(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Capitolo decimoquarto »
/ 1560
(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Capitolo decimoquarto »

Capitolo decimoquarto

Seconda causa: vanità ed ignoranza dei cantori. Analisi del canto moderno. Riflessioni sui giudizi popolari, e sulla varietà dei gusti musicali.

[1] In una nazione che riguarda l’unione della musica e della poesia come un semplice passatempo destinato a cacciar via l’oziosità, dove il piacere del canto è nulladimeno così universale e così radicato, dove la lingua è per se stessa armoniosa e cantabile, e dove tal diletto si compra a costo del più gran sagrifizio, il cantore dev’essere la persona più interessante del publico divertimento. Così questi, prevalendosi del favore degli spettatori, si è discostato pian piano dalla subordinazione dovuta al poeta e al compositore, e da subalterno divenuto padrone regola a suo talento la musica e la poesia. Se i cantori d’oggidì fossero come in altri tempi musici, poeti e filosofi insieme, il costume che dà loro la preferenza sarebbe non solo commendabile, ma necessario, poiché, a riguardar le cose in se stesse, la musica strumentale non è che una imitazione o un sassidio della vocale. Ma dal momento in cui si separarono codeste facoltà sorelle; dacché si considerarono come divise le persone di musico, di cantore, di poeta, e di filosofo; dacché ciascuna di esse volle sottrarsi da quella subordinazione che rendevasi necessaria e per la divisione comune e per l’ignoranza particolare dei professori; dacché ognuno aspirò a farla da capiscuola e a primeggiare, allora il cantore ridotto ad un esercizio quasi intieramente meccanico aver non dovea verun altro esercizio fuorché quello d’ubbidir al poeta e di eseguire il disegno del maestro. E mentre si trattennero fra cotai cancelli le cose tutte andarono in miglior sesto, come avvenne sul principio del dramma musicale sotto la direzione del Corsi e del Rinuccini. L’ignoranza del poeta e l’infingardaggine dei compositore fecero in seguito rovinar giù per la china del cattivo gusto i cantanti. Nel secolo passato il canto delle arie oltrepassava di poco nell’artifizio quello dei recitativi, i quali costituivano principalmente l’essenza dell’opera, e perciò ne’ recitativi ponevano ogni loro studio i compositori; sebbene il cattivo gusto allor dominante faceva che vi s’introducessero non poche putidezze di contrappunto lontane dalla semplicità e dalla bella natura. Dopo la metà del secolo i poeti incominciarono a far un uso più frequente delle arie, o strofette liriche, nei loro drammi, della quale usanza invaghiti i maestri dozzinali (cioè la maggior parte) trascurarono a poco a poco i recitativi in maniera che neppur li consideravano come necessari alla musica drammatica. Per lo che, trovandosi con siffatto metodo liberi della fatica che doveva costar loro la verità e i tuoni più vicini al discorso naturale in quella sorta di composizioni, s’applicarono a coltivar principalmente le arie, dove potevano spaziare a loro talento mostrando tutte le delicatezze dell’arte, fossero esse o non fossero conformi al sentimento delle parole. Ecco l’origine di quel regno che di mano in mano sono venuti formando sulle scene i cantanti; imperocché accomodandosi questi ad un sistema che proccurava loro l’occasione di sfoggiare nel canto più raffinato ch’esigono le arie coll’agilità della voce senza trovarsi, a così dir, rinserrati fra le angustie del recitativo, costrinsero il compositore ed il poeta a strozzar il melodramma riducendolo a cinque o sei pezzi staccati, dove si fa pruova non d’illusione, né di teatrale interesse, ma d’una sorprendente volubilità ed artifizio di gola.

[2] Se fosse mio divisamento alzar la voce contro agli abusi che non sono puramente letterari, citerei innanzi al tribunale inappellabile della umanità, della filosofia, e della religione la barbara ed esecrabile costumanza che si conserva tuttora in Italia come reliquia dell’asiatica voluttà per monumento dei nostri vizi, per oltraggio della natura, e per consolar i Caraibi ed i Giaghi della superiorità che gli Europei si vantano d’avere sopra di loro. Parlo del privar che si fa spietatamente delle sorgenti della virilità tanti esseri men colpevoli che infelici, non per sigillare col loro sangue la verità della nostra augusta religione che ispira solo mansuetudine e dolcezza e che abborrirebbe sagrifizi sì infami, non per liberar la patria da eccidio imminente o da grave sciagura il sovrano, non per esercitar un atto di virtù eroica e sublime che ci ricompensasse della durezza dei mezzi coll’importanza del fine, ma per blandire l’orecchio col vano ed inutil diletto del canto, ma per sollazzare nella sua svogliatezza un pubblico capriccioso, scioperato, e corrotto, ma per riscuotere un passaggiero e frivolo applauso in quei teatri che istituiti un tempo col fine di stampare negli animi del popolo le massime più importanti della morale, sono oggimai divenuti l’asilo de’ pregiudizi nazionali, e altrettante scuole di scostumatezza. Esorterei i grandi della terra, che accumulando insensatamente su tali persone onori e ricchezze favoreggiano un abuso cotanto infame, a rivolgere i loro tesori e la protezione loro ad altri usi meno disonoranti per la ragione, e meno perniciosi alla umana spezie. Farei arrossire i filosofi, che impiegando le loro ricerche in oggetti inutili, o facendo servire l’analisi alla destruzione di quelle verità, delle quali esser dovrebbero i principali sostenitori, passano poi di volo sopra un così orribile attentato che si sostiene unicamente perché autorizzato dal tempo e perché fiancheggiato dal despotismo del piacere. Ridesterei lo zelo dei ministri dell’altare acciocché più non trovasse ricetto nel domicilio augusto della divinità un pregiudizio che non può far a meno, che non la offenda, e metterei loro sotto gli occhi l’esempio del Pontefice Clemente XIV, il quale (se mal non m’appongo) riaccese di nuovo i fulmini del Vaticano contro ai crudeli promotori della evirazione. Mi rivolgerei a quel sesso da cui non si dovrebbe aspettare che patrocinasse una simile causa, ma tra il quale gl’inconcepibili progressi della corruzione fanno pur nascere più di una spiritosa avvocata, pregandolo a concorrere per mezzo della influenza cui la natura, non so se per nostra fortuna o per nostra disgrazia, ha dato alle donne sopra di noi, a sradicar un costume il quale divenuto che fosse più generale renderebbe affatto inutile sulla terra l’impero delle loro attrattive, e persin la loro tanto da noi pregiata esistenza140.

[3] Ma poiché alla oscura e solitaria filosofia poco forte in se stessa per resistere alla tirannia delle opinioni altro partito non resta fuorché quello di piangere su tali crudeltà, detestarle e passar di lungo, mi restringerò al mio solo uffizio ch’è di additare gli abusi da costoro introdotti nell’opera. Non è il minore quello che apparisce a prima vista, e che risulta immediatamente dalla loro figura e costituzione fisica, la quale li rende idonei bensì a rappresentare caratteri femminili, o al più quelli di Attide nello speco di Galatea, e di Cipariso nel gabinetto di Cibele, ma in niun modo a proposito per rappresentare personaggi virili. Infatti qual proporzione trova l’occhio dello spettatore fra l’aria maestosa e guerriera di Temistocle coi visi forbiti di codesti ch’io chiamerei volentieri i neutri della umana spezie? Fra la dolce e vigorosa fierezza d’Achille col languido loro atteggiamento? Fra lo sguardo decisivo e celeste di Marte o di Apolline col loro volger d’occhio effeminato e cascante? Come potranno contraffare gli dei coloro che sono al di sotto degli uomini? Come è possibile che quelle lor voci liquide e dimezzate ispirino altri affetti che mollezza e languore? Come non ha dovuto perder la musica la sua antica influenza sugli animi?

[4] Alla sconvenevolezza nella figura s’aggiugne come una conseguenza la poca espressione nei movimenti, difetto che hanno essi comune con quasi tutti gli altri cantori. Occupati solo del gorgheggiare, pare a loro che l’azione e il gesto non ci abbiano a entrare per niente, e si direbbe quasi che vogliano patteggiare colle orecchie dello spettatore senza curarsi punto degli occhi. Così si veggono sovente muover le labbia, s’ode la soave armonia delle loro voci come si sentiva risuonar nell’antica Menfi la statua di Memnone al primo comparir dell’aurora senza che corrispondesse all’armonia verun atteggiamento esteriore. E se qualche volta si pongono in movimento è solo per contraddir se medesimi, e per distrugger col gesto la commozione che avrebbe potuto destarsi col canto, accompagnando con segni di dolcezza le parole ch’esprimono il furore, e prestando a Cleonice addolorata per la partenza di Alceste lo stesso contegno che le si darebbe alorché si consiglia coi grandi della nazione intorno alla scelta di uno sposo. Chi può frenare il riso in veggendo un Timante disperato o un furioso Farnace, che in mezzo alla disperazione o alla collera quando l’anima, mettendo in rapida convulsione le braccia, gli occhi, il volto, e pressocchè tutte le membra, fa quasi sembiante di volere sloggiare dal corpo, pur si fermano fissi immobilmente colla bocca aperta, col braccio incurvato, e colla mano attaccata al petto per più minuti, come avessero a rappresentare i figliuoli della Niobe che si trovano nella galleria di Firenze? Cosa vogliono significare que’ tanti storcimenti di collo, quel girare cogli omeri, quel non aver mai il torace in riposo non altrimenti che facciano gli avvelenati o i punti dal morso della tarantola nel tempo che si espone la sua ragione ad un principe, o mentre Regolo parla gravemente col senato di Roma? E è l’uomo di buon senso che non deva fremere nel veder per esempio Radamisto che, ferito in un braccio da Tiridate, continua ancora a gestire per tutta l’azione col braccio ferito, come l’avesse pur sano? Nell’osservare Arbace, che apparecchiato a bere il veleno e cantando un’aria colla tazza in mano, la va voltando, e rivoltando come fosse già vuota? Nel contemplar Argene, che mentre le vien narrata la disperata risoluzione di Licida resta indifferente sulla primiera attitudine finché dura il racconto, terminato il quale comincia come per convenzione a dar nelle smanie? Nel rifletter che Beroe allorché parlando con Samnete gli dice:

«Idol mio per pietà rendimi al tempio.»

invece d’intuonare quell’“idol mio” verso l’amante, si rivolge al vicino palchetto dove lo scimunito protettore accoglie l’inzuccherato complimento con un sorriso di compiacenza e colla stolidezza degna di cotai mecenati? Per non dir nulla della energia che scemano alla situazione e al sentimento lasciando il gesto inoperoso e senza effetto in tante circostanze che traggono appunto da esso la lor verità.

