(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « LETTERA » pp. 3-14
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(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « LETTERA » pp. 3-14

LETTERA

Scritta dall’Autore al Signor Abate Don Saverio Lampillas prima di pubblicarsi il suo Discorso.

Un pubblico Professore di Liturgia in questo Collegio di San Isidoro, personaggio ragguardevole per sapere, probità, e gentilezza, pochi giorni fa m’informò che un Congiunto di V.S., dimorante in questa Real Villa, giva indagando, per di lei incarico, se mai uscisse alcuna mia risposta al Volume del Saggio, in cui Ella egregiamente sostiene le glorie del Teatro Spagnuolo, per potervi tosto rispondere. Colla mia solita sincerità replicai al prelodato valentuomo, che io sin dal 1779. essendo stato in Genova di lei commensale, e dovendole il dono di alcuni libriccini, nel tempo stesso che mi lusingava di essere in certo modo in possesso della di lei buona grazia, mi vedea in una specie di obbligo, nel prodursi qualche mia bazzecola, di avvertirne io stesso il valoroso competitore.

Laonde per adempiere a questo mio dovere, anticipando colla presente le informazioni del di lei Congiunto, le quali certamente non possono essere così sicure, come le mie, intorno a’ miei disegni, le dico, che ho scarabocchiato, può dirsi, in sul ginocchio e come la penna getta, un Ragionamento, in cui ribatto le obiezioni del precitato suo Volume, e che già è nelle mani dell’Impressore. Posso però assicurarla, ch’Ella non avrà motivo di lagnarsi di me, come finora ha fatto di altri suoi contraddittori. Ella potrà sì bene stimare insufficienti le mie risposte, ma non già dire, che io abbia o dissimulate le sue ragioni, o risposto ad argomenti con invettive. Di ogni suo temuto raziocinio ho fatto caso, enunciandolo distintamente, a costo tal volta di rendermi sazievole; e se per avventura alcuno me ne fosse fuggito, non ho certamente peccato per volontà, nè per meschino artificio ad oggetto di scansarne la forza. Come esca dunque questo mio picciolo Discorso, di cui la prevengo, gliene farò presentare un esemplare, considerandola più come Giudice, che come Parte. Da ciò può inferire, se mai io abbia voluto formare un mistero di ciò che sono ‘per pubblicare, e sottoporre al medesimo suo giudizio. E perchè procederei altramente? Intento io forse qualche sorpresa? Ella già non mi scrisse privatamente ciò che le dispiaceva nella mia Storia de’ Teatri. Anzi in Genova mi avvidi che con istudio (per altro inutile) sfuggì di spiegarsene meco, per cogliermi forse appieno senza darmi luogo a chiedere mercè, e per incatenarmi al suo Carro Trionfale Apologetico, come con dolce sogno si figurò di avervi più altri avvinti. Or non era naturale, che a pubbliche rampogne pubblicamente io replicassi? Sì gran parte di un Volume di un Letterato di tal polso impiegata contro di me meritava che si disprezzasse come indegna di risposta?

Il di lei Congiunto avrà immaginato che io meditassi un controbando, o una irruzione repentina, e che suo dover fosse il vegliare come buona sentinella in tempo di guerra per dar la voce a tempo,

Ferte citi ferrum, date tela, scandite muros. Si sarà ingannato perchè non sa come io pensi. Il discordare noi due in qualche punto, secondo me, non significa nimistà. Noi questioneremo, e poi rideremo insieme del nostro contrasto. Parmi di averle altra volta scritto, che io prendo per quello che sono le scaramuccie letterarie, e segnatamente queste nostre, che (confessiamcelo a quattr’occhi) sono veri litigj di lana caprina: sono semplici scherzi non ad altro buoni, che a farci passare gajamente que’ momenti che spendiamo a respingere, come ci diamo a credere, con bravura l’avversario.

