(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro II. — Capo IV. Risorge in Italia nel Secolo XVI la tragedia Greca e la Commedia Nuova, e s’inventa il Dramma Musicale. » pp. 210-241
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(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro II. — Capo IV. Risorge in Italia nel Secolo XVI la tragedia Greca e la Commedia Nuova, e s’inventa il Dramma Musicale. » pp. 210-241

Capo IV.
Risorge in Italia nel Secolo XVI la tragedia Greca e la Commedia Nuova, e s’inventa il Dramma Musicale.

Fremano pure a loro posta pieni di se stessi e di matto orgoglio i dispregiatori dell’antichità mai da loro non conosciuta che noi francamente affermeremo, che se una nazione deride come pedantesco lo studio greco, se mette in ridicolo e corregge Omero, battasi quanto si voglia i fianchi per prender il volo, non farà che radere il suolo e imprimer orme incerte e poco più che fanciullesche nel sentiero delle lettere. Che secolo maraviglioso quello che si conosce in Italia col nome del Cinquecento! Che sfoggio di ricchezze letterarie! Rinacque allora il secolo d’Augusto; allora più volte si udì il suono maestoso della tromba di Calliope, e si calzò con decenza il Coturno ed il Socco; ma allora erano fra’ nostri dotti le greche lettere quali così comuni, come oggi in Europa il volgar francese.

Leone X che illustrò i primi anni di sì gran secolo, amando l’erudizione e gli spettacoli scenici, gli promosse in Roma in varie guise, come gli avea favoriti nella sua patria. V’invitò alcuni attori ingenui, i quali aveano rappresentata in Firenze la Clizia di Niccolò Macchiavelli, e onorò della sua presenza la Sofonisba del Trissino, la Rosmonda del Rucellai, e la Calandra del cardinal Dovizio da Bibbiena, rappresentata da alcuni nobili attori in onore d’Isabella la duchessa di Mantua. Nel 1513 si rappresentò ancora pomposamente in Roma il Penulo di Plauto, quando Giuliano de’ Medici, di lui fratello, fu dichiarato cittadino romano; benché non ci si dice da Paolo Giovio, se il pontefice vi assistette. Una protezione sì dichiarata di un principe così dotto inspirò ne’ letterati del suo tempo tale ardore per la buona poesia e spezialmente per la drammatica, che vi si videro occupati a gara i migliori ingegni per perfezionarla; dal che nacquero tanti e tali componimenti drammatici, che ci potremo contentare di ragionar de’ primieri in ogni genere, e di quelli che mostrano i più notabili avanzamenti nell’arte.

Si é veduto ne’ secoli precedenti che quegl’ italiani, i quali prendevano a coltivar le muse tragiche, vi adoperavano per l’ordinario il linguaggio latino. Anco ne’ principi di quello ne corse qualcuna pur latina, come la Dolotechne di Giamberto Veneto, lo Stephonius di Giovanni Armodio Marfo, il Protogonos di Giano Anifio, o sia Giovanni Aniso, dell’Accademia del Pontano ec. ma quasi tutte le altre composte furono nell’italiano moderno.

La prima tragedia di questo secolo scritto nell’italica favella, e in una forma regolare, fu la Sofonisba di Galeotto Carretto de’ marchesi di Savona, nato in Casal-Monferrato, nel secolo XV. L’Autore nel 1502 la presentò a Isabella di Mantua; e alcuni anni dopo si pubblicò in Venezia insieme con una commedia del medesimo Carretto intitolata Palazzo e Tempio d’Amore. É verseggiata in ottava-rima; ma é tragedia composta con arte e giudizio, qual si conveniva a que’ tempi luminosi; e non so donde si abbia ricavato il compilator del parnasso spagnuolo la rara scoverta che la tragedia del Carretto fosse stata una spezie di Dialogo allegorico153. Un dialogo allegorico chiama egli un’azione eroica tragica tra’ personaggi storici, reali, palpabili, Sofonisba, Siface, e Massinissa? Quando si parla delle cose letterarie per tradizione, e si vanno afferrando per aria le notizie, come fan de’ grilli e delle mosche i ragazzi, s’inciampa e si cade in assurdi grossolani.