[5] Come avessero un fedecommesso ne’ gesti che si trasmettesse per retaggio dal maestro al discepolo, così vedrete usarsi da loro in ogni e qualunque circostanza certe maniere di muover le braccia, il collo e le mani, dalle quali non si diparton giammai. Si cangia la musica annunziando che comincia il recitativo obbligato o l’aria? Ecco Eponina voltar tosto le spalle all’imperador Vespasiano, che riman sulla scena senza riguardo al rispetto dovutogli, e divertirsela passeggiando lentamente il teatro come se per tutt’altro fine fosse venuta colà che per conciliarsi l’attenzione e per mostrarsi appassionata. Prende poi a cantar le parole colla nobil mimica esposta di sopra, e colla quale par che i cantanti vogliano prendersi a gabbo la sensatezza degli uditori; tanto essa è inverosimile, disanimata e ridicola. E intanto Vespasiano, che ascolta, che fa egli? Sua maestà imperiale se la passa garbatissimamente affettando un’aria di dissipazione che innamora, guardando per ordine i multiformi cimieri, e le vario-pinte altissime piume che si muovono nei palchetti, salutando nella platea i suoi conoscenti ed amici, sorridendo col suggeritore o colla orchestra, guardandosi l’anello, battendo talvolta e ribattendo le catenuccie dell’orologio con simili gentilezze tutte a questo modo bellissime. E ciò mentrecchè la meschineria Eponina si sfiata per muoverlo a compassione. Quale idea si formano essi adunque del luogo dove si trovano, e dei personaggi che rappresentano? Non direste che vogliano ancor sul teatro comparir que’ tali, che sono, che si facciano uno scrupolo di mentire al pubblico e (come diceva a questo proposito graziosamente il più volte lodato Benedetto Marcello) che abbiano timore non l’udienza prenda in iscambio il Signor Alipio Forcone e la Signora Cecilia Pelatutti col principe Zoroastro e colla regina Culicutidonia?

[6] La cagione degli accennati difetti viene in parte dalla natura stessa del canto, poiché quanto più di attenzione si mette nel far dei trilli e dei passaggi tanto meno rimane per accompagnarli coi segni confaccentisi; ma in gran parte consiste ancora nella inesperienza dei cantori, nel poco studio che ci mettono su tali cose, e nelle false idee che si formano del loro mestiero, non sapendo, o non volendo sapere, che l’anima degli affetti consiste nella maniera di esprimerli, e che poco giova ad intenerirci la più bella poesia del mondo quando accompagnata non venga dall’azion convenevole. Così almeno la intendeva il gran Metastasio, il quale in una lettera diretta al Signor Mattei napoletano si lagna vivamente di cotale abuso: «Qualunque sia, ei dice, cotesto mio povero dramma non crescerà certamente di merito fra le mani de’ presenti cantori ridotti per colpa loro a servir d’intermezzo ai ballerini, che avendo usurpata l’arte di rappresentare gli affetti e le azioni umane meritamente hanno acquistata l’attenzione del popolo, che hanno gli altri meritamente perduta; perché contenti di aver grattato le orecchie con una sonatina di gola nelle loro arte, il più delle volte noiose, lasciano il peso a chi balla d’impegnar la mente e il cuore degli spettatori.»

[7] E pazienza s’eglino almeno avessero imparati gli elementi dell’arte loro e cantassero come va fatto, ma per disgrazia nostra sono o tanto ignoranti o tanto pregiudicati in questo quanto nel restante. Per mettere in tutto il suo lume una proposizione che profferita da uno straniero in mezzo alla Italia può forse comparir temeraria, mi si conceda entrare in qualche ricerca intorno al canto imitativo del melodramma, la quale sarà, cred’io, non inutile affatto ai signori virtuosi, se pur la loro ignoranza o la vanità o i pregiudizi che partecipano dell’una e dell’altra, lasciano loro tanto di modestia e di buona fede quanto basta per degnar d’uno sguardo le osservazioni di un amatore del bello, il quale però ha i due capitali difetti di non essere cioè aggregato a veruna accademia musicale, e di dire intrepidamente ciò che si sente.

[8] Nel nostro presente sistema drammatico tre cose concorrono principalmente a produr l’espressione, cioè l’accento patetico della lingua, l’armonia, e la melodia, ciascuna delle quali suddividendosi in vari altri rami formano quell’aggregato dal quale ben congegnato e unito ai prestigi della prospettiva risulta poi l’illusione e l’interesse dello spettacolo. L’accento patetico della lingua non essendo altro che il linguaggio naturale delle passioni nei vari loro caratteri, è quello che serve di fondamento alla imitazion musicale principalmente nel canto. La melodia è l’imitazione stessa di esse passioni eseguita pel mezzo d’una serie successiva di suoni aggradevoli. L’armonia è, per così dire, il legame o vincolo fra l’uno e l’altra siccome quella che modifica l’accento secondo tali determinati intervalli, e che dà ai suoni della melodia la necessaria precisione e giustezza. Le tre cose accennate sono così legate fra loro e così essenziali nel melodramma che ove mancasse una sola, non sarebbe possibile l’ottenere l’effetto delle altre. L’accento della lingua sciolto, a così dire, e vagante non avrebbe altra forza che quella che si ritrae dal parlar ordinario. La melodia da per sé sarebbe un disegno capriccioso senza oggetto né regola. L’armonia resterebbe una combinazione equitemporanea di suoni che niuna immagine, niuna idea presenterebbe allo spirito. Ma se la loro azione è necessaria nel melodramma, non è necessario però che quest’azione sia nello stesso grado dappertutto né che sia simultanea. In una lingua armoniosa per natura come la greca, dove la poesia regolava la musica, dove la prosodia era l’anima della misura, dove l’accento musicale se medesimo non abbisognava se non che dell’aggiunta del ritmo per divenire un perfetto recitativo, la poesia poteva accompagnarsi e s’accompagnava in effetto con un canto eguale e continuo appropriato mirabilmente all’indole di essa. Poetare e cantare pei Greci erano una sola e medesima cosa. Ma nelle nostre lingue moderna appoggiate per le ragioni che s’addussero altrove su principi diversi siffatta unione o combaciamento fra la poesia e la musica non può così speditamente ottenersi, poiché avendo la musica acquistate tante ricchezze inseparabili da lei, non sa accompagnarsi colla poesia senza portar seco tutto il corredo de’ suoi abbigliamenti, e per conseguenza senza opprimere la compagna. A guisa dell’amore, ella non sa regnare che sola. Dall’altra parte l’azione della musica è così viva ed intensa che mal potrebbe regger l’uomo alle squisitezze d’una melodia come è quella usata ne’ nostri teatri, se dovesse prolungarsi senza interruzion né respiro per i tre atti d’un dramma. Da queste due ragioni combinate insieme risulta il doppio bisogno di far prevalere alternativamente nel melodramma or la poesia or la musica, e di maneggiar la melodia con certe precauzioni allorché faccia di mestieri unirla colle parole affinchè queste non perdano totalmente l’effetto loro. Quindi la natural divisione della poesia musicale in recitativo semplice, recitativo obbligato ed aria; divisione troppo necessaria nei nostri sistemi di armonia e di lingua, ma la quale per motivi contrari non era né poteva esser tale presso agli antichi Greci. cosicché tutta la teoria della espressione nel moderno melodramma si racchiude nella soluzione del seguente problema: Assegnare fino a qual punto l’accento naturale della lingua possa divenir musicale, e fino a qual punto la musica deva approssimarsi all’accento naturale.

[9] Una folla di corollari luminosi e brillanti mi si fanno innanzi dopo l’enunciato problema, sui quali però mi è forza passare di lungo per fermarmi soltanto nelle cose che tendono direttamente al mio assunto. Sarà la principale l’applicazione degli accennati principi alle diverse parti del melodramma. V’ha dei casi dove spicca la sola poesia con pochissimo accompagnamento di musica; dei casi dove la poesia prende alcuni caratteri di canto coll’intervento degli strumenti; dei casi infine dove la poesia trasfondendosi intieramente nel canto e fregiata da tutti gli ornamenti della strumentale concorre insiem colla musica a render più pomposo e più illustre il trionfo del sentimento.

[10] Partendo da un principio inconcusso, cioè che nella musica drammatica tutto esser deve imitazione e che niente può ella imitare dell’umano discorso fuorché l’accento delle passioni o ciò che appresenti allo spirito una rapida successione d’immagini, si deduce con evidenza che poco o nulla può imitare la musica nel semplice recitativo, nel quale poco differente dal parlar ordinario pel tuono della voce tranquilla con cui s’espone, e per le materie che vi si trattano, raro è che spicchi l’energia degli affetti. Tocca dunque alla poesia il far valere ciò che non potrebbe render la musica, ed ecco il luogo opportuno per l’attore di mostrar il suo talento nel recitare, notando il senso delle parole con chiara e netta pronunzia, osservando la prosodia della lingua senza confonderla, facendo sentir all’orecchio il poetico ritmo senza troppo affettatamente ricercarlo, insistendo sulle inflessioni che le somministra il discorso, facendo sentire gli incisi, le transizioni, le sospensioni e i periodi colle mutazioni accidentali dei tuoni, in una parola attaccandosi alle regole che prescrive l’arte della declamazione. La musica non vi deve entrare se non quanto basti per far capire che l’azione rappresentata è un azion musicale per contraposizione alla recitata. Altro non vuolsi da essa se non che accompagni di quando in quando l’attore col basso affine di sostenere la di lui voce, né si chiede altro dall’attore se non che misuri l’accento con qualche intervallo armonico, nel quale la regola sarebbe che non oltrepassi colla voce l’estensione d’una ottava. Tutto il restante debbe tacere e la sola poesia parlare.

