(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo undecimo »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo undecimo »

Capitolo undecimo

Epoca di Metastasio. Vantaggi recati da lui alla poesia e lingua italiana. Esame de’ suoi pregi. Riflessioni sulla sua maniera di trattar l’amore. Suoi difetti. S’abbia egli condotto il melodramma al maggior grado di perfezione possibile.

[1] Nel prender la penna per cominciar il presente capitolo io sento più che mai la difficoltà dell’impresa che mi sono forse imprudentemente addossato. Osar uno sconosciuto oltramontano chiamar Metastasio in giudizio? Quel Metastasio cioè, l’autore favorito del secolo, il cui nome scorre glorioso da Cadice fino all’Ukrania, e da Copenhagen fino al Brasile 94 interessando in suo favore non solo i letterati, ma quel sesso altresì da cui sovente dipende l’applauso come tante volte il destino degli uomini? Osarlo in mezzo all’Italia! In quella nazione cioè dove per poco non s’innalzanda per tutto gli altari al sublime genio del poeta cesareo; dove i suoi versi sono oggimai divenuti proverbi, cantandosi nelle bocche di tutti, come già si faceva nella Grecia di quelli di Omero e di Euripide; dove tante penne di rinomati scrittori si sono per l’addietro stancate e si stancano tuttora nel celebrarlo; e dove così male è tornato a quei pochi meschini, che ardirono disturbare anche in menoma parte la sua luminosa e pacifica gloria? Ora tutto ciò io sapendo, con qual coraggio dovrò accingermi all’inutile impegno di portar legni al bosco lodandolo o al pericoloso cimento di sfrondarne i venerati allori che maestosamente germogliano dintorno alla sua statua? Ma cotai pensieri utili forse allorché si era in tempo di non intraprenderne il corso sono oggi mai divenuti tardivi trappassata che abbiamo la metà dell’arringo. né minor vituperio sarebbe il rimuovere la man dal lavoro dopo averlo una volta incominciato di quello che fosse saggio divisamento l’astenerci dal favellare di Metastasio. Però senza pretender che il mio giudizio faccia autorità, anzi lasciando il lettore in piena libertà di non dargliene alcuna, io seguiterò ad esporre le mie riflessioni su questo punto colla stessa schiettezza e imparzialità, che finora ho procurato di fare sugli altri argomenti.

[2] A fine di conoscer meglio le singolari prerogative di questo poeta, e di render ragione di quell’universale diletto che arrecano i suoi componimenti, non fa d’uopo fermarsi sulle proposizioni generali, che possono a chicchessia convenire, ma esaminar bisogna paratamente i mezzi ond’egli è arrivato a rendersi lo scrittore unico e privilegiato dei musici, e la delizia delle persone gentili. Questa è al mio parere la sola maniera di render utile ed instruttiva la critica d’un grande autore, quella cioè di tesser la storia de’ suoi pensieri coll’indicare le strade battute da lui nella carriera del gusto, per le quali poscia inoltrandosi chiunque ha vaghezza d’imitarlo sappia trarne egualmente vantaggio dagli errori e dai lumi di chi l’ha preceduto. Ma dovendo Metastasio comporre per musica sarebbe una ingiustizia il giudicarlo con altri principi che con quelli che esigono le composizioni di cotal genere, come grave torto farebbe a Virgilio chi invece di esaminare l’Eneide colle leggi del poema epico la citasse inanzi al tribunale degli storici e degli oratori. Per il che supponendo che il lettore non si sia per anco dimenticato di quanto si è detto nel capitolo primo di quest’opera circa le leggi che distinguono il melodramma dalle altre produzioni teatrali, passerò a ragionare paratamente dello stile, della orditura, della filosofia e dell’affetto che spiccano a meraviglia negli scritti del celebre allievo del Gravina. Non farò discorso se non per incidenza di quella parte che spetta il costume de’ suoi personaggi, non già perch’io non la creda utilissima anzi necessaria al sommo in un poeta drammatico, né perché stimi che siasi Metastasio mostrato in essa più trasandato che nelle altre, ma perché dovendo restringermi fra i limiti di quella discreta brevità, che richiede il mio metodo, non potrei trattare se non di volo una materia, la quale avrebbe per esser collocata nel suo vero lume bisogno di lungo esame e d’indagine più circostanziata. Tanto più che a cotal impegno si è soddisfatto egregiamente dal Signor Riniero de’ Calsabigi in una dissertazione sulle opere drammatiche di questo poeta, alla quale non può forse altro difetto apporsi se non quello che già fu apposto ad un greco pittore, il quale dovendo far il ritratto di Antigono re di Macedonia ch’era mancante d’un occhio il dipinse con ingegnosa adulazione da una sola banda acciò che guardandolo gli spettatori, ammirassero le maestose sembianze senza punto accorgersene del difetto dell’originale.

[3] E incominciando dallo stile, il primo pregio che apparisce è quello d’una maniera d’esprimersi, dove con felicità, di cui non è facile rinvenir l’esempio in altri autori, si vede accoppiata la concisione colla chiarezza, la rapidità colla pieghevolezza, coll’uguaglianza la varietà, e il musicale col pittoresco. Tutto in lui è facile, tutto è spedito: vi par quasi che le parole siano state a bella posta inventate per inserirsi dov’ei vuole, e della maniera che vuole. Niuno meglio di lui ha saputo piegar la lingua italiana all’indole della musica ora rendendo vibrati i periodi nel recitativo; ora scartando quelle parole che per esser troppo lunghe o di suono malagevole e sostenuto non sono acconcie per il canto; ora adoperando spesso la sincope e le voci che finiscono in vocale accentuata, come “ardì”, “piegò”, “sarà”, lo che molto contribuisce a lisciar le dizioni; ora framischiando artifiziosamente gli ettasillabi cogli endecasillabi per dare al periodo la varietà combinabile coll’intervallo armonico e colla lena di chi dee cantarlo; ora smozzando i versi nella metà affinchè s’accorcino i periodi, e più soave si renda la posatura; ora usando discretamente ma senza legge fissa della rima servendo così al piacere dell’orecchio e a schivare la soverchia monotonia; ora finalmente adattando con singolar destrezza la diversità de’ metri alle varie passioni, facendo uso dei versi curti negli affetti che esprimono la languidezza, allorché l’anima, per così dire, sfinita non ha forza che basti a terminar il sentimento. Come sono questi:

«Oh che felici pianti!
        Che amabile martir!
        Purché si possa dir:
        Quel core è mio.
Di due bell’alme amanti
        Un’alma allor si fa,
        Un’alma, che non ha
        Che un sol desio.»

[4] Dei pieni, rapidi e volubili dove si esprime il coraggio

«Fiamma ignota nell’alma mi scende,
        Sento il nume: m’ispira, m’accende,
        Di me stessa mi rende maggior.
Ferri, bende, bipenni, ritorte,
        Pallid’ombre compagne di morte,
        Già vi guardo, ma senza terror.»

e così via discorrendo. Niuno ha saputo meglio di lui adattare sulla lira italiana le corde della greca investendosi di tutta l’anima dei greci poeti più felicemente di quanti il precedettero in Italia finora senza eccettuar il Chiabrera, uomo grande al certo, ma cui mancò nell’imitazione il vero spirito filosofico; I quali si credevano di essere novelli Pindari divenuti allorché fatta avevano una sregolata canzone divisa in strofe, antistrofe ed epodon piena d’“auro-crinito”, “chiom-acquose”, “ombri-lucente”, ed altre parole sesquipedali, ma vuota di vero genio pindarico, senza costume né carattere greco, e soprattutto non cantabile, quando si sà che le greche non mai si scompagnavano dal canto e dal suono. Lo stesso dico della maggior parte delle chiamantisi Anacreontiche, le quali sono tanto lavorate sul gusto di quell’autore quanto sono conformi alla natura i ridevoli sistemi dei filosofi. All’opposto chiunque abbia un pò d’anima e di gusto non pedantesco riconoscerà immantinente la vera indole greca in quest’aureo inno di Metastasio:

«Del forte Licida
        Nome maggior
        D’Alfeo sul margine
        Mai non suonò.
Sudor più nobile
        Del suo sudor
        L’arena Olimpica
        Mai non bagnò.
L’arti ha di Pallade,
        L’ali ha d’Amor
        Di Apollo, e d’Ercole.
        L’ardir mostrò.
No, tanto merito
        Tanto valor
        L’ombra de’ secoli
        Coprir non può.»

non meno che l’indole del famoso cantore di Batillo in quest’altro tratto dall’Achille in Sciro:

«Se un’alma annodi,
        Se un core accendi,
        Che non pretendi
        Tiranno Amor?
Vuoi, che al potere
        Delle tue frodi
        Ceda il sapere,
        Ceda il valor.
Se in bianche piume
        De’ numi il nume
        Canori accenti
        Spiegò talor;
Se fra gli armenti
        Muggì negletto
        Fu solo effetto
        Del tuo rigor.
De’ tuoi seguaci
        Se a far si viene
        Sempre in tormenti
        Si trova un cor.
E vuoi, che baci
        Le sue catene,
        Che sia contento
        Nel suo dolor.
Se un core annodi,
        Se un’alma accendi,
        Che non pretendi
        Tiranno Amor

[5] Non vi par egli che la sua musa sia la colomba di Venere, che viene a dissetarsi nella coppa di Anacreonte?

[6] Con non minore felicità, ha egli trasfuse nel suo linguaggio le sublimi bellezze della ebraica poesia, siccome può vedersi nel cantico di Giudita nella Betulia liberata, dove pochi poeti sono arrivati a dipingere l’onnipotenza del dio degli eserciti con colori tanto grandiosi.

«Lodi al gran Dio, che oppresse
       Gli empi nemici suoi:
       Che combattè per noi,
       Che trionfò così.
Venne l’Assiro intorno
       Colle falangi Perse:
       Le valli ricoperse,
       I fiumi inaridì.
Parve oscurato il giorno,
       Parve con quel crudele
       Al timido Israele
       Giunto l’estremo dì.
Fiamme, catene, e morte
       Ne minaciò feroce
       Alla terribil voce
       Betulia impallidì.
Ma inaspettata sorte
       Lo estinse in un momento,
       E come nebbia al vento
       Tanto furor sparì.
Dispersi, abbandonati
       I barbari fuggiro.
       Si spaventò l’Assiro,
       II Medo inorridì.
Né fur Giganti usati
       Ad assalir le stelle,
       Fu donna sola, e imbelle
       Quella, che gli atterrì.»

[7] Nel che è da osservarsi l’artifizio del poeta, il quale ritogliendo dalla orientale poesia tutto ciò che ha di magnifico, ha tralasciate quelle frasi, le quali comechè siano bellissime nell’originale ebraico perché idiomatiche e perché proprie di quella lingua, diverrebbero forse ampollose e gonfie se trasferite fossero nell’italiana.

[8] Niuno meglio di lui ha conosciuta l’indole dell’opera in musica accomodando lo stile lirico alla drammatica in maniera che né gli ornamenti dell’uno nuocono punto all’illusione dell’altra, né la naturalezza di questa s’oppone al pittoresco di quello. Osservisi com’egli adoperi sobriamente lo stil figurato nelle narrazioni e nelle pitture, e lo tralasci del tutto ove parla l’affetto, o si richiede consiglio, o sentenza; Come rado o non mai introduca le comparazioni nel recitativo lasciandole alle ariette quando la musica vuol calore o immagine; Come siano esse per lo più connesse colla scena in maniera che prima di sentirle di già l’uditore ha prevenuto il poeta, antiveggendo qual similitudine debba venir in campo, la qual cosa non accaderebbe se niuna relazione avessero queste colla situazione attuale del personaggio; Come riescano tutte di un’aggiustatezza, varietà, e bellezza sorprendente. Volete la versatile pieghevolezza di Ovidio? Vedetela:

«L’onda dal mar divisa
       Bagna la valle, e il monte:
       Va passaggiera in fiume,
       Va prigioniera in fonte:
       Mormora sempre e geme
       Finchè non torna al mar.
Al mar dov’ella nacque,
       Dove acquistò gli umori,
       Dove da i lunghi errori
       Spera di riposar.»

[9] La dilicata, e nobile eleganza virgiliana? Sentitela:

«Rondinella, cui rapita
       Fu la dolce sua compagna,
       Vola incerta, va smarrita
       Dalla selva alla campagna,
       E si lagna
       Intorno al nido
       Dell’infido
       Cacciator.
Chiare fonti, apriche rive
       Più non cerca, al dì s’invola
       Sempre sola,
       E finché vive
       Si rammenta il primo amor.»

[10] Vi piace il fuoco di Omero? Ravvisatelo in queste poeti cissime strofi:

«Talor se il vento freme
       Chiuso negli antri cupi
       Dalle radici estreme
       Vedi ondeggiar le rupi,
       E le smarrite belve
       Le selve
       Abbandonar.
Se poi dalla montagna
       Esce dai varchi ignoti,
       O va per la campagna
       Struggendo i campi interi,
       O dissipando i voti
       De’ pallidi nocchieri
       Per l’agitato mar.»