Ma la Sofonisba di Giovan Giorgio Trissino Vicentino, nato nel 1478, assai più famosa corse indi a poco per le mani degl’intelligenti, e riscosse gli applausi universali. L’autore così perito nelle greche lettere prese Sofocle per esemplare, secondo ciò ch’egli stesso disse nella dedicatoria a Carlo V della sua Italia Liberata, poema ricco di tante bellezze poetiche impercettibili ad occhi non assuefatti a contemplare Omero. La tragedia fu dedicata a Leone X, il quale con somma magnificenza la fece rappresentare prima dell’anno 1516 in Roma. Essa é verseggiata con rime rare e libere per la maggior parte; benché qualche osservatore spigolistro non lascerà di notarvi in certe scene uno scrupoloso accordamento di consonanze alla maniera delle nostre canzoni. Qualche oltramontano poi pieno d’acquistata gonfiezza, ch’ei prende per sublime, mirerà con occhio di pietà quella semplice dipintura della natura che Trissino avea appresa da’ tragici greci. Ma una mente che fa buon uso delle sue facoltà, e un cuor che sente, qual si richiede nella tragedia, verserà pietose lagrime al racconto del veleno preso dalla regina e dei di lei discorsi, alla compassionevole tenera contesa con Erminia, e al quadro delle donne affollate intorno a Sofonisba moribonda, di Erminia che la sostiene, del figliuolino che bacia la madre, e dell’inutile sforzo che fa costei per vederlo sul punto di spirare154.

Giovanni Rucellai Fiorentino corse felicemente il terzo arringo tragico dopo il Carretto e ’l Trissino fino colla vaga Rosmonda, la quale si rappresentò in Firenze nel 1516, e fu pubblicata in Siena nel 1525. Scrisse egli ancora l’Oreste, migliore della Rosmonda, ma uscì solo alla luce della stampa l’anno 1723. nel Teatro Italiano compilato dal Maffei. Nella prima imitò l’Ecuba, e nella seconda l’Ifigenia Taurica di Euripide.

Appresso di mano in mano molti gran letterati diedero il nome loro alla milizia di Melpomene dietro la scorta de’ greci corifei. Luigi Alamanni produsse l’Antigona, Sperone Speroni la Canace, Lodovico Martelli la Tullia, Giraldi Ciintio l’Orbecche ed altre nove,  e Andrea, Anguillara l’Edipo. L’altro Edipo di Orsatto Giustiniani, di sopra mentovato nel libro I, rappresentato nel 1585 in sul teatro di Vicenza, opera del famoso architetto Palladio, é traduzione di quello di Sofocle. Liviera, Torelli Manfredi, Cavalerino, Dolce, Groto, ed altri non pochi, arricchirono ancora di molte tragedie regolari il teatro italiano.

Ma spiccò sopra tutti Torquato Tasso col Torrismondo pubblicato in Bergamo nel 1587. Carlo ne fece una traduzione francese uscita in Parigi nel 1620, ristampata indi nel 1640, e di nuovo nel 1646. Quella tragedia é degna dell’ingegno del gran Torquato, e non già un «parto debole e imperfetto d’un ingegno stravolto» come senza punto leggerla volle bestemmiare un non so qual Carlencas, meschino compilatore d’un saggio stomachevole sulla storia delle belle lettere, scienze ed arti. Costui prima del 1735 non conobbe cosa veruna del teatro italiano, e ne avrebbe ignorato per sempre ancora quelle scarse mal digerite notizie che ne reca, se non si fosse immerso nel laborioso studio del Mercurio di Francia; e pur volle affibbiarsi, come dicesi, la giornea, e giudicare e condannare il Torrismondo. Il P. Rapin, benché più dotto, più erudito, mancava di cuore, non sentiva quanto basta per giudicar diritto de’ componimenti drammatici, e perciò sconobbe la tragica maestà e ’l patetico del Torrismondo, e tra le sue madornali eresie letterarie pose in un fascio italiani e spagnuoli.

