seguirà lo sposo. Eggardo risponde che nol permetterà Orgando e le offre il trono e la mano. Si sdegna Elfrida, e non a torto, al sentirsi proposto da un re, il quale sempre ha in bocca, questa è la legge, che ella diventi sposa di due mariti. Viene il padre nella scena settima, e la riprende del volere accompagnare Adelvolto. Fermiamci qui. Orgando come il sa egli? Ella ha manifestato il suo disegno al marito nella scena 5; è venuto il re che è presente, ed ella se n’è con lui spiegato nella scena 6: or chi l’ha detto ad Orgando che arriva nella 7 scena? Il poeta che ’l sapeva. Il re contristato rimprovera Elfrida, e dopo un’ aria di 18 versi di concetti a lui convenienti, ma un pò verbosa nè senza ripetizioni di pensieri, parte. Nella scena 8 la stessa premura di Orgando, la stessa resistenza di Elfrida, che produce un duetto. Ma il Padre? dice Orgando:

Elfr.

. . . . Oh Dio! s’io l’amo,
Se più di me l’amai,
Sa il ciel, lo sa il mio core,
Padre, e il tuo cor lo sa.

Anche quì l’autore ha onorato un pensiero del Metastasio col trascriverlo dall’Artaserse:

“Se fedele a te son io,
Se mi struggo a’ tuoi bei lumi,
Sallo amor, lo sanno i numi,
Il mio core, il tuo lo sa.”

Chi poi riprende lo stil Metastasiano nel dramma come prosaico e inelegante, nel tempo stesso che si dichiara ammiratore del Calsabigi, osservi il seguente passo di Elfrida, e dica se prosa simile trovisi in Metastasio: Soltanto mi sgomento, Padre, che un giorno avrai del barbaro mio stato pietà, rimorso e orror. L’espressioni di Elfrida ad Adelvolto sono giuste e appassionate. Nel voler partire arriva Eggardo che ne impedisce la fuga, indi Orgando che torna a rimproverare alla figlia il poco amore che ha per lui, e vuol separarla dal marito, la cui nullità in tale occasione reca rincrescimento. Elfrida con uno stile minaccia di svenarsi. In questo luogo si trova un pezzo di musica concertato, in cui Adelvolto risponde appena da parte che è smarrito l’imbelle suo cor, e qualche altra cosa simile, ed Osmondo, e Siveno personaggi ugualmente nulli (che nol dicendo il poeta possiam credere di esser venuti fuori col seguito d’Eggardo) articolano la sola parola tremo. Eggardo in grazia di Elfrida accorda che resti Adelvolto, ma lo sottomette al giudizio de’ Pari, che ben sa Elfrida che sia giudizio di sangue. Adelvolto condotto via dice fra se (quasi andasse a chiudersi alla Trappa) addio mondo, addio consorte, non respiro che morte. Con ciò il poeta vuol fare intravedere il disegno ch’egli ha di morire. Or non era bene di prepararsi un poco più tal determinazione, dando maggiore energia al suo carattere? Ne rimane atterrita Elfrida, si lascia cadere a’ piedi di Eggardo, e il vivace suo pregare ottiene la grazia e il perdono al marito. Hai vinto, le dice il re, e con nobil sentimento contrario al primo suo scandaloso pensiere di sposare la moglie di un altro che ancor vive, aggiugne:

      Superbo
Son io d’averti amato, e più che t’amo,
Più apprezzo me: di te non ero indegno;
Tel prova il mio perdono. In quante pene,
Quante amarezze ha involto
Quel crudele...

Siven.

Ah signor, morì Adelvolto.

Non mi spiace che in una breve strofetta da cantarsi si accenni che Adelvolto avea un pugnale ascoso, che gridò, Elfrida, se l’immerse nel seno, e spirò; imperocchè colla musica si fugge la noja di una narrazione finale; che ne’ moderni teatri musicali non suole ascoltarsi. Elfrida vuol ferirsi, Orgando la trattiene, ella tramortisce.

Ciò che in tale dramma trovo di più lodevole, si è che non vi sono freddi episodici amori di personaggi subalterni, non arie di concetti, e di comparazioni liriche, non persone scellerate che precipitano gli eroi nell’infelicità. L’azione va al suo fine, malgrado di alcune scene di ripetizioni appena in qualche circostanza variate. Vi trionfa il carattere di Elfrida nobile, appassionato, eroico. Adelvolto è una figura di tinte sfumate e smorte; pure esige morendo qualche compassione, d’altro in fine non essendo reo che di superchiería fatta al re per troppo amore. Il disviluppo segue acconciamente con que’ pochi versi che dal canto possono ricevere espressione e calore.

