(1764) Saggio sopra l’opera in musica « Saggio sopra l’opera in musica — Del libretto »
/ 1560
(1764) Saggio sopra l’opera in musica « Saggio sopra l’opera in musica — Del libretto »

Del libretto

[1.1] Messa nel teatro la debita disciplina, conviene ordinatamente procedere alle differenti parti che forman l’opera, per mettervi quella mano emendatrice di cui ha bisogno ciascuna. La prima cosa che vuol essere ben considerata è la qualità dell’argomento, o sia la scelta del libretto, che importa assai più che comunemente non si crede. Dal libretto si può quasi affermare che la buona dipende o la mala riuscita del dramma. Esso è la pianta dell’edifizio; esso è la tela su cui il poeta ha disegnato il quadro che ha da esser colorito dipoi dal maestro di musica. Il poeta dirige i ballerini, i macchinisti, i pittori, coloro che hanno la cura del vestiario; egli comprende in mente il tutto insieme del dramma, e quelle parti che non sono eseguite da lui le ha però dettate egli medesimo.

[1.2] Immaginarono da principio i poeti che il miglior fonte, donde cavare gli argomenti delle opere, fosse la mitologia. Di qui la Dafne, l’Euridice, l’Arianna di Ottavio Rinuccini, che furono i primi drammi che circa il principio della trascorsa età sieno stati rappresentati in musica; lasciando stare la favola di Orfeo del Poliziano, che fu accompagnata da strumenti, quella festa mescolata di ballo e di musica fatta già per un duca di Milano in Tortona da Bergonzo Botta, o una specie di dramma fatto in Venezia per Enrico III, che fu messo in musica dal famoso Zarlino, con altre tali rappresentazioni, che si hanno solamente a riguardare come lo sbozzo e quasi un preludio dell’opera. L’intendimento de’ nostri poeti fu di rimettere sul teatro moderno la tragedia greca, d’introdurvi Melpomene accompagnata dalla musica, dal ballo e da tutta quella pompa che a’ tempi di Sofocle e di Euripide solea farle corteggio. E perché essa pompa fosse come naturale alla tragedia, avvisarono appunto di risalire cogli argomenti delle loro composizioni sino a’ tempi eroici, o vogliam dire alla mitologia. La mitologia conduce sulle scene, a grado del poeta, le deità tutte del gentilesimo, ne trasporta nell’Olimpo, ne’ campi Elisi e giù nel Tartaro, non che ad Argo ed a Tebe; ne rende verisimile con l’intervento di esse deità qualunque più strano e maraviglioso avvenimento; ed esaltando in certa maniera ogni cosa sopra l’essere umano, può, non che altro, far sì che il canto nell’opera abbia sembianza del natural linguaggio degli attori. Cosi in quei primi drammi che per festeggiare sposalizi si rappresentavano nelle corti de’ principi e ne’ palagi de’ gran signori, ci entravano sontuose macchine con quanto di più mirabile ne presenta la terra e il cielo, ci entravano numerosi cori, danze di più maniere, ballo mescolato col coro; cose tutte che naturalmente le forniva la qualità medesima dell’argomento. E già non è da dubitare che grandissimo diletto non dovesse altrui porgere una tale rappresentazione; siccome quella che nella unità del soggetto una varietà comprendeva presso che infinita d’intrattenimenti. Una assai fedele immagine di tutto ciò si può vedere tuttora nel teatro di Francia, dove l’opera vi fu trapiantata dal cardinal Mazzarino, quale era a’ suoi tempi in Italia. Se non che al decoro di simili rappresentazioni dovette dipoi fare non picciolo torto la introduzione dei personaggi buffi, i quali non bene allegavano cogli eroi e cogl’iddii; e col far ridere fuor di tempo isconcertavano la gravità dell’azione. Della quale sconvenevolezza pur rimane ne’ primi drammi francesi un qualche vestigio.

[1.3] Non istette lungo tempo l’opera a uscire dai palagi e dalle corti per mostrarsi al pubblico ne’ teatri da prezzo, dove la bellezza e novità della cosa facea correre in frotta la gente. Ma quivi la non si potè mantenere, come è ben naturale a pensare, col tanto apparato e splendore che tratti avea dall’origin sua. A ciò contribuirono ancora moltissimo le paghe che convenne dare a’ musici; le quali di picciole che erano da prima, a segno che una cantatrice fu sopranominata la Centoventi per aver avuto altrettanti scudi un carnovale, montarono ben presto a prezzi strabocchevoli. Fu adunque forza, non potendo gl’impresari reggere a tante spese, pigliare nuovi provvedimenti e partiti; onde da una banda si venisse a risparmiare quanto profondere doveasi dall’altra. Lasciati da canto gli argomenti favolosi, che tutto abbracciando, per cosi dire, l’universo sono di lor natura sommamente dispendiosi, si rivolsero ben tosto a’ soggetti storici che dentro a’ più ristretti termini si rimangano circonscritti; e questi e non altri furono posti sulle scene. Di maniera che l’opera, discendendo come di cielo in terra, dal consorzio degli dei si trovò confinata tra gli uomini. Alla tanta pompa e varietà delle decorazioni, a cui erano avvezzi gli spettatori, si credette supplire con una regolarità maggiore nel dramma, cogli artifizi della poesia, co’ vezzi di una più raffinata musica. E tal credenza radicò più che mai, quando l’una di queste arti tornata alla imitazione degli antichi nostri autori ed arricchitasi l’altra di nuovi ornamenti, condotte si stimarono assai vicine alla perfezione. Ma perché troppo nuda ed uniforme non si rimanesse la rappresentazione, s’introdussero tra un atto e l’altro, a ricreazion del popolo, gl’intermezzi e dipoi i balli, e venne l’opera a poco a poco pigliando la forma in cui la vediamo al dì d’oggi.