P. Saverio La-Santé non men pregiudicato si lusingò ancora di aver oscurata tutta la gloria di questo componimento con quel suo magistrale, «Quid habet Torrismundus? Quid habet?» Se gli meni buona la nutrice alla foggia antica, i nunzi, l’indovino, qualche descrizione troppo circostanziata bocca di Torrismondo, la lunghezza di alcuni ragionamenti del consigliere, e una maniera di sceneggiare che oggidì, farebbe fuor di moda, cose che non ne guastano l’essenziali bellezze, anche a’ nostri giorni farà piacere e maraviglia a leggitori imparziali. Quid habet? Ecco quello che ha d’eccellente: una fina dipintura delle passioni, un piano giudizioso, un movimento nell’azione progressivamente accelerato, un’armonia di verificazione, una nobile gravità di stile che empie, interessa, rapisce, commuove e produce il bel piacere delle lagrime. Crede egli che sieno moltissime le tragedie che possano pregiarli d’altrettanto? Ammirisi l’eleganza dello stile e la patetica delicatezza che si scorge in tutte l’espressoni d’Alvida:

…………… A lui sovente
Prendo la destra, e m’avvicino al fianco;
Ei trema, e tinge di pallore il volto,
Che sembra (onde mi turba e mi sgomenta)
Pallidezza di morte e non d’amore;
O in altra parte il volge, o ’l china a terra
Turbato e fosco; e se talor mi parla,
Parla in voci tremanti, e co’ sospiri
Le parole interrompe.

Sofocle non avrebbe ritratte con più grandezza le agitazioni notturne della medesima Alvida:

…………… Giammai non chiudo
Queste luci già stanche in breve sonno
Che a me forme d’orrore e di spavento
Il sogno non presenti: ed or mi sembra
Che dal fianco mi sia rapito a forza
Il caro sposo, e senza lui solinga
Gir per via lunga e tenebrosa errando,
Or le mura stillar, sudar i marmi
Miro, o credo mirar, di nero sangue;
Or da le tombe antiche, ove sepolte
L’alte regine fur di quello regno,
Uscir gran simulacro e gran rimbombo
Quasi d’un gran gigante, il qual rivolge
Incontra il cielo olimpo e Pelia ed Offa,
E mi scacci dal letto, e mi dimostri,
Perché io vi fugga da sanguigna sferza,
Un’orrida spelonca, e dietro il varco
Poscia mi chiuda.

Ma ogni bellezza drammatica spiccata dal proprio sito perde assai, e un leggitore fornito di sensibilità, elevazione, e gusto, con maggior diletto l’osserverà ad ogni passo, leggendo seguitamente il Torrismondo. E tale fu nel secolo XVI la tragedia italiana, cioé un ritratto della greca; e senza quello passo importantissimo, mai non si sarebbero i moderni innoltrati fino all’odierna delicatezza, la quale ci promette non lontana l’ultima perfezione della tragica poesia.

Egli é solo da osservarsi nella tragedia del XVI secolo, che i soprallodati peregrini ingegni italiani, benché nel farla risorgere seguissero, e forse con cura anche soverchio superstiziosa e servile, l’orme de’ greci, non pertanto la spogliarono della musica che tra questi l’avea costantemente accompagnata; dappoiché essi altro allora non si prefissero se non di rimettere sui nostri teatri la forma del dramma de’ greci, non già il loro spettacolo con tutte le circostanze accidentali. Ma per essere spogliata della musica, diremo a buona ragione, che non sia tragedia la moderna? Ci dice il signor Mattei nel suo Nuovo Sistema d’interpretare i Tragici greci pag. 194, «Questa che noi ora chiamiamo tragedia é una invenzione de’ Moderni, ignota del tutto agli Antichi». Or crede egli mai che ’l canto essenzialmente la costituisca tragedia? Ei s’inganna all’ingrosso. Dessa é tale per l’azione grande che interessa le nazioni, e non già pochi privati, per le vicende della fortuna eroica, secondo la giudiziosa definizione di Teofrasto, per le passioni fortissime, cagioni di disatri e pericoli grandi, e per gli caratteri elevati al di sopra della vita comune. E quello é quello che da’ greci ne imitarono i nostri italiani, i quali sono ben anche dal Mattei assai oltraggiati col soggiungere: Essi vollero lavorare le loro tragedie all’uso de’ greci senza saper che fossero le greche tragedie. Un Tasso! un Trissino! E come senza saper che fossero? Non son essi i primi nostri scrittori italiani, specialmente del cinquecento, quelli che inoltrarono all’Europa l’erudizione del greco teatro? Non ci hanno essi insegnato tutto ciò che di quello si é poi detto in altre guise di là da’ monti? E che si é scoperto di più a’ giorni nostri? Che ci dice di più il signor Mattei? Che la tragedia e la commedia greca si cantava? Ma quante e quante volte ciò si é ripetuto a sazietà da tre o quattro secoli prima, che nascesse il signor D. Saverio.

