(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Capitolo decimoquinto »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Capitolo decimoquinto »

Capitolo decimoquinto

Terza causa. Abbandono quasi totale della poesia musicale. Esame de’ più rinomati poeti drammatico-lirici dopo il Metastasio. Stato dell’opera buffa.

[1] Le scienze, che hanno per oggetto la ricerca del vero, e le facoltà, che hanno per fine il perfezionar il gusto, corrono, allorché vengono coltivate in una nazione, delle fortune affatto diverse. Le prime, qualora siasi trovato il vero metodo di studiarle, e si seguiti a mantenerlo, acquistano maggiori progressi a misura che maggiore è il numero degli studiosi che le coltivano; imperocché dipendendo l’avvanzamento di esse o dalla moltiplicità e verificazioni e de’ fatti replicati, o dalle deduzioni che si cavano da un principio riconosciuto come incontrastabile, tutti sono in istato di rilevare l’esattezza di quelli, e d’aggiugnere loro maggior lume colle proprie scoperte, come molti possono ancora far una convenevole applicazione di questo. L’algebra dunque, la geometria, la nautica, l’idrostatica, l’astronomia, la medicina, la fìsica e le altre scienze consimili colà si veggono maggiormente avvanzare e fiorire dove lo studio è più universale, i tentativi più costanti e più frequenti, e la libertà nell’opinare è meno ristretta. Debbonsi nonostante escludere da questa regola la teologia e la metafisica. La prima, perché appoggiandosi principalmente sull’autorità e sul positivo, qualora si slontani da quei due punti polari, va a rischio di smarrirsi per via o di sfasciarsi in un laberinto di diverse opinioni contrarie non meno al conseguimento del vero che ai vantaggi della religione. La seconda, perché pochi essendo i principi veri sui quali s’appoggia e dipendendo in parte dalle nozioni di certe idee oscure di sua natura non ancor definite né da tutti universalmente accettate, non può far di meno che non divenga arbitraria e vaga nelle sue conseguenze. Ond’è che la regione de’ metafisici è per lo più la regione degli errori, e che per ogni spirito ben fatto l’annunziargli un nuovo sistema in quella scienza non è diverso dal proporgli una nuova modificazion di falsità.

[2] Nelle facoltà che hanno per oggetto il bello, avviene l’opposto che nelle scienze. In queste l’arte di riuscire dipende tanto dalla particolare organizzazione di chi le coltiva, dal maggior o minor grado di sensibilità e di fantasia, dall’attuale disposizione di coloro che ricevono le impressioni, e dalle idee dominanti in una nazione o in un secolo; le relazioni loro sono così fine, così complicate, così difficili; la natura ch’esse prendono a imitare si ripiega, s’asconde e si mostra in sembianze così differenti or nel morale or nel fisico, secondo le abitudini, gl’interessi, le passioni, i climi, e i governi che a superare cotanti ostacoli non basta un talento mediocre, ma vuolsi tutta l’estensione e l’energia del genio. Però mentre un uomo di mente assai limitata può colla fatica e lo studio aggiugner qualche particella di più alla massa generale del sapere nelle scienze naturali, e distinguersi per questo mezzo dagli altri, nessun ingegno di bassa lega per quanta cura ei ponga nell’esercitare le facoltà che riguardano il bello otterrà giammai i suffragi del pubblico, perché non sarà trovato capace di poterle promuovere una sola pedata. Ed ecco il fondamento della massima di Orazio, colà dov’ei dice che né gl’iddi, né gli uomini, né le colonne permettevano a’ poeti di essere mediocri150.

[3] Ora i sommi geni sono assai rari in qualunque genere. Talvolta molti secoli scorrono senza che la storia possa annoverarne uno solo. La pianta dell’aloè, che sta cent’anni a germogliare, altri cento a rinvigorirsi e un secolo poscia fino al suo dicadere è in generale l’emblema dell’origine, progressi, e annientamento delle arti del gusto e di coloro che le perfezionano. Qualora suppongasi non pertanto che la loro coltura diviene comune in un popolo, questa supposizione non può andare disgiunta dal sospetto della loro mediocrità, perocché abbandonate fra le mani del volgo o trattate da ingegni inferiori incapaci di sollevarsi fino a quell’altezza che richiede la loro natura, non può far di meno che non divengano triviali anch’esse, e che non contraggano la piccolezza e i pregiudizi di chi a dispetto pur di Minerva le vuol coltivare. In tal caso le arti e le belle lettere sono come i vaghissimi colori dell’iride allorché si riguardano a traverso d’un prisma non ben dirozzato.