Io sento essere la mia macchina ben lontana dallo sconcertarsi per lo riscaldamento dell’atrabile, che altra volta trasportava gli argomentanti ne’ circoli delle Scuole. Già saprete che i miei primi passi io spesi nel Foro Napoletano; ora io ne ritrassi non solo certo fuoco non isconvenevole nell’atto della disputa, ma dopo di essa certa nobile serena giovialità verso l’avversario, che fa quivi distinguere la persona costumata da chi non è tale. Io suppongo simile gusto, e temperanza nell’erudito Signor Lampillas. E guai a chi ne scarseggiasse! Tendria dos trabajos, dicono graziosamente i Castigliani: quello di alterarsi, e l’altro di rimettersi in calma. E che? Non si può insinuare una verità senza acrimonia? Dall’altra parte le contese di tal natura a che finalmente si riducono? Giri il Sole o la Terra, noi sempre goderemo alternatamente della notte quieta, e del giorno operoso, del tepore di Aprile e Settembre, e del rigido Gennajo, e dell’arido Luglio, vitale varietà necessaria alle piante, e agli animali. Che l’Italia avesse preceduto alla Spagna nel coltivare qualche genere letterario, o per contrario, quale aumento ne risulta alla massa generale del Sapere? Che il Sig. Lampillas, o il Signorelli abbia ragione, che importa all’Italia, o alla Spagna? e quanto meno importerà al resto dell’Europa, per non dire a tutta la Terra, non che all’Universo?

O curas hominum! quantum est in rebus inane! Comunque riesca l’uno e l’altro, sempre là dove giunga il nome Spagnuolo, sonerà grande e famoso, e sempre e Russi, e Francesi, e Inglesi, e Alemanni verranno a vagheggiare l’Italia, come la Madre delle Belle Arti, e dell’Ospitalità. Le Apologie, dopo una vampa momentanea, passano di moda, e muojono nel bujo: ma le Nazioni stanno come monti sublimi, per lungo corso di secoli, e per altro che per Saggi, e Lettere apologetiche, e Discorsi rendonsi chiare.

Scriviamo pur noi non pertanto, se a lei così piaccia, per anni (dalla quale smania però mi scampi il cielo! che io sempre a tal proposito dirò, tanti pœnitentiam non emo), moltiplichiamo le nostre ciancie, purchè ci troviamo i nostri conti, cioè finchè io mi diverta nel mio ozio, ed Ella possa approfittarsi del diletto che porge ad alcuni suoi paesani. Ma non presumiamo vanamente, che la gloria delle nostre Nazioni dipenda dall’esistenza del suo Saggio Apologetico, e del mio Ragionamento.

Inoltre facciamo, se vuole, da Cavalieri erranti, ma senza perdere di mira la cortesia. Don Chisciotte, nostro modello, fu urbano. Chi semina ironie, ne raccoglie: la sferzata produce sferzate. Ella il sa: la reazione è sempre uguale all’azione.

Riflettiamo poi che non è l’istesso p. e. chiamare, com’Ella fa, Dramma un’ Ecloga per capriccio tutto nuovo*, che combattere pro aris, & focis (che io non credo punto il Sig. Ab. Lampillas della magnifica razza di certuni, che danno alle loro frivole questioncelle l’aria speciosa di serietà, e d’importanza sotto il gran nome di Patria). La nostra pugna è per una Dulcinea, cioè per una divinità che noi stessi ci formammo dandole il nome di Letteratura. Noi l’amiamo entrambi senza dubbio; ma forse a questo nome noi appiccheremo idee almeno in parte dissimili. Io non so com’Ella ne pensi. Per me stimo, che questa nostra innamorata nè si abbigli sempre ad una foggia, nè sempre alberghi in un luogo. Librata sulle ali ridente, e graziosa attende gl’inviti di chiunque, e non si assolda con impegno esclusivo. Una volta misteriosa si rinchiuse co’ Sacerdoti dell’Egitto: vaga di sapere, e di vedere navigò talora co’Fenici: errò fin anco per le nevose rupi del Caucaso: passeggiò gran tempo sotto i Portici di Atene: svolazzò su i cimieri degli Scipioni, e de’ Cesari: non si atterrì al feroce aspetto de’ Goti: oggi si delizia nell’amena Italia, ride sulla dilettosa Senna, milita nella potente Spagna, scherza lungo il Tamigi, volteggia sul Baltico; e chi sa che un dì non s’innamori di un Turbante? Ed Ella come l’intende? Della stessa guisa? Io lo desidero: così terminerebbero le liti, ed ameremmo la Letteratura in ogni luogo sotto qualunque divisa.

