(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo decimo »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo decimo »

Capitolo decimo

Miglioramento della poesia lirico drammatica, Quinaut in Francia precursore della riforma. Celebri poeti fino a Metastasio. Avanzamenti della prospettiva.

[1] La Francia, che avea in parte contribuito a fare che gl’Italiani trovassero il vero stile del recitativo musicale, contribuì non meno col proprio esempio al miglioramento della poesia drammatica. Dal tempo in cui s’introdusse il melodramma in quella nazione per opera del Cardinal Mazzarini, i poeti che rivolsero l’ingegno a cotal genere di componimenti modellarono intieramente il loro gusto e la loro maniera su quella delle produzioni italiani, che levavano maggior grido. Non è adunque da maravigliarsi che i vizi d’un sì cattivo esemplare si propagassero ai melodrammi francesi, e che questi sprovveduti d’ogni poetico pregio cadessero nello stesso avvilimento in cui erano caduti in Italia. Perrino, che fu il primo poeta che componesse opere nella propria lingua, Cambert, primo direttor francese della orchestra drammatica, e Sourdiac, primo macchinista, divertirono per molti anni la corte con spettacoli sconci in quel tempo medesimo che il gran Cornelio creava il teatro tragico, che Racine incominciava a gareggiar con Euripide, e che sorgeva Moliere oscurando colle sue commedie la gloria degli Aristofani e de’ Terenzi. Niuno crederebbe che Luigi Decimoquarto avvezzo ad ammirare tanti capi d’opera sovrani in ogni genere di poesia sene dovesse compiacere, come infatti sene compiacque, della triviale e plebea rappresentazione della Pomona, ove si parlava a lungo di pomi e di carciofoli, che potesse aver la sofferenza di sentir parlare nelle Pene, e piaceri d’Amore Diana, Venere, e l’Aurora col linguaggio delle fantesche e delle ostesse, e che non si raccapriciasse per lo spavento nel sentir codesta bestiale invocazion de’ demoni che si faceva nell’opera intitolata la Circe

«Sus Belial, Satan, et Mildefaut,
Turchebinet, Saucierain, Gribaut,
Francipoulain, Noricot, et Graincelle,
Asmodeus, et tout la séquelle.»

siffatto scongiuro era più a proposito per mandar in inferno i viventi che per trarne fuori i demoni.

[2] Tal era lo stato del melodramma in Francia, allorché Filippo di Quinaut s’accinse insieme col Lulli alla impresa di riformare il teatro dell’opera. Questo celebre poeta tanto criticato nel suo secolo quanto lodato nel nostro, avea avuta la disgrazia di comporre alcune cattive tragedie, per le quali era talmente incorso nella disgrazia di Boeleau, che il satirico non perdeva occasione di motteggiarlo ovunque gli cadeva in acconcio. La sfortunata riuscita delle sue prime fatiche fecero capire a Quinaut essere il suo talento poco a proposito per la tragedia, e che meglio gli tornerebbe volgendolo ad altri generi di poesia. Il suo divisamento divenne utilissimo alla gloria della Francia, poiché con questo mezzo si vide il parnaso nazionale arricchito di tante produzioni eccellenti quanti sono i pezzi drammatico-lirici ch’egli compose. E certo è che prendendo egli ad abbellire il poetico mostro, che si chiamava opera, gli diè quella regolarità e quella forma, della quale niuno l’avrebbe dreduto capace. Il sistema della mitologia e delle fate, sorgente perenne di deliri non meno sul teatro italiano che sul francese acquistò fra le sue mani del vigore, della forza e dell’ordine. E Medea, Arcabona, Armida, Medusa con altri esseri fantastici piacquero a quelli uditori medesimi che erano avvezzi a sparger lagrime sulle calamità di Fedra, e d’Ifigenia, non tanto per l’interesse che potevano eccitare siffatti personaggi (il quale per le ragioni altrove accennate dovea ridursi pressoché al nulla) quanto per la bellezza delle comparse che somministravano. Massimamente in un paese e in un secolo dove la musica allora nascente non avea per anco fatto sentire la varietà, le grazie, la dolcezza, e la melodia che manifestò poscia nelle composizioni de’ gran maestri italiani. Più d’ogni altra cosa contribuì l’eleganza, la precisione e chiarezza dello stile, la naturalezza e facilità del periodo, la varietà, mollezza, ed armonia de’ versi, la dilicatezza dell’affetto, tutte quelle doti insomma che caratterizzano la poesia musicale, e nelle quali Quinaut non ha avuto alcun rivale in Francia né prima né poi. I lettori che amano di farne i confronti tanto giovevoli agli avanzamenti del gusto mi sapranno forse buon grado ch’io esibisca loro un qualche saggio dello stile di questo poeta pressoché sconosciuto in Italia. Ne addurrò dunque alcuni squarci nella propria lingua, non osando trasferirli nella italiana per non toccar con mani profane la Venere ignuda de’ Medici. Quando, traducendo le cose poeti che da un idioma in un altro non si è sicuro d’aver il polso d’un Cesarotti, o d’un Pope, si va a rischio di rinovellar la favola de’ Pigmei, allorché s’affannavano per alzar da terra la clava d’Ercole che dormiva.