[4] Ecco appunto lo stato in cui presentemente si trova la poesia italiana. Una folla di poeti, i quali, per valermi d’una espressione di Agnolo Poliziano, nascono in Italia all’usanza dei funghi, piove ogni giorno sulle pazientissime orecchie del pubblico un diluvio di canore inezie, di sonetti e di canzoni, ch’essi hanno la temerità di chiamare anacreontiche, petrarchesche, o pindariche, quantunque convenga loro siffatta appellazione colla stessa giustizia a un dipresso che convengono ad alcuni principi asiatici i titoli che scambievolmente si danno di signori del corno della luna, o di dominatori degli elefanti. Non potendo più applicarsi con frutto la più deliziosa fra le arti d’imitazione ai grandi oggetti della morale, della legislazione e della politica, come si faceva dai Greci, né trovandosi oggimai animata da quello spirito vivificante, che seppero in essa trasfondere i Danti, i Petrarca, i Tassi, gli Ariosti, e i Metastasi, si vede in oggi ridotta la meschinella a servir di patuito insignificante complimento per ogni più leggiera occasione di sposalizio, di monacazione, di laurea, di nascita, di accademia, e di che so io, senza che altre immagini per lo più ci appresenti fuor di quelle solite della fiaccola d’imeneo che rischiara il sentiero alle anime degli eroi, i quali attendono impazienti lassù nelle sfere il felice sviluppo del germe, o di quel cattivello d’Amore che spezza per la rabbia lo strale innanzi alle soglie che chiudono la bella fuggitiva, o di Temide che avvolta in rosea nuvoletta fa trecento volte per anno il viaggio dell’Olimpo fino al collegio dei dottori a fine di regalare la bilancia e la spada a saggio ed avvenente garzone, o della povera Nice, cui si danno dagli amanti più epiteti contradditori di pietosa e crudele, d’empia e benigna, di fera e di scoglio, di Medusa e di Aurora, d’angioletta o di tigre che non iscagliò contro a Giove il famoso Timone nel dialogo di Luciano. Immagini tutte le quali benché fossero belle nella loro origine, e capaci di produrre un piacere inaspettato allorché aveano il pregio della novità: sembrano

«Sogni d’infermi e fole di romanci»,

ora che lo spirito non rigusta più né il diletto che nasce dalla sorpresa, né quello che viene dal riflesso della loro convenienza. Da ciò deriva lo spirito d’imitazione e il ricopiarsi l’un l’altro necessario nella massima parte perché la massima parte scarseggia di ricchezze proprie. Da ciò ancora la monotonia di pensare e di scrivere, dalla monotonia la servilità, da questa il languore e non molto dopo il tedio dei lettori sensati che compresi da giustissimo sdegno condannano al ben meritato avvilimento l’arte e gli artisti, gli accademici e le accademie, le lodi e chi le dispensa151.

[5] Tra i generi però della poesia niuno v’ha più vilipeso e negletto che il dramma musicale. È cosa da stupire la contraddizione degli Italiani in questo punto. Mentre tanto si deliziano nello spettacolo, mentre si vantano di essere quei fortunati coltivatori che l’hanno sollevato alla maggiore perfezione possibile, mentre si dimostrano pieni di entusiasmo per tutto ciò che ha riguardo alla musica, soffrono ciò nonostante che la parte poetica primo fonte della espressione nel canto e della ragionevolezza nel tutto, giaccia obbrobriosamente in uno stato peggiore di una prosa infelice e meschina, in uno stato dove né il teatro conserva i suoi diritti, nè la lingua i suoi privilegi, in uno stato dove la musica non ritrova immagini dà rendere né ritmo da seguitate, in uno stato dove la ragioni non vede alcuna connession fra le parti, né il buon senso alcun interesse fondato nelle passioni, in uno stato finalmente dove s’insulta ad ogni passo alla pazienza di chi assiste alla rappresentazione, e al gusto di chi la legge. Gli insetti della letteratura, coloro cioè che ronzan dintorno alle più fangose paludi del Parnaso, sono appunto i soli che ardiscano a metter mano in una spezie di poesia la più scabrosa, la più dilicata, la più diffìcile di quante possa offrire la ragione poetica. Non vi dovrebbe essere il più arduo, ma non v’è in pratica impegno più triviale che il divenir autore d’un libretto dell’opera; titolo del quale, riconoscendo eglino tutto il valore, lo tacciono a bella posta sul frontespizio per quell’istinto che porta gli uomini a celar le proprie vergogne. Ed è ben ragione che il loro destino non sia punto migliore della loro capacità. Vili schiavi dell’impresario, del compositor, del cantore non hanno di poeti fuorché il nome, e l’obbrobrio di profanarlo. Chi compone drammi per musica è oggimai divenuto un fanciullo di scuola che non può discostarsi dalla riga senza tema di battiture, un fenomeno di questa natura merita che ci fermiamo alquanto per isvilupparne le cagioni. A due (per quanto giungo a comprendere) si riducono queste. Alla voga che ha preso in teatro il moderno canto, e al gusto eccessivo per le decorazioni. Esaminiamo l’una e l’altra paratamente prima nell’opera seria, indi facendo passaggio alla buffa.