[1.4] La verità si è che tanto co’ soggetti cavati dalla mitologia, quanto dalla storia, vanno quasi necessariamente congiunti di non piccioli inconvenienti. I soggetti cavati dalla mitologia, atteso il gran numero di macchine e di apparimenti che richiedono, metter sogliono il poeta a troppo ristretti termini, perché egli possa in un determinato tempo tessere e sviluppare una favola come si conviene, perché egli abbia campo di far giocare i caratteri e le passioni di ciascun personaggio; che è pur necessario nell’opera, la quale non è altro in sostanza che una tragedia recitata per musica. Da ciò deriva che buona parte delle opere francesi, per non parlare delle prime nostre, danno quasi soltanto pascolo agli occhi, ed hanno piuttosto sembianza di mascherata, che di dramma. L’azion principale vi è come affogata dentro dagli accessori; e la parte poetica di esse ne rimane così debole e meschina, che con qualche color di ragione furono chiamate altrettante infilzature di madrigali. All’incontro, i soggetti cavati dalla storia non cosi bene si confanno con la musica, che in essi ha meno del verisimile. Siccome può osservarsi tutto giorno tra noi, dove non pare che i trilli di un’arietta stiano cosi bene in bocca di Giulio Cesare o di Catone, che in bocca si starebbono di Apollo o di Venere. Non forniscono tanta varietà quanto i soggetti favolosi; sogliono peccare di severità e di monotonia. Il teatro vi resta quasi sempre solitario; se già non si voglia porre nella schiera degli attori quella marmaglia di comparse che nelle nostre opere sogliono anche dentro al gabinetto accompagnare i re. Ed egli è troppo difficile trovare balli e simili altri intrattenimenti, che ben si adattino con azioni tolte dalla storia. Debbono essi intrattenimenti fare unità col dramma, essere parti integranti del tutto, come gli ornamenti nelle buone fabbriche, che non servon meno a decorarle che a sostenerle. Tale è per esempio nel teatro francese il ballo dei pastori che celebrano le nozze di Medoro e di Angelica, e fanno venire Orlando, che in essi si abbatte, in cognizione dell’estrema sua miseria. Non è così degl’intrattenimenti delle nostre opere; che quando bene in un soggetto romano il ballo sia di soldati romani, non facendo esso mai parte dell’azione, non vi è meno disconveniente e posticcio, che la scozzese o la furlana. Ond’è che i soggetti storici, o hanno il più delle volte a rimanersi nudi o a rivestirsi di panni che non vi si affanno per niente, e, come si suoI dire, piangono loro in dosso.

[1.5] Contro a tali inconvenienti non potrà il poeta far riparo se non collo scegliere il soggetto della sua favola con discrezione grandissima. E perché egli possa conseguire il fin suo, che è di muovere il cuore, dilettare gli occhi e gli orecchi senza contravvenire alla ragione, gli converrà prendere un’azione seguita in tempi o almeno in paesi da’ nostri molto remoti ed alieni, che dia luogo a più maniere di maraviglioso, ma sia ad un tempo semplicissima e notissima. Lo essere l’azione a noi tanto peregrina ne renderà meno inverisimile l’udirla recitare per musica. Il maraviglioso di essa darà campo al poeta d’intrecciarla di balli e di cori, d’introdurvi varie sorte di decorazione; e per esser semplice e nota, né di tanto lavoro egli avrà mestieri, né di così lunghe preparazioni per dare a conoscere i personaggi della favola e per far, come si conviene, giocar le passioni, che sono la molla maestra e l’anima del teatro.

[1.6] Assai vicini al divisato modello sono la Didone e l’Achille in Sciro dell’illustre Metastasio. Gli argomenti ne sono semplici, cavati dalla più remota antichità, ma non troppo ricercati; in mezzo a scene appassionatissime vi han luogo splendidi conviti, magnifiche ambascerie, imbarchi, cori, combattimenti, incendi: e pare che ivi il regno dell’opera venga ad essere più ampio, per così dire, ed anche più legittimo che d’ordinario esser non suole. Simile sarebbe di Montezuma, sì per la grandezza, come per la stranezza e novità dell’azione; dove fariano un bel contrasto i costumi messicani e gli spagnuoli vedutisi per la prima volta insieme, e verrebbesi a dispiegare quanto in ogni maniera di cose avea di magnifico e peregrino l’America in contrapposto dell’Europa 42. Parecchi soggetti ne possono ancora essere forniti dall’Ariosto e dal Tasso, che sariano pure il caso al teatro dell’opera. Tanto più che in quei soggetti al popolo notissimi, oltre a un gran gioco di passioni, entrano anche i prestigi della magia. Così Enea in Troia e Ifigenia in Aulide; dove, oltre a una grande varietà di scene e di macchine, potriano entrare i prestigi più forti della poesia di Virgilio e di Euripide. Né mancherebbono altri simili argomenti di una eguale convenienza e fecondità. Infatti, chi sapesse pigliare con discrezione il buono de’ soggetti favolosi dei tempi addietro, ritenendo il buono dei soggetti dei nostri tempi, si verrebbe quasi a far dell’opera quello che è necessario fare degli stati: che, a mantenergli in vita, conviene di quando in quando ritirargli verso il loro principio.