Ella potrebbe dire che la nostra contesa è particolare sulla Letteratura Spagnuola. E sia. Ma in tal proposito sa qual è il vero punto della nostra discordanza? Questo. Ella pensa, o vuol dare ad intendere, di esser solo ad amar la Spagna, e che ogni altro che non vi nacque, la miri con indifferenza, o peggio ancora. Io al contrario pretendo, non solo di amare la Letteratura dovunque la trovi, ma di amare la Spagna per scelta e per dimora al pari di lei che l’ama per obbligo naturale. “L’amate (mi pare di sentirla a replicare), ed il vostro amore vi permette di riprenderne il Teatro? di credere Francesi, e non Spagnuoli, i Provenzali? di tenere per Cartaginese Annibale studioso del Greco, e per Lacedemone quel Lacedemone che gliel’ insegnò in Ispagna?” L’amate, e scoprite i miei sofismi, e non volete dissimulare quando io sopprimo varj fatti per appropriarle qualche vanto? “L’amate, e vi opponete a me, quando credo alle mille Tragedie del Malara? quando nego che in uno stesso Dramma nostrale i personaggi vanno da Roma a Madrid, e da Madrid a Roma? quando io m’ingegno tratto tratto di citare in falso unicamente per esaltarla, come feci p. e. in un passo di Lilio Giraldi, riguardo al Trissino? E che specie di amore è il vostro?” Oh quì stà il punto! Io amo la Spagna colla Letteratura che l’adorna, ma non credo necessario, per bene amarla, l’attribuirle glorie immaginarie, e mentire in istampa: Ella l’ama, e pensa diversamente. Siamo dunque due innamorati rivali, che spieghiamo in differenti maniere i nostri affetti. Detta a lei l’amore di fare de’ sogni piacevoli: a me di dar risalto a’ veri suoi pregi, i quali nè pochi sono, nè volgari, come mostrerò nell’ultimo Articolo del mio Discorso. A lei, nel diffondersi nelle sue lodi, piacciono le iperboli, che le suggerisce l’innamorata fantasia: a me piace quell’elogio, cui la verità, e l’Istoria è scorta e compagna. A lei essa par bella ancor nella guisa che si raffazzonò con affettazione in tempo de’ pedanti: a me l’amore dà luogo a riflettere, che quanto più essa sarà naturale nell’abbellirsi, come fa oggi giorno, tanto più mostrerà la nativa sua maschia venustà, e trarrà a se tutti gli sguardi. A lei forse piace nell’abito tenebroso e bizzarro, che tolse nelle Solitudini di Gongora: a me colle nobili e care e ricche spoglie che usava al tempo di Garcilasso de la Vega; e quel che mi rallegra si è che in ciò meco convengono tutti gli Spagnuoli illuminati de’ tre ultimi secoli. Il di lei amore trascende fino ad idolatrarne le lentiggini: il mio me non accieca a segno di non vederle, anzi vorrebbe vedernela priva; e così pensarono Cascales, Cervantes, Antonio Lopez, Villegas, Mariana, Nasarre, Montiano, Luzan, Moratin, e pensano molti illustri valentuomini viventi, che si affannano per renderla sempre più limpida. Ella vorrebbe che il Poeta Drammatico Spagnuolo inalberasse anche oggi la bandiera Lopense e Calderonica: io vorrei che piuttosto militasse sotto colui che compose dentro la Caverna di Salamina (che a lei fa tanto orrore), e che egli osasse penetrarvi ancora seguendo le orme di Racine colla fiaccola di Luzàn. Ecco la sostanza della nostra gara, che che Ella ne voglia insinuare in contrario. Ora tocca alla Spagna rischiarata, che io scelgo per Giudice, il decidere, dopo aver letta la Storia de’ Teatri, il di lei VI. Volumetto, ed il mio presente Discorso, qual di noi due sappia più utilmente amare. Oserò io prevenirne la decisione? Essa forse pronunzierà così: Il Lampillas si strugge per mostrare di amar più, il Signorelli mostra di amar meglio.

Resto tutto suo.