[11] Allorché il sentimento va prendendo mossa e calore, allorché la voce interrotta per intervalli palesa il disordine degli affetti e l’irresolutezza d’un animo agitato da mille movimenti contrari, l’accento patetico della lingua piglia anch’esso un nuovo carattere nel recitativo obbligato, carattere il quale, essendo imitabile dalla musica, giustifica l’intervento di essa, anzi lo rende necessario. Ma uno stato dove la passione s’esprime per reticenze e dove l’alternativo silenzio frapposto alle parole è il miglior indizio possibile della dubbiezza dell’animo, non potrebbe rappresentarsi con una sempre costante e non mai interrotta modulazione: quindi la regola dettata dal buon senso e dalla esperienza d’usar cioè vicendevolmente della poesia e degli strumenti come di due interlocutori che parlano l’uno dopo l’altro. Ed è qui appunto dove più che altrove spiccar dovrebbe la scienza mimica dell’attore e le profonde osservazioni fatte da lui sui caratteri, sugli affetti, e sugli uomini. Dovrebbe egli interpretare colla evidenza del gesto ciò che la voce non esprime abbastanza, perché trovasi, a così dir, soffogata dall’affollamento delle idee. Dovrebbe dar maggior lume e risalto all’idioma imitativo degli strumenti ora con lunghe pause e marcate che aprano largo campo all’azione di essi, ora con quei segni inarticolati che sono la favella dell’anima, e che mostrano la superiorità di un attore che sente e conosce non solo quello che dice, ma quello ancora che deve tacersi. Dovrebbe far sentire la successione degli intervalli armonici nei tuoni della voce, e farla sentire in maniera che, notandoli fortemente e troppo spesso, non si dia nel cantabile proprio dell’aria, oppure notandoli debolmente e troppo di rado, appena si distingua dal discorso ordinario. Dovrebbe inoltre significar coll’azione, coi cambiamenti del volto e coll’atteggiamento della persona que’ tratti di forza e di sublimità che vengono assai meglio spiegati con un silenzio eloquente e con un accento interrotto che colla più pomposa orazione. Dalla imperizia de’ cantori in questo genere è venuta l’accusa che vari scrittori fanno al canto moderno di non convenire cioè in alcune occasioni a quello stile sublime, a quelle situazioni inaspettate ed energiche onde tanto s’ammiran da noi i poemi degli antichi, e le tragedie recitabili. Diamone alcuni saggi per maggior chiarezza.

[12] Nel sesto libro della Eneide Enea trova ne’ boschetti dell’Eliso la troppo sventurata Didone. Al suo apparire si risvegliano nel petto del principe Troiano la tenerezza e il rimorso. S’avvicina, piange, le parla colla eloquenza propria d’un’anima che conosce tutta la sua umiliazione, e che vorrebbe pur patteggiare fra la religione e l’amore. Didone l’ascolta senza guatarlo, non proferisce un sol motto e gli volta le spalle.

[13] Nella Medea di Cornelio quella principessa sdegnata con Giasone e con tutta la corte di Creonte fa palese a Nerina sua confidente l’estremo desiderio che ha di vendicarsi, e la destrezza colla quale va cercando i mezzi per riuscirvi. Nerina, che ignora ciò che ponno intraprendere le grandi passioni, mostra di dubitarne, le mette in vista tutto l’orrore del suo destino, l’odio de’ propri vassalli, la potenza di Giasone e la debolezza di lei

«Contre tant d’ennemis que vous reste-t-il?»

Medea risponde:

«Moi.»

[14] Negli Orazi del medesimo poeta una donna viene dal campo dov’era stata presente alla pugna senza però vederne il fine, per avvisar il padre che i duo figliuoli suoi erano stati uccisi da’ Curiazi, e che il terzo, vedendo di non potervi resistere, avea presa la fuga. Il vecchio sen duole amaramente della codardia del figlio. La sorella allor gli dimanda

«Que vouliez-vous qu’il fît contre trois?»

e il vecchio Orazio:

«Qu’il mourût.»

[15] Nell’Othello di Shakespear quel generale di cuor magnanimo ma violento e geloso all’estremo, ingannato da Jago, crede infedele Desdemona sua moglie e la uccide nel letto maritale. Un momento dopo scuopre l’innocenza di questa e le calunnie del perfido amico. Invece di dar nelle smanie, Othello impietrisce e cade sul letto senza voce né motto.

[16] Nel Macbetto dello stesso poeta un suo confidente gli dice che il suo nimico gli ha trucidata barbaramente la moglie e i figli, alla qual nuova restando egli quasi colpito fosse dal fulmine, e sentendosi eccitar dall’amico alla vendetta e al sangue, troncamente risponde: «Ei non ha figli.»

[17] Ora, dicono essi, né il terribil silenzio di Didone e di Othello, né le sublimi risposte di Macbetto, di Medea, e di Orazio, né mille altri esempi di questo genere si posson rendere nella nostra musica troppo loquace senza stemperarli in una insipida cantilena. Ma benché siffatta obiezione abbia più forza contro alla spezie di canto e di musica solita a sentirsi oggidì sui teatri che contro il canto e la musica in generale, e benché intendersi ciò debba soltanto delle arie e non dei recitativi, dove è indubitabile che possono aver il lor luogo i tratti più vibrati ed energici, come l’hanno pur qualche volta in quelli di Metastasio; egli è certo nonostante che l’accusa sarebbe men ragionevole ove la riflessione e la scienza del cantore sapessero colla proprietà dell’azione supplire al rapido e conciso linguaggio degli affetti. Ma di siffatto studio e cognizione, onde tanti vantaggi ne riporterebbe l’arte drammatica, niun pensiero si prendono i moderni Arioni.

[18] Quando la passione dopo aver ondeggiato vaga ed incerta s’appiglia pure ad un qualche partito, o si risolve in uno o più sentimenti determinati, allora l’accento della lingua rinforzato dal vigore che gli somministra la sensibilità posta in esercizio offre quella situazione o quadro che serve di fondamento all’aria. In questa la poesia animata dalla espressione, abbellita dalla esecuzione e fregiata di quanto ha l’armonia di più seducente e di più energico prende tutti i caratteri del canto. Ivi l’estensione della voce è maggiore, le sue inflessioni più decisive, i riposi sulle vocali più lenti, la successione armonica degli intervalli diviene più sensibile e più frequente. Ivi la melodia ricerca i tuoni più appassionati e per conseguenza i più veri, gli raccoglie sotto ad un motivo dominante, gli dispone secondo l’ordine più dilettevole all’orecchio, e gli guida per modulazioni ora forti ed ardite, ora insinuanti e dolci, ora brillanti e piacevoli, ora tragiche e sublimi. Ivi l’attore non dee più recitare, ma modulare bensì le parole con proporzionata messa di voce, con portamento giusto, serbando religiosamente i loro diritti alla poesia e alla lingua, prendendo dall’arte quel tanto e non più che ci vuole per presentar la natura nel suo più vero e più dilettevole aspetto, in una parola devono spiccare nella esecuzione del suo canto la verità, l’esattezza, e la semplicità. Per verità di canto s’intende l’eseguire ciascun motivo colla mossa o andamento ad esso più acconcio, e l’afferrar i caratteri distintivi di ciascuna cantilena qualmente si convengono alla patria, alla età, alle circostanze e al grado attuale di passione del personaggio rappresentato. Per esattezza io intendo la precisione nella intonazione, la giustezza nel tempo, la chiarezza nell’articolar distintamente le sillabe. Per semplicità altro non si vuole significare fuorché l’opportunità e la scelta negli ornamenti. E perché molto si è parlato e nulla si è conchiuso finora dai musici intorno all’uso di cotali ornamenti, trovandosi fra loro chi vorrebbeli esclusi affatto dal canto come cosa puerile, e chi vorrebbeli al contrario supporre così necessari che disadorna e insoffribile riuscir dovesse senza di essi qualunque melodia; perciò parmi opportuno aggiugner brevemente su tale argomento qualche riflessione più filosofica e più precisa, imitando i chimici, i quali riducono ad un picciol vasetto di quint’essenza odorosa la sostanza di mille fiori che si trovavano sparsi per le campagne.

[19] Lo scopo delle arti imitative non è di rappresentar la natura semplicemente qual è, ma di rappresentarla abbellita. Siccome tutte le cose create perciò appunto che sono create hanno dei limiti e siccome i limiti suppongono imperfezione nell’essere ove si trovano, così non è possibile scoprir nell’universo un oggetto tanto assoluto e compito che possa servire di archetipo all’alta meta che si propongono le arti. Che fa dunque l’artefice? Guidato dalla percezione intima di quel bello che esiste forse bella natura fino ad un certo punto ma che non è nella maggior parte se non che una composizione, un lavoro fattizio delle nostre idee prende a modificar la materia che debbe servirgli di stromento, e togliendo da essa le parti tutte che mal corrisponderebbero al suo mentale disegno, raduna le altre e le combina sotto la forma più acconcia a far nascere in noi le idee della unità, della varietà, della convenienza e dell’ordine. Così l’amore di Prassitele, il Giove di Fidia, la Venere di Tiziano, il carattere di Augusto nel Cinna, l’anima di Regolo nel Metastasio, altro non furono che un aggregato di proprietà atte a produrre in noi un determinato genere di sensazioni, le quali proprietà sparse prima nel mondo morale o nel fisico, e raccolte poi dagli artefici sotto ad un determinato concetto, costituirono quel tutto che viene decorato col nome di bello. Ecco la necessità di abbellir la natura ricavata dal principio stesso della imitazione.

[20] La musica non differisce punto dalle altre arti rappresentative. Come le statue dell’Ercole e dell’Antinoo sono una raccolta di tratti esprimenti la proporzione e il vigore osservati dallo scultore in più individui della umana spezie; come la descrizione della tempesta in Virgilio non è altro che l’unione di molti fenomeni naturali che si veggono succedere negli oggetti, e che poi si radunano dal poeta in un solo quadro, così un bel recitativo od una bell’aria altro non sono che la collezione d’una moltitudine d’inflessioni e d’accenti scappati alle persone sensibili nei movimenti di qualche passione, e disposti poi dal compositore secondo le leggi della modulazione. Il risultato non per tanto della imitazion musicale benché tale qual è non esista nella natura, ha nondimeno in essa il suo fondamento, poiché sebbene non trovisi alcun oggetto sonoro in particolare che presenti all’orecchio la serie dei tuoni contenuti nell’aria, per esempio, “se mai senti spirarti sul volto” di Gluck, egli è però indubitabile che separatamente presi si trovano tutti nella voce delle persone da passioni amorose agitate. Attalchè molto male, a mio avviso, opinò quel moderno autore141 che ripose l’imitazion musicale nel rango delle chimere; opinione che non potè nascere in lui se non di poca filosofia, o dal desiderio di distinguersi con qualche novità stravagante.