[11] V’aggrada piuttosto la foga di Lucano, ma senza le sue sregolatezze? Ulisse vi somministra la pruova nell’Achille in Sciro:

«Del terreno nel concavo seno
       Vasto incendio se bolle ristretto,
       A dispetto del carcere indegno
       Con più sdegno gran strada si fà.
Fugge allora, ma intanto chi fugge
       Crolla, abbatte, sovverte, distrugge
       Piani, monti, foreste e città.»

[12] Nei quali esempi, come generalmente nelle poesie di Metastasio, è da osservarsi la destrezza colla quale ha egli saputo dare a’ suoi versi quel grado di armonia che è necessaria affinchè la melodia musicale vi si possa insieme accoppiare senza renderli troppo sostenuti e sonori, come sono comunemente i versi dei poemi non cantabili. La morbidezza non per tanto dello stile, una certa mollezza nelle espressioni non meno che nelle immagini, un ritmo facile senza che divenga soverchiamente numeroso, tutte queste cose unite ad una mischianza felice de’ suoni nell’ordine e combinazion delle sillabe sono le qualità che richieggonsi nelle poesie musicali, e sono appunto le doti che caratterizzano lo stile di Metastasio.

[13] Passando poi all’orditura ed alla scelta de’ suoi argomenti, maraviglioso è il cangiamento introdotto da lui nel dramma musicale. Si pensava per l’addietro che questo fosse un poema consecrato alle favole e da cui per istatuto se ne dovesse sbandire il buon senso. Lo Stampiglia, lo Zeno, e più di tutti il Metastasio hanno smentita la comune opinione facendo vedere che l’opera è capevole di tutta la regolarità, e che i soggetti storici senza sminuirle vaghezza le assicurano una perpetuità che senza essi non avrebbe, cosicché non sono più i deliri dell’antica mitologia, ma la verità, ma la sensatezza quelle che costituiscono la natura del dramma. Metastasio l’ha avvicinato fino alle soglie della tragedia, né non è questo un picciol trionfo riportata dalla filosofia sulla immaginazione e sul pregiudizio. Osservisi la disinvoltura dell’autore nel presentare gli avvenimenti. Un sol verso, una sola parola gli basta alle volte per far capire ogni cosa. Osservisi l’arte colla quale informa gli spettatori in sul principio di ciò ch’è lor d’uopo sapere, esponendo le circostanze passate e presenti, e preparando per le future senza impaccio, né stiracchiatura, ma con un’agevolezza che fa restare. La prima scena del Temistocle e dell’Artaserse sono in questo genere due capi d’opera di sagacità teatrale. Osservisi come s’affretti sempre allo scioglimento fermandosi sulle varie circostanze quel tanto, e non di più, che conduce a tal fine. Notisi ancora la mirabile sua strettezza e precisione nel dialogizzare quando lo richiede il bisogno, dote la quale contribuisce moltissimo alla bellezza di quelle scene non solo perché tende a schivare le lunghe dicerie dei tragici del Cinquecento, e gli ambiziosi ornamenti di moderni Francesi, ma perché risveglia maggiormente l’attenzione degli uditori, perché ravviva il loro interesse mettendo più di rapidità nelle circostanze, perché rende la musica più unita, e conseguentemente più energica, e perché la scena diventa più viva frammettendovisi molt’azione. Quella azione, che è l’anima del teatro, e la quale sola ha rendute durevoli molte produzioni per altri versi ridicole.

[14] La filosofia è altresì una dote rilevantissima dell’illustre autore. Non già quella filosofia polverosa, che ristora tanti e tanti dalla perdita del senso comune coll’acquisto d’una dotta ed orgogliosa ignoranza, non quel gergo inconcludente usato allor nelle scuole, il quale invece di rischiarar l’intelletto altro non faceva che adormentarlo nel sogno della più sofistica stupidezza, ma quella aurea e divina che internandosi agguisa dell’anima universale de’ pitagorici per entro a tutte le facoltà dell’umano sapere non ischiva di travestirsi sotto il fascino della eloquenza, o sotto i vezzi dell’armonia affine di stillare più soavemente negli animi la verità. Qual poeta drammatico ha ottenuto ciò finora meglio di Metastasio? Se si riguarda la morale, ovvero sia quella parte della filosofia che disamina e fortifica i doveri dell’uomo, scienza fra tutte le altre l’unica degna di considerazione, la sola utile alla misera e travagliata umanità, la sola che meriti di occupar i riflessi di un essere pensante, chi se n’è renduto più benemerito di lui? Chi ne ha dipinta la virtù con colori più amabili o si ponga mente ai magnifici esemplari, ch’ei propone alla nostra imitazione, o le massime importanti qua e là sparse ne’ suoi componimenti, o la persuasiva, irresistibil maniera colla quale dispone il cuore a riceverli? Havvene sul teatro antico e moderno un carattere interessante al par di quello di Tito? Non è egli le delizie dell’uman genere ne’ suoi scritti, come già le fu sul trono? Non apparisce forse il vero padre de’ suoi vasalli, il modello dei re cittadini, l’uomo insomma, come altri disse di Traiano 95, nato ad onorare l’umana natura e a rappresentar la divina? Gli encomiatori della libertà (quel fantasma sublime delle anime elevate) non sentono eccitarsi all’eroismo contemplando il suo Regolo, e il suo Catone? E Siroe, Timante, Svenvango, Ezio, Arbace, e Megacle non fanno sì che s’abbia in maggior pregio l’umana spezie? Non si gioisce di esser uomo sapendo di aver avuto per compagno Temistocle? Non sentesi ognuno compreso da meraviglia e da stupore ascoltando l’elevatezza de’ sentimenti che gli mette in bocca il poeta in una delle situazioni più dilicate che possano presentarsi ad un eroe? Atene avealo ignominiosamente bandito dalle sue mura. Atene il perseguita ovunque, vuol ad ogni modo averlo nelle sue mani o vivo o morto, manda a bella posta un ambasciatore per chiederlo a Serse. Serse invece di accondiscendere raduna un’oste possente per far la guerra agli ateniesi, di cui ne adossa il comando a Temistocle. Questi può vendicarsi della sua patria, viene anzi sollecitato a farlo non meno da i benefizi di Serse che da un ordine assoluto. Temistocle ricusa l’impegno si espone all’implacabile risentimento del monarca persiano, subisce la nota d’imprudente e d’ingrato per non divenir traditore di quella città, ove trasse i natali. «E che tant’ami in lei?» gli addimanda Serse sdegnato. Alla quale interrogazione ei risponde:

«Tutto o Signor: le ceneri degli avi,
Le sacre leggi, i tutelari numi:
La favella, i costumi:
Il sudor, che mi costa:
Lo splendor, che ne trassi:
L’aria, i tronchi, i terren, le mura, i sassi.»

[15] Nelle quali parole egli mi sembra così grande, l’eroismo giugne a segno così eminente che se fra noi si dasse un ostracismo poetico, come presso ai Greci era in uso l’ostracismo politico, il Temistocle di Metastasio correva rischio di esser di nuovo scacciato dai confini della poesia non altrimenti che il Temistocle di Atene lo fu dai domini della repubblica. Ne’ suoi componimenti si verifica non per tanto il concetto di Platone: che se potesse la virtù farsi vedere ignuda agli occhi degli uomini, tosto ne invaghirebbe di sé tutto l’uman genere. Sì: quantunque Metastasio fosse privo di mille altri pregi, questo solo basterebbe a rendernelo la delizia dei cuori onesti e sensibili. L’immaginazione dell’uom virtuoso attediata dall’aspetto del vizio trionfante, stanca di vagar per un mondo dove altro non s’offre al suo sguardo che oppressori ed oppressi, sbigottita dagli urli della calunnia che soffocano ad ogni tratto i timidi sospiri della innocenza, annoiata insomma dal commercio dell’uomo, quale il ritrova comunemente o debole, o maligno, o piccolo, o brutale, va per consolarsi agli scritti di questo amabile poeta, come ad un mondo immaginario, che la ristora delle noie sofferte nel vero. Ivi gode d’un cielo men tempestoso, ivi respira un’aria più degna di sé, ivi conversa con uomini che fanno onore alla divinità, onde si scorge balenare sugli occhi quella luce primitiva del grande e del bello, che attesta la sua origin celeste.

[16] Riflettasi quanto sia naturale il suo sentenziare e non pedantesco, come quello di Seneca, che ti pare un ragazzo sortito or ora dal liceo, o come quello dei francesi moderni che t’intassano a torto e a traverso qualunque argomento con lunghi squarci d’insipida metafisica in ciascuna scena. Al che non poco ha contribuito l’esempio di Voltaire, sebbene cotal difetto venga nel suo teatro abbastanza ricompensato da altre doti luminose. All’opposto le sentenze di Metastasio sono opportunissime, tratte sempre dalle circostanze o dalla passione. Alle volte è una conchiusione che si ricava da tutto il dramma, come nel fine dell’Artaserse:

«Della vita nel dubbio cammino
            Si smarrisce l’umano pensier;
L’innocenza è quell’astro divino,
        Che rischiara fra l’ombre il sentier.»

[17] Alle volte è una serie di riflessioni che nascono spontaneamente in una persona incalzata da quanto ha di più vivo il dolore. Così è naturalissimo che Timante disposto a morire prorompa:

«Perché bramar la vita? e qual piacere
In lei si trova? Ogni fortuna è pena,
È miseria ogni età: Tremiam fanciulli
D’un guardo al minacciar: Siam giuoco adulti
Di fortuna, e d’amor: Gemiam canuti
Sotto il peso degli anni. Or ne trafigge
La brama di ottenere: or ne tormenta
Di perdere il timore. Eterna guerra
Hanno i rei con se stessi: i giusti l’hanno
Coll’invidia, e la frode: Ombre, deliri,
Sogni, follie son nostre cure, e quando
Il vergognoso errore
A scoprir s’incomincia, allor si muore.»

[18] L’ubertosa facondia di Cicerone potrebbe dirlo meglio in un intiero discorso? Altre volte sono brievi sentimenti istruttivi, come:

«Soglion le cure lievi esser loquaci
        Ma stupide le grandi.»

Copiato da Seneca:

«Curae leves loquuntur, ingentes stupent.»

[19] Ma s’avverta in qual guisa l’autore applichi ai casi individuali le massime generali, nel che consiste il vero filosofar del dolore, il qual rare volte si esprime per teoremi assoluti, spezialmente allorché è subitaneo e vivo. Così nell’esempio testé accennato la parola “sogliono” rende più adattata e più naturale la sentenza che profferita genericamente, come in Seneca, ha l’aria di un apotegma scolastico. Osservisi ancora di qual impareggiabile poetica venustà rivesta egli gli argomenti più astratti della filosofia; come fra le sue mani le cose più spinose fioriscano, avverandosi colla magia della sua musa la favola di Armida che cangiava in giardini i deserti.

[20] È quistione fra i critici illuminati se possano degnamente trattarsi in poesia gli argomenti metafìsici, attesa la difficoltà che si ritrova nel combinare la precisione colla chiarezza, la catena delle idee cogli ornamenti dello stile, e la severità della ragione colle licenze del colorito poetico. né vi mancò un rinomato scrittor francese, che ha sentito molto avanti nella filosofia delle arti immaginative96, il quale condannasse Alessandro Pope per aver trascelto a soggetto delle sue lettere sopra l’uomo una materia cotanto specolativa ed astratta, parendo a lui che più gran senno avrebbe fatto il poeta inglese e meglio assai provveduto alla propria fama se mai non avesse gettata la falce a coglier tal messe97. Nientedimeno Metastasio ha fatta vedere che niun oggetto è inferiore alla fecondità della imitazione poetica. Si direbbe che il di lui genio fosse la dea Clori dei Greci, che volando per l’aria spargeva nembi di rose ovunque passava. Quale argomento più profondo e più rigoroso che le prove della esistenza d’Iddio. Qual altro più vero, e insiem più nemico del libertinaggio della immaginazione? Eppure la felicità, con cui Metastasio se ne spedisce, ha qualche cosa di sorprendente. Il dialogo tra un vero credente e un idolatra è tolto dalla Betulia liberata:

«Achiorre. Ma non ti basta
       Ch’io veneri il tuo Dio?
Ozia. No. Confessarlo
       Unico per essenza
       Debbe ciascuno, ed adorarlo solo.
Ach. Ma chi solo l’afferma?
Oz. Il venerato
       Consenso d’ogni età: degli avi nostri
       La fida autorità. L’istesso Dio,
       Di cui tu predicasti
       I prodigi, il poter: che di sua bocca
       La palesò: che quando
       Se medesmo descrisse,
       Disse: Io son quel che sono: e tutto disse.
Ach. L’autorità de’ tuoi produci invano
       Con me nemico.
Oz. E ben. Con te nemico
       L’autorità non vaglia. Uom però sei,
       La ragion ti convinca. A me rispondi
       Con animo tranquillo. Il ver si cerchi
       Non la vittoria.
Ach. Io già t’ascolto.
Oz. Or dimmi.
       Credi, Achior, che possa
       Cosa alcuna prodursi
       Senza la sua cagion?
Ach. No.
Oz. D’una in altra
       Passando col pensier, non ti riduci
       Qualche cagione a confessar, da cui
       Tutte dipendan l’altre?
Ach. E ciò dimostra,
       Che v’è Dio; non ch’è solo. Esser non ponno
       Queste prime cagioni i nostri Dei?
Oz. Quali Dei, caro Prence? I tronchi, i marmi
       Sculti da voi?
Ach. Ma se que’ marmi a’ saggi
       Fosser simboli sol delle immortali
       Essenze creatrici; ancor diresti,
       Che i miei Dei non son Dei!
Oz. Sì, perché molti.
Ach. Io ripugnanza alcuna
       Nel numero non veggo.
Oz. Eccola; un Dio
       Concepir non poss’io,
       Se perfetto non è.
Ach. Giusto è il concetto.
Oz. Quando dissi perfetto
       Dissi infinito ancor.
Ach. L’un l’altro include;
       Non si dà chi l’ignori.
Oz. Ma l’essenze, che adori,
       Se son più son distinte, e se distinte
       Han confini tra lor. Dir dunque dei
       Che ha confin l’infinito, o non son Dei.
Ach. Da questi lacci in cui
       M’implica il tuo parlar (cedasi al vero)
       Disciogliermi non so. Ma non per questo
       Persuaso son io. D’arte ti cedo,
       Non di ragione. E abbandonar non voglio
       Gli Dei, che adoro e vedo,
       Per un Dio che non posso
       Nè pure immaginar.
Oz. S’egli capisse
       Nel nostro immaginar, Dio non sarebbe.
       Chi potrà figurarlo? Egli di parti
       Come il corpo non costa: Egli in affetti,
       Come le anime nostre,
       Non è distinto: ei non soggiace a forma,
       Come tutto il creato: e se gli assegni
       Parti, affetti, figura, il circonscrivi
       Perfezion gli togli.
Ach. E quando il chiami
       Tu stesso e buono, e grande,
       Nol circoscrivi allor?
Oz. No: buono il credo.
       Ma senza qualità. Grande, ma senza
       Quantità, né misura. Ognor presente,
       Senza sito, o confine: e se in tal guisa
       Qual sia, non spiego, almen di lui non formo
       Un’idea, che l’oltraggi.
Ach. È dunque vano
       Lo sperar di vederlo.
Ozia. Un dì potresti
       Meglio fissarti in lui: ma puoi fra tanto
       Vederlo ovunque vuoi.
Ach. Vederlo! E come?
       S’immaginar nol so?
Oz. Come nel sole
       A fissar le pupille invano aspiri,
       E pur sempre, e per tutto il Sol rimiri:
       Se Dio veder tu vuoi
       Guardalo in ogni oggetto:
       Cercalo nel tuo petto
       Lo troverai con te.
       E, se dov’ei dimora
       Non intendesti ancora,
       Confondimi, se puoi,
       Dimmi dov’ei non è.»98

[21] Io non so se vagliato che fosse e sceverato il grano che si ritrova nelle opere di Samuele Clark e di Niewentit, che passano per le più profonde in questo argomento99, si potesse ricavare di più di quello, che con tanta scioltezza e precisione dice qui il poeta cesareo. Lo stesso si dee dire delle discolpe della providenza inserite nell’Astrea placata, delle accuse e difese delle passioni, dell’apologia dell’amore di se stesso, di quella della poesia e dell’arte drammatica con cent’altri punti di morale filosofia sparsi qua e là ne’ suoi drammi. Insomma Metastasio è decisivamente (nè se ne sdegni il Petrarca) il primo poeta filosofo della sua nazione.

[22] Nè di meno gli è debitrice l’arte della decorazion teatrale. Questo pregio inosservato finora da quasi tutti coloro che leggono Metastasio meriterebbe un ragionamento a parte per far vedere con quanta destrezza abbia egli meneggiato un ramo così interessante del melodramma. L’uomo di gusto vi osserverebbe con meraviglia la fecondità nell’immaginare i luoghi convenienti alla scena, la maestria con cui fa egli variare le situazioni locali, la dilicatezza nel distinguere quelle che possono dilettar l’immaginativa dello spettatore dalle altre che potrebbero infastidirla, la finezza, il sempre gradevole e non mai repugnante contrasto che mette fra le scene che parlano agli occhi, la varia e moltiplice erudizion che si scorge nella geografia, nei riti, nei prodotti, nelle foggie di vestire di ciascun paese, in tutte quelle cose insomma, che rendono magnifico insieme e brillante un teatrale spettacolo. Il decoratore conoscerebbe con sicurezza il campo che liberamente può scorrere la fantasia nelle invenzioni drammatiche senza rapir i suoi diritti al buon senso, troverebbe nel piano di ciascuno de’ suoi componimenti il segreto ma costante rapporto che dee metter l’arte fra la musica e la prospettiva, o ciò ch’è lo stesso fra l’occhio e l’orecchio ne vedrebbe quante fatiche gliene abbia risparmiato il poeta , qual folla di mezzi indicati a fine di preparare, mantenere, ed accrescere l’illusione, quanti germi d’invenzione, quai lampi di genio pittorico somministratigli ora nei cangiamenti di scena, or nelle pitture vaghissime, che scorgonsi ad ogni tratto ne’ suoi componimenti.

«Sammete assale furioso le guardie reali, e si disvia inseguendone alcune alla sinistra. Intanto fra il baleno de’ frequenti lampi, fra il rimbombo de’ tuoni, e fra il mugito marino, a vista delle navi, e de’ nocchieri, balzati dall’onde e sospinti dal vento si urtano fra di loro, si frangono, e si sommergono in parte; siegue collo strepito di tumultuosa sinfonia nella spiaggia e nel porto ostinato combattimento fra le squadre di Sammete e le guardie reali, vincitrici al fine rincalzando gli altri, lasciano vuota la scena. Verso il fine del combattimento cessa a grado a grado il furore della tempesta, si va rasserenando il cielo, e l’Iride comparisce.»

[23] Ecco un quadro del Le Brun nella galleria della Nitteti:

«Edonide conduce Alcide a seder seco in disparte: e quindi ad un suo cenno si cangia in un istante la scena opaca e selvaggia nell’amena e ridente reggia del piacere. La compongono cappricciosi edifizi d’intrecciate verdure, di pellegrine frutta, e di rari e distinti fiori. Ne variano artificiosamente la vista l’ombre interrotte di nascenti boschetti, o la ravvivano per tutto le diverse acque, le quali o scherzano ristrette ne’ fonti, o serpeggiano cadendo fra i sassi delle muscose grotte liberamente sul prato. È popolato il sito di numerose schiere di geni e di ninfe seguaci della Dea del Piacere, le quali e col canto e col ballo esprimono non meno il contento dell’allegro stato in cui si ritrovano, che la varietà delle dilettevoli occupazioni che le trattengono.»

[24] Ecco un quadro dell’Albano nell’Alcide al Bivio. È da osservarsi generalmente il gran giudizio di Metastasio nell’esporre agli occhi quei colpi di scena soltanto che possono dignitosamente, e con decoro eseguirsi dagli attori. Quinaut nell’Iside ci fa vedere una furia, che afferrando pei capegli una fanciulla, la cava fuori del mare cogli abiti bagnati. Non può negarsi che il poeta francese non possegga per eccellenza il talento di parlar agli occhi sul teatro, ma non è questa, a dirne il vero, l’occasione dove lo manifesta. Un italiano non avrebbe osato di esporre una situazione cotanto difficile per non dire cotanto ridicola; egli che ama meglio peccar di monotonia facendo andar a lieto fine tutti i suoi drammi di quello che sia costrigner un protagonista a morir cantando sulle scene a guisa di cigno.

[25] Ma quello che forma il suo carattere dominante, quello che il rende la delizia delle anime sensibili, quello che esige principalmente l’universale riconoscenza dei lettori per le lagrime, che ha cavate loro dagli occhi, si è l’arte di muovere gli affetti. La sua eloquenza è il «lene tormemtum» di Orazio applicato al cuore. Ed è appunto per questo pregio inarrivabile che l’autore ebbe ragione di dire parlando colla sua cetra.

«Quella cetra ah pur tu sei,
        Che addolcì gli affanni miei,
        Che d’ogni alma a suo talento
        D’ogni cor la via s’aprì.»

[26] Nessun altro poeta dentro o fuori d’Italia è paragonabile con lui in questo genere. Il solo Racine può contrastargli la preferenza, né io dubito che non si trovino alcuni che la daranno più volentieri al francese, scorgendo forse nel suo poetare stile più lavorato, maggior verità nella espressione, caratteri più forti e più teatrali, piani orditi più destramante, sceneggiare più unito, e sviluppo di passione più continuato e meglio preparato. Ma senza negar cotai pregi a Racine, io non credo già che più facile divenghi per questo la decisione, ripensando al diverso genere in cui scrissero entrambi. La tragedia è fatta per appagar la ragione e il cuore. Quindi dee principalmente badare al collegamento ed unità dell’azione, e alla pompa del dialogo; qualità che apportano seco maggior unione nelle scene, più d’ornamento nei discorsi, e sviluppo più circostanziato nelle cose. E tutto ciò è stato egregiamente fatto dal Racine. L’opera, non iscompagnandosi mai dalla musica, dal canto, dalla danza e da gran decorazione, ha per oggetto il piacere non meno che alla ragione all’orecchio e all’immaginazione. Quindi dee render lo stile più lirico, frammetter gran illusione teatrale, sfuggire i nodi troppo complicati, troncar molte circostanze, passar insomma rapidamente da una situazione in un’altra, acciochè si renda più brillante e più viva l’azione. Lo che il poeta cesareo ha mirabilmente ottenuto; Onde la quistione pende dubbiosa, e l’Italia potrà sempre contrapporre ai Francesi il suo Metastasio senza temerne il paragone.

[27] La felicità, che si manifesta in alcuni squarci delle sue poesie, farebbe quasi credere che questo incomparabil poeta spicasse soltanto nella parte lirica del melodramma; ma quale altissima stima non fa d’uopo concepire de’ suoi talenti in veggendo che egli è anche superiore a se stesso nella parte patetica? Si leggano quasi tutte le scene, s’osservi gran parte de’ suoi recitativi, e in principal modo le arie e i duetti, e si vedrà quai copiosi fonti di espressione, quali miniere inesauribili di tragica sensibilità abbia egli aperte ai compositori che le pongono in musica. Appena in cento si troverà un’aria che non rappresenti una situazione che non isviluppi un carattere, che non esibisca una varia modificazione di affetto. Là senti le disperazioni d’un genitore, che lacerato da più crudeli rimorsi crede di vedersi ad ogni passo l’ombra insanguinata del figlio morto per cagion sua, che l’inacerbisce e l’incalza; qua vedi le smanie di una madre, la quale per comando di disumana legge condotta a morire, niun pensiero si prende del proprio destino, ma sollevando verso il cielo i non contaminati sguardi, chiede ai numi che accrescano al figlio ed allo sposo quegli anni di vita che a lei barbara sorte contende. Ora ascolti il terrore umiliante di un’ambiziosa regina, la quale in faccia allo stesso santuario ch’essa meditava di profanare, sente aggravarsi sul suo capo la mano vendicatrice dell’onnipotente, a’ cui cenni la morte e la natura non che i turbini e le tempeste s’affrettano ad ubbidire; ora ti si appresenta uno spettacolo degno dei numi, cioè il dolore sublime d’un eroe che si vede accusato dal proprio padre in presenza del re, in vista di tutta la corte, e sugli occhi dell’oggetto che adora, di un delitto, del quale il solo reo è lo stesso accusatore. In quella sgorga il virtuoso pianto d’un principe modello de’ regnanti, che obbligato a condannar un amico trovato deliquente si lagna cogli dei perché, lasciandogli il suo cuore, gli abbiano fatto il dono d’un impero; in questa ti laceran l’anima i trasporti misti di rabbia e di pietà, coi quali si esprime una vedova costretta a scegliere uno di questi due mezzi, o di dar la mano di sposo ad un suo odiatissimo nimico, o di vedersi uccider sotto gli occhi l’unico suo figliuolo.

«Prenditi il figlio… Ah no:
        È troppa crudeltà.
        Eccomi… oh Dei! Che fo?
        Pietà, consiglio.
Che barbaro dolor!
        L’empio dimanda amor:
        Lo sposo fedeltà,
        Soccorso il figlio.»100

[28] Che quadro energico ed animato per chi ha un cuore sensibile! Andromaca piangente ancora sulla morte di Ettore. Pirro ebbro d’amore per lei e feroce per la conquista di Troia. La fedeltà alla memoria dello sposo, la tenerezza per il figlio, l’odio per il tiranno, lo smarrimento, l’abbandono, l’agitazione dell’una, l’inflessibilità, la ferocia e il despotismo dell’altro. La dubbiezza dell’esito, e il timore su qualunque partito si debba prendere. Il riflesso sulle caducità umane, che riducono talvolta una gran principessa ad uno stato peggior di quello d una schiava. Le lagrime del filosofo sul misero destino della virtù. Le transizioni mentali, le reticenze, i rapidissimi, e pressoché impercettibili passaggi delle passioni… Tutto ciò qual gruppo non contiene di sensazioni e d’idee per l’uditore? Qual varietà d’inflessioni patetiche per il cantante? L’uomo di gusto può bensì conoscerle, ma non s’appartiene che al solo genio il trovarle. Lungo sarebbe anche il voler brievemente accennare tutti i luoghi ove Metastasio maneggia inimitabilmente le passioni, e con pennello incantatore le colorisce: la maniera con cui tratta l’amore merita nondimeno qualche riflessione.