Una felice combinazione per la poesia drammatica trasse i più chiari epici italiani a coltivarla. Per mezzo degli autori dell’Italia liberata e del Goffredo rifiorì la tragedia greca; e per l’immortal cantore dell’Orlando Furioso risorse la commedia nuova. Quest’ingegno prodigioso nato nel 1474 a coglier le prime palme in tutti i generi poetici che maneggiò, per divertir la corte del duca di Ferrara compose cinque commedie, i Suppositi, la Cassaria, la Lena, il Negromante, e la Scolastica, adoperandovi il verso endecasillabo sdrucciolo, nel quale molti Letterati raffigurano l’immagine dell’antico giambo. Il duca Alfonso d’Este, per farle rappresentare, fece alzare un teatro stabile secondo l’architettura diretta dallo stesso poeta; e furono eseguite a maraviglia, essendosi l’istesso Ariosto occupato a dirigerne la rappresentazione, e vi sostenne la parte del prologo, secondo che, ricavali dalle seguenti parole di Gabriele Ariosto, il quale terminò la commedia della Scolastica rimasta imperfetta per la morte di Lodovico avvenuta nel 1533.

……………… Quando apparve in sonnio
Il fratello al fratello in forma e in abito
Che s’era dimostrato sul proscenio
Nostro più volte a recitar principi,
E qualche volta a sostenere il carico
Della commedia, e farle serbar l’ordine.

La prima, nella quale imitò i Cattivi di Plauto e l’Eunuco di Terenzio, s’impresse in Venezia nel 1525 con un prologo in prosa; e insieme colle altre quattro, che sono originali, si ristampò nel 1562.

L’Ariosto prese per esemplari le commedie latine nella forma e disposizione del dramma; ma non ebbe bisogno di trar da esse o dalle greche gli argomenti; ond’é che venne a superar i latini per invenzione e conseguentemente per vivacità. Se il dotto Gravina avesse mirato da questo punto di vista la commedia italiana del cinquecento, non avrebbe senza veruna riserba avanzato nella lettera al Maffei, che i nostri comici son di gran lunga inferiori ai latini. Oltracciò l’Ariosto si valse, sì, di alcuni caratteri delle scene latine, adattandoli alla nostra nazione e al suo secolo; ma ne introdusse ancora molti nuovi, come avvocati, cattedratici, astrologi, mercatanti, teologi, e simili. Il P. Rapin diede una lode immaginaria a Molière dicendo che fu il primo a far ridere con ritratti de’ nobili uscendo dagli schiavi, parasiti, e raggiratori. I cinesi, gl’indiani, i greci, i latini, gl’italiani, gli spagnuoli, e i francesi stessi hanno preceduto a Molière nel dipingere i nobili ridicoli. Un sogno simile ha fatto M. Castilhon, e l’ha pubblicato nelle sue considerazioni, asserendo che «in Spagna e in Italia i poeti comici, toltone il solo Goldoni, non hanno ancor pensato a dare alle donne caratteri nobili». Gli spagnuoli e gl’italiani han dipinte infinite donne con siffatti caratteri nobili per grado e per virtù; ma gl’italiani han saputo contenerli ne’ confini comici, perché non hanno confusi i generi. Se M. Castilhon avesse avuta più pratica della storia letteraria drammatica, avrebbe evitato quest’errore, il quale, per se stesso leggiero, diviene sproposito grave in chi mettendosi a filosofar sulle nazioni, da falsi dati non può dedurre se non falso conseguenze e fondarvi sopra principi non meno falsi.

La commedia italiana di tal tempo non pervenne all’insolenza della greca antica per la costituzione de’ governi italiani, ben differente dall’ateniese; ma non fu timida e circospetta quanto la latina, essendo stati i nostri autori comici persone nobili e ragguardevoli nella società, e non già schiavi, come la maggior parte de’ latini. Perciò si trovano nelle commedie dell’Ariosto e de’ suoi contemporanei, proverbiati coraggiosamente signori, ministri, governatori, giudici, avvocati, frati ec.