[21] Al motivo d’abbellare e d’aggrandir la natura che ha comune la musica con tutte l’arti rappresentative, s’aggiungono ancora dei peculiari a lei sola. La sua maniera d’imitare è così indeterminata e generica, i sagrifizi che ci costrigne a fare nella poesia e nella declamazion naturale sono tanti sì replicati e sì grandi i segni esteriori delle passioni che servono di materia al linguaggio musicale sono così poco energici e così ambigui a cagione di quel contegno, di quella tinta di falsità, o di riserba che hanno sparso sopra di noi i sistemi d’educazione, e i successivi progressi della cultura o piuttosto del corrompimento nella società, i punti insomma dov’ella può afferrare gli oggetti sono sì oscuri e sì rari che la musica non ci offrirebbe verun compenso, né meriterebbe gli omaggi delle persone di gusto se l’arte d’illeggiadrire le cose, e per conseguenza una discreta licenza negli ornamenti non supplisce in lei alle altre mancanze. Eccedente non per tanto fu la severità di quell’altro francese autore d’un bel Trattato sul melodramma allorché volle sbandirà dalla musica drammatica tutto ciò che serve a dipignere e a far valere la possanza intrinseca dell’arte. Distingue egli con molto ingegno due sorta di musica una semplice e un’altra composta, una che canta e un’altra che dipinge, una che chiama di concerto e un’altra di teatro. Alla musica di concerto permette il cercar le forme più leggiadre di canto, lo scegliere i motivi più belli, e il far uso di tutte le squisitezze della melodia, ma non vorrebbe che la musica di teatro pensasse a verun’altra cosa fuorché all’unica espressione delle parole, che in grazia di queste trascurar dovesse ogni idea di proporzione e di ritmo, che non s’imbarazzasse nel condurre artifiziosamente i motivi, e nel seguitare le frasi musicali; bastando per essa il poter rendere colla maggior esattezza ciascun pensiero compreso nella poesia. In una parola vorrebbe egli che le grazie e le bellezze della musica fossero tutte quante sagrificate ad una rigida verità. Nulla di più giusto né di più sensato che siffatta opinione ove non fosse stata condotta all’eccesso. Egli è vero che le grazie puramente musicali sfoggiate al di là d’un certo segno fanno svanire l’illusione ch’è l’anima dell’interesse teatrale, ma egli è vero altresì che la troppo fedele e perfetta imitazione dei tuoni naturali privi dell’abbellimento che ricevono dalla musica non avrebbe sulle passioni la stessa forza muovente che ha l’altra imitazione meno perfetta ma più abbellita di cui è capace la melodia. O nasca un siffatto fenomeno dalla impressione più gagliarda che i suoni musicali fanno sui nostri nervi, o dalla compiacenza che risulta nell’anima dal veder imitati gli oggetti, o dal piacere riflesso che ha lo spirito ritrovando nuova materia dove esercitare la sua facoltà pensatrice e comparativa, o dalla sensazione analoga a noi che produce l’idea dell’armonia compresa negli intervalli musicali, o dal complesso di molte altre idee accessorie che s’uniscono a quella della immediata espressione dei sentimenti, certo è che dall’aggregato e dalla scelta dei colori che il musico aggiugne al quadro preso a dipingere, ne deriva un cumulo di piaceri maggiori assai di quello che ne risulterebbe dagli stessi originali imitati; nulla avendo di strano anzi essendo molto conforme alla quotidiana esperienza che i tuoni musici che rappresentano, per esempio, le gelose smanie di Poro, ci riescano più gradevoli, e ci muovano più assai che nol farebbe la voce naturale di Poro s’esprimesse quelle smanie medesime, come un serpente od una tigre che ci farebbero inorridire in mezzo ad una campagna, ci dilettano al sommo quando gli vediamo maestrevolmente imitati dal pittore. Ora se l’oggetto primario d’ogni musica imitativa è quello di piacere e di commuovere, se un tale oggetto s’ottiene assai meglio permettendo ad essa una discreta licenza negli abbellimenti, se la musica, cui lo scrittore francese chiama di concerto, mi rapisce, mi commuove, m’incanta, mi strappa dagli occhi le lagrime e mi sveglia appunto quelle stesse passioni che vorrebbe svegliarmi la poesia senza recar onta ai diritti di questa, e senza distruggere l’illusione propria del canto, perché dovrò sbandirla dalla scena? Perché dovrò con soverchia stitichezza rinunziare ai vezzi musicali e agli ornamenti che mi ricompensano dei sagrifizi che sono costretto a fare in grazia del canto? Tutta l’arte consiste nel colpire con giustezza pel segno dando alla rappresentazione propria della musica quel grado d’abbellimento che la rende commovente e aggradevole senz’alterar di troppo la sua rassomiglianza coll’oggetto imitato.

[22] Ma dove, quando, e come deve usar il musico degli ornati per conciliar fra loro i due estremi difficili, di emendar cioè coll’arte i difetti della natura, e di non sostituire alla natura gli abbigliamenti dell’arte? Seguitiamo in cotal ricerca l’analisi. Quando si dice che l’arte debbe aiutar la natura, si viene a dire che l’artificio è un supplemento di ciò che a lei manca. Per conseguenza dove la natura non ha bisogno di supplemento, dov’ella ha in se stessa i gradi di attività necessari a produrre compiutamente il suo effetto, ivi l’artifizio non dee punto aver luogo. A conoscer poi quando la natura abbia forza per se sola a produrlo, basta osservare se i tratti che si mostrano in lei fissano tutta l’attenzione del nostro spirito in maniera che dopo averla veduta, e dopo ch’ella ha parlato, la nostra curiosità e il nostro desiderio richieggano ancora qualche cosa di più, oppure rimangano appieno soddisfatti. S’è conseguito questo fine ultimo? Allora gli ornamenti aggiunti alla semplice e schietta natura nuocono invece di giovare, perché da una banda chiamano a se parte di quell’attenzione che dovrebbe tutta e intiera fissarsi sul tale oggetto, e dall’altra cuoprono colla loro pompa alcune bellezze naturali di esso onde restando inosservate, oppur non sentite non eccitano l’interesse. Le potenze del nostro spirito non restano ancora appagate? Ecco deve l’arte venire in soccorso a riempiere quel voto lasciato tra la cagione e l’effetto, facendo che gli abbellimenti cuoi servano, a così dire, di mediatori fra l’imperfezione della natura e la sensibilità mal contenta dell’uditore. Sua incombenza è di aggiugnere all’oggetto imitato quei lineamenti che gli mancavano nella prima sua impronta acciò più chiara e più sensibile apparisca l’imitazione. Ma si ricordi bene ch’essa appunto non dee far altro che riempiere il vuoto, vale a dire correggere, o aiutare, o perfezionar la compagna, non mai soppraffarla né opprimerla. La somma gloria di lei consiste anzi nel farla trionfare e nascondersi. Guai se l’arte mostra i suoi vezzi! Guai se invece di ausiliare vuol comparir prottetrice! Allora lo spettatore, che non s’interessa nell’oggetto se non se a motivo della illusione, ogni qual volta è costretto a riconoscer l’inganno: si pente della propria credulità e si vendica dispregiando l’arte e l’artefice.

[23] Dai principi accennati si ricava che il musico non dee ammetter in ogni luogo gli ornamenti, né in ogni luogo schivarli. Dee ammetterli qualora essi realmente correggano i difetti della composizione o del sentimento, qualora promuovano il gener medesimo di espressione che regna nel canto, qualora si confacciano coll’oggetto imitato e colla situazione, qualora servano a conciliar l’attenzione dello spettatore disponendolo a inoltrarsi nel senso delle parole o a gustar meglio la forza e la varietà del dettato musicale. Deve schivarli qualora divengon superflui o palesan di troppo l’artifizio, o scemano con insignificanti frascherie la vivacità del sentimento, o distornano l’attenzione dell’uditore dal soggetto principale, o distruggon l’effetto delle parti compagne, o tingono il motivo di un colore diverso da quello che esige il suo carattere, ovvero cangiano l’indole della passione o la natura del personaggio. Come la materia di che si tratta è tanto importante, così sarà bene il discendere a qualche conseguenza di pratica.

[24] Prima. Non si dee aggiugnere alcun abbellimento né dalla parte del suonatore né dalla parte del cantante ai semplici recitativi, come non s’inorpellano nella retorica l’esposizione d’una ragione o la narrativa d’un fatto; perocché nascendo l’interesse dalla chiara percezione di ciò che il produce, lo spettatore non potrebbe commuoversi in seguito se gli ornamenti gl’impedissero di prestar al filo dell’azione la dovuta attenzione.

[25] Seconda. Molto meno nei recitativi obbligati, ove rappresentandosi la dubbiezza dello spirito nata dal contrasto dei motivi che gli si fanno innanzi, l’anima concentrata nella sua irresolutezza non ha tempo di badare alle frascherie.

[26] Terza. Non deve infiorar il principio di un’aria per la stessa cagione che non s’infiora l’esordio di una orazione, cioè perché ivi è più che altrove necessaria la semplicità ad intender bene ciò che vuol dire il motivo, il quale mal si capirebbe travvisato dall’arte, e perché supponendosi gli uditori attenti abbastanza in principio, fa d’uopo riserbar i fiori per quel tempo ove la loro attenzione comincia ad illanguidire.

[27] Quarta. Nemmeno allora quando il canto esprime il calore delle grandi passioni. Queste non veggono altro oggetto fuorché se sole, e gli ornati aggiunti in tal caso fanno il medesimo effetto che le nuvole frapposte a ciel sereno fra l’occhio dello spettatore e l’astro luminoso del giorno.

[28] Quinta. Né meno in quella spezie di affetti che ricavano il pregio loro maggiore dalla semplicità con cui si sentono, e dal candore con cui si esprimono; tali sono gli amori boscherecci e le ingenue tenerezze di due giovani amanti ben educati. Una negligenza non affettata si conviene ai primi. Un ozio dolce d’ogni altra facoltà dello spirito fuor di quella di amarsi e di godere s’appartiene ai secondi.

[29] Sesta. Non dee il cantore frammetter gli ornamenti qualora l’andamento delle note nella composizione o la mossa degli strumenti è incitata e veloce. Sarebbe lo stesso che se ad uno che anela nel corso, altri gettasse fuori di strada alcuni pomi bellissimi, acciocché trattenendosi egli a raccoglierli, non potesse mai toccare la meta.

[30] Settima. Né meno quando canta accompagnato in un duetto, in un trio, in un finale o in un coro; attesoché se ad ogni cantore si concedesse l’uscir della riga per far pompa di ghiribizzi mentre gli altri stanno fermi a rigore di nota, quella non sarebbe più musica ma piuttosto una confusione e un tumulto.

[31] Ottava. Si può far uso di qualche fregio nelle arie allegre e festevoli perché proprio è dell’allegrezza il diffondersi, e perché lo spirito non fissato immobilmente (come nelle altre passioni) sopra un solo oggetto, può far riflessione anche agli scherzi dell’arte.