[29] Da una parte lo spirito di cavalleria sparso in tutta l’Europa dopo l’invasione degli arabi, e dopo i viaggi fatti in terra santa, celebrato da poeti siciliani e provenzali, e rapidamente promosso da quella epidemia di romanzi che facevano pressoché la sola letteratura di quei tempi: Dall’altra il sistema di Platone abbellito prima in Italia dalla gentilissima musa del Petrarca, indi reso comune pel mezzo dei Greci fuggiaschi che vi si annidarono, aveano nel regno d’amore introdotta un’aria di novità sconosciuta fin’allora negli annali dell’universo. Ne’ pubblici costumi esso era una spezie di adorazione che si tributava alle donne considerate come oggetti pregievolissimi, i quali acquistar si dovessero a forza di eroismo. Una settimana di corteggio e una bagattella bastano in oggi per meritare l’attenzione delle belle: ci voleva in allora la metà della vita, gli errori d’Ulisse e le dodici fatiche d’Ercole. Ne’ libri altro non era che una metafisica sottile assai comoda pei filosofi che vi trovavano aperto un vastissimo campo alle loro teorie chimeriche, e non men utile per i poeti, i quali scorgevano per entro a quelle illusioni dell’affetto una sorgente di bellezze sconosciute ai Properzi, alle Saffo ed ai Mimnermi, ma egualmente incomoda per le persone troppo sensibili, che risentivano in se stesse principi contrari a filosofia cotanto sublime. Col girar del tempo le circostanze si cangiarono. Sparì lo spirito di cavalleria coll’abolizione dell’anarchia feudale, e collo stabilimento delle monarchie. Passaron di moda quei romanzi banditi colla sferza del ridicolo dall’immortale autore del Don Chisciotte. I brillanti sogni di Platone si dileguarono, allorchè spuntò sull’orizzonte europeo l’aurora della vera filosofia. Il Petrarca divinizzato finallora da suoi adoratori si riumanò, a così dire, per mezzo della critica imparziale e della copia de’ confronti. Le donne finalmente stanche di veder sempre l’amore nelle aeree regioni si compiacquero di farlo scendere, e di renderlo men filosofico. Dal che avvenne quello, che suole quando s’abbandona un sistema, cioè che per lo più si prende il partito opposto. Allora l’amore altro non fu che un commercio materiale di voluttà, nel quale i poeti s’ingegnavano di ricompensare i sensi del lungo imperio che aveva sopra di loro esercitato l’astratta ragione. Ariosto alzò lo stendardo, indi l’Aretino, l’autore del Pastor fido con una folla di poeti minori di loro accrebbero la rivoluzione con vantaggio della mollezza e della vivacità, ma con iscapito della dilicatezza e dei costumi. Cercarono bensì alcuni scrittori d’opporsi alla general corruzione, tra gli altri Leone Ebreo, il Bembo, lo Speroni e il Castiglione, insegnando negli scritti loro la foggia platonica di amare, e facendo scender di nuovo tra gli uomini quella vergine celeste, che avea servito di modello al Petrarca, e che esserne dovea l’archetipo delle donne nei versi de’ cinquecentisti. Ma cotal frasario dell’ipocrisia amorosa rimase confinato senz’alcun uso ne’ dialoghi e ne’ sonetti. Il secolo dedito intieramente alla voluttà ed alla licenza ripose tra le favole poetiche l’amore eroico del tempo de’ paladini, e rimandò gli aerei ragionamenti degli scioperati scrittori al mondo della luna, dove lungo tempo si conservarono, e si conservan tuttora accanto al senno d’Orlando, insiem coi servigi che si rendono ai grandi, colle parole de’ politici, colle lagrime delle donne, e colle speranze dei cortigiani.

[30] Fra questi due estremi egualmente lontani dal vero scopo della natura, perché egualmente discosti dall’essenza dell’uomo, il quale composto da due sostanze diverse non ha affezione che non sia mista, né esigenza che non partecipi della influenza di entrambi principi: fra questi estremi inapplicabili l’uno e l’altro alla imitazion teatrale, quello perché troppo spirituale e forse chimerico, e questo perché troppo sconcio ed abietto; il Metastasio ha trovato il solo mezzo che conviene al teatro, che è quello di depurar la natura, e di combinar la ragione con la sensibilità riponendo la forza di codesta inesprimibile e seducente passione non meno nelle attrattive della virtù che in quelle della bellezza. Col quale avvitamento tanto più agevolmente è divenuto signore degli animi quanto che le persone gentili gli appone il loro spontaneamente, nulla temendo da lui che allarmar possa il loro pudore, anzi trovandovi dipinta al vivo la propria situazione artifiziosamente scolpata. Metastasio è quell’autore favorito cui tutti hanno vaghezza di leggere. Gli uomini perché vi ritrovano la vera copia dell’originale che hanno dentro di sé. Le donne perché niun altro scrittore fa loro conoscer meglio la possanza sorprendente della bellezza e l’ascendente del loro sesso. Difatti veder umiliato a’ piedi di Deidamia quell’Achille lo spavento di Troia e l’oggetto il più caro delle premure dei numi; osservar pendente dai cenni di Fulvia quell’Ezio che rassicurò il volo delle aquile romane sbigottite dal furore di Attila; sentir sospirare fra gli allori trionfali un Cesare arbitro del destino del mondo, e di quello di Catone; contemplar un Alessandro innanzi al cui cospetto la terra s ammutolì, fermar il rapido corso delle sue conquiste per disputare contro un barbaro re il possesso di un cuore; scorger la virtù, la sapienza, la grandezza, il valore, in una parola quanto avvi fra gli uomini di più cospicuo, e di più rispettabile prostrato innanzi al simolacro della bellezza tributarle fiori ed incenso, offrirsi volontariamente al servaggio, baciando inoltre la mano che l’incatena. Qual motivo non è mai questo d’inesplicabile compiacenza per un sesso, che ritrova nelle proprie attrattive la ricompensa della sua dipendenza, e che mai non si piega a servire se non per meglio signoreggiar sul padrone?

[31] Niuno ha sentito tanto avanti quanto Metastasio nella filosofia dell’amore, filosofia la quale benché facile sembri a comprendersi, perché comune alla maggior parte del genere umano e perché appoggiata sul sentimento, è tale, nonostante, che da sommi poeti drammatici non è stata conosciuta abbastanza: eppure erano Crebiglioni, Corneli e Shakespeari. Niuno l’ha dipinto con più genuini colori ora rendendo visibili i sentimenti più ascosì, ora simplificando i più complicati, ora smascherando le più illusorie apparenze. Basta non che altro leggere l’Asilo d’Amore per ravvisarvi dentro un compiuto filosofico trattato, dove coi più vaghi colori della poesia tutti si veggono espressi i morali sintomi di questa passione con finezza e verità superiori di gran lunga al pomposo e inintelligibile gergo con cui vien trattata da Platone la stessa materia nel suo Simposio. Niuno l’ha egualmente ingentilito rimuovendo da esso ogni basso interesse, appoggiandolo sulla base fondamentale dell’animo e accomunandolo colla dilicatezza cortigianesca. Niun’altro possiede un sì alto grado l’eloquenza del cuore, né sa meglio di lui porre in movimento gli affetti, inviluppar gl’interessi e metter l’uno a cimento coll’altro, rilevar distintamente le circostanze che concorrono in un’azione, radunarle poi tutte nell’occasione, spiar i motivi più immediati, i più spediti, i più confaccenti col carattere della persona e più legati col suo particolar interesse. I suoi tocchi sono sempre da gran maestro chiari insieme e profondi, teneri e sublimi. Egli è leggiero come Anacreonte, dilicato come Tibullo, insinuante come Racine, conciso e grande come Alceo. Egli accorda coll’armonia della greca lira i caratteri romani, l’urbanità francese e l’italiana sensibilità.

[32] Mosso da tali ragioni il Signor Sherloc irlandese in un libro italiano, il quale ha per titolo Consigli dati ad un giovine poeta, non ha dubitato di asserire che Metastasio fosse il maggior poeta che abbia mai veduto l’Italia dirimpetto ancora all’Omero ferrarese. Un colto veneziano rapito poc’anzi alle lettere che scrisse tre lettere in risposta contro di lui, mostrò scandalezzarsi di siffatta asserzione a segno di creder quasi ingiurioso all’Ariosto il solo confronto col Metastasio. Un pò troppo di prevenzione a favor degli antichi, e il pregiudizio di certa classe di letterati contro il genere in cui si esercitò Metastasio, regolarono senza dubbio in questa critica la penna dell’abate Zorzi. Non può negarsi che riflettendo a quella fecondità prodigiosa dell’Ariosto, che fila sì complicate e moltiplici per la lunga e difficil carriera di quarantasei canti continui è costretto a condurre: a quella varietà che maneggia tutti gli stili, che dipinge tutti i caratteri e che trascorrer fa il lettore dal sommo all’infimo con fortunatissimo volo; a quella evidenza di pennello, che atteggia ogni movimento, che colorisce ogni muscolo e che ti fa quasi vedere e toccare le cose rappresentate; a quella forza che pareggia in alcuni caratteri quella d’Omero, e che supera in molti la forza di Virgilio; a quella brillante ed ardita immaginazione, la quale tante e sì maravigliose stranezze gli fa trovare per via, e che sì eccellente il rende in ogni genere di descrizioni; a quella inarrivabile schiettezza di stile aureo sempre ed ingenuo, onde s’arricchisce di mille forme diverse la patria lingua, si dilatano i confini della elocuzione poetica, e il più compito esemplare si ricava d’imitazione. Riflettendo, io dico, a tutto ciò, pare che la bilancia del genio dovesse senza contrasto piegare verso il gran cantore di Orlando. Ma dall’altra parte egli è vero altresì che quanto è più difficile a dipinger bene l’anima combattuta di Regolo che il corpo ignudo d’Olimpia, la clemenza sublime di Tito che i colpi di Mandricardo, la situazione di Temistocle nella reggia di Serse che le pazzie del Signor d’Anglante per le campagne; quanto è più pregievole strappar dal cuore gli affetti che descrivere i palagi incantati, penetrare ne’ più intimi nascondigli dell’animo umano che crearsi un mondo fantastico nel globo della luna, far parlare ed agir la natura che scioglier pazzescamente la briglia alla immaginazione; quanto è più utile richiamar il bel sesso col mezzo d’una incantatrice eloquenza alla imitazione di Beroe e d’Aristea che il prostituire i più trillanti colori della toscana poesia dipingendo gli osceni atteggiamenti di Fiammetta, e di Alcina, l’intrecciar cogli eterni fiori della virtù il talamo coniugale di Zenobia, e di Dircea che l’avvilir la dignità d’un poema cogli infami racconti di Medea e di Argia, il rapir dal crine le sue rose alla voluttà per incoronare l’innocenza che il sacrificar questa ad ogni passo sull’altare della dissolutezza; quanto è più interessante un poeta che soddisfa nel medesimo tempo a più facoltà dell’uomo che un altro che non soddisfa se non a poche, uno che rinforza e riunisce i piaceri di tutte le belle arti che un altro che diletta col solo mezzo della poesia, uno che alle difficoltà del genere drammatico accoppia quelle che nascono dalla influenza della musica e della prospettiva sulla tragedia che un altro il quale ne schernisce ogni poetica legge, ne deride ogni esempio, e ne soverchia ogni regola, tanto più il paralello fra Metastasio ed Ariosto divien favorevole al primo. Egli sarebbe forse miglior consiglio trattener il suo giudizio intorno a siffatto confronto, essendo più agevole il dubitare che l’asserir qualche cosa, e mettendo la diversità del poetico genere un inciampo non lieve a chi sensatamente ne volesse giudicar dei poemi. Ad ogni modo però se qualcheduno m’addimandasse il mio sentimento; se non mi fosse permessa la scelta fra la prudenza che ne schiva il cimento e il comando che rende indispensabile l’ubbidienza; se dopo di avere lungo tempo tacciuto io fossi pur costretto a decidere, illustre Metastasio! onor d’una nazione, che t’adorava nella tua vecchiaia dopo averti abbandonato nella tua giovinezza, e che vide con giubbilo premiati in un altro paese quei rari talenti ch’essa avrebbe dovuto conservare nel proprio, sì, tu saresti la Venere cui donerei il pomo della bellezza.