Si vede impresso nel fine del dramma un estratto di una lettera che l’autore attribuisce al signore d’Herbert, cui è dedicato. Egli lo loda, e vi trova (par che parli l’autore stesso) più estro, più calore che in qualunque altro scritto all’età dell’autore da due altri celeberrimi poeti defonti pochi anni scorsi, cioè a dire dal Zeno e dal Metastasio. Con pace però del signor d’Herbert non vi sarà neppure un Bettinelli nè un Vannetti che applaudirono al vivente Calsabigi 1 disprezzator del Metastasio, i quali non confesserebbero ad un bisogno, per non far torto a se stessi, l’immensa visibile distanza dell’Elfrida dal Temistocle, dall’Olimpiade, dalla Zenobia, dall’Achille in Sciro, dal Catone, dal Ciro, dal Regolo, dalla Clemenza di Tito ec.; come ancora dal Lucio Papirio, dal Cajo Fabricio, dal Mitridate, dall’Andromaca, dalla Merope, dalla Nitocri e da altri. La Catastrofe dell’Elfrida è nova, dice pure d’Herbert, naturale, preparata, e condotta non si può meglio. Passi che la stimi preparata e condotta acconciamente, sebbene sia troppo dire che non si può meglio. Ma come passargli che questa catastrofe sia nova? L’invenzione di troavrsi eseguita la morte del reo dopo la grazia ottenuta, è bene invecchiata per l’uso fattone più volte. Nè il Calsabigi dovea ignorare che tal catastrofe fu introdotta in teatro colla Inès de Castro del signor La Mothe; che fu ripetuta nell’Agnese del sig. Colomes; che più? che fin anco il Pagano l’ha impiastricciata pochi anni fa nel suo Gerbino. Or come era nova l’anno 1793 nell’Elfrida?

Elvira altra tragedia per musica del lodato autore seguì l’Elfrida, e si recitò nel carnevale del 1794, benchè fusse composta nel 1793. Il pubblico disapprovò questo dramma per ragioni diverse da quelle dell’autore che se ne dichiara malcontento, ed afferma nell’edizione fattane a proprie spese, che la sua opera fu pregiudicata nella condotta e nell’interesse, e trascurata nell’apparecchio, abbellimento e decorazione convenevole alla scena. Convien dunque a tale edizione attenersi, che, al dir dell’autore, la presenta qual si compose; ma osserveremo in note le variazioni che vi si fecero nel rappresentarsi.

Si aggira su gli eventi de’ bassi tempi, quando i Mori dominavano parte della Spagna, ed eravi certa promiscuità e connessione di affari, costumi e interessi fralle popolazioni spagnuole ed arabe. In Granata per ipotesi della favola domina Odorico prepotente colla sua fazione spagnuola, di cui fa parte Ricimero scelto da Odorico per consorte di Elvira sua figlia bellissima, e piena di maschio valore, trattando l’armi alla maniera delle Marfise. La fazione opposta inclina agli Arabi, ed è spalleggiata dalle milizie di Adallano principe moro, cui Elvira ha segretamente data fede di sposa. Intervengono nel dramma quattro personaggi e tre confidenti.

Atto I. Notte avanzata. Elvira colla confidente Selinda attende Atellano suo occulto amante. Prega la notte a coprir ben di tenebre il cielo, affinchè non esca sì sollecita l’aurora col rosato suo colore, l’augellin non saluti il nuovo dì, l’argentea luna non la importuni col suo candido chiarore. I drammi musicali prima del Zeno e del Metastasio usarono sovente siffatte espressioni liriche. Se però nell’ultimo gran poeta si riprendono alcune vaghe ariette di comparazioni, e qualche tratto lirico come disdicevoli alla verítà richiesta nel linguaggio drammatico, si accorderanno simili frasi al Calsabigi, il quale ad esclusione de’ passati poeti, crede di darci per la musica tragedie vere?

Nella scena 2 viene Osmida secondo confidente, il quale è sì necessario in tutta la favola, che dopo di questa scena sparisce, e solo interviene muto nella decima che è seguita dal finale, ed in esso altro non dice, che, vuoi guerra, e guerra avrai; nel secondo non si vede affatto; nel terzo segue Adallano, e non parla mai, se non che al finir del dramma profferisce in compagnia di Selinda gli ultimi tre versi del finale. Or valeva ciò la pena di moltiplicar i personaggi con un Osmida inutile che parla in una sola scena? Egli è stato mandato avanti da Adallano per esplorar tutto nel giardino. Elvira mostra impazienza amorosa; ma una scena sì lunga di lei coll’esploratore Osmida invita poco lo spettatore all’attenzione, bramando egli l’incontro degli amanti. Di più verte siffatta scena su fatti tutti noti ai due confidenti; a che dunque rivangarli? per informar l’uditorio del passato con tale scarsezza d’arte. Ma ecco arriva finalmente nella terza scena affrettato Adallano, cui il chiaror della luna ha finora impedito di venire. Gli amanti diriggono i loro voti alla notte,