Quanto allo stile, l’Ariosto abbonda di sali é motteggi graziosi senza buffoneria da piazza: é naturale senza lasciar di esser elegante: é poetico quanto basta per allontanarsi dalla prosa naturale, senza degenerare in lirico o in altro genere di poesia elevata e sonora, Vedasene un saggio nel seguente squarcio del prologo della Cassaria, dove dipinge i vecchi che vogliono parer giovani:

………………………… Per nascondere
L’età, dal mento e dal capo si svellono
Li peli bianchi: alcuni se li tingono,
Chi li fa neri e chi biondi, ma vari
e divisati in due o tre di ritornano.
Altri i capei canuti, altri ’l calvizio
Sotto il ciuffotto appiatta, altri con zazzere
Posticce studia di mostrarsi giovane;
Altri ’l giorno due volte si fa radere.
Ma poco giova che l’etade neghino,
Quando il viso gli accusa, e mostra il numero
Degli anni a quelle pieghe che s’aggirano
Intorno agli occhi, agli occhi che le fodere
Riversan di scarlatto, e sempre piangono,
O a li denti che crollano, o che mancano
Loro in gran parte, e forse mancherebbono
Tutti, se con legami e con molt’opera
Per forza in bocca non si ritenesseno.

Quella bruttezza naturale ben pennelleggiata si cangia in bellezza poetica, per quello che bene osservò Aristotile. Lo stile adunque dell’Ariosto é ad un tratto famigliare, grazioso, e poetico, e perciò il più conveniente alla commedia, e dovrebbe da’ giovani che vogliono esercitarsi in tal genere, studiarsi bene insieme con Menandro e Terenzio.

Intorno a cinquanta altri letterati scrissero in questo secolo un gran numero di ben regolare commedie. Tralle prime fu la Calandra del cardinal Bernardo Dovizio da Bibbiena, pubblicata nel 1524, e rappresentata poi in Lione in presenza d’Errico II. Nel 1548 uscirono i Simillimi del Trissino, l’Aridosio di Lorenzo de’ Medici, e la Sporta e l’Errore del Gelli. Ma se si chiedesse, quali fossero le più eccellenti commedie del cinquecento, direi che poco o nulla cedono a quelle dell’Ariosto il Geloso e i Fantasmi d’Ercole Bentivoglio, la Mandragola e la Clizia di Niccolò Macchiavelli, gli Straccioni d’Annibal Caro, le tre commedie di Sforza degli Oddi, quelle dell’Aretino, del Contile, del Varchi, del Cecchi, di Giambatista la Porta, e di Niccolò Secco, di cui quella intitolata gl’Inganni si rappresentò in Milano nel 1547 in presenza di Filippo II principe delle Asturie. Esaminate quelle con occhio sereno, non avrebbero presentata al rigido abate Du-Bos più d’un’altra commedia da mettere a lato della Mandragola, da lui sola fra le italiane degnata del titolo di buona? E se ne avesse letta pur una l’inesorabile autor del Belisario, avrebbe mai caratterizzata la commedia italiana da non so qual mescolanza di dialetti, gesti di scimia, e gelosia e vendetta italiana? l’avrebbe trovata così sfornita d’arte, di spirito, e di gusto155? Egli seppe per tradizione che vi erano certe commedie italiane chiamate antiche, e credette che fossero quelle che rappresentavano in Parigi i comedianti italiani, e sulle di loro farse arlechinesce giudicò sì saviamente della commedia italiana156. Ma una nazione, per la quale risorsero in Europa le arti, le scienze, il gusto la politezza, e l’istessa libertà, meritava un poco più di diligenza dal nuovo maestro di poetica francese. Che direbbe M. de Marmontel d’un letterato filosofo enciclopedista, il qual volesse dar idea del teatro ateniese sulle rappresentazioni de’ neurospasti? Non chiamerebbe egli maligno e ignorante un italiano che per far conoscere la commedia francese, dimenticato Molière, fondasse il suo giudizio sulle farse di Hardy, o sui cartelloni delle fiere parigine? Ma quella maniera di giudicar’ senza vedere né pensare, e di offender le nazioni culte, é un male ormai divenuto incurabile tra’ belli-spiriti francesi. M. de la Harpe, modernissimo scrittore di alcune tragedie già obbliate, diceva nel Mercurio di Francia del mese di marzo 1772, che «la gesticolazione e i lazzi fanno più della metà della commedia italiana, aggiungendo con gallica urbanità, come di gesticolazione e di lazzi é composta la più gran parte della conversazione e dello spirito degl’italiani» 157.