[32] Nona. Come nelle arie ancora che si chiamano di mezzo carattere; perché non esprimendosi in esse veruno slancio di passione forte né alcun rapido affollamento d’immagini, la melodia naturale deve allora supplire con graziosi modi e con gruppetti vivaci alla scarsezza di melodia imitativa.

[33] Decima. Si può brillare cogli ornamenti in quei casi dove il personaggio s’introduce a bella posta cantando come nell’«Oh care selve, oh cara felice libertà» posto in bocca di Argene nell’Olimpiade, o nell’inno

«S’un’alma annodi
S’un core accendi
Che non pretendi
Tiranno amor?»

nell’Achille in Sciro, e varie altre di questa classe, nelle quali siccome il personaggio non rappresenta, ma canta, così a lui non si vieta usare di quelle licenze che si permettono a chi si diverte cantando in una camera, o in un’accademia.

[34] Undecima. Ma nei casi indicati, come in tutti gli altri, gli ornamenti debbono usarsi con parsimonia e con opportunità. La mancanza della prima fa simile il canto alla pianta infeconda di Virgilio: «foliorum exuberat umbra». La mancanza della seconda mette il motivo musicale in contraddizione con se medesimo, poiché ad un andamento patetico s’uniscono i fregi dell’allegro, gli arzigogoli del presto s’inseriscono nell’adagio, e così via discorrendo.

[35] Duodecima. Quando il pensier musicale d’un aria si è presentato adorno di certa classe di ornamenti, non si dee replicarlo di nuovo vestito in foggia diversa; perché s’hai colpito nel segno la prima volta, saranno necessariamente fuori di luogo i vezzi chc le aggiugni nella seconda.

[36] Decima terza. Le cadenze si devono eseguire con una ben graduata messa di voce, e con sobrietà d’inflessioni scorrendole con un sol fiato e con quel numero di note soltanto che basti a far gustare il pensiero e a riconoscervi l’indole della passione.

[37] Decima quarta. Vengono proscritte dal buon senso tutte le cadenze eseguite nello stile di bravura, cioè quelle cadenze arbitrarie inventate all’unico fine di far brillare una voce accumulando senza disegno una serie prodigiosa di tuoni e raggirandosi con mille girigiri insignificanti. Questo metodo è eccellente per metter in vista un cantore agli occhi del volgo musicale, ma l’uomo di buon gusto va al teatro per sentir parlare Sabino ed Eponina, non per sapere quanti passaggi e quanti trilli possano uscire in mezzo quarto d’ora dalla volubilissima gola d’una Gabriela, o d’un Marchesi.

[38] Decima quinta. Non si devono far entrare nel canto gli ornati propri della musica strumentale; poiché avendo questa le sue bellezze a parte, il mischiarle con quelle del primo è lo stesso che vestire il pensiero di un abito non suo.

[39] Decima sesta. Per conseguenza sono estremamente assurde e ridicole le arie obbligate dove la voce imita uno stromento sia da fiato ossia da corda. Lo scopo del canto drammatico è quello di rappresentar le passioni, le quali non si manifestano nell’uomo col suono dell’oboè, né del violino.

[40] Decima settima. Hassi a sbandire delle cadenze come un ornamento puerile quella che si chiama “recapitulazione dell’aria”, parola che o si risolve in una idea inintelligibile, o contiene un precetto insensato. La passione non epiloga mai se medesima né dispone i suoi movimenti secondo le regole dell’arte retorica del Padre De Colonia.

[41] Decima ottava. Gli abbellimenti che s’introducono debbono essere di vaga e leggiadra invenzione, perché il solo fine d’introdurli è quello di difettare; debbono innestarsi con graziosa naturalezza nel motivo acciocché non appaia troppo visibilmente il contrasto; debbono finalmente eseguirsi con esattezza inemendabile, poiché sarebbe strana cosa e ridicola che il cantore si dimostrasse inesperto nelle cose appunto ch’ei fa col solo ed unico scopo di mostrare la sua perizia.

[42] Se i maestri dell’arte invece di consultar la moda sempre capricciosa e incostante, o di abbandonarsi allo spirito di partito che non coglie nel vero giammai, avessero, siccome ho io cercato di fare, fissati i principi analizzando le idee ne’ suoi primitivi elementi, da una banda non si vedrebbero essi aggirarsi tastoni dentro al buio di mille inconcludenti precetti, e dall’altra la musica vocale si troverrebbe in Italia in istato assai diverso da quello che si trova presentemente. Però non diffido che dal lettore mi venga perdonata la lunghezza dello svagamento in attenzione alla sua utilità.

[43] Dicendo quello che dovrebber fare i cantori, ho detto appunto quello ch’essi non fanno. Come se avessero in qualche scrittura fatta per mano di notaio rinunziato solennemente al buon senso, così gli vedrete sovvertire e capo volgere ogni parte del melodramma. Il recitativo dove la poesia conserva tutti i suoi diritti, e dove l’imitazione è così prossima alla verità e alla natura, è la parte ch’essi strapazzano più d’ogni altra. Ora profferiscono le parole con un certo andamento uniforme e concitato che non a declamazione o a discorso naturale rassembra, ma a quelle orazioni piuttosto che i fanciulli sogliono cinguettare presso al loro babbo. Ora adoperano una cantilena perpetua che annoia insoffribilmente chi ascolta; ora scambiano la quantità delle sillabe pronunziando breve la lunga, e lunga la breve; ora si dimenticano nelle fauci o nel palato le finali delle parole profferendole per metà; ora sconnettono il nominativo dal verbo che gli si appartiene, ovvero una parte dell’orazione dall’altra in maniera che tante volte non si capirebbe punto la relazione fra le parole né il significato loro se non venisse in aiuto il libretto per far ciò che faceva il pittore di un castello chiamato Orbaneja rapportato nella storia di Don Quisciotte, al quale, dopo aver dipinta una figura, riusciva fanto fedele l’imitazione che gli abbisognava per esser capito scriver di sotto: «Questo è un gallo». Nulla dirò della radicale monotonia e della somiglianza perpetua che s’avverte sostituita a quella varietà d’intervalli e di tuoni che vi si dovrebbe sentire in ciascun periodo, anzi in ciascuna sillaba secondo la diversità delle parole e dei sentimenti. Se qualche differenza vi si osserva, questa consiste solo ne’ vizi dissimili di chi gli recita. V’è chi lo dice in confidenza, chi con una confusione che ributta. V’è chi affretta a guisa di chi vuol galoppare, v’è chi mostra una milensaggine che vi par quasi debba convertirsi in ghiaccio prima di finire. Chi sei mangia fra’ denti, chi lo canta ridendo. L’uno strilla, l’altro balbutisce e il terzo scivola.

«… Ille sinistrorsum,
hic dextrorsum
abit, unus ubi bis Error».

[44] Ho udito alcuni cantori scusarsi di cantar male i recitativi accagionando i maestri, i quali coi rivolgimenti inaspettati del basso fanno aberrar la voce in luogo di guidarla. Sarà vero talvolta questo difetto ne’ compositori, ma ciò non basta a scolparne i cantanti, che quasi sempre lo cantano male oltre l’inciampar che fanno in mille altri vizi, i quali nulla hanno di comune col movimento del basso. Passiamo alle arie.

[45] Non negherò già che se il canto si prende in quanto è la maniera di modificare in mille guise la voce col maggior possibile artifizio e finezza, non abbia quest’arte ricevuto degli avvanzamenti prodigiosi in Italia. La leggerezza del clima, il tatto squisito dei nazionali in materia di musica, la lunga abitudine di giudicare e di sentire, la moltiplicità dei confronti, la lingua loro piena di dolcezza e di melodia, la sveltezza e agilità della voce procurata a spese della umanità sono tutte cause le quali hanno dovuto render gli Italiani altrettanto capaci a perfezionare questa spezie di talento quanto lo erano gli antichi Sibariti nel raffinar i comodi della vita, o quanto le moderne ballerine del Suratte descritte con penna rapida e brillante da uno storico filosofo lo sono nel preparar eruditamente le faccende multiformi della voluttà. cosicché l’arte di eseguire le menome graduazioni, di dividere il suono più delicatamente, di esprimere le differenze e gli ammorzamenti insensibili, di colare, di filare e di condurre la voce; di distaccarla, di vibrarla, e di ritirarla; la volubilità, il brio, la forza, le uscite inaspettate, la varietà nelle modulazioni, la maestria nette appoggiature, nei passaggi, nei trilli, nelle cadenze, nelle vocalizzazioni, siccome in ogni altro genere di ornamenti, lo stile dilicato, artifizioso, raffinato, sottile, l’espressione talvolta degli affetti più molli condotta fino alla evidenza; sono tutte meraviglie del cielo italico poste egregiamente in esecuzione da parecchi cantori viventi, abilità ch’io riconosco in loro e la quale tanto più volontieri confesso quanto più sono lontano dal voler comparire parziale od ingiusto.

[46] Dirò di più che in questa spezie di canto si sono eglino distinti a segno che non solo le nazioni moderne, tra le quali è incontrastabile che nessuna può venire in paragone coll’italiana, ma porto anche opinione che nemmeno quelle due antiche coltissime, la Greca e la Latina, pervenissero mai sul teatro all’artifizio e delicatezza di modulazione che si pratica a’ nostri giorni142.

[47] Ma se per canto s’intende l’arte di rappresentar modulando le passioni e i caratteri degli uomini talmente che vi si scorga chiaramente la verità dell’oggetto rappresentato come debbe pur esser l’uffìzio dei teatro e d’ogni canto imitativo, in tal caso non se ne sdegnino gl’Italiani se a nome della filosofia e del gusto francamente pronunzio aver essi, invece di giovare alla sua perfezione, guastata, pervertita, e corrotta la musica, non perché manchi questa di eccellenti qualità, ma perché ne fanno una pessima applicazione.