Prolunga, o notte amica, il mio contento,

e si allontanano e perdonsi nel boschetto, mentre i confidenti seguitano a porgere alla stessa notte divote preghiere. Tutte tinte tragiche! chi nol vede? Lo spettatore però che delle volte suole esser curioso investigatore di quanto fanno o non fanno in iscena i personaggi, fa mille giudizj sull’inselvarsi de’ due ardenti amanti, involandosi agli occhi degli stessi confidenti (quando l’eroine stesse de’ romanzi della Scudery non sogliono parlare a’ loro amanti senza chiamar presso di loro le confidenti) e di mala voglia vedesi tenuto a bada da’ personaggi subalterni, i quali continuano ad orare nel giardino. Nojosità spiacevoli! Tornano gli amanti a lasciarsi vedere e ascoltare. Benedicono il giorno che si videro. Elvira dice, ne’ fati è scritto il nostro amor; e Adallano,

      A eterni
Caratteri di stelle
Segnata fu l’union nostra.

Che roba! dirò valendomi della gentile esclamazione del medesimo Calsabigi in disprezzo del Metastasio. Lasciam da parte che ciò dee parer prosa a chi la riconosce a simili segni nel poeta Romano; lasciam pure che lo stil tragico schiva simili leziosaggini: come però al cader del secolo decimottavo menar buona al poeta Livornese quell’unione segnata a caratteri di stelle, contrabbando da secentista? Non anderemmo mai avanti a voler cercare gravità tragica in queste prime scene, tutto essendovi imbrattato da maniere liriche da pastorale. Questi amoreggiamenti sono interrotti da un all’armi, di cui poi non si dà più ragione veruna. Non per tanto gli amanti seguitano a far proteste scambievoli di fedeltà, e ad invocare i genj benefici del cielo in compagnia de’ confidenti; di maniera che queste prime scene potrebbero appellarsi preghiere notturne, e matutine.

Partito Adallano viene nella scena 4 Ricimero, e vuol sapere perchè sia colà notturna e ascosa, e se altri sia con lei. Elvira dispettosamente dice partendo,

     Non mi seguir . . . Festeggia
Nelle ricerche tue, sogna, vaneggia;

quel festeggia nelle ricerche sembra un poco strano, quel sogna, vaneggia, è un poco forte, ma può passarsi a una guerriera, che lui non ama; certo è però che nulla di ciò è tragico e grave. Ricimero resta lagnandosi dell’odio di lei con Almonte terzo confidente del dramma, e parte seco, e nium altro rimane in iscena. Ma aggiorna e segue mutazione di scena, e l’istesso Ricimero che parlava nel giardino, si trova in discorso inoltrato con Odorico ne’ suoi appartamenti. Se non vogliano contarsi tra’ personaggi anche i falegnami che eseguiscono la mutazione, bisognerà dire che quì la scena rimanga impropriamente vota, ovvero che Ricimero nel tempo stesso si trovi nel giardino, e nella stanza di Odorico, rinnovando il miracolo della presenza fisica in due luoghi di Apollonio Tianeo 1. Essi parlano di ciò che è accaduto a Ricimero nel giardino. Un suono d’armi, egli dice, di guerra un grido mi trassero nel boschetto. Odorico l’esorta ad allettar Elvira in vece di disgustarla; e questo dilicato amante, o che tale vuol mostrarsi, risponde a guisa di creditore che ripeta il suo, ma quanto ho da soffrir? Viene Almonte a presentare a Odorico un foglio sospetto, che dice di aver trovato in terra. E’ un foglio amoroso di carattere di Elvira. Odorico la fa chiamare, e le rinfaccia il foglio come da lei scritto. Elvira innocente nega di esser suo colla franchezza della verità che basterebbe a dissipare ogni dubbio nel padre, purchè egli non avesse sinistro concetto della propria figlia e non la credesse raffinata nella furberia. Ma in iscena suol valere un altro modo di ragionare, e corre il costume di tenersi per reo il personaggio fraudolentemente incolpato, e di non sospettarsi de’ veri furbi, mal grado degl’indizj che veggonsi contro di essi da ogni banda. Senza di simile abuso o licenza poetica quanti drammi caderebbero come mal tessuti? Ed ecco che con tal diploma Odorico rimprovera la figlia qual rea convinta di alto tradimento (ed è poco un bigliettino tenero creduto di lei?), e si affanna benchè invano di richiamarla al rimorso, al pentimento, al ribrezzo ed al rossor, conchiudendo,