[33] E tanto gliel donerei più volentieri quanto che la sua influenza sul gusto italiano e su quello delle altre nazioni è stata maggiore di quella dell’Ariosto e di qualsivoglia altro poeta. L’Italia non dee considerarlo soltanto come scrittore eccellente di melodrammi, nel qual genere non ha avuto l’eguale finora, ma gli è debitrice in parte eziandio di quella perfezione alla quale giunsero nella trascorsa età e nella presente le arti del canto e della composizione. I Pergolesi, i Vinci, i Jummella, i Buranelli, i Terradeglias, i Perez, i Duranti, e tanti altri insiem coi Farinelli, coi Caffarielli, coi Gizzielli, coi Guarducci, coi Guadagni, e coi Pacchiarotti possono con qualche ragione chiamarsi gli allievi del Metastasio, essendo certo che a tanta maestria non sarebbero giammai pervenuti se non fossero stati riscaldati dal di lui fuoco, e perfezionati non avessero nelle opere sue i propri talenti. La poesia e la musica sono come il testo d’un’orazione, e il commento; ciò che dice questo non è che un’amplificazione, uno sviluppo di quanto accenna quell’altra, e siccome è impossibile o almeno difficile lavorar una musica espressiva su parole insignificanti, così un compositore ed un cantante trovano per metà risparmiata la fatica qualora il poeta somministra loro varietà e ricchezza d’inflessioni musicali. Siamo nel caso di colui che dovendo fabbricar un palazzo, si vede costretto a sceglierne tra i disegni d’un maestro dozzinale, o tra quelli d’un valente architetto. Se la sua cattiva sorte il fa inciampare in alcuna dei primi, per quanto ingegno abbia egli sortito dalla natura, per quant’arte ne adoperi nell’abbellir l’edifizio sempre si scorgeranno nella esecuzione i vizi dell’esemplare. All’opposta se lavora su qualcheduno degli altri, egli sentirà svegliarsi in lui le idee sublimi del bello, le proporzioni verranno a combinarsi spontaneamente nella sua mente, le vaghezze, e gli ornamenti gli si presenteranno innanzi senza contrasto, ed ei si crederà di esser grande per aver battuta la strada additatagli da un altro più grande di lui. Il paragone non può camminar meglio. Metastasio è il Palladio e il Vignola, e i maestri sono gli esecutori. Quindi con non minor verità che eloquenza si espresse il filosofo di Ginevra parlando coi giovani che desiderano di conoscere se la benigna natura ha loro trasfusa nell’anima alcuna particella di quella fiamma celeste, che vien compresa sotto il nome di genio. «Voi tu saperlo?» egli dice. «Va, corri a Napoli, ascolta i capi d’opera di Leo, di Jumella, Durante, e Pergolesi. Se i tuoi occhi sono inondati dalle lagrime; se senti palpitarti in petto il cuore; se i singhiozzi soffocano il tuo respiro, prendi il Metastasio, e lavora. Il suo genio riscalderà il tuo; tu sarai creatore al di lui esempio, e gli occhi altrui ti renderanno ben tosto quei pianti ch’egli ti avrà costretto a versare.» 101 Ma per risentire cotali effetti fa d’uopo avere uno spirito analogo a quello dell’autore che si prende per guida; fa d’uopo esser invaso da quella energica e rispetabile follia del bello, che caratterizza gli amabili favoriti della natura. Bisogna saper versare delle lagrime per tenerezza, come avvenne a Metastasio componendo la sua Olimpiade, e rendersi capace di quell’astrazione imperiosa che rapiva il Parmigianino a se stesso, il quale nel sacco dato a Roma a’ tempi di Clemente Settimo non sene accorse dei soldati ch’erano entrati a depredar la sua casa, mentre stava egli pacificamente dipingendo nel suo gabinetto.

[34] Ecco ciò che può rapidamente dirsi circa il merito di Metastasio. Nessuno m’incolperà con ragione o di non averlo conosciuto abbastanza, o di averlo malignamente tacciuto. L’entusiasmo cui mi sono abbandonato lodandolo, mi metterà, cred’io, al coperto di siffatta accusa. Ma io non avrei che per metà eseguito il disegno di quest’opera se dopo averne additate ai giovani le virtù che possono imitare nel nostro amabil poeta, non avesse anche il coraggio d’indicar loro i difetti, dai quali debbono tenersi lontani. I vizi dei grandi artefici sono più pericolosi degli altri ai progressi dell’arte, perché autorizzati da un più eccellente esemplare. Allora l’errore confuso colla verità si divinizza insieme con essa sulle are del pregiudizio, e lo stolido volgo dei lettori somigliante agli antichi abitatori dell’Egitto adora il fango del Nilo credendolo un germe di divinità. Osiamo dunque esser giusti per amore del vero. Esaminiamo se quest’idolo della Italia dia contrassegni di esser uomo da qualche banda. E se nelle nostre ricerche venisse a disturbarci alcun senso di timidezza, ricordiamoci che mai non fu riputato sacrilegio per chi che fosse il riguardar con occhio di artefice i simolacri dei numi, e che niuno s’avvisò di accusare di fellonia quel filosofo che osò il primo di tutti descriver la carta astronomica delle macchie del sole.

[35] Altri disputeranno se il Metastasio debba dirsi unico nel suo genere, o s’abbia trovato in Filippo di Quinaut un rivale degno di contrastargli la gloria. Io, che non voglio entrare in litigi di preferenza tra due nazioni così rispettabili, mi contento di dire che sebbene il Quinaut sia un autore grandissimo vituperato a torto dal satirico Boeleau; sebbene sia preferibile al Metastasio nella invenzione, avendo egli creato da pianta in Francia il dramma musicale, che Metastasio trovò di già molto avanzato e ripolito in Italia per opera massimamente di Appostolo Zeno; sebbene l’adegui nel numero, armonia, rotondità e pieghevolezza del verso per quanto lo comporta l’indole della lingua francese più ruvida dell’italiana; sebbene la prospettiva, e tutto ciò che appartiene alla decorazione, abbia, generalmente parlando, più luogo nei drammi dell’autore di Armida, e di Orlando che in quelli dell’allievo di Gravina, nonostante questo il Quinaut è molto al di sotto di Metastasio non solamente nel maneggio d’una lingua più bella, ma nella scelta ancora degli argomenti più fecondi di passione e più atti alla melodia, nella pittura dei caratteri più difficili e più interessanti, nell’uso delle sentenze e della filosofia pressoché sconosciuta a Quinaut, nella sensatezza del piano, nella regolarità dell’andamento e nella rapidità delle scene. Veggasi da un solo esempio il carattere poetico di entrambi:

«Régnez, divin sommeil, régnez sur tout le monde,
        Répandez vos pavots les plus assoupissants:
                Calmez les soins, calmez les sens.
Retenez tous les cœurs dans une paix profonde.
        Coulez, murmurez, clairs ruisseaux;
                Ne faites point de violence:
Il n’est permis qu’au bruit des eaux
De troubler les douceurs d’un si charmant silence.»

[36] Chi gusta la lingua francese troverà questi versi d’un’armonia e pienezza mirabile. Ma con quanto maggior grazia, brevità e disinvoltura si dice lo stesso dal Metastasio?

«Mentre dormi Amor fomenti
        Il piacer de’ sonni tuoi
        Coll’idea del mio piacer.
Muova il rio passi più lenti,
        E sospenda i moti suoi
        Ogni Zeffiro leggier.»

[37] Così si vincono gli autori imitandoli. Una cosa che non dee tralasciarsi in favor suo, si è la preferenza che ha egli sul poeta francese nella parte più interessante di questo genere di poesia, qual è senza dubbio la composizione dell’aria. I drammi del Quinaut altro non sono che un continuato recitativo. In quanto alla spezie di canto compreso in due o più strofi liriche, le quali chiudono un sentimento preciso su cui si forma poscia il motivo musicale, e che dee con ragione chiamarsi il capo d’opera del teatro drammatico, si può assicurare ch’egli appena lo conoscesse; circostanza che renderà a poco a poco pressoché inutili i suoi componimenti non potendosi accomodare senza guastarli al genio della odierna musica.

[38] Altri esamineranno se sia da imitarsi senza precauzione quel suo stile sempre liscio e sempre in cadenza, quei sensi mozzi e tronchi per lo più nella stessa cesura, quei periodi troppo uniformi e ristretti alla foggia francese, e se debbano commendarsi senza eccezione certe sue frasi, come sarebbe a dire:

«Svenare gli affetti,
Opprimere in seno la fiamma adorata del cuore,
Tu sei l’ornamento de miei sudori,
Quel segreto è un arcano,
Riandando l’idea,
Troncar il canape reo dei legni»,

e tali altri modi di dire, che da qualcuno si riputerebbero di gusto poco sicuro, e niente conforme alla maniera di scrivere osservata da buoni autori. A me, che sono oltramontano e conseguentemente non abbastanza inoltrato nella cognizion della lingua, fa di mestieri andar a rilento nel decidere siffatta questione. Però senza ammettere cotali accuse, né rigettarle, mi contento di dire che sebbene a imparar, come va, la lingua toscana, e a formarsi uno stile elegante e robusto fosse miglior pensiero l’appigliarsi ad altri scrittori che non a Metastasio; non per ciò lascia d’essere pedanteria ridicola il vituperarlo per non aver fatto uso dell’“quanco”, del “piùe”, del “chente”, e di simili altre leziosaggini dell’antico parlar fiorentino. In una nazione dove non si è convenuto finora quale sia la vera lingua degli scrittori; dove la sanese contrasta il primato alla fiorentina e la romana vorrebbe sottrarsi dal giogo di entrambe; dove la lombardia vanta anch’essa scrittori di sommo grido proposti come modelli nel frasario generale della nazione; dove la diversità dei popoli, dei governi e delle leggi, l’affluenza di persone e di libri stranieri, i gusti ognor rinascenti e ognora cangiantisi rendono vario tuttora e indeterminato il gusto comune di parlare e di scrivere; dove una porzione di letterati adoratori della veneranda ruggine del Trecento e della battologia per lo più insipida del Cinquecento è sempre alle busse coll’altra porzione di colte persone, le quali amando la moderna foggia di esprimersi più disinvolta e meno impacciata, più spedita e men boccacevole, ne deridono l’antica superstizione e s’appigliano al detto d’Orazio, che la fuga delle lingue è come quella delle stagioni, le quali veggono sfrondarsi nell’autunno quegli alberi, che aveano osservato vestirsi di foglia nella primavera, in questa nazione, io dico, non può così di leggieri condannarsi un autore per ciò solo che non abbia scritto secondo la Crusca. Anche negli scrittori approvati da questa si ritrovano non pochi modi di favellare che sarebbero scorretti attendendo alle regole, ma che furono poscia autorizzati dal tempo e dalla fama degli autori. Così la posterità, la quale riporrà certamente Metastasio in un seggio di gloria vieppiù luminoso di quello dei Cini, dei Passavanti, dei Burchielli, dei Varchi, dei Salvini, dei Dati, e dei Salviati, o adotterà quelle formole mosse dall’autorità dell’inventore o gli perdonerà volentieri qualche neo di stile e di lingua in grazia degli affetti che sentirà strapparsi dal cuore. E prenderà maggior diletto gustando la mollezza, la vivacità e la chiarezza di espressione che spiccano nei componimenti drammatici del poeta cesareo, che nella insignificante purità del Dicta mundi di Fazzio degli Uberti, del Tesoro di Ser Brunetto, del Malmantile di Messer Pirlone Zippoli, dei Capricci del Botaio, o di tali altri libri canonici per quella classe di persone, le quali povere d’ingegno e sterili di fantasia credono esaurita dal Vocabolario di un’Accademia tutta la fecondità dell’umano spirito, e per cui non istà che le lingue e il sapere degli uomini non rimangono perpetuamente in una barbara infanzia. Quantunque la lettura di quelli autori contribuisca in oggi tanto agli avanzamenti del gusto quanto giovano alla vera cognizione dell’Antichità le ricerche sulla struttura delle bracche che portava Marco Tullio, o le fatiche di quel buon monaco bolognese che scrisse una lunga dissertazione investigando qual fosse la costa che Iddio staccò dal fianco di Adamo per fabbricar il corpo della madre Eva. Ad onta però degli stitici e freddi grammatici, ad onta di quei pedanti accigliati che vorrebbero arrestar il volo del tempo e imprigionar la ragione fra lacciuoli tessuti di tela di ragno, i progressi della filosofia, che annunziano una vicina rivoluzione nelle idee della nazione, promettono anche un cangiamento nell’indole dell’idioma. «Resta a fissarsi», dice un ameno ed elegante scrittore, «la lingua viva ed a farsi universale ad uso di tutti, come incomincia da qualche tempo. Il genio a ciò far destinato sembra esser Metastasio 102 Oltracchè le regole dello stile proprio del dramma musicale non debbono misurarsi per quelle degli altri componimenti, esigendo la natura del recitativo e del canto un tornio di espressione, una certa combinazione di vocali e di consonanti, una cadenza di periodo particolare quale non si richiede dalle altre poesie fatte per esser lette, o semplicemente recitate. Io credo di averlo dimostrato abbastanza in altri luoghi di quest’opera per non abbisognar qui di nuove parole.