[48] Diffatti se l’imitazion teatrale si proponi due fini, l’uno la rassomiglianza della copia che imita coll’originale imitato, e l’altro la rassomiglianza dei muovimenti ch’eccita in noi la copia coi muovimenti ch’ecciterebbe l’originale; qual imitazion di natura è mai quella del canto drammatico dove la lontananza che passa tra l’originale e la copia è assai maggiore di quella che passerebbe tra due originali affatto diversi? Qual conformità ritruova l’orecchio non prevenuto dell’uditore tra il sentimento sublime, tranquillo e profondo che signoreggiava l’anima di Temistocle, allorché risoluto di morire prima di disonorare la sua memoria, prorompe in quelle inarrivabili parole:

«Serberò fra ceppi ancora
Questa fronte ognor serena:
È la colpa e non la pena
Che può farmi impallidir.»

e quel sentimento medesimo cantato alla moderna, cioè facendo che Messer Temistocle si diverta per un quarto d’ora in mezzo ai trilli vezzosissimi e alle deliziose cadenze, le quali doveano pur convenire maravigliosamente in quella situazione ad un eroe combattuto? Qual somiglianza corre tra la sorpresa della smarrita Dircea allorché si confessa priva di senso non che di parole

«Divenni stupida
        Nel colpo atroce:
        Non ho più lagrime,
        Non ho più voce;
        Non posso piangere,
        Non so parlar.»

e l’interminabile loquacità musicale con cui s’esprime quello stato medesimo obbligando a gorgheggiar con mille semicrome quella che “non sa parlare”, e facendo or sù or giù rotolare la voce di colei che “non ha più voce”? Qual rapporto col suono grave e posato, col quale un uomo che fa riflessione alle funeste conseguente, che arreca l’abbandonarsi agli sregolati suoi desideri, deve pronunziar le seguenti parole:

«Siam navi alle onde algenti
        Lasciate in abbandono:
        Impetuosi venti
        I nostri affetti sono:
        Ogni diletto è scoglio
        Tutta la vita è mar.»

coll’enorme guazzabuglio di note onde si vestono esse nel canto uscendo alla fine in un minuetto, o in un allegro, posciacchè il minuetto e l’allegro sono, come vede ognuno, il miglior mezzo possibile per enunciare una massima filosofica? Di siffatti solecismi musicali sono piene in tal guisa tutte le opere moderne, che l’accumulare gli esempi sarebbe, come dice un proverbio greco, lo stesso che portar vasi a Samo o nottole ad Atene.

[49] Ma l’imitazion che risulta dalla somiglianza del canto colla situazione del personaggio suppone forse troppo di studio e di gusto perché deva sperarsi dagli automati canori che si chiamano virtuosi di musica. Vediamo almeno se si trovi un compenso nell’altro genere d’imitazione che nasce dalla convenienza delle parti elementari del canto coi tuoni della favella ordinaria. Allorché l’uomo parla, il suo discorso si distingue precisamente per la maggior lentezza o rapidità nel profferir le parole o le sillabe, pel grado di acutezza o di gravità che vi si mette, e per la forza o remissione colla quale si notano le inflessioni. A questi tre elementi della voce umana corrispondono altrettanti nella musica. Il tempo esprime la velocità o la tardezza, il muovimento imita l’acutezza o la gravità, il piano e il forte rappresenta il diverso ricalcar che si fa sulle vocali. Ora siccome la natura e la combinazione degli accennati elementi non è sempre la stessa nell’umano discorso, ma variano entrambe secondo l’indole e il grado delle passioni, essendo certo che l’andamento per esempio della malinconia è tardo e uniforme, quello dello sdegno rapido e precipitato, quello delle passioni composte disuguale e interrotto; così nel canto dovrebbesi in ciascuna cantilena variare il tempo, il movimento e il ritmo musicale secondo l’espressione delle parole, e la natura dell’affetto individuale che si vuol rappresentare; né passar si dovrebbe dai tuoni più piccoli e bassi ai più alti ed acuti, né discender poscia da questi agl’imi senza la debita graduazione e verità di rapporto.

[50] Posti siffatti principi mi si dica di grazia qual imitazione, qual convenienza col favellar comune apparisce nel canto moderno, dove a rappresentar affetti e sentimenti contrari si pongono in opera li stessi capricci, che dalla piebaglia armonica vengono chiamati ornamenti? Dove in un’aria dolente si frammischian le stesse volate, gruppi e salti di voce che converrebbonsi ad un’aria concitata? Dove esprimendosi nelle parole un equabil languore mi si salta all’improvviso dal più basso al più acuto scorrendo molte volte tutta l’estension della voce con mille impertinentissimi gruppi di note? Dove nel caldo maggiore d’un sentimento iracondo allorché il cantore dovrebbe mostrarsi, a così dir, soffocato dalla sua stessa prontezza, si ferma lentamente in un passaggio lunghissimo sfidando ad un combattimento di gola le leccore e i canari? Dove questa fermata si fa non alla fine d’un periodo o d’una parola, come vorrebbe il buon senso e il richiederebbe l’inflessione patetica, ma in mezzo ad una parola o su una vocale staccata dalle altre? Dove il modulatore corrompe i tuoni in maniera a forza di repliche, di passaggi e di trilli che ove ti brattava d’imitar la tristezza o l’odio, mi si sveglia l’amore o la gioia? Dove col trinciar in mille modi e agglomerare la voce si sfigura talmente il carattere degli affetti naturali che più non si conosce a qual passione appartengano, onde ne risulta una nuova lingua, che non intendiamo? Dove non si comprende che vi sia alcun linguaggio articolato, ma un “a” o un “e” che corrono precipitosamente per tutte le corde e per tutte le scale applicabili egualmente a parole ebraiche o latine che alle italiane? Dove all’aria stessa cioè alla stessa passione che conserva la tinta e il colore medesimo si dà tutte le volte che si torna da capo un tuono affatto diverso cambiando il tempo, il movimento e il ritmo, quantunque il cambiamento non abbia punto che fare col basso e coi violini? Dove troncando a mezzo il senso delle parole e lo sfogo degli affetti attende talvolta che finisca l’orchestra che dia tempo ai polmoni di raccoglier il fiato per eseguire una cadenza? Dove per il contrario s’impone silenzio alla orchestra, dando luogo al maestro che levi la mano dal cembalo e che pigli tabacco, mentre il cantore va follemente spasseggiando senza disegno per un diluvio di note? Dove questi si prende ad ogni passo la libertà d’uscire da ciò che gli prescrive la composizione costringendo l’orchestra a seguitarlo negli sciocchissimi suoi ghiribizzi? Dove in luogo che gli strumenti imitino la voce, è piuttosto la voce umana quella che prende talvolta a gareggiare cogli strumenti chiamando con eccesso di stolidezza a singolar tenzone ora una tromba, ora un violino, ora un corno da caccia? Oh! Che sì che Giovenale nel vedere la strana violenza che fanno i cantori al senso comune avrebbe avuto ragion di esclamare «Quis tam ferreus ut teneat se?» Che sì che l’aveva quel francese autore d’un poema sulla musica allorché disse parlando della Italia:

«Orgueilleuse Ausonie, il le faut déclarer
À la honte d’un art que l’on doit révérer
Mille insectes maudits dont tes villes abondent
De leurs sons venimeux de toutes parts t’inondent:
Par un nombre d’auteurs de nos jours redoublé
Je vois sous leurs fureurs ton pays accablé.»143

[51] Eppure (mi sento opporre da più d’uno) le vostre invettive sono altrettanti colpi dati al vento, poiché o imiti il canto, o non imiti la natura, sia esso o non sia conforme al senso delle parole, certo è che piace generalmente sul teatro, e che le arie cantate con le stranezze e le inverosimiglianze, contro alle quali vi scagliate sì fieramente, sono quelle appunto che riscuotono i maggiori applausi e che svegliano costantemente l’ammirazione del popolo. Una delle due cose adunque vi fa di mestieri accordare: o che le orecchie del pubblico non sono giudici in fatto di musica, lo che sarebbe un paradosso, o che i vostri sognati rapporti fra la rappresentazione e il rappresentato non sono punto necessari a produrre l’effetto.

[52] Ecco l’universale ma puerile sofisma, il quale ridotto in massima dalla ignoranza e avvalorato da uno spezioso pregiudizio, è quello che cagiona l’esterminio di tutte le belle arti. E quando mai, replicherò io a codesti fautori della irragionevolezza, e quando mai fu costituito il popolo per giudice competente del gusto ove si tratta di arti o di lettere? Da qual sovrana decisione, da qual tribunale emanò un’autorità così destruttiva dei nostri più squisiti piaceri? Il popolo può giudicare bensì del proprio diletto e compiacersi d’una cosa piuttosto che d’un’altra, nel che i filosofi non gli faranno contrasto, ma non è, né può esser mai, giudice opportuno del bello, il quale non viene così chiamato quando genera un diletto qualunque, ma allora soltanto che genera un diletto ragionato figlio della osservazione e del riflesso. Il piacere, che gustan nel canto moderno coloro che nulla intendono, non è altro che una serie di sensazioni materiali, a così dire, e meccaniche prodotte unicamente dalla melodia naturale inerente ad ogni e qualunque tuono armonico, e che si gode ne’ gorgheggi d’un rossignuolo al paro che nella voce d’un cantore. E se di questo solo piacere si parla, e di questo si contentano, e per questo solo vanno al teatro, appigliai eglino pure alle decisioni del volgo, che io non m’oppongo. Ma oh bellezza sovrumana della musica! Oh imitazione figlia del cielo! Io non mi presento inanzi al tuo altare con sì umili sentimenti. Allorché vado al teatro per tributarti un omaggio d’adorazione, io porto meco la non ignobil superbia esser uom ragionevole, e di voler conservare fin nell’esercizio della mia sensibilità i privilegi della mia natura. Io chieggo prima da te che, trasportando nel falso le sembianze del vero, tu mi seduca e m’inganni; che porti l’inganno e la seduzione al maggior grado possibile; che mi facci pigliar un inconsistente aggregato di suoni pei veri gemiti d’un mio simile, e che mi costringa a correre, come un altro Enea, per abbracciar il fantasma di Creusa invece del suo corpo. Tu devi poscia chieder da me, che svanita che sia l’illusione, io seguiti ancora a godere della compiacenza riflessa di essere stato ingannato; che ammiri la possente magia dei suoni che pervennero a farlo; che paragoni que’ punti di rassomiglianza col vero onde trasse origine il mio delizioso delirio; che sillogizzi comparando la voce che cantò colla passione o l’idea che voleva rappresentarmi; e che simile all’Adamo introdotto dal Milton, dopo aver vagheggiata in sogno la bellissima sconosciuta immagine della futura compagna, confronti poi svegliato a parte a parte nell’originale il vivace lume degli occhi, l’oro dei capegli, le rose delle labbra, il latte della morbida carnagione e la tornita perfezion delle membra.