Tu non hai del tuo delitte
Nè vergogna, nè pudor,

dove bastava dire, non hai vergogna del tuo delitto, per evitare lo sconcio di dire non hai pudor del delitto; si dice pudor di virtù, di virginità ec., e rossore, onta della colpa. A quest’aria sì bene espressa e fondata si appicca una coda di rimproveri, onde ardiscono insultarla ancora Ricimero ed Almonte. Terzetto, in cui crucciata Elvira ingiuria que’ due malvagi a buon dato, e poi con impeto li discaccia inseguendoli; e ciò vorrà dire, che se essi non son presti a farsi indietro, ella tragicamente gli discaccerà a urtoni, a spinte, a calci ad un bisogno, nè ciò sarebbe senza esempio di autori tragici, avendo anche la Cleopatra di Jodelle preso pe’ capegli un suo vassallo seguitandolo a calci per la scena. Buon per essi che Odorico senza perchè torna in tempo, ed Elvira si ritira con modestia. Tutto ciò che canta Odorico ed Elvira si vuol leggere nel dramma per ammirarsene l’eleganza, la forza e la precisione Calsabigiana. Partito il padre ella dice piangendo, vedete . . . mirate (che debbono essere due azioni distinte) godete . . . esultate, non vi turbate? non vi avvilite? e torna come prima a discacciarli con impeto, e minacciante, benchè senz’armi, se pur non pensi ad imitar Cleopatra. Rimasta padrona della campagna si trattiene a cantar quattro versicoli, per dar tempo ad Almonte di fuggire, di passare alla sala delle udienze, di veder Adallano che viene a parlar solennemente a Odorico, e di recargliene l’avviso.

Adallano nella scena 10 viene a proporre l’unione degli Spagnuoli e de’ Mori in Granata, e per se le nozze di Elvira. Odorico risponde di aver di lei già disposto. Adallano chiede che Elvira disponga di se stessa. Sfida Ricimero, e canta un’ aria imitata da un’ altra del Metastasio. Scitalce dice nella Semiramide,

“Se in campo armato
 “Vuoi cimentarmi,
 “Vieni, che il fato
 “Fra l’ire e l’armi
 “La gran contesa
 “Deciderà.”

Adallano nell’Elvira dice,

Se generoso
Vuoi contrastarmi
D’Elvira il core,
Meno orgoglioso
Fra l’ire e l’armi
Il mio valore
Ti renderà.

Comendiamo l’imitazione del Calsabigi; questa è la maniera di formarsi lo stile, seguir le vestigia de’ grandi, ma adorarle nel tempo stesso nel calcarle, in vece di mordere il piede che le stampa. Calsabigi però nella seconda parte dell’aria perde la sua scorta, e cade in una specie di freddura:

E se la sorte
Nella contesa
Questa vittoria
M’involerà,
Dell’alta impresa
Almen la gloria
M’illustrerà.

Adallano in tutt’altro Moro orgoglioso e fiero qui diviene assai modesto, decantando come alta impresa quella di porsi a fronte di Ricimero, il quale non gode veruna rinomanza onde la sola gloria di attaccarlo abbia ad illustrare il vinto. Nel resto ciarla e ripetizioni.

Atto II. Odorico volendo leggere nel cuor di Elvira con maniere di padre le dice che vorrebbe che ella prendesse marito senza obbligarla a scerre o Ricimero o Adallano, che pur la domanda:

. . . . Or con te stessa
T’avvisa . . . ti consiglia . . .
Fra lor decidi . . . a qual tu vuoi, t’appliglia.

Elvira si maraviglia di ciò che ascolta, entra in qualche dubbio, e pur dovrebbe fidarsene, e si tien ferma in celare il suo cuore. Odorico dunque prende il carattere di falso e di finto nel largo partito che le propone. Quando poi egli dice,

     Così comprendo
Che a Ricimero ti stringe
Consuetudine, affetto,

più grossolanamente s’infinge, sapendo quanto ella l’abborrisca. Alle nuove inchieste ella in fin cade e mostra inclinarsi ad Adallano, e allora il padre vestendosi di austerità dice impallidendo e infiammandosi di rossore

Scegli Adallan! . . . Lo preferisci!
Tu! figlia d’Odorico?

L’ingenua Elvira con tutta ragione stupisce dell’astuzia comica del padre, e apertamente ricusa Ricimero; e alle minacce di Odorico, se non con gravità da coturno, almeno non a torto, gli dice,

Padre, un bel core hai per Elvira in seno!

Qui segue un duetto del padre e della figlia. Havvi poi subito una cavatina di Elvira1. Viene Selinda, con cui Elvira si lagna del passato senza che si faccia un picciol passo per l’azione. Ciarla dunque, e scena inutile.

Nella quarta scena viene Adallano a proporle di fuggir seco. Ripiego eroico! Elvira ricusa. Segue un duettino di espressioni generali che lor convengono, ma che non hanno se non remoto attaccamento col soggetto della scena. Veggasi poi quanto naturali sieno gli avvolgimenti di concetti che si capiscono solo all’ultimo verso; veggasi se verisimilmente due persone s’incontrino a dire ed a sospendere i loro sentimenti nella guisa esposta in tal duettino:

Elv.