[3] Si tratta di esprimere quella mescolanza di rimprovero e di preghiera, que’ sospetti mitigati dalla speranza, quella eloquenza timida insieme ed ardita che ispira l’amore a coloro, che antiveggendo da lontano l’incostanza dell’oggetto che adorano, cercano pure di richiamarlo con dolenti bensì ma dolcissime querele a’ primitivi trasporti? Ecco nelle prime scene dell’Iside un esempio mirabile allorché Ierace si lagna della ninfa Io:

«Vous juriez autrefois que cette onde rebelle
Se ferait vers sa source une route nouvelle
Plutôt qu’on ne verrait votre cœur dégagé;
Voyez couler ces flots dans cette vaste plaine:
C’est le même penchant qui toujours les entraîne.
Leur cœur ne change point, et vous avez changé.

Io.

Non, je vous aime encor.

Hierax.

Quelle froideur extrême!
Inconstante, est-ce ainsi qu’on doit dire qu’on aime?

Io.

C’est à tort que vous m’accusez.
Vous avez vu touiours vos rivaux méprisés.

Hierax.

Le mal de mes rivaux n’égale point ma peine.
La douce illusion d’une espérance vaine
Ne les fait point tomber du fait du bonheur:
Aucun d’eux, comme moi, n’a perdu votre cœur.»

[4] Si vuol rappresentare il tormento più squisito e più crudele che possa trovar ricetto nel cuor d’un amante, la certezza, cioè, d’essere stata l’involontaria cagione della morte della sua amata? Leggansi nell’atto quinto dell’Attide que’ versi, dov’egli rimprovera a se stesso di essere stato l’omicida di Sangaride:

«Quoi! Sangaride est morte! Atys est son boureau!
Quelle vengeance, ô dieux! Quel supplice nouveau!
                Quelles horreurs sont comparables
                        Aux horreurs que je sens!
                Dieux cruels, dieux impitoyables,
                        N’êtes-vous tout-puissants
                Que pour faire des misérables?»

[5] E non si creda già che Quinaut riuscisse bene soltanto nelle cose amorose. Niun poeta francese, compreso anche lo stesso Boeleau che il deprimeva sì ingiustamente, l’ha uguagliato, quando egli ha voluto, nella sublimità e nella forza della espressione. Sentasi in qual guisa parla un coro di seguaci di Plutone nell’Alceste:

«Tout mortel doit ici paraître.
        On ne peut naître
        Que pour mourir.
De cent maux le trépas délivre;
        Qui cherche à vivre
        Cherche à souffrir.
        Plaintes, cris, larmes,
        Tout est sans armes
        Contre la mort.
Est-on sage
        De fuir ce passage!
        C’est un orage
        Qui mène au port.»