[53] Giudice non per tanto del bello solo è chi ad un tatto dell’anima squisito e pronto accoppia una robusta facoltà pensatrice, chi comprende ad un tratto la finezza non meno che la moltiplicità delle relazioni fra gli oggetti del gusto, chi sa dedurre da un principio sicuro una rapida serie di legittime conseguenze, in una parola chi porta in teatro o sui libri una mente illuminata non disgiunta da un cuor sensibile. Senza l’una e l’altra di queste doti tanto è impossibile il parlar aggiustatamente in materie di gusto quanto lo sarebbe ad un cieco nato il giudicar dei colori. Ma come attender tante e sì difficili qualità da un pubblico per lo più ignorante o distratto, il quale, siccome vede spesso cogli altrui occhi e sente colle altrui orecchie, così gusta non poche volte coll’altrui sensazione e non colla propria? Come sperarle da un udienza che va alle rappresentazioni drammatiche collo spirito medesimo che anderebbe ad una bottega da caffè, ad una conversazione o ad un ridotto, cioè per ispendervi quattr’ore in tutt’altro esercizio che in quello di arricchire la sua testa d’idee e il suo cuore di sentimenti? Come crederle in una union di persone, le quali per lunghissima e non mai smentita esperienza veggonsi applaudir sempre al cattivo e trascurar il buono? Correre in folla ai mostri chiamati tragedie del Ringhieri mentre lasciano solitarie sulle scene la sublime Atalia e la patetica Alzira? Deliziarsi estremamente con Arlecchino o Tartaglia, e sbadigliare alla rappresentazione del Misantropo? Tacciar di sforzato e seccagginoso Moliere, e poi commendare i… Nomi illustri ch’eravate per sortire dalla mia penna, la mia pietà vi risparmia! Un avanzo di compassione, che pur mi resta, mi consiglia a non privarvi del dolce inganno in cui vi tiene la vostra vanità, e a lasciarvi godere di quelli stolidi applausi, che sono l’unica ricompensa delle vostre comiche inezie.

[54] Mi si dirà che il quadro da me abbozzato comprende il volgo soltanto, non già il pubblico signorile e rispettabile, che forma per lo più l’udienza dell’opera. Nulladimeno a rischio di passare per un quakero della Pensilvania, o per un non ancora civilizzato pampa del Paraguay, io ripiglierò francamente che, ove si tratta di pronunziar un fondato giudizio su ciò ch’è bello nelle arti rappresentative, quel pubblico “signorile e rispettabile” non differisce poco né molto dal volgo. Sì; volgo è in materia di spirito la massima parte delle vezzose dame e dei brillanti cavalieri, ai quali

«La gola, il sonno, e l’oziose piume»

l’occupazione importantissima di amoreggiare, o la più importante ancora del giuoco o degli abbigliamenti, o il trasporto pei cani o pei cavalli maggiore talvolta di quella che hanno pe’ loro simili, o il frequente e piacevole conversar coi buffoni non lasciano loro né il tempo necessario ad istruirsi, né l’abitudine di riflettere, sebbene non tolgan loro per lo più la prosunzione di decidere. Volgo è la massima parte delle persone civili che frequentano il teatro o per le stesse cagioni che i precedenti, o perché gli affari urbani o domestici, o lo studio ad altre cose rivolto non concedono loro l’agio d’attendere a così delizioso pascolo della sensibilità. Volgo è nelle cose musicali quella razza di sapienti accigliati e malinconici che stampano su tutti gli oggetti l’impronta del loro carattere, e che fatti per abitar piuttosto il mondo di Saturno che il nostro si stimerebbono rei di lesa gravità letteraria, permettendo che la mano incantatrice delle Grazie venisse talvolta a vezzeggiarli. E volgo è ancora l’aggregato degli uditori maggiore assai di quello che comunemente si crede, i quali indifferenti per natia rigidezza d’orecchio al piacere della musica, e disposti a pesar sulla stessa bilancia Gluck e Mazzoni, Pugnani e un dozzinale suonator di festino, potrebbero interrogati sul merito degli attori rispondere come fece quel bolognese che, trovandosi in Roma in una veglia presso ad un tavolino dove giuocavano certi abbati di condizione sconosciuti a lui e insorto fra i giuocatori un litigio intorno ad una giuocata cui egli non aveva potuto badare per aver dormito fino a quel punto, richiesto all’improviso da un abbate: «Che ne dice ella, signore? Chi crede abbia il torto fra noi?» rispose con faceto imbarazzo «Ah! sì, sì. Dice bene, V. S. Illustriss., tutti hanno ragione egualmente».

[55] Che se a questa classe voglionsi aggiugnerc gli ippocriti di sentimento, quelli cioè che affettano di provar diletto nella musica per ciò solo che stimano esser proprio d’uomo, di gusto il provarlo: se noveriamo anche i molti che, invasati dallo spirito di partito, commendano non ciò che credono esser buono, ma quello soltanto che ha ottenuta la lor protezione; se vorremo separare i non pochi che essendo idolatri di un solo gusto e di un solo stile circoscrivono l’idea del genio nella esecuzione di quello, e rassomigliano a quel capo dei selvaggi, il quale stimando esser le sue campagne il confine del mondo, e se stesso l’unico sovrano dell’universo, esce ogni mattina dalla sua capanna per additar al sole la carriera che dee percorrere in quel giorno; si vedrà che alla fine dei conti quel gran pubblico signorile e rispettabile si risolve in un numero assai limitato di uditori che capaci siano di giudicare direttamente. E questi assai lontani dall’incoraggiare coi loro applausi i pregiudizi dominanti sono anzi della mia opinione, e se ne dolgono apertamente della decadenza della musica, e inveiscono contro i musici e i cantori che l’hanno accelerata.

[56] Coloro poi che dal piacere del volgo traggono un argomento per conchiudere che ad eccitar l’interesse che può esservi nella musica nulla vaglia la connessione fra le parole e il canto, cadono a un di presso nello stesso sofisma di quei pseudofilosofi, i quali perché lo sfogo materiale dei sensi nell’amore viene accompagnato da voluttà, pretendono che niun’altra cosa debba pregiarsi in quella passione fuorché la voluttà momentanea. Questi insensati discepoli di Aristippo mostrano d’ignorare che i diletti meccanici dell’amore si riducono pressocchè al nulla qualora manchino loro l’influenza della immaginazione, o l’energia del cuore, o l’entusiasmo generato dalle qualità morali. Quelli non capiscono che il piacere sensitivo ed esterno che producono i suoni sull’uomo considerato semplicemente come una macchina fisica organizzata per riceverli, non è per alcun verso paragonabile con quell’altro diletto più intimo che producono nell’uomo morale, cioè nell’uomo considerato come un essere capace di conoscere la simpatia di certi suoni con certe affezioni dell’anima, e di prevalersi di siffatta cognizione per metter in esercizio le proprie passioni. Cose tutte che non ponno provenire da una serie indeterminata di suoni, ma dalla determinazione bensì che ricevono essi suoni dalle parole, le quali, facendo vedere la dipendenza in cui sono gli uni dalle altre, eccitano le stesse idee e i movimenti stessi ch’ecciterebbe la presenza degli oggetti rappresentati. Perciò Sant’Agostino definì la musica l’«arte della modulatoti convenevole», e Platone comparò la poesia separata dal canto ad un volto che perde la sua beltà passato che sia il fiore della sua giovinezza144. Lo stesso filosofo parlando della corruttela dell’antica armonia e dell’antico teatro attribuisce l’una e l’altra alla debolezza de’ poeti e dei musici, che presero per regola del bello nelle due facoltà il piacere del volgo trascurando quello dei più saggi145. Un altro scrittore non minore di lui concorre nella stessa opinione deducendo apertamente la perdita della musica, come ancora delle virtù politiche in Atene, dall’aver tolto di mauo alle persone di miglior qualità le arti ginnastiche e le musicali conferendone al popolo l’esercizio e il profitto146. Due autorità così rispettabili avvalorate da una costante esperienza bastano a dileguar pienamente un sofisma che può chiamarsi l’ancora della speranza per gli ignoranti.

[57] Che poi mancando nel canto moderno le due spezie d’imitazione esposte di sopra debba altresì mancare la terza che deriva dalla somiglianza dei movimenti che sveglia in noi la copia coi movimenti che sveglierebbe la presenza dell’originale rappresentato, non occorre fermarsi a lungo per provarlo. Imperocché egli è certo che altra via non hanno le arti rappresentative per commuoverci agli affetti se non quella di colpir la nostra immaginazione nel modo stesso che la colpirebbero le cose reali e per gli stessi mezzi; onde se con altri stromenti viene assalita, o le si parano avanti idee in tutto contrarie a quelle delle cose, non è possibile a verun patto eccitare la commozione. Perlochè avendo fatto vedere che la musica vocale non corrisponde al suo oggetto, e che le volate, i trilli, le vocalizzazioni, e le cadenze, e i lunghi passaggi che costituiscono il principale abbellimento del canto moderno, non rappresentano i moti di veruna passione, resta (se mal non m’avviso) dimostrata abbastanza la sua incapacità nel muover gli affetti.

[58] Quindi si può render ragione della osservazione fatta prima in Inghilterra dal Gregory 147 poi di nuovo in Italia dal più volte lodato Borsa 148, cioè che prendendo a legger Metastasio, a fatica si può lasciar dalle mani per l’impazienza in cui siamo di vedere il fine di qualunque sua tragedia tanto ci intenerisce, attacca, e sospende la sua lettura, ma sentitolo cantare in teatro dai virtuosi restiamo indifferenti, né ci sentiamo punto rapire dall’interesse o dalla curiosità. La qual cosa non altronde deriva se non da ciò che il canto drammatico colle sue stranezze e inverosimiglianze sfigura in tal modo il senso delle parole, che tolta ogni connessione colla poesia, altro non rappresenta fuorché un quadro arbitrario e in tutto diverso. Quindi la contraddizione con noi medesimi e colla nostra sensibilità in cui ci pone il canto; poiché essendo certo che appena avremmo potuto frenare le lagrime per la compassione se fossimo stati presenti all’addio di Megacle e alle smanie di Timante, noi sentiam pure modular sul teatro il medesimo addio e rappresentar quelle smanie stesse non solo senza piagnere, ma sbadigliando, o ridendo, o facendo qualche cosa di peggio. Quindi la sorpresa mista di sdegno colla quale uno straniero nuovo alle impressioni riguarda l’insulto che si vuol fare alla sua ragione dandogli ad intendere che i soli Italiani hanno colpito nel segno, e che ad essi unicamente appartiene il conservar il deposito della bellezza musicale; asserzione, che vien provata da loro esagerando i pregi di questo brillante spettacolo, ma che resta subito smentita dall’intimo sentimento di chi gli ascolta, poiché invece della sublime illusione che gli si prometteva, invece di trovar quel congegnamento mirabile di tutte le belle arti che dovrebbe pur essere il più nobil prodotto del genio, altro egli non vede nell’opera fuorché una moltitudine di personaggi vestiti all’eroica, i quali vengono, s’incontrano, tengono aperta la bocca per un quarto d’ora, e por partono senza che lo spettatore possa capire a qual fine ciò si faccia, riducendosi tutto, come l’universo nel sistema di Leibnitzio, a pure apparenze o prestigi. Quindi l’incertezza e varietà con cui si giudica d’una stessa composizione o d’un’aria, poiché non trovandosi un rapporto esatto fra l’imitazione e l’oggetto imitato, il pensier musicale dell’aria non meno che la sua esecuzione restano applicabili a cento cose diverse; dal che avviene che il gusto dello spettatore abbandonato a se stesso ora fa l’applicazione in un modo, ora in un altro, e diversamente in ognuno.