No, mai non frangerà
Sdegno, non crudeltà,
Non odio, non furor . . .

ma ella non può conchiudere, perchè convien che attenda il parlar di Adallano pronto ad interromperla con poca civiltà,

Adal.

No, mai non spezzerà
Celeste altra beltà,
D’un trono lo splendor . . .

qui conchiudono a due,

Le mie di un puro amor
Care ritorte.

Questi nienti di pura galanteria riempiono tutta la tragedia del Calsabigi.

Odorico nella 5 scena dalle sue logge si accinge all’armi. Commette la custodia delle mura a Ricimero; ma prima, senza nuovo motivo che affretti la sua deliberazione, vuol che si congiunga con Elvira, di cui non ignora le ripugnanze. Ad ogni modo egli in quelle circostanze perde il tempo ad incaricare a Ricimero (e che importa che gli abbia prescritta la custodia delle mura?) di recarne il suo comando ad Elvira. Quest’Odorico non mostra molta saviezza nelle sue disposizioni; e queste nozze così a buon tempo assrettate hanno l’aria, anzi la maschera (e nulla più di maschera) di quelle di Marzia con Arbace nel Catone. Ma qual distanza infinita trall’importanza del motivo che spinge Catone a richiederle, ed il puro capriccio che muove Odorico! Ricimero mostrasi assai contento della deliberazione di lui, e se ne dichiara con Elvira, che lo discaccia co’ soliti rimproveri. Sembra talvolta che l’azione in questo dramma retroceda in vece di gire innanzi, o che avanzi a passi di testudine1.

Scena 7 Sera. Odorico fralle ruine di un antico Circo. Era egli andato nella scena quinta ad animar le sue squadre, degna cura d’un generale; or come di sera in quel luogo co’ suoi domestici? A che vi è ito egli? Più; quando lo spettatore aspetta notizie dello stato delle armi, gli sente dire alla bella prima,

Ed ancora ostinata al mio volere
Non si arrende la figlia?

E nol prevedeva? Vengono Almonte e Ricimero ad annunziare che non si trova Elvira, aggiugnendo giusta le solite loro note critiche, che forse è fuggita con Adallano. Correte . . . andate . . . venite . . . di quà di là, grida Odorico. Non so però se lo spettatore avvezzo alle furbesche trame comiche di que’ due vili personaggi, presti loro, o non presti fede, e se possa commuoversi col padre. Si sente altro suono di guerra dal bosco; e nè pur di questo farà caso chi ascolta, perchè non mai simili all’armi hanno indicata cosa alcuna importante.

Prima di passar oltre si osservi che nella scena 4 facendo Adallano premura perchè fuggisse seco, ella ricusò di assentire, e solo profferì che Elvira sarebbe di Adallano, se il padre si facesse tiranno, Tal caso di tirannia, a dritto dire, non è seguito, perchè Odorico altro a Ricimero non disse nella quinta scena, se non che la voleva sposa di lui, e che gliene recasse il comando. Ricimero nella scena sesta ciò disse ad Elvira, aggiugnendo di suo che il padre minacciava, ed egli come compiangendola soggiunse,

A qual crudel sorte
Ti espone l’orrore
Che mostri per me!

Questa prevenzione fattale in generale è minor cosa delle minacce e de’ rimproveri uditi altra volta dal padre stesso. Ma sia pur ciò una vera tirannia, udendolo da un traditore a lei noto, dovea indurla a dubitarne. Ora di qual positiva tirannia può ella lagnarsi e addurla come certa in sua giustificazione? Una figlia d’alti natali, zelante del proprio decoro, sino a quel punto innocente o non d’altro colpevole che di una inclinazione tenera così comune alle donzelle, si determina per nulla ad una criminosa fuga? All’altra. L’ultimo verso profferito da Elvira, peggior non v’è, precede la scena 7, in cui Odorico oziosamente si va dondolando fra macchie e cespugli di negletto bosco, e recita dieci soli versi interrotti dall’avviso della fuga di Elvira. Questi dieci versi han dato a lei tempo per vestirsi di tutte armi, per ingannare la vigilanza de’ soldati, per fuggire ad Adallano, e per istruirlo dell’occorso. Non so se per tali operazioni basti il tempo che s’impiega in profferir quaranta parole.

Dopo il suono di guerra dal bosco viene un Guerriero sconosciuto tutto coperto, il quale dice ad Almonte e a Ricimero, fermate. Chi sei? gli è domandato. Io non venni, risponde, a dire il mio nome, son cavalier vi basti:

Voi malvagi accusasti
Ed offendesti Elvira.