[6] Si ponga mente alla robusta fierezza di Medusa nel Perseo:

«Je porte l’épouvante, et la mort en tous lieux;
Tout se change en rocher à mon aspect horrible.
Les traits que Jupiter lance du haut des cieux,
                N’ont rien de si terrible
                Qu’un regard de mes yeux.
Les plus grands dieux du ciel, de la terre, et de l’onde
Du soin de se venger se reposent sur moi.
Si je perds la douceur d’être l’amour du monde
J’ai le plaisir nouveau d’en devenir l’effroi.»

[7] S’avverta innoltre al discorso che fa Ercole a Plutone; si rifletta al coro che nella Proserpina ringrazia gli dei per la sconfitta de’ giganti; si leggano i versi dove si fa per ordine di dio la creazione del mondo; si paragonino poi codesti squarci e molti di più che potrebbero in mezzo recarsi coll’ode sulla presa di Namur, dove Boeleau ha voluto far pompa di lirica grandiosità, indi si giudichi, se sia o no più facile il criticar un grand’uomo che l’uguagliarlo.

[8] L’esempio di Quinaut annunziava una mutazione simile nella poesia lirico drammatica d’Italia, se non in quanto le diverse circostanze di questa nazione fecero cangiar il piano abbellito dal poeta francese. L’opera riserbata fin’allora a festeggiar le nozze de’ principi o a comparire nelle pubbliche allegrezze in mezzo alle corti e nei sontuosi palagi, cominciò anche a lasciarsi vedere nei teatri prezzolati, dove regolata da impressari scarsi di sostanze e cupidi del guadagno più non si potè mantenere col dispendio che esigevan le decorazioni e le appariscenze proprie degli argomenti favolosi. Il cangiamento accaduto poscia nella musica, rivolgendo verso i cantori l’attenzione del pubblico che si prestava da prima ai macchinisti, fu la cagione che i musici si tenessero in maggior conto, e che paghe strabocchevoli richiedessero per le fatiche loro, onde venne in seguito la necessità d’appigliarsi ad altri provvedimenti, che servissero a risparmiar da una parte ciò che si profondeva dall’altra. Della qual disposizione dovuta forse più alle cause accidentali, che a positivo disegno di migliorar il melodramma approfittandosi i begl’ingegni d’Italia, ben presto porsero mano alla riforma della poesia. Appena s’incominciò a capire che il vero, il grande, il patetico, il semplice erano le sole strade per giugnere al cuore, che immantinente sparì tutto quell’apparato di favole e tutto il viluppo di avvenimenti e di meraviglie inventate unicamente per sorprender l’immaginazione in mancanza della natura. Gli dei e i diavoli furono sbanditi dal teatro, allorché si seppe far parlare dignitosamente gli uomini, e i madrigali, le antitesi, le acutezze amorose e l’altre simili ipocrisie dell’affetto si mandarono via insiem colle fughe, le contrafughe, i doppi, i rovesci, e tali altri riempitivi della musica. Le pitture nobili, le forti passioni, i caratteri grandi tratti dalla storia greca e romana, (quasi le due sole nazioni che somministrino argomenti al teatro, perché esse quasi le sole furono ove si conoscessero quelle virtù che possono riceversi dalla legislazione, e dalla filosofia) si sostituirono sulle scene all’abbominio del buon gusto, che dominava per tutto. Si vide che la rapidità, la concisione e l’interesse che partoriscono la commozione, erano l’anima della poesia musicale, e che la lentezza, la monotonia, le dissertazioni e i lunghi episodi trattenevano l’effetto d’un’arte, la quale ha per fine il destar negli animi degli uditori il tumulto e il disordine di tutti gli affetti. Quindi s’accorciarono di molto i componimenti, il numero degli atti si ridusse a tre di cinque che solevano essere, si tolsero via gli inutili prologhi, i quali facevano altrettante azioni preliminari separate dalla principale, si abbreviarono i recitativi, e si cacciarono infine delle scene le arie, ove prima si frammettevano contra ogni retto pensare. Una cognizione più intima del teatro gli fece avvertire che l’aria, essendo quasi l’epifonema o l’epilogo della passione, non dovea collocarsi sul principio, o tra mezzo ad una scena, giacché non procedendo la natura per salti, ma bensì colla opportuna graduazione ne’ suoi movimenti, non è verosimile che sull’incominciare d’un dialogo si vedesse di già il personaggio nel colmo della passione per rientrar poi immediatamente nello stile pacato che esige il recitativo. Lo che era incorrere nello stesso errore in cui incorrerebbe un retorico, il quale dasse principio ad un discorso colla perorazione, facendo in seguito succeder l’esordio.