[39] Altri finalmente decideranno se il Metastasio abbia sempre cavato dal proprio fondaco o dall’altrui i suoi pregiatissimi drammi; se l’imitazione de’ Greci, Inglesi, Francesi e Italiani sia abbastanza nascosa, o troppo visibilmente marcata; s’abbia tolta l’arte d’intrecciar gli accidenti da Calderon, autore ch’aveva tra i suoi libri e che a ragione veniva da lui stimato moltissimo a confusione di tanti saccenti, i quali intieramente lo dispregiano senz’averlo neppur veduto. Se si vegga espressa Donna Ines de Castro della Mothe nel Demofoonte, l’Atalia di Racine nel Gioas, il Cinna di Cornelio nella Clemenza di Tito, il Temistocle di Appostolo Zeno nel suo, e così via discorrendo. Checché sia di ciò, una tale riprensione non può darsi a Metastasio senza stenderla ancora ad altri ingegni grandissimi. Gli obbietti dell’universo hanno dapertutto certe relazioni comuni, le passioni hanno parlato in tutti i secoli lo stesso linguaggio, la bellezza di quelli e l’energia di queste è stata espressa da alcuni scrittori in guisa tale, che non possono ritoccarsi senza guastarle. Qual meraviglia è dunque se chi dopo loro si scontra nel medesimo obbietto, o nella medesima situazione, non potendole migliorare le ricopia, o le riveste alla sua foggia? Virgilio, Ariosto, Tasso, Moliere e Racine fecero senza biasimo alcuno anzi con molta laude lo stesso. Non può negarsi che Metastasio non abbia in alcuni luoghi portata l’imitazione fino ad involar le parole stesse non che i sentimenti, ma generalmente parlando, egli ha l’arte di adattare i pensieri che imita dall’altrui genere al proprio, la qual cosa basta per dare agli oggetti imitati quell’aria di novità, che gli rende pregievoli. I miei lettori amerebbero forse che se ne facesse in questo luogo il confronto di alcun componimento d’un altro autore preso ad imitare da Metastasio. Ma questo, oltracchè l’esame riuscirebbe troppo prolisso, è stato di già felicemente eseguito da parecchi scrittori, e s’esseguisce al presente da una radunanza di letterati impiegati nel far dei commenti a ciascuno dei drammi di questo poeta, e che verranno dati alla luce dalla Società tipografica di Nizza.

[40] Molto più mi rincrescerebbe il non poterlo scolpare da altri difetti, i quali imitati incautamente dai giovani potrebbero condurli alla rovina del buon gusto. Incominciamo dal più frequente e più ovvio, che è quello di aver ammollito, anzi effemminato il dramma in musica introducendovi l’amore, e introducendolo in maniera poco conveniente allo scopo del teatro. Non v’è un solo fra suoi drammi, (s’eccettuati non vengano gli oratori e qualche altro breve componimento) dove questa passione non abbia luogo. Il Catone, il Temistocle, il Regolo, dove certamente non doveva aspettarsi, non ne vanno esenti. né si contenta di frammettere uno o due intrighi amorosi, in molti vi sono anche tre e quattro. Ci è qualcheduno, come la Semiramide, dove tutti quanti i personaggi sono innamorati. E pazienza se quest’amore fosse sempre la passione primaria, sulla quale poggiasse tutto il nodo della favola, e da cui ne dipendesse lo scioglimento, se fosse una passione abbastanza forte, seria, e terribile per rendersi teatrale. Ma più volte l’autore non ha avuto in vista né l’uno né l’altro. L’amore in molti suoi drammi altro non è che un affetto puramente episodico e subalterno, un riempitivo, un cerimoniale di scena. Dal che avviene non di rado che non solamente illanguidisca l’affetto, ma che rattenghi eziandio la foga e rapidità dell’azione principale.

[41] La pittura di questa passione sul teatro non ha mezzo. Essa è come il governo dei tiranni, i quali o regnano dispoticamente fra la strage e il sangue, o perdono il trono e la vita. O l’amore trionfa solo fra i tumulti e le peripezie, o tenendo il secondo luogo diventa una occupazione frivola e insipida103. La passione per esempio di Fedra nella tragedia di Racine è interessantissima, perché forma il tutto della favola, ed è la cagion primaria della disgrazia di tutti; quella d’Ippolito e di Aricia è fredda, e quasi senza effetto perché subalterna. Mi fa tremare l’amore di Mitridate scortato dai furori, mi raffreddano le scene di pura galanteria tra Monima e Siffare. Così nel Metastasio io applaudisco alle amorose smanie d’Ipermnestra, piango nella tenera, viva e veramente tragica passione di Timante e Dircea, tremo per l’amante e virtuosa Zenobia perseguitata dai sospetti dell’impetuoso e feroce Radamisto. Ma qual interesse ho a prendere per gli affettati sospiri di Amenofi, di Barsene, di Cleofile, di Selene, di Megabise, di Tamiri e di tanti e tante che s’amano puramente per formalità e per usanza teatrale, non altrimenti che Don Chisciotte amava Dulcinea da lui non mai veduta né conosciuta, soltanto per non contravenir alle leggi della errante cavalleria, le quali volevano che ogni cavaliere avesse la sua bella? Quali affetti mi desteranno i languori di Barce accanto al sublime carattere di Regolo? Le debolezze di Serse rimpetto alla generosità incomparabile di Temistocle? Le fredde gelosie di Arbace in faccia all’indomito repubblicano Catone? Gli stessi, che risveglierebbono in un selvaggio del Canadà i lamenti di quel Sibarita, il quale non avea potuto in tutta la notte riposare pel disagio recatogli da una foglia di rosa, che gli si era sotto il fianco ripiegata.

[42] Cotali riflessioni si rinforzano maggiormente ripensando alla influenza che ha avuta l’accennato diffetto sui componimenti del poeta cesareo. Essa è la cagion principale di quella effemminatezza, di quelle tinte alterate perché rammorbidite all’eccesso, onde vengono sformati i caratteri di molti suoi personaggi. Basta una semplice occhiata per ravvisar in loro non già un assirio, un tartaro, un africano, un chinese che parlino, ma bensì il poeta, il quale presta loro spesse fiate i propri sentimenti e il pensare attuale del proprio secolo. Non si sà, per addurne un qualche esempio, capire come Amilcare ambasciatore di Cartago in mezzo alle cure di una importantissima commissione fra le due repubbliche, abbia l’agio di sospirare tranquillamente per una schiava sugli occhi degli emoli ed austeri Romani; come Fulvio inviato da Roma per decider sul destino del mondo fra Cesare e Catone possa, senz’abbassar il proprio carattere, amoreggiar sul teatro la vedova del gran Pompeo; come Cesare, che tutt’altra cosa dovea rivolgere allor nel pensiero fuorché il badare ad una galanteria inutile, pur s’intertenga anch’egli a far il cascante, esprimendosi colla bella non altrimenti che far potesse un Celadone od un Aminta.

«Chi un dolce amor condanna
        Vegga la mia nemica,
        L’ascolti, e poi mi dica
        S’è debolezza Amor.
Quando da sì bel fonte
        Derivano gli affetti
        Vi son gli eroi soggetti,
        Amano i numi ancor.»

[43] Se tali fossero stati i sentimenti di Cesare in così critiche circostanze, il sangue del gran Catone non si sarebbe versato sulla tomba della romana libertà, né gli avanzi della più sublime virtù, che abbiano ammirata giammai il patriotismo e la filosofia, sariano divenuti il pomposo trofeo di un usurpatore fortunato.

[44] Nè può piacere al buon senso che uomini nati fra gli scogli della Mauritania, o sulla riva del Gange, che Alessandro, Ciro, Semiramide, ed altri celebri conquistatori dell’Antichità, presso a’ quali l’amore fu piuttosto un bisogno materiale dei sensi che un raffinamento della immaginazione, si siano all’improvviso cangiati in altrettanti belli spiriti de’ nostri tempi «struggendosi al fulgore de’ bei rai, facendosi del core un nido», morendo di languore «accanto alle vezzose stelle, al mio bel nume, all’Idolo adorato» con mille siffatte lambiccate espressioni che sogliono udirsi frequentemente in bocca ad uno scialante Zerbino allorché siede mezzo sdraiato sul sofà vicino a qualche ammorbidita fanciulla. Chi può soffrire che un feroce principe dei Parti venga fuori con questa scapata amorosa, che starebbe assai meglio negli stemperati endecasillabi del Pontano, ovvero del Cotta?

«Già presso al termine
        De’ suoi martiri
        Fugge quest’anima
        Sciolta in sospiri
        Sul volto amabile
        Del caro ben.
Fra lor s’annodano
        Sul labbro i detti;
        E il cor, cbe palpita
        Fra mille affetti
        Par che non tolleri
        Di starmi in sen.»

[45] Chi non istupirà nel sentire quel Romolo violente rozzo e feroce, che riponeva ogni sua ragion nella forza, che si sdegnava al menomo ostacolo, e che pell’ardenza del suo temperamento si rendeva insopportabile a tutti, parlare da sé solo intorno all’amore che ha per Ersilia nello stile del più alambiccato platonicismo?

«Romolo! E come mai
       Fra le minacce ostili, in mezzo a tante
       Cure del nuovo impero ha nel tuo petto
       Pur trovato ricetto
       L’amor così? Tal debolezza! Ah sempre
       Debolezza non è. Cangia natura
       Allor che amor con la ragion congiura.
       Quel che ad Ersilia in fronte
       Io veggo scintillar de’ miei pensieri
       Astro regolator, cosa mortale
       Certo non è.»

[46] E chi non riderebbe ascoltando quel Polifemo, che gli antichi chiamarono «mostro smisurato, orrendo e deforme», quel Ciclope di cui Virgilio ci dà una idea così spaventevole e disgustosa, quel gigantaccio, la cui sola immagine farebbe tremar i fanciulli più di quella dell’orco e della Beffana, apostrofar oratoriamente al suo cuore in un’arietta, sviluppando i punti più fini della passione, come potrebbe farlo un Tibullo od un Petrarca?

«Mio cor, tu prendi a scherno
       E folgori, e procelle,
       E poi due luci belle
       Ti fanno palpitar.
Qual nuovo mota interno
       Prendi da quei sembianti?
       Quai non usati incanti
       T’insegnano a tremar?»

[47] Non incorse in questo difetto l’inimitabil Teocrito, il quale, introducendo lo stesso personaggio a spiegar il suo amore verso Galatea, il fa parlare in guisa ben diversa:

«O bianca Galatea, bianca all’aspetto
Più che giuncata, e più che agnello tenera.
Più d’un vitello superbetta, e acerba
Più dell’uva immatura. Tu sovente
Ten vieni a me qualor m’occupa il sonno,
E poi da me col sonno via ten parti.
Nè altramente da me ritrosa fuggi
Che pecorella dechine dal lupo,
Cui l’età vecchia i bigi peli imbianchi.
Io fanciullo di te m’innamorai
Quando la prima volta in compagnia
Della mia madre ten venisti al monte
A cogliere le foglia di giacinto,
E del sentier io n’era scorta e guida.
Allor ti vidi, allor divenni amante.
E da quel giorno in poi fino al presente
Non trovai pace, o tregua al mio martoro.
E tu crudele l’amor mio non curi? ec.»

[48] Qual semplicità pastorale, qual verità di carattere nei sentimenti del greco poeta! Che raffinamento in quelli dell’italiano! Il primo ti fa vedere il ciclope selvaggio di Omero, il Polifemo originale, come lo troviamo nella storia. Il secondo ti rappresenta un Polifemo del secolo dieciottesimo, un gigante ricciutello che ha imparato dal romanzo dell’Astrea o della Clelia l’arte di comporre soliloqui amorosi. Mi si dirà che il protagonista di Teocrito sarebbe meno a proposito per la musica di quello di Metastasio. Lo concedo. Ma qual bisogno ci era di snaturar Polifemo per renderlo soprano del teatro di San Carlo, o di quello di Argentina?

[49] Come una conseguenza di ciò che abbiamo indicato ne deriva un altro diffetto, dal quale il nostro poeta non ha potuto liberarsi abbastanza. Questo è il sostituire ch’egli fa, tante volte, lo stile della immaginazione a quello dell’affetto, e il preferir al linguaggio della natura gli sfoggiati ornamenti dello spirito. Nulla di più comune ne’ suoi componimenti quando il sentir i personaggi, allorché danno un consiglio o sono agitati da qualche passione, trattenersi tranquillamente a paragonar se medesimi alla nave, al fiore, al ruscello, alla tortora, allungandone la comparazione per sei e otto, alle volte per dieci e dodici versi. Chi ha la serenità d’animo che basta per descriverci così alla minuta gli oggetti esterni, muove un forte sospetto d’ipocrisia nel suo dolore. E più frequenti del bisogno sono quei casi dove gl’interlocutori si sentono far uso di quelle antitesi e ritornelli di parole proprie dei madrigali del Seicento, e così poco care ai sensati maestri. Per esempio Elisa nel Re Pastore:

                «Dal dì primiero
Che ancor bambina io ti mirai, mi parve
Amabile, gentile
Quel pastor, quella greggia, e quell’ovile,
E mi restò nel cuore
Quell’ovil, quella greggia, e quel pastore»

ovvero in quell’inno che Alceste e Cleonice nel Demetrio intuonano ad Appolline, allorché riconosciuto quello esser il vero erede del regno della Siria, si danno scambievolmente la mano di sposi:

«A duo. Deh! risplendi, o chiaro nume
              Fausto sempre al nostro amor.
Alceste. Qual son io tu fosti amante
              Di Tessaglia in riva al fiume,
              E in sembianza di Pastor.
Cleon. Qual son io tu sei costante,
              E conservi il bel costume
              D’esser fido a i lauri ancor.»