Un secolo dotto fa risplender di riverbero ancor quelli che non lo sono. Erano in tal tempo cresciuti i commedianti di professione, e fra essi si trovava più d’un commediografo spiritoso. Il Lombardi nel 1583 produsse una commedia lodata, intitolata l’Alchimista; Andrea Calmo, attore molto abile, mentovato dal Parabosco nelle lettere, fu autore di varie commedie; e Antonio Beolco, chiamato il Ruzzante, ne compose molte esaltate dal Varchi158. Del resto generalmente i pubblici commedianti andavano per l’Italia rappresentando certe commedie chiamate dell’arte per distinguerle dall’erudite recitate nell’accademia e nelle case particolari da attori civili per loro diletto ed esercizio. Si notava, com’essi dicono, a soggetto il piano della favola e la distribuzione e sostanza dell’azione di ciascuna scena, e se ne lasciava il dialogo ad arbitrio de’ rappresentatori. Tali farse istrioniche contenevano varie buffonate triviali, e vi si iacea uso di maschere diverse, ognuna delle quali nel vestito, nelle caricature, e nel linguaggio esagerava la ridicolezza caratteristica di qualche città. Pantalone era un mercante veneziano, il Dottore un curiale bolognese, Spavento un tagliacantone, Coviello un furbo, Pascariello un vecchio goffo, sconnesso, e inconcludente nel parlare, tutti tre personaggi napoletani, Pulcinella un buffone dell’Acerra, Giangurgolo un villano di Calabria, Gelsomino un lezioso romano, o un Zima fiorentino, Beltramo un semplice milanese, Brighella un raggiratore ferrarese, Arlecchino uno sciocco malizioso di Bergamo159. Il volgo italiano se ne compiacque per la novità, e per quello spirito di satira scambievole che serpeggia tra’ vari popoli d’una medesima nazione. In quelle farse dell’arte possiamo ravvisare qualche reliquia degli antichi mimi, la cui indole buffonesca é stata sempre d’indurre prima insensibilmente un certo rincrescimento della vera poesia, e poi di cagionarne la decadenza.

Le favole pastorali che dopo il Cefalo del Correggio furono composte nel cinquecento, sono un nuovo genere drammatico inventato dagl’Italiani, quando non se ne voglia ravvisare un’immagine nel Ciclopo d’Euripide. Ne produssero un gran numero più di venticinque letterati, tra’ quali si contraddistinsero Agostino de’ Beccari da Ferrara col Sacrificio, comporto senza Cori fin dall’anno 1553, ed indi messo in musica da Alfonso dalla Viola ferrarese nel 1555, il celebre letterato, poeta e orator grande, Alberto Lollio ferrarese coll’Aretusa rappresentata e cantata ne’ cori in presenza del duca Alsonfo II d’Este nel 1563, e Agostino Argenti collo Sfortunato, pure rappresentata con i cori posti in musica dal Viola in presenza dell’istesso duca. Ma pervennero al colmo della gloria l’Aminta del gran Torquato160, e ’l Pastor Fido  del celebre Guarini, i cui cori furono parimente cantati nella rappresentazione. Queste due pastorali furono tradotte in Francia cinque o sei volte infelicemente, sia per debolezza delle penne che vi s’impiegarono, sia perché la prosa francese é incapace di render competentemente la poesia italiana. La traduzione dell’Aminta in bel versi castigliani del Jauregui, e quella del Pastor Fido del Figueroa, meritano tutta la stima degl’intelligenti. Ma la lingua castigliana é ricchissima, e ha non pochi giri ed espressioni simili a quelle dell’italiana, e non manca di qualche sorta di linguaggio poetico; e n’avrebbe ancor più, se fosse stato dalla propria nazione più conosciuto, e fecondato nel disegno d’arricchire e nobilitar la poesia castigliana, l’andaluzzo Herrera, buon poeta e felice imitator del Petrarca. Occupa (dice Apostolo Zeno) tra le più stimate pastorali il terzo luogo la Filli di Sciro del conte Guidubaldo Bonarelli che rapportiamo qui, benché fosse impressa ne’ primi anni del secolo seguente 1607 in Ferrara. Il Pentimento Amoroso di Luigi Groto, il famoso cieco d’Adria, comparve in pubblico nel 1583 dopo l’Aminta, e prima del Pastor Fido. Né merita meno di esser mentovata quella del Bracciolini intitolata L’Amoroso Sdegno, come anche la Disperazione di Sileno e ’l Satiro di Laura Guidiccioni, dama Lucchese, rappresentata avanti al gran duca nel 1590, ai cui cori fece la musica Emilio del Cavaliere, romano.