[9] Due difetti però che più d’ogni altro sformavano il melodramma s’assoggettarono a particolar correzione, l’uno il disordine che regnava nei cangiamenti di scena, l’altro la maniera d’introdurre i cori. Per lo passato niun pensiero si prendevano i poeti di preparar le decorazioni. Il mostro descritto da Orazio, che aveva sembianza di donna su una cervice di cavallo, le piume sul dosso e il restante pesce, era il vero emblema del teatro musicale. Dopo averti mostrata la reggia d’Amore ti conducevan per mano a contemplare un mausoleo parcamente illuminato da lampadi sepolcrali. Venere tirata dalle colombe seguitava gli affumicati cavalli di Plutone, e il palazzo del sole serviva di anticamera poetica alle grotte di Nettuno. A cotal abuso si fecero incontro i poeticoartando la smodata licenza delle decorazioni, preparando con maggior saviezza gli avvenimenti, imbrigliando con certa regola la fantasia del macchinista e dello spettatore. Restò bensì sbandita, siccome era da prima, l’unità della scena; unità la quale allorché divien rigorosa ritarda i progressi dell’arte invece di accelerarli93; ma la licenza che indi ne risultava fu limitata dal buon senso prescrivendo al luogo le stesse leggi che al tempo, e misurando la successione per la permanenza: vale a dire, che siccome alla durata dell’azione si permettono ventiquattr’ ore, così permettonsi al luogo que’ cangiamenti che possono naturalmente avvenire camminando una giornata intiera. Tutto ciò che oltrepassa l’accennata regola è contrario egualmente ai dettami della natura, e a quelli dell’arte. Per la stessa ragione fu anche levato via il costume di chiuder con un coro ciascun atto del melodramma. Siffatta usanza era incompatibile colle mutazioni della scena, e vi voleva appunto tutta la corruzione del gusto di que’ tempi per non riflettere che o cangiandosi la scena, rimaneva lo stesso coro stabile, e allora diveniva un assurdo, o si cangiava anche il coro insiem colla scena, e allora bisognava stiracchiar l’orditura del dramma acciò che vi fosse infine d’ogni atto una situazione la quale rendesse necessaria, o almen verosimile, l’esistenza del coro. Invece non per tanto di questo fu introdotto il costume di finire gli atti con un’aria o con un duetto, onde si colse il doppio vantaggio e di togliere una inverosimiglianza che saltava agli occhi e di approfittarsi vieppiù delle squisitezze della musica, le quali spiccano molto più nella monodia e nel duetto che nelle partizioni d’un coro. Riserbandosi poi questo per alcune occasioni, dove la verità della storia o la pompa dello spettacolo o l’ingresso d’un principe trionfante o qualche altro pubblico evento sembravano giustificare la radunanza di molte persone in un luogo; al quale riflesso per non aver posto mente i Greci, e per essersi lasciati strascinare da un invecchiato costume, caricarono (checché ne dica in contrario la prevenzione) le loro tragedie di mille sconvenenze a fatica ricompensate colle originali bellezze, che dopo venti e più secoli siamo pur costretti ad ammirare nei loro scritti drammatici.