E’ questa veramente una discordanza; voi due malvagi plurale non accorda con accusasti e offendesti singolare. E’ vero che è un idiotismo fiorentino il dire a una persona sola voi dovevi, voi leggesti, voi offendesti: ma i Fiorentini u ano tale idiotismo ancor quando si parla di più persone? Chi sa; l’autore era toscano; fidiamci di lui. Usano poi quel basso lor modo volgare in bella prosa? L’userebbero in una elegante e grave tragedia? E questo era il disprezzatore di Metastasio, cui tanto applaudiva il Vannetti e il Bettinelli.

Il cavaliere sconosciuto sfida que’ due, i quali bravamente si ritirano alla parte opposta. Giugne Odorico sempre pronto in lor difesa con soldati; ed allora il vil Ricimero vedendosi sicuro minaccia e trasoneggia sul gusto di capitano Spavento e Fracasso della commedia istrionica moderna. Per punto cavalleresco egli dice di non accettar la disfida d’un ignoto. Conoscimi dunque, dice il cavaliero, sono Adallano. . . . Che ne risulta? Un quartetto: scioglimento tragico ed eroico in sì pericolosa contesa! Rimproveri scambievoli, sopercheria degli Spagnuoli, arrivo de’ Mori alla chiamata di Adallano, il quale da poco esperto generale si fa circondare. Ricimero vuol ferirlo; ma eccoti un altro Guerriero sconosciuto, che ne ribatte il colpo, e gli fa cader la spada, e gli si avventa. E’ la stessa Elvira. Odorico la trattiene e la riconosce. Rimproveri di lui, difcolpe di Elvira, che si dichiara moglie di Adallano. Torna dunque a lui, dice il padre in una cavatina in tre, e la discaccia. Viene Almonte nella scena 12 con fretta, e dice che morì Adallano. Ma Almonte è un noto impostore; sarà vera la notizia? ciò non si esamina punto. Smanie e semisvenimenti di Elvira. Quartetto, in cui per riempitivo entrano Ricimero ed Almonte, i quali dicono,

Quale di nere tenebre
Sole offuscato e torbido
Si va inoltrando in ciel!

pronostico puro di campagna, perchè essendo sera nel nostro emisfero, non si vede in Granata il sole nè offuscato nè chiaro; la rassomiglianza dunque e l’espressione mal si adatta. E’ poi una vera povertà quel non saper mai altrimenti spiegarsi lo scompiglio de’ personaggi in ogni incontro, se non con tempesta oscura, con manto nero del giorno, col cielo annerito per essere il sole apparso di notte offuscato. Del resto essendo questa una delle consuete imposture di Almonte e Ricimero, come si vedrà, il lor terrore è una pura ipocrisia. Odorico dice nel quartetto,

Le bianche chiome avvolgere
Mi sento in fronte,

maniera che non bene esprime il diriguere comae di Virgilio. L’orrore secondo l’uso de’ buoni Toscani fa arricciare o rizzare i capegli; ma l’avvolgere, parlandosi di capegli, meglio si riserba ad esprimersi una studiata coltura di essi,

Che in mille dolci nodi gli avvolgea.

E quando pur tal voce potesse indicare l’arricciarsi de’ capegli per l’orrore, sempre è miglior vocabolo l’arricciarsi specialmente in poesia perchè particolareggia i là dove l’avvolgere, azione più indeterminata, rende vaga e generale l’idea.

Atto III. Neri veli intorno ad Elvira, neri panni intorno al letto, altri neri panni svolazzanti che pendono a festoni dalla volta, lampada unica che dà debol lume, lugubre sinfonia. Tutto questo apparato si è fatto nell’intervallo degli atti, e va ottimamente. Ma si è usata la più necessaria diligenza per un amante, cioè assicurarsi della funesta notizia annunziata da un manifesto impostore? No; altrimenti si sarebbe trovato vivo Adallano, e perduta la spesa di un apparato funereo. Passiamo oltre. Elvira co’ capegli sciolti distesa sul letto piangente

Sustinet in vidua tristia signa domo.

Parla ad uno spettro sanguinoso, scena nuova, ma passi ancora. Ella dice,

Spettro che pallido
E sanguinoso,
Prendi l’effigie
Del morto sposo,
Parlami . . . accennami,
Che vuoi da me?
La tua di lagrime
Bagnata Elvira
Di sangue a tingersi
Anch’essa aspira,
Per esser simile
Morendo a te.