[59] La riflessione ultimamente accennata potrebbe, se mal non m’appongo, sparger qualche lume sul quesito che ho udito farsi da molti onde tragga origin cioè la rapidità con cui si succedono i gusti nella musica, i quali si cambiano non solo da secolo a secolo, ma da lustro a lustro, e perché siffatti cangiamenti siano più visibili in essa che in qualunque altra delle arti rappresentative. Io non posso trattenermi a dir tutto ciò che mi somministrerebbe un argomento così fecondo, il quale non potrebbe trattarsi a dovere senza lo scioglimento di molte questioni preliminari. Converrebbe cioè prima di tutto sapere se vi sia un genere di musica assoluto e universale, che debba piacere ugualmente in tutti i tempi, e presso a tutti i popoli della terra; se il diletto che genera la musica sia un diletto di educazione fattizio, oppure inerente all’azione intrinseca di quell’arte; se il carattere vago e arbitrario, del quale vien rimproverata la musica, sia peculiare della nostra oppure di ogni altra musica conosciuta finora; se il fondamento di tale accusa si debba ripetere dall’armonia o dalla melodia ovvero dall’una e dall’altra; se consista nell’uso che si fa delle consonanze o nella illimitata licenza che si prendono i musici nell’adoperare le dissonale; se provenga dalla mancanza in natura d’un suono generatore fisso e determinato che possa riguardarsi come principio inalterabile degli altri suoni; se la perdita della prosodia poetica possa aver contribuito a render l’azione della musica vaga ed incerta; se vi sia probabile speranza di dare una maggiore stabilità e fermezza ai gusti musicali ecc.

[60] Dirò soltanto che la varietà delle opinioni e il rapido loro cangiamento nasce dal principio medesimo che fece degenerar il teatro italiano nel secolo scorso. Il maraviglioso introdottovi non rappresentando alcun essere conosciuto in natura, né apportando seco alcun modello reale, al quale potesse rifferirsi dallo spettatore, prese quella forma e travvisamento, che vollero dargli la svogliatezza, l’immaginazione e il capriccio. Così nel canto moderno mancando la verità della espressione perché le modulazioni imitative sono troppo lontane dalla natura, altro diletto non resta se non quello che viene dal gradevole accozzamento dei suoni diretti non già a significar un pensiero, o ad eccitar una determinata passione, ma a piacere all’orecchio colla loro varietà e successione. Quindi non è da maravigliarsi se l’uditore, il quale prende i suoni per se stessi e non per quello che rappresentano, cerca appunto nella diversa combinazione di essi quel piacere, che non può ricavare da una poco intesa e mal conosciuta imitazione. E siccome dicesi a ragione che una è la strada della verità e quella dell’errore moltiplice, così, posta la disconvenienza delle modulazioni cogli oggetti naturali, ne vengono in conseguenza la necessità di cambiarle sovente per non infastidir l’uditore, la tortura che si danno i cantori per trovar cose che lusinghino le orecchie colla lor novità, e la varietà de’ gusti che da ciò ne risulta. Non avviene talmente nelle altre arti rappresentative come sono la scultura, la pittura e la poesia, o almeno non avviene così frequentemente, perocché in esse l’oggetto, cui si rapporta l’imitazione, è più vicino, e le relazioni sono più chiare, onde il gusto può aver un fondamento meno arbitrario. Della bellezza della Venere de’ Medici non meno che della perfezione del Misantropo di Moliere io giudico per la comparazione cogli oggetti che mi cadono sotto gli occhi. La proporzione fra le membra, la dilicatezza dei tratti, la bocca, le braccia, le mani, ciascuna parte insomma ha degli originali nella società che servono, a così dire, di puntelli al comun paragone, come l’hanno parimenti, e assai spesso, i caratteri di Climene, di Alceste, di Filinto, di Trissotino, di Vadio, e gli altri che si trovano in quella inimitabil commedia. Poco ci vuole a ravvisarli e non molto a farne il confronto. Ma nella musica, mercè al soverchio raffinamento cui si è voluto condurla, la verità della espressione è così poco adattata alla capacità della maggior parte, così poco riconoscibile l’imitazione, che necessario è che ondeggi anche il gusto fra tanti e sì discordi giudizi. Però mentre l’Apolline di Belvedere, il Laocoonte, e l’Ercole servono di modello tuttora agli statuari dopo tanti secoli; mentre la Venere di Tiziano, il S. Pietro di Guido, e la Madonna del Correggio riuniscono concordemente i suffragi de’ pittori; mentre un frammento di Saffo, un’oda di Grazio, una elegia di Tibullo, un idilio di Teocrito, un’ottava d’Ariosto e di Tasso, un sonetto di Petrarca, le lagrime di Priamo inginocchiato avanti Achille, l’episodio della morte d’Eurialo nella Eneide si gustano pure, e s’assaporiscono perché spirano ancora la lor primitiva freschezza; niuna composizion musicale, niuna cantilena è, non dirò dei Greci o dei Latini, ma né meno dei moderni da Guido Aretino fino al principio del nostro secolo, che si conosca, non che s’uniti sul teatro o in chiesa dai maestri o dai dilettanti. Le composizioni stesse dei primi maestri del nostro secolo sono oggi mai divenute anticaglie, non piacendo altro che lo stile dei moderni cantori, il quale nel giro di pochissimi anni dovrà cedere anch’esso ad un nuovo gusto che dee succedere sicuramente. Ed ecco un motivo di più della diversità delle opinioni in questo genere, il non rimanere cioè alla posterità un classico esemplare, che fìssi immobilmente lo studio dei giovani, perché dipendendo in massima parte la bellezza del canto dalla maniera di eseguirlo, questa non può conoscersi fuorché nella viva voce del cantore, morto ch’ei sia, il voler giudicare del suo merito dagli scritti che restano è lo stesso che giudicare delle bellezze di Elena sul suo cadavero. Così che niente v’ha di più inutile che il voler risapere lo stile di Egiziello, di Bernacchi, di Farinello, o di Buzzoleni da qualche composizion musicale publicata da essi. La mano del tempo, che stampa orme profonde di distruzione sù tutta la natura, perdona molto meno ai suoni rapidi e fuggitivi, e il canto prodigioso di quei cantori simile nella incostanza all’elemento dove fu generato dopo aver eccitata una serie di sensazioni transitorie al paro di lui andò a perdersi fra le infinite passaggiere vibrazioni, che prodotte a vicenda e cancellate dall’urto de’ corpi sonori rimasero inerti alla fine e mutole nell’abisso del nulla.

[61] Con ciò si risponde all’obbiezione di coloro i quali vedendo che le arie de’ trapassati maestri riescono fredde e disanimate quando s’eseguiscono col metodo moderno argomentano che la musica della nostra età è superiore di molto a quella degli altri tempi. Non vogliono riflettere che la più bella musica del mondo diventa insipida qualora le manchi la determinata misura del tempo e del movimento, che troppo è difficile conservar l’uno e l’altro nelle carte musicali prive dell’aiuto del cantore e della viva voce del maestro, che in quasi tutte l’arie antiche abbiamo perduta la vera maniera d’eseguirle, onde rare volte avviene che il movimento non venga alterato o per eccesso o per difetto, e che il gusto del cantore che s’abbandona a se medesimo nell’atto di ripeterle non può a meno di non travvisarle a segno che più non si riconosca la loro origine. Quindi a molti in Francia è venuta in pensiero la necessità d’un cronometro, ovvero sia pendolo destinato a misurar esattamente i movimenti nella musica, il quale al vantaggio di regolare anche nelle arie che si cantano in teatro la voce del cantore colla natura del suo movimento e col numero delle vibrazioni acciocché fregni tra l’orchestra e lui quella unione che vi si vede troppo soventemente mancare aggiungerebbe l’altro di potersi col suo mezzo trasmettere ai paesi lontani e alle future età il preciso grado del movimento con cui furono eseguite. Laffilard ne’ suoi Principi di Musica dedicati alle dame religiose avea posto alla testa di tutte le arie altrettante ziffere, ch’esprimevano il numero delle vibrazioni del suddetto pendolo durante ciascuna misura149.

[62] Mio desiderio sarebbe di poter pubblicamente render giustizia in questo luogo a quei cantori viventi, che scevri del contagio comune ci porgessero altrettanti esemplari imitabili del vero canto drammatico. Ma l’austera verità, alla quale fa d’uopo che un autore sacrifichi fino ai primi movimenti d’un cuor sensibile, mi trattiene dal farlo. No: avvenga che molti siano i cantori da me sentiti in Italia creduti bravissimi (e che sono tali secondo l’idea che si ha comunemente della bravura) non ho trovato neppur un solo, il cui canto non sia più o meno imbrattato dei vizi esposti nel presente capitolo. Vi saranno al certo delle eccezioni a questa regola, ma non le conosco. Trovandosi tutti lontani dal retto sentiero, la maggior grazia che può loro farsi è quella di giudicarli per approssimazione. Tra gli altri molto si parla di Marchesi e di Pacchierotti, i quali con istile e gusto diverso tengono divisi ancora i giudizi del pubblico. Non è di mia competenza il decidere, ma se le descrizioni fattemi della loro maniera di cantare non sono state alterate, se le idee universali del bello non mi tradiscono, se l’amore del semplice, dell’appassionato, del vero non m’hanno incallito l’orecchio contro le seduzioni di uno stile pieno di artifizio e di sorpresa, Pacchierotti, oh patetico Pacchierotti! quantunque il tuo rivale ti superi in molte qualità brillanti, tu saresti il solo genio vivente, cui cingerei le chiome del vivace allora onde l’antica Grecia coronava le statue d’Arione e di Tamiri.