[10] Siffatta riforma venne al melodramma per opera de’ più celebri poeti a quel tempo, de’ quali io non nominerò se non quelli che in qualche modo al cangiamento concorsero, lasciando le ricerche più minute a coloro che stimano aver fatto gran via nella carriera del gusto allorché sanno dirci appuntino il giorno della nascita e della morte, il numero e il titolo delle opere di tanti autori che il pubblico ha dimenticati da lungo tempo senza far loro alcun torto. Carlo Maggi e Francesco Lemene scrissero parecchi drammi ne’ quali se ben l’uno e l’altro partecipano del cattivo gusto nei vezzi soverchi, e ne’ caratteri manierati pur qualche regolarità e qualche gusto ne aggiunsero. Il Capece lavorò alcuni dove si scorge poesia più fluida e musicale con ispeditezia d’intreccio. Silvio Stampiglia romano poeta cesareo ne compose molti, e quasi tutti di carattere storico. Alcuni scrittori pretendono che quest’autore fosse il primo a volgere di tristo in lieto il fine della favola, ma il vero si è che l’usanza di finir lietamente i drammi è tanto antica in Italia quanto il dramma stesso. Io l’ho fatto vedere parlando della Euridice del Rinuccini, e l’ho trovata costantemente osservata in quanti mi sono capitati alle mani di quel secolo. Lo Stampiglia merita bensì qualche distinzione non già per questo, ma per essere stato uno de’ primi a purgar il melodramma della mescolanza ridicola di serio e di buffonesco, degli avvenimenti intrigatissimi e del sazievole apparato di macchine. Per altro il suo stile è secco e privo di calore. Ignora l’arte di render armonioso il recitativo, e più ancora quello di render le arie musicali. La caduta dei Decemviri è il più passabile de’ suoi componimenti. Il Bernardoni, poeta cesareo parimenti, e Antonio Salvi fiorentino, seguitarono l’esempio dello Stampiglia con qualche credito allora, ma i loro nomi coi drammi loro non riceveranno dalla posterità altro premio se non se quello di far serie nei voluminosi tomi del Quadrio. Il marchese Scipione Maffei nella Ninfa fida fece vedere che i talenti per la poesia tragica sono diversi dai talenti per la poesia musicale, imperocché niun crederebbe che l’autore di quella pastorale scritta senza interesse, senza dolcezza di stile e senza spirito teatrale fosse lo stesso che avea composto la bellissima Merope. Lo stile dei drammi di Jacopo Martelli bolognese è vago, ricercato e fiorito, ma l’autore disegna bastevolmente i caratteri e lavora qualche aria di buon gusto. Eustachio Manfredi nell’Aci e nel Dafni a lui attribuiti si mostra ben lontano dalla maravigliosa cultura d’ingegno che risplende nelle sue liriche poesie, e principalmente nella canzone Donna negli occhi vostri, la quale è al mio avviso il più ricco gioiello del moderno parnaso italiano.

[11] Più benemerito si rese, e maggior celebrità acquistò Apostolo Zeno candioto poeta e storico dell’imperator Carlo VI. Quest’uomo infaticabile giornalista sensato, raccoglitor diligente, erudito senza pedanteria, e antiquario senz’affettazione può chiamarsi a ragione il Pietro Cornelio del teatro lirico. Tra le molte imprese a cui porse mano con gran vantaggio della sua nazione, una fu quella di migliorare il dramma. Egli prese a correggere i licenziosi, o piuttosto sguaiati costumi ond’esso veniva macchiato, e ovunque trovò nel vasto campo della storia, nella quale era versatissimo, esempi luminosi o d’amor della patria, o di brama virtuosa di gloria, o di costanza generosa nell’amicizia, o di gentilezza con fedeltà nell’amore, o di compassione verso i suoi simili, o di grandezza d’animo ne’ casi avversi, o di prudenza, di fortezza e tali altre virtù tutte ei le ritolse par fregiarne il teatro. Ovunque fatto gli venne di rinvenire caratteri grandi e forti gli dipinse felicemente senza confonderne le copie. Eppure oltre a sessanta ne scrisse tra occupazioni per lo più contrarie al poetico genio. Il suo stile è corretto e sostenuto, l’invenzione varia, gli avvenimenti preparati meglio che per l’addietro non si faceva, e il tutto procede con regolarità. Le cose sacre principalmente furono da lui maneggiate con maestria, e decenza sconosciuta fino a suoi tempi, poiché gli oratori spirituali, genere di componimento inventato in Roma da San Filippo Neri e da Francesco Balducci illustrato, giacevano allora nell’avvilimento abbandonati alle penne triviali. Appostolo Zeno vi porse mani aiutatrici, e gli rivestì di quella maestà che conviensi al linguaggio delle divine scritture. Sisara, Tobia, Naaman, Giuseppe, le Profezie d’Isaia, Daniello, Davide umiliato, Gerusalemme convertita, l’Ezechia colle altre saranno sempre le migliori rappresentazioni che abbia l’Italia fino a’ tempi di Metastasio. E siccome il suo carattere naturalmente il portava più a quel genere di stile che a qualunque altro, così in un altro luogo s’esprime con egual robustezza. Sentasi qual grandiosità di sentimenti metta egli in bocca a Sisara allorché, promettendo la salvezza al solo Abner, minaccia all’intiero popolo d’Israele totale eccidio.