Finalmente in questo secolo può dirsi a ragione inventata l’opera musicale. La musica, costante amica dei versi ancor de’ selvaggi, la quale nell’oriente si frammischia senza norma fissa neller, e in Atene e in Roma avea accompagnata or più canoramente, come ne’ cori, or meno, come negli episodi, la poesia rappresentativa, nelle grandi rivoluzioni dell’Europa se ne trovò divisa. Lasciato il teatro alla poesia e alla rappresentazione, la musica si conservava nelle chiese, e accompagnava la danza e i versi che ne’ caroselli soleano cantarsi sui carri e altre macchine161. Ma tutto ciò non era punto un’opera. Perché divenisse tale, bisognava che le macchine per appagar l’occhio, l’armonia per addolcir l’udito, il ballo per fare spiccar l’agilità e la leggiadria, e la poesia e la rappresentazione per parlar al cuore, cospirassero concordemente a formar un tutto e un’azione ben ordinata; e ciò non avvenne prima della fine del secolo XVI.

Non si sarebbero mai immaginato i moderni anfioni teatrali, che i primi cantanti, ovvero istrioni musicali, sieno stati l’Arlecchino, il Pantalone, il Dottore162 ed altre maschere; e pur tra queste cominciò l’opera. Orazio Vecchi modenese, poeta insieme, e maestro di cappella, spinto dal felice effetto che faceva l’unione della musica e della poesia in tante feste e cantate, e cori delle tragedie, e pastorali italiane, si avvisò il primo di sperimentar quell’unione in tutto un dramma, e nel 1597 fece rappresentar in musica agl’istrioni il suo Anfiparnaso, stampato l’istesso anno in Venezia appresso Angelo Gardano in quarto, e di note musicali corredato dall’autore medesimo. Sia poi che ’l nobile fiorentino Ottavio Rinuccini (il quale fu gentiluomo di camera d’Errico IV re di Francia, e non commediante, come dice ne’ suoi Giudizi il Baillet, ripresone a ragione dal Bayle) s’inducesse per l’esempio del Vecchi a formar del dramma e della musica un tutto inseparabile in un componimento eroico e meglio ragionato, o sia che le medesime idee del Vecchi gli sopravvenissero senza che l’uno sapesse dell’altro, egli é certo che ’l Rinuccini col consiglio del signor Giacomo Corsi intelligente di musica mostrò all’Italia i primi melodrammi regolari, la Dafne, l’Euridice, e l’Arianna. La Dafne rappresentata nel 1507 avanti la gran duchessa di Toscana in casa del prenominato Corsi, grande amico del Chiabrera, e l’Euridice in occasione del matrimonio di Maria de’ Medici con Errico IV, furono poste in musica da Giacomo Peri, e s’impressero in Firenze nel 1600. L’Arianna posta in musica da Claudio Monteverde, si cantò nel matrimonio del principe di Mantua coll’infanta di Savoia, e nel 1608 s’impresse ancora in Firenze.

I pedantini e criticastri oltramontani, forestieri nelle lettere greche, latine, e toscane, e ne’ giusti principi di ragionare, sogliono rimproverare all’Italia questo genere difettoso, al lor parere, che manda a morir gli eroi cantando e gorgheggiando. Cotestoro son della greggia degl’infarinati, motteggiati graziosamente in Madrid da D. Giuseppe Cadalso, e chiamati eruditos a la violeta. Essi non leggono, se non pettinandosi, alcuni superficiali dizionari e fogli periodici, o gazzette letterarie, che si copiano tumultuariamente d’una in altra lingua, dove decidesi con magistral sicurezza che ’l «canto rende inverisimili le favole drammatiche». Come risponderemo loro? Che le antiche tragedie e commedie altro non erano che specie d’opere 163? Ma che s’intenderanno essi d’orchestra, di tibie uguali, disuguali, destre, sinistre, serrane, di Melopea? Diremo che il canto é una delle molte supposizioni ammesse in teatro come verisimili per una tacita convenzione tra’ rappresentatori e l’uditorio164? Ma il loro svaporato cervellino sosterrebbe il travaglio di analizzar l’idee che sono concorse alla formazione degli spettacoli teatrali? Appigliamoci al partito più proprio per la loro capacità rimandandoli a leggere e masticare quel che in tal questione scrisse giudiziosamente M. Diderot, uno de’ più renomati filosofi moderni della Francia165.