[50] È egli mai questa (che dio ci aiuti! ) l’occasione di trovar una serie di rapporti così delicati tra Alceste ed Appolline? Non è una riflessione puerile di Cleonice quella di paragonarsi al nume perché serba fedeltà ad un lauro? Vorrebbe forse il poeta darci ad intendere che se per istrana metamorfosi Alceste fosse cangiato in eliotropio od in mirto, dovesse Cleonice esser fedele ad una pianta? Cotal fantasia scusabile al più in un epigramma o in un poema simile a quello delle trasformazioni d’Ovidio è assolutamente indegna della gravità, che esige un componimento drammatico. Peggio poi quando all’affettazione s’unisce la falsità del pensiero. Così nel Catone allorché Fulvio spiega intempestivamente ad Emilia la passione che ha per lei, e ch’essa gli risponde:

                           «Qual mal può darti
Speranza un’infelice
Cinta di bruno ammanto
Coll’odio in petto, e sulle ciglie il pianto?»

[51] Fulvio, prevalendosi delle ultime parole, s’appiglia per redarguirla ad un contrapposto il più ricercato e meno a proposito che in simili circostanze poteva attendersi.

«Piangendo ancora
              Rinascer suole
              La bella Aurora,
              Nunzia del Sole;
              E pur conduce
              Sereno il dì.»

[52] Nel che ognuno scorge subito la falsità del sentimento, poiché il pianto di cui parla Emilia è vero e reale, e quello dell’Aurora non è che metaforico. La risposta non per tanto di Fulvio è un bisticcio somigliante a quello che un drammatico francese mette in bocca ad un suo personaggio: «Il mio sangue esce dalla ferita fumante di collera, perché fu sparso per altri che per la Dama», o come quello di Ovidio, che, volendo persuader alle donne non dover elleno render venali le grazie loro, adduce tra altre ragioni che nulla giova il rigalar con danari Cupido, poiché andando egli sempre ignudo, non ha bisaccia dove custodirli104.

[53] Dalla medesima cagione provengono quelle tante scene inutili, e di puro riempitivo, inserite a forza fra le altre solo per non perder l’usanza di metter da per tutto l’amore. Le quali lontane dallo spinger, come dovrebbero, l’azione verso l’oggetto principale, e di prepararne lo scioglimento, altro non fanno che romper l’unità, diviar le fila che tendevano al centro, e nuocer alla energia delle situazioni più vive. Quindi i tanti personaggi posticci che solo servono a spandere il languore, e che manifestamente si veggono introdotti dal poeta per sovvenir ai bisogni della favola e alla sterilità dell’invenzione. Quindi le frequenti inverosimiglianze, alle quali dà luogo l’adottato sistema, come sarebbe a dire che i buoni genitori vadino via dalla presenza delle figlie per non distornarle dal carezzar i loro amanti; che i prigionieri destinati ai ceppi, o alla morte restino soli lungo tempo in sulla scena per dir delle tenerezze alla bella; che i personaggi invece di badar agli avvenimenti che hanno sotto gli occhi, s’intertengano insieme a far delle lunghe dicerie sulla galanteria, sulla possanza del sesso, sulla miseria degli amanti, o su altri oggetti estranei del tutto a ciò che si rappresenta. Del che fra i molti esempi che potrebbero addursi, basti per breve saggio la scena prima dell’atto secondo dell’Adriano in Siria. L’uditore, che sa lo scambievole amore tra Farnaspe ed Emirena promessi sposi sotto gli auspizi del padre che sa gli ostacoli che frappone alla loro unione il conquistatore Adriano; che ha veduta la disgrazia di Farnaspe caduto in mano dei Romani e incatenato da loro per esser creduto l’autore di un incendio eccitato da Osroa nel palazzo imperiale a fine di bruciarvi dentro l’imperatore, che si è trovato presente al tenerissimo rincontro degli amanti in così lagrimevole occasione, e che legge nell’anima di Emirena lo smanioso dolore onde vien giustamente lacerata; non s’aspetterà, cred’io, di doverne ascoltare in mezzo ai sentimenti tragici che ispira una situazione cotanto feconda, delle lunghe dispute sull’accortezza, delle donne paragonata con quella dei cortigiani. Eppure tal ne è l’argomento che serve di materia a’ discorsi di Emirena e di Aquilio. Esorta quel romano la bella prigioniera, a prevalersi dell’amore del monarca a pro di Farnaspe. Ella animata da quella nobile fierezza che siede così bene alla virtù combattuta, risponde:

«Em. A me non giova
           Perché non l’amo.
Aquil. È necessario amarlo
           Perch’ei lo creda?
Em. E ho da mentir?
Aquil. Neppure.
           È la menzogna ormai
           Grossolano artifizio, e mal sicuro.
           La destrezza più scaltra è oprar di modo,
           Ch’altri se stesso inganni: un tuo sospiro
           Interrotto con arte: un tronco accento
           Che abbia sensi diversi: un dolce sguardo,
           Che sembri a tuo mal grado
           Nel suo furto sorpresso: un moto, un riso,
           Un silenzio, un rossor, quel che non dici
           Farà capir. Son facili gli amanti
           A lusingarsi. Ei giurerà, che l’ami:
           E tu quando vorrai
           Sempre gli potrai dir: nol dissi mai.
Em. Non so dove s’apprenda
           Tal arte a porre in uso.
Aquil. Eh che pur troppo
           Voi nascete maestre. Aver sul ciglio
           Lagrime ubbidienti: aver sul labbro
           Un riso che non passi
           A’ confini del sen: quando vi piace
           Impallidirvi, ed arrossir nel viso,
           Invidiabili sono
           Privilegi del sesso: in dono a voi
           Gli ha dati il Cielo, e costan tanto a noi.
Em. Tu che in corte invecchiasti
           Non dovresti invidiarne. Io giurerei,
           Che fra pochi non sei tenaci ancora
           Dell’antica onestà. Quando bisogna
           Saprai sereno in volto
           Vezzeggiar un nemico: acciò vi cada
           Aprirgli innanzi il precipizio, e poi
           Piangerne la caduta. Offrirti a tutti
           E non esser che tuo: Di false lodi
           Vestir le accuse ed aggravar le colpe
           Nel farne la difesa: ognor dal trono
           I buoni allontanar: d’ogni castigo
           Lasciar l’odio allo scettro, e d’ogni dono
           Il merito usurpar: tener nascosto
           Sotto un zelo apparente un empio fine:
           Nè fabricar che sull’altrui rovine.
Aquil. Far volesti Emirena
           Le vendette del sesso. Io non credei
           Di pungerti così. De’ detti tuoi
           Non mi querelo; anzi a parlar sincero,
           Credo ch’io dissi, e tu dicesti il vero. ec.»

[54] Io non vorrei esser tacciato di soverchia stitichezza nei giudicare, ma tradirei i propri sentimenti se non dicessi che tutta questa scena mi sembra una diceria bella bensì, ma fuori di luogo. Invece di Emirena e di Aquilio io quivi non ravviso che Metastasio 105.

[55] In questo luogo sento all’improvviso interrompermi da un qualche lettore sdegnoso che vuol perorare a favore del poeta cesareo. Se non m’inganno nelle mie conghietture le sue ragioni si ridurranno a un dipresso ai capi seguenti, cioè che l’illustre autore è stato costretto di servire alle circostanze; che aspirando ad una rapida e sicura celebrità in una nazione voluttuosa e sensibile, ha dovuto secondar la passione dominante del secolo, e prendersi maggior pensiero di piacere alle vaghe donne e ai giovani innamorati che non agli stitici letterati e ai filosofi incontentabili106; che scrivendo i suoi drammi acciocché fossero rappresentati, non ha potuto dispensarsi dal badare agli usi del teatro, al genio della musica odierna, ed al capriccio dei maestri di cappella, degl’impresari, dei macchinisti, dei cantori, e dei ballerini; e che per conseguenza a tali cagioni anziché all’autore debbano attribuirsi gli accennati difetti. Un Aristarco più severo di me risponderebbe forse che con siffatta logica potrebbono farsi passare per eccellenti le commedie del Chiari, e le tragedie del Ringhieri non che i componimenti di Metastasio, essendo certo che quei poeti altro non ebbero in vista che di riscuoter gli effimeri applausi di un volgo stolido di spettatori; che l’accomodarsi al gusto pervertito degli ignoranti non tornò mai in vantaggio di nessuno scrittore; che la superiorità di un uomo di talento si conosce appunto dal sollevarsi ch’ei fa sopra gli errori e i pregiudizi dell’arte sua; che l’irrevocabil giudizio della posterità non ha dato finora il titolo di genio se non se a quelli autori sublimi, i quali sprigionandosi dai ceppi delle opinioni e dei gusti volgari hanno imposto la legge alla loro nazione e al loro secolo invece di riceverla; che infinitamente più laude ne avrebbe acquistata il poeta cesareo, se lottando contro alle difficoltà che opponevano una imperiosa truppa d’ignoranti e l’invecchiata usanza di quasi due secoli, osato avesse d’intraprender una totale riforma nel sistema drammatico, invece di autorizzar maggiormente i vizi attuali coll’abbellirli; e che niuno poteva eseguir il proggetto meglio di lui non meno per l’ingegno mirabile concessogli dalla natura che pel favore dichiarato della nazione, per la protezione d’una corte imperiale, e pel gran numero di musici eccellenti che avrebbero dal canto loro contribuito a rovesciar l’antico edifizio per inalzarne un novello. Ma senza insistere su ciò che potrebbe rispondersi, io m’appiglio volentieri alle ragioni, che scolpano Metastasio. Compatisco quel grand’uomo obbligato ad esercitarsi in un genere difettoso per natura, o per l’altrui imbecillità, e me ne sdegno soltanto colle circostanze che lo costrinsero.

[56] Sarà dunque colpa delle circostanze l’alterar ch’egli ha fatto tante volte il costume, mettendo in bocca a’ suoi personaggi delle allusioni, le quali, atteso il paese ed il tempo, non potevan loro in veruna guisa convenire. Tali sono, per esempio, l’uso della mitologia propria de’ soli Greci appresso agli antichi asiatici, come sarebbe a dire le parole «furie d’Averno» in bocca d’una principessa di Cambaia, che rimprovera un re della Media, «il remo del pallido nocchiero, La sponda del torbido Lete, La nera face in flegetonte accesa» in bocca d’un antichissimo re della Persia che parla a’ suoi confidenti; Imeneo, che scuote la face invocato da un coro di babilonesi a’ tempi della celebre Semiramide, quando nato non era per anco il sistema favoloso dei Greci ed eran nomi sconosciuti Imeneo e la sua fiaccola; il far che Astiage padre del famoso Ciro sagrifichi un tempio di Diana, ovverossia della Dea triforme, tuttoché questa falsa divinità, come l’adoravano i Greci, conosciuta non fosse dai Medi se non molti secoli dopo, cioè dopo la conquista dei Seleucidi 107, l’introdurre una donzella nata nella reggia di Susa a’ tempi d’Artaserse, che fa menzione della Ifigenia in Tauride tragedia composta molto dopo in Atene da Euripide.

                              «E vuoi ch’io miri
Questa vera tragedia
Spettatrice dolente, e senza pena,
Come i casi d’Oreste in finta scena?»

[57] L’uso del vetro consigliere, ovvero sia dello specchio di cristallo posto in bocca d’un eroe dei tempi favolosi, cioè d’Ercole al Bivio quando si sa che codesto raffinamento della donnesca vanità non fu ritrovato se non molti secoli dopo il metter sulla scena tre ritiratissime fanciulle cinesi, delle quali l’una forma il piano della tragedia di Andromaca, l’altra recita un’egloga sotto il nome di Licori, e la terza contraffà il personaggio di un viaggiatore che ritorna al proprio paese avendo sempre in bocca la toilette, la charmante beauté con più altre caricature francesi. Tutto ciò non so quanto sembrerebbe conforme ai costumi nazionali in Pecchino; quanto a me credo, che chiunque abbia fior di senno riporrà queste esimili licenze accanto al quadro di quel pittore, il quale dipignendo Gesù Cristo che predicava al popolo, lo fece accompagnar da paggi vestiti alla spagnuola, o insiem con quei versi del portoghese Camoens, dove Venere e Bacco vengono in soccorso di un re del Capo di Comorino travagliato dalle armi di Vasco di Gama.