«A voi pace:
        Ai contumace
        Israele
        Guerra orribile, e crudele
        Il mio braccio arrecherà.
Torri eccelse a terra andranno
        Sorgeranno
        Monti d’ossa, e di ruine:
        E squarciate
        Lacerate
        Seno, e crine
        Ebrea madre piangerà»

[12] Maggiore si è ancora il vigor profetico con cui Daniello annunzia l’ira tremenda dell’altissimo al popolo della Persia in presenza di Amiti.

«Guai, Amiti, agl’imperi,
        Cui dio faccia assaggiar del suo tremendo
        Furor l’amaro Calice. Beete.
        Empietevi, e cadete,
        Dirà il dio d’Israel; né sia chi sorga,
        Dal lampo della spada,
        Che strisciare su voi farà il mio sdegno.
        Che se dove s’invoca
        L’alto mio nome alzo la verga, e batto:
        Voi sol quasi innocenti
        Ne andrete immuni? No:
        Immuni non andrete, o miscredenti.
                Più di leon feroce
                        Darà dall’alto
                        Dio la sua voce:
                        E della terra
                        L’estremo lito
                        Del suo ruggito
                        Risuonerà:
                In sacco, e ceneri
                        Grida urli, e gemiti
                        Date, o pastori:
                        Il giorno è questo
                        Nero, e funesto,
                        Che ovili, e pascoli
                        Vi struggerà.»

[13] La scerta italiana non era per anco avvezza a sentir una poesia cotanto severa e robusta. Le commedie musicali eziandio, ovvero siano le opere buffe, ricevettero maggior lume dalla sua penna, tra le quali merita particolar menzione il Don Chisciotte benché i caratteri vi si dipingano con troppo languidi colori a paragone dell’immortale spagnuolo autore di quel romanzo.

[14] Con siffatti pregi codesto poeta è nondimeno assai lontano dall’aver toccata la perfezione. Egli dee piuttosto chiamarsi un uomo di talento che un uomo di genio, e tra i componimenti suoi e quelli del Metastasio passa a un dippresso la medesima differenza che passerebbe tra amena e frondosa valle veduta al languido lume della luna e questa stessa rischiarata da’ raggi del sole nel più puro mattino di maggio. La fretta con cui gli lavorava, poiché spesso appena otto giorni spendeva in comporli, come asserisce il Marchese Maffei nella prefazione al teatro italiano, lo condusse a cadere talvolta in alcune inesattezze anche di stile poco elegante. Egli non conobbe abbastanza la rapidità che esige il melodramma; perciò le scene sono troppo lunghe, le favole troppo composte, e troppo cariche d’incidenti: talmente che v’ha di quelli fra i suoi drammi che fornirebbero ampia materia di lavoro a due o tre compite tragedie. Ciò non poteva fare a meno di non cagionar lentezza e languore sì nell’azione che nella musica. Non era nemmeno dotato d’orecchio bastevolmente dilicato; quindi il suo recitativo riesce alquanto duro, e non è molto felice nella composizione delle arie. Talvolta gli cadono dalla penna alcune che si direbbe essere state lavorate colla morbidezza metastasiana, come, per esempio, questa:

«Dove sei tu
        Robusta gioventù?
        Almen potessi anch’io
        Seguirti o del cor mio
                Parte migliore.
Al tuo bel sen farei
        Scudo di questo Core:
        E a costo di mia vita
        La tua difenderei,
                Mio dolce amore.»