Se ad altro ella non aspira che ad imbrattarsi di sangue, non è la cosa più polita, ma in fine non è la più funesta del mondo. Ella vuol dire che si accinge a versare il proprio sangue, e a seguir lo sposo; ma per ciò la nostra lingua fornisce modi più veri, più individuali, per meglio e non equivocamente particolareggiare le immagini giusta l’uffizio della vera poesia. Ma perchè poi aspira a tingersi di sangue? affinchè morendo rassomigli lo spettro; capriccio curioso! Questa illusione della sua fantasia è ben lunga, occupando tutta la scena; e non finirebbe mai, se non passasse ad un pensiero eterogeneo che la fa discendere dall’immaginazione alla realità del basso mondo. Ella dice: Tu non ci sei (nel mondo), e va bene ciò; ma che luogo può avere in tali suoi pensieri quel che si legge ne’ seguenti sette versi?

   Io non somiglio a tanti
Vili, perfidi, altieri
Mortali abominevoli. Non sono
Fra quell’iniqui, che una dolce calma
Godono fra’ delitti; ed han saputo
Formarsi un volto, un core,
Che non sente pietà, non ha rossore;

Queste idee potevano con verisimiglianza sopravvenire ad Elvira tutta occupata di uno spettro che rappresenta l’ucciso marito? Hanno esse nulla che si affà colla morte di Adallano, col dolore di Elvira?1.

Ricimero lasciandosi cadere a’ suoi piedi, le dà avviso che il padre ferito, ma lievemente, da uno strale tutto a lei perdona, tutto obblia, e la vuol con se negli estremi suoi giorni. Incresce ad Elvira che di ciò sia egli il messaggero. Ricimero affettando un dolore da disperato vuol morire per le mani di lei. Morire (risponde bene Elvira) non sai tu stesso? Selinda viene ad esortarla a prendere altri consigli. Giugne Odorico sostenuto da due domestici con un braccio involto di fascia. Sembra che il poeta sia in dubbio del suo disegno. Da una parte vorrebbe dalla ferita di Odorico trarre partito e commuovere Elvira per determinarla a sopravvivere a suo riguardo alla perdita di Adallano; quindi fa che comparisca ferito sostenuto da due, tutto intento a intenerirla:

   I miei raccogli
Moribondi respiri . . .
   Io morirò fra poco.

Dall’altra parte dà egli tal ferita quasi come un semplice falasso. Comunque sia, benchè colle parole la chiami lieve ferita, e col fatto la dimostri grave, non reggendosi il ferito senza il sostegno di due persone: Elvira se ne intenerisce, e gettandoglisi a’ piedi, per tutti, gli dice, Elvira è morta, vivrà per te ec. In questa scena dice Odorico che in rammentare il caro nome di Elvira il suo sangue si ribrezza. Due cose: I ribrezzare o ribrezzarsi non si trova in veruno autore toscano di nobili e dilicate prose o di versi, come si trova ribrezzo e aver ribrezzo; se si dica volgarmente oggidi, sel saprà qualche patrocinatore delle poesie del Calsabigi, e vedrà se possa ammettersi in componimento grave. Il Odorico s’intenerisce oltre modo colla figlia; ora un ribrezzo o riprezzo del sangue crederei che possa indicare piuttosto orrore che tenerezza. O dunque il ribrezzarsi del Calsabigi è voce inusitata e di nuovo conio, o male usata. La parlata di Elvira conchiude:

Ah qual contrasto avrò
Di vivere e morir
Misera! da soffrir
Vegliante in sen.

La lontananza dell’avrò divisa dal da soffrir per cosa musicale, mostra lo stento del poeta, e cagiona equivoco e sospensione, non potendosene raccapezzare il senso, se non si conchiude. Il sentimento poi è tutto spiegato ne’ tre primi versi, e quell’infelice vegliante in sen ci stà, come suol dirsi, a pigione; benchè comprendo che l’autore avrebbe voluto aggiugnero che quel contrasto sarà per affliggerla continuamente1.

Odesi risonar nuovo tumultuoso e strano clamore, ed eccoti Adallano bello e sano e vivo che seco conduce Almonte incatenato. Tutti stupiscono. Egli rassicura la sposa, e mostra a Odorico Almonte reo di quel foglio fatale e dell’avere ad arte forse annunziata la di lui morte. Aggiugne ancora che Ricimero è morto, e che forse anche Almonte lo svenò per occultare le sue frodi; accusa senza verisimiglianza, perchè Almonte tutto ha fatto per servir Ricimero, e l’ammazzarlo sarebbe stato un delitto inutile anzi a se nocevole. Adallano è bene ascoltato da Odorico nell’implorare il suo consenso perchè Elvira gli diventi moglie. Ed il buon vecchio mentendo un poco gli dice, che del primo suo rifiuto fu causa un cieco errore, e ne chiede scusa, e dice ad Elvira che sia Adallano suo consorte, e di lui figlio, illustre figlio, e degno di me, di te, degli avi miei. Ma in verità Adallano a ciò sorridendo un tal poco poteva dire, che Odorico a lui stesso (sc. 10 del I) avea negato il suo assenso con asprezza, indignazione e disprezzo. Ed Elvira altresì al sentir ora chiamar da suo padre Adallano figlio e degno di lui e degli avi, poteva facendo ecco al sogghigno del marito, dir sottovoce al padre che si ricordasse d’averlo chiamato barbaro, e che per tale scelta a lei disse (sc. 2 del II)

Degli avi obbliasti
L’onore geloso.