[58] Sarà parimenti colpa del genere, il quale permette forse molte cose che la verosimiglianza non permetterebbe, l’incertezza e la contraddizion che si scorge nel carattere di molti suoi personaggi nata unicamente dal desiderio di ripetere le situazioni medesime, e di mettere in mille guise a cimento una frivola passione. Il Catone in Utica è fra l’altre una pruova luminosa, nonostante la tenerezza con cui il suo autore riguardò mai sempre quel componimento. Appena vi si ritrova un solo personaggio che conservi il carattere che gli vien dato dalla storia, o che sarebbe proprio della sua situazione. Ho già fatto vedere quanto sconvenga all’impiego e dignità di Fulvio legato di Roma il perdersi in vani amoreggiamenti con Emilia, ma non è sconvenenza minore nel suo carattere quella del piccolo ripiego con cui non solo dissimula, ma positivamente finge con essa lei affine di scoprire i suoi disegni intorno a Cesare; finzione poco verosimile in un amante sugli occhi dell’amata, e poco dicevole all’integrità d’un romano. La vedova di Pompeo, che ci viene dagli storici descritta come modello d’eroismo e di grandezza, vi comparisce non solo finta e dissimulata, non solo indagatrice indiscreta degli amorosi sentimenti di Marzia, e usando altresì l’inconseguenza di palesare i suoi disegni a Fulvio, cui ella non amava punto, e della cui fede avea mostrato nella scena settima dell’atto secondo d’aver fondato motivo di sospettare, ma (ciò ch’è peggio) tramando a guisa di vile femminuccia insidiosi agguati contro alla vita di Cesare. Marzia figliuola di Catone, la quale si dipinge sul principio cotanto virtuosa che non vuol nemmeno riconoscere come suo amante Cesare divenuto nemico della patria e del genitore, si dimentica dopo della sua virtù a segno di rifiutare apertamente in faccia a suo padre lo sposo datole da lei, e di vantarsi dell’amore che porta all’odiatissimo suo rivale, in circostanze che rotta ogni speranza d’amichevol pacificamento, Cesare non poteva meno di non essere riguardato da lei come oppressore della libertà e nemico di Catone. Catone stesso, quel seguace così rigido del giusto che la parola di lui aveva presso ai Romani la forza medesima che il giuramento fatto in presenza dei numi, niega a Cesare sotto un pretesto leggierissimo l’udienza che gli aveva dianzi promessa, né si sdegna di mischiare fra le cure pubbliche e in giornata così decisiva il privato affare delle nozze di Marzia sua figlia; egli che scevro d’ogni domestico affetto non era padre, né fratello, né marito, ma cittadino.

[59] Saranno altrettanti requisiti del melodramma che le principesse si travestano sì spesso in pastorelle, e menin la vita loro fra le selve senza contrasto alcuno e senza sospetto; che tanti personaggi vivano sconosciuti, come pare e finché pare al poeta; che tutti si scoprano appunto nelle stesse circostanze, e quasi per gli stessi mezzi; che gl’intrecci siano ovunque e dappertutto i medesimi, cioè una dichiarazio ne d’amore, una gelosia, una riconciliazione ed uno sposalizio, talmentechè chi legge quattro o cinque drammi di Metastasio può quasi dire di averli scorsi tutti quanti che gli scioglimenti riescano non solo troppo uniformi, ma spesse fiate sforzati o troncati, come già il nodo gordiano colla spada di Alessandro. Il Signor de’ Calsabigi, che nella dissertazione altrove citata ha voluto dileguar quest’accusa, ha destramente sfuggita la difficoltà cambiando l’aspetto della quistione. Il difetto di Metastasio non è, com’egli suppone, di finir sempre in un paio di sposalizi (la qual cosa, benché più confaccente al genere comico che al tragico, potrebbe nondimeno perdonarsi alla cattiva invecchiata usanza del teatro) ma di condursi a quel fine per mezzi sempre omogenei e consimili, i quali oltre l’annoiar i lettori colla troppa uniformità, fanno vedere la scarsezza d’inventare nel poeta. La ricognizione, quel gran fonte della maraviglia e del diletto teatrale, si fa nascer da lui per vie poco naturali, anzi romanzesche, come sarebbe a dire per mezzo di un gioiello, d’un biglietto o tal altra cosa custodita da un sacerdote, il quale, dopo aver tacciuto l’arcano vent’anni, lo svela appunto nell’atto terzo del dramma. Un foglio è la cagione dello scoprimento nel Demetrio, nella Semiramide, e nella Nitteti; due fogli vi vogliono nel Demofoonte; il gioiello di Argene scuopre Licida nell’Olimpiade; una nota vermiglia impressa nel braccio, e veduta soltanto nell’ultima scena manifesta Egle nella Zenobia, e così via discorrendo. Ove la ricognizione non ha luogo, voi siete sicuro, che lo scioglimento si prepara o perché il personaggio, trovandosi alle strette, si vuol uccidere di propria mano, onde chi sta presente, e non ha il coraggio di vedere sgorgar il sangue, si placa subitamente per levarsi d’impaccio, o perché in un tradimento ordito da un fellone, oppure in un popolare tumulto eccitatosi nella guisa che vuole il poeta il creduto reo si mette dalla banda del padre, o del sovrano che il condannava, col qual atto eroico disingannato alla perfine il barbaro re gli concede il desiderato perdono, o perché l’amata e il vago stanchi delle opposizioni e bramosi di sbrigarsi pur una volta dalla faccenda si cedono scambievolmente al fortunato rivale. Ben di rado avviene che Metastasio ne faccia uso di altri mezzi. Se questi più volte sono posticci; se condotti non vengono spontaneamente dallo sviluppo naturale dell’azione, ma tratti piuttosto a viva forza dalla usanza; essi almeno sono, come i cavalli di vettura, che si pigliano a nolo dal poeta per trasportar i personaggi fino all’ultima scena.

[60] Finalmente al genere non meno che alle circostanze attribuir si dovrà quella imperizia di sceneggiare, la quale tanto nuoce alla illusione a motivo di non trovarsi giammai la ragion sufficiente di ciò che si vede. Da essa proviene che i personaggi vadino, venghino, si fuggano e s’incontrino in sulla scena non già come richiederebbero le circostanze e la situazione, ma come torna più in acconcio al poeta. Da essa deriva che gli attori parlino ad alta voce, se la intendano e siano intesi dagli uditori senza che il terzo, che è presente, se ne accorga pure d’un solo accento. Da essa nasce che favellino alternativamente con troppo studio imitando l’uno i sentimenti dell’altro, come fanno i pastori nell’egloghe amebee di Teocrito. E ciò per delle scene intiere, e senza vedersi. Del che basterà addurne in pruova un esempio, giacché a provare distintamente tutte le cose accennate vi vorrebbe un intiero volume. Questo si trova nell’atto III. scena I. dell’Olimpiade. La scena rappresenta una bipartita che si forma dalle ruine di un antico ippodromo, già ricoperte in gran parte di edera, di spini, e d’altre piante selvagge. Megacle trattenuto da Aminta per una parte: e dopo Aristea trattenuta da Argene per l’altra. Ma quelli non veggono queste. Abbiamo sul principio una combinazione di circostanze che può sembrare non poco ricercata. Due persone, ambedue amanti, ambedue che vanno disperate a morire nello stesso luogo, allo stesso tempo, per la medesima via, ambedue trattenute dal rispettivo amico. E notisi di passaggio che l’una di esse è la figlia del re, unica erede del regno, e ricercata quel medesimo giorno in isposa da tutti i principi della Grecia, la quale esce inosservata alla campagna avendo per tutto corteggio la compagnia d’una sua confidentissima pastorella.

«Megacle. Lasciami. Invan t’opponi.
Aminta. Ah, torna, amico
             Una volta in te stesso. In tuo soccorso
             Pronta sempre la mano
             Del pescator, ch’or ti salvò dall’onde,
             Credimi, non avrai. Si stanca il cielo
             D’assister chi l’insulta.
Megac. Empio soccorso!
             Innumana pietà! Niegar la morte
             A chi vive morendo. Aminta, oh Dio!
             Lasciami
Am. Non sia ver.
Arist. Lasciami Argene,
Arg. Non lo sperar.
Megac. Senz’Aristea non posso
             Non deggio viver più.
Arist. Morir vogl’io
             Dove Megacle è morto.»

[61] Non vi par egli, ch’incominci l’

«Alternis dicetis, amant alterna Camaenae»?

[62] Seguitiamo pure, che non finisce così tosto.

«Am. Attendi.
Arg. Ascolta.
Megac. Che attender?
Arist. Che ascoltar?
Megac. Non si ritrova
             Più conforto per me.
Arist. Per me nel mondo
             Non v’è più che sperar.
Megac. Serbarmi in vita…
Arist. Impedirmi la morte,…
Megac. Indarno tu pretendi.
Arist. Invan presumi.
Am. Ferma. (Trattenendo Megacle che fugge. Per conseguenza Aristea dee fuggir parimente, ed esser trattenuta.)
Arg. Senti infelice.
Arist. O stelle!
Megac. O numi! (Incontrandosi a mezzo il teatro)
Aris. Megacle!
Megac. Principessa!
Arist. Ingrato! E tanto
             M’odi dunque, e mi fuggi,
             Che per esserti unita
             S’io m’affretto a morir, tu torni in vita?
Megac. Vedi a qual segno è giunta,
             Adorata Aristea, la mia sventura.
             Io non posso morir. Trovo impedite
             Tutte le vie per cui si passa a Dite.»

[63] Potrebbono rispondersi più aggiustatamente se ciascuno avesse la parte in iscritto?

[64] Nè mi si dica che l’uditore senza tener dietro a coteste maninconie d’ordine, di costume e di scena si dà per soddisfatto ogni qual volta intenerir si sente da quell’aria o da quel recitativo, né ch’egli permetta al poeta di mancare all’ultima esattezza in grazia delle bellezze parziali, dalle quali dipende per lo più l’effetto della poesia e della musica. né mi si arrecchi l’esempio d’altri autori antichi o moderni, i quali splendono assisi tuttora nel seggio della immortalità, avvegnaché poco scrupolosi mostrati si siano nella osservanza di tai precetti. Siffatti ragionamenti, ammessi che fossero una volta, farebbero crollare quel buon senso e quella illuminata ragione che dee pur tutti guidare i lavori dell’ingegno. E qual diletto può gustare uno spettatore in uno spettacolo ove manchi l’interesse e l’illusione? E come mantener questa qualora il poeta non ha l’arte di farlo assister come presente al soggetto di combinar colla scena l’azione e di metter d’accordo fra loto tutte le cose rappresentate? Come ottener l’interesse dove manca la persuasione dove l’occhio è in perpetua contraddizione col sentimento, dove la passione, che ne sarebbe l’effetto, manca di ragion sufficiente che la produca? Se, come dice Boeleau, in un verso che vale un tesoro,

«Rien n’est Beau que le Vrai, le Vrai seul est aimable»

qual permanenza di gloria attendono quelle composizioni dove il vero non ha luogo, e dove le circostanze, distruggendosi vicendevolmente, palesano ad evidenza la falsità? Un’aria tenera, un recitativo patetico può dilettare per un momento bensì, ma la mancanza d’accordo fra le parti, l’inverosimiglianza che traspira nel tutto farà ben tosto rattiepidire quel calore effimero che non trova materia onde alimentarsi. né l’esempio altrui conchiude altro in favore di Metastasio se non che ei non è il solo compreso in siffatta accusa, e che invece di sciogliersi la quistione in suo favore, s’impiantano altrettante di nuovo quanti sono gli scrittori che s’addurranno in difesa108.

[65] Ma tanto forse mi sono inoltrato nella critica del Metastasio che il lettore si sarà immaginato aver io preso principalmente di mira quel poeta per censurarlo. Deponga egli (io glielo prego) se venuto in mente gli fosse cotal sospetto. Protesto ampiamente che la mia venerazione per l’illustre autore è grandissima, e che niuno il loda più sinceramente di me, né più volontieri adotta la scuse per quelle mancanze quas humana parum cavit natura assai picciole in paragone dell’altre sue rarissime doti. Ma prima era d’uopo sostener intrepidamente l’impegno addossatomi di non abbandonare la verità per niun umano rispetto. Inoltre bisognava premunire i giovani, (se pur di tanto fossero i miei giudizi che meritassero essere ascoltati da essi) affinchè sappiano prendere il moltissimo di buono e di eccellente che si trova in Metastasio senz’imitare altre cose perdonabili in lui ma che in loro viziosissime diverrebbono. Soprattutto che non lo prendano per modello di scriver tragedie, siccome alcuni scrittori con appassionato zelo vorrebbono tuttora persuadere all’Italia. La sublime tristezza della tragedia ha tanto che fare col carattere del dramma in musica quanto avrebbe la romana madre de’ Gracchi con una ballerina. E il confonder l’una coll’altra è il più sicuro e più pronto spediente per guastarle ambedue. Con tali precauzioni accingansi i giovani a studiare il Metastasio. Riconoscano come eccellenti la Clemenza di Tito, Achille in Sciro, l’Olimpiade, Demofoonte, Issipile, Zenobia, Regolo, Temistocle, la Betulia liberata, il Gioas con pressoché tutti gli altri oratori sacri; come buone l’Ezio, l’Artaserse, l’Eroe cinese, il Demetrio, il Catone, l’Ipermnestra, l’Adriano, il Ciro riconosciuto, il Siroe, la Nitteti, il Trionfo di Clelia, l’Asilo d’Amore, la Contesa dei numi, l’Astrea placata con pochi altri de’ suoi componimenti drammatici più piccoli. Abbiano poi qualche indulgenza per il Giustino, la Didone, la Semiramide, il Ruggiero, l’Alessandro, il Re pastore, e qualche altro con i suoi sonetti. Ma che tale distinzione non nuoca punto al merito del portentoso autore, come la critica sulle opere loro non sminuisce anzi maggiormente assicura la gloria di Virgilio, Omero, Cornelio, e Racine, co’ quali è paragonabile nel suo genere il Metastasio. Egli sarà sempre lume sovrano della sua nazione, e il primo poeta drammatico lirico dell’universo. La Grecia avrebbe divinizzato il suo nome, come già fece di quello di Lino e d’Orfeo.