[15] Talvolta vengono fuori delle altre cose animate, che difficilmente potrebbe uguagliarle la stessa musa tragica del gran Cornelio. Per esempio nell’Andromaca, allorché si vede ridotto Ulisse all’estremo di doverne scegliere tra due fanciulli che gli vengono presentati avanti per condannar l’uno di essi alla morte, e ch’egli ignora quale tra loro ne sia il proprio figliuolo, e quale il figliuolo d’Andromaca, sentasi con qual energia s’esprime la madre che si trova presente alla fatale scelta, e che appieno comprende la scaltrezza e la crudeltà d’Ulisse.

«Guarda pur: o quello o questo
        È tua prole, e sangue mio.
        Tu nol sai; ma il so ben io,
        Nè a te, perfido il dirò.
Chi di voi lo vuol per padre? Ai fanciulli
        V’arrettrate? Ah! Voi tacendo
        Sento dir: tu mi sei madre,
        Nè colui mi generò.»

[16] Si confronti codesta situazione con quella di Foca in Cornelio, che è presso a poco la stessa, e la maniera di esprimersi di Leontino con questa di Andromaca, e si vedrà (sia detto con pace del pregiudizio) quanto il tragico francese sia rimasto inferiore al drammatico italiano. Ma siffatti esempi sono tanto rari che non bastano a sottrarlo dal difetto appostogli. Anche nella scelta de’ nomi fu poco avveduto. Orvendillo, Teuzzone, Ildegarde, Ormisda, Engelberta, Ganguir, Svanita, Lapidot, Nabot, Illel, Azanel con più altri ruvidi vocaboli sono più acconci a mettersi in una dichiarazione di guerra vandalica che in un melodramma. Altri l’accuserà forse di scarseggiare d’affetto e di non saper molto avanti nella dilicata filosofia delle passioni.

[17] Insiem colla poesia ne ricevette anche particolari accrescimenti la prospettiva teatrale. L’arte di far comparire spaziosi e grandi i luoghi ristrettissimi, l’agevolezza e rapidità di volger in un batter d’occhio le scene, la maniera di variar artificiosamente il chiarore dei lumi, e soprattutto l’invenzione dei punti accidentali, ovvero sia la maniera di veder le scene per angolo, condussero la scienza della illusione al sommo cui possa arrivare. Come il gran segreto delle belle arti è quello di presentar gli oggetti in maniera che la fantasia non finisca dove finiscono i sensi, ma che resti pur sempre qualche cosa da immaginare allo spettatore allorché l’occhio più non vede e l’orecchio non sente, così il discostarsi talvolta dalle prospettive che corrono al punto di mezzo, che sono, per così dire, il termine della potenza visiva e della immaginativa, fu lo stesso che aprire una carriera immensa alla immaginazione industriosa e inquieta di coloro che guardano da lontano le scene. Di siffatto ritrovamento ne fu l’autore Ferdinando Bibbiena bolognese, che grandissimo nome s’acquistò dentro e fuori della sua patria, e che venne meritamente chiamato il Paolo Veronese del teatro. Allora la prospettiva fu impiegata non più a esporre sotto gli occhi esseri fantastici, che non hanno alcuna relazione con noi, ma a rappresentare ed ingentilire gli oggetti reali dell’universo. Ed allora il dramma sortì dalla schiavitù dove lo tenevano oppresso i macchinisti e gli impresari, e prendendo per compagne, e non mai per sovrane, la decorazione e la melodia, ei comparve fregiato di tale splendore quale non ebbe mai da’ Greci in qua nel lungo corso di molti secoli. Mancava, nonostante, all’intiero compimento, il gran Metastasio.