Sarà ciò dipigner gli uomini quali sono ineguali, incoerenti ne’ principj, e che ravvisano una stessa cosa in aspetti differenti secondo chè gli aggira

L’odio, l’amor, la cupidigia e l’ira;

ma non quali, per salvarne il decoro e l’uguaglianza, si prescrive che fingansi in teatro. Il dramma termina con questi armonici concenti a tre voci,

Più chiaro il sole già ci apparì,
Più puro il sole gia ci apparì,
Più bello il sole già ci apparì.

e quel bel già ci, già ci, già ci in coro colle repliche musicali avrà partorito un grazioso effetto.

A quanto ne abbiam divisato e al più che per fuggir noja omettiamo, si scorge che all’Elfrida cede di gran lunga l’Elvira, la quale difficilmente si conterà mai tralle favole musicali mediocri. Il piano è assai mal congegnato; l’economia ad ogni passo difettosa; i caratteri di Ricimero ed Almonte neri, vili, inetti e comici; quello di Odorico ineguale, un poco finto fin anco nel volersi mostrar tenero; Elvira e Adallano innamorati da commedia o al più da pastorale, presi di un affetto che nulla ha di convenevole per una tragedia, non animati da veruno eroismo che gli elevi. Ripetizioni di pensieri, di situazioni, un intrigo di affetti mediocri, espressioni liriche a sovvallo, scarsezza di precisione nello stile molle e smaccato, scioperatezza negli aggiunti, verbosità specialmente ne’ pezzi musicali, niuna moralità, non rilevandovisi nè amor di patria, nè magnanimità, nè virtù combattuta dall’affetto e vincitrice da servir di scuola e di consolazione al pubblico, al contrario esponendovisi un cattivo esempio di una fuga da commedia triviale consigliata, eseguita e premiata con tutto il buon successo: tutto ciò non mai farà che l’Elvira si rivegga sulle scene, mal grado della musica del sig. Paisello, la quale piacque al Calsabigi e dispiacque al pubblico per certa continuata uniformità di tinte e di tuono lugubre, che dall’andamento di tutto il dramma si trafuse nelle note di quel valoroso maestro. Ciò che maggiormente sottomette l’autore all’occhiuta critica per la mediocrità de’ fatti e delle passioni nulla eroiche e nulla tragiche, e per la leziosaggine de’ sentimenti, si è la smania di chiamar tragedie le sue opere, portando seco questo rigido titolo troppi e troppo severi doveri, i quali non si affanno co’ drammi istorici del Calsabigi disprezzatore inesorabile del Metastasio e perciò magistralmente applaudito dal fu cavalier Vannetti, che è da credere di non aver conosciuto veruno dei drammi mitologici e istorici di lui. Bisogna dire che dopo del Zeno e del Metastasio onore delle scene armoniche dell’Italia i cui luminosi difetti non che le sovrane virtù, nel corso presso che di un secolo si hanno attirata l’attenzione e la maraviglia dell’Europa; dopo, dico, di questi due grand’ingegni dovrà per lungo tempo stentarsi a veder sorgere un autore ingegnoso, pieno di gusto e di giudizio1 ch’è si raro, il quale riesca nell’opera istorica.

Passiamo a dir qualche cosa della danza è della musica. E’ la danza ec.

ADDIZIONE ultima*
Confronto di alcuni tragici Italiani e Francesi.

Se il Varano, il Conti, il Marchese, il Martelli, il Granelli non vanno del pari coi Crebillon e i Voltaire, essi si appressano di molto ai La Fosse, ai Piron, e talora lasciangli indietro, e l’Alfieri singolarmente che coltivò la tragedia con maggiore intensità di studio e di predilezione, qualche volta non teme il paragone dello stesso Voltaire. Ognuno di essi poi col Monti, col Pindemonte, col Pepoli in alcuna delle ultime sue tragedie, sovrasta di gran lunga ai Belloy, ai Dorat, ai Colardeau, ai Le Miere, ai Marmontel. Se il Goldoni ec.

[Errata]

Correggansi gli errori seguenti corsi nel tomo VI.

ERRORI

 

CORREZIONI

pag. 126, lin. 21 autrice della Zaffira

 

autrici di Zaffira

pag. 248 si tolgano le prime sino a Ponte nuovo.

 

 

tre linee da e tuttocchè

pag. 249, lin. 11 della nota morto lo scorso anno

 

morto nel 1789

pag. 294, lin. 9 fondata da Withefield forse ancora vivente.

 

fondata da Withefield.