[6] Si è parlato a lungo nell’antecedente capitolo del dominio che s’usurparono sulla scena i cantori, si è mostrato per quai mezzi pervennero ad ottenerlo, e si è trovata la radice dell’abuso nel trascurar i recitativi, nel porre ogni loro studio nel canto delle arie, e pello sfoggiare su queste con mille artificiosi sminuzzamenti di voce. Posto questo principio chiaramente si scorge che il canto è il dominante oggidì nel melodramma, che su questo perno si raggira tutta l’azione, che 1a poesia ubbidiente allo stabilito sistema non è altro che una causa occasionale, un accessorio che dà motivo alla musica ma che dipende affatto da essa, e che per conseguenza, rinunziando ai propri diritti per modellarsi su quelli della padrona, ha dovuto metter in non cale la condotta, lo sceneggiar, l’orditura, trasandar lo stile e la lingua, perder mille situazioni vive e appassionate e accorciar i recitativi divenuti ormai fastidiosi e languidi, in una parola strozzar i componimenti per badar solo al pattuito cerimoniale di mezza dozzina d’arie cantabili, d’un duetto, d’un trio, o d’un finale tratto, come suol dirsi, pe’ capegli. E piacesse al cielo che queste arie, questi duetti o questi finali isolati fossero tali almeno che colla loro vaghezza, novità od interesse ci ricompensassero dei sagrifizi che si fanno del buon senso in grazia del canto; terremmo allora con essi il costume, che suol tenersi col frammenti della greca scultura de’ quali in mancanza d’una intiera statua s’ammira pure e si custodisce un braccio solo, una gamba, od una testa. Ma il fatto è che quelli squarci staccati sono egualmente cattivi e peggiori forse che non è il restante. Dico peggiori poiché oltre l’esser privi di colorito poetico, oltre non aver armonia né stile né numero, altro poi non racchiudono fuorché pensieri triviali e insignificanti, ribattuti un millione di volte, e simili sul teatro ai sonetti che s’attaccano sulle colonne in occasione di laurea o di sposalizio.

[7] La poesia e la musica si sono ristrette a vicenda formandosi certi cancelli poetici e musicali che mantengono nella più servile mediocrità l’una e l’altra. Quantunque la musica sembri avere per oggetto diretto tutto ciò ch’è suono, e per indiretto molte cose che non lo sono, tuttavia questa idea generale si circoscrive di molto qualora si parla del canto rappresentativo in un’azione drammatica. Imperocché egli è necessario allora non considerare il gran numero di que’ corpi sonori, di quegli esseri fisici della natura che si rappresentgno cogli sgomenti e non colla voce. Bisogna altresì non pensare ai rapporti intrinseci che hanno i suoni fra loro, rapporti che formano, a così dire, la metafisica e l’algebra della musica, ma la cognizione de’ quali non è altrimenti necessaria al cantore. Né si dee far menzione di quella spezie di melodia o sensazione aggradevole prodotta da qualunque vibrazione sonora, e che fatta per lusingare unicamente l’orecchio va disgiunta da ogni idea d’imitazione. Ecco non per tanto che sottraendo dalla musica vocale gli accennati uffizi, il suo impiego si restringe solo a imitar i tuoni della umana favella. Ma il peggio è che non ogni favella, non ogni tuono di essa è proporzionato al canto. Lo sono unicamente quelli che hanno inflessione chiara e sensibile cosicché la loro espressione porti seco un significato da per se che non si confonda con verun altro. Lo sono i tuoni variati e distinti o per la loro gravità ed acutezza, o per la loro lentezza e velocità, essendo certo che un uniforme e per qualunque circostanza non mai alterato grado di voce non potrebbe divenir oggetto d’imitazione per la musica. Lo sono gli accenti che formano il tuono fondamentale d’una passione o un sentimento, poiché se l’anima ha per ogni sua affezione un movimento generale che la caratterizza, anche la musica, dovendo esprimere cotal movimento, avrà un tuono fondamentale che le serva di regola. Lo sono finalmente tutti i tuoni analogi al fondamentale, o che nella progressione armonica vengono generati da esso; poichè ciascun di loro corrisponderà colla sua individuale espressione ad eccitare i muovimene individui compresi nell’andamento generale della passione. E questa è la cagione per cui la semplice declamazione poetica scompagnata dal canto è naturalmente meno espressiva che non è la musica; cioè perché non trovasi in lei una moltitudine si grande di tuoni, i quali imitino fisicamente i muovimenti dell’anima. In contraccambio ha ella il vantaggio di sembrarci più verosimile e più conforme alla natura, dal che ne viene in conseguenza che sebbene la declamazion recitata abbia minor azione sopra i sensi, è bensì più acconcia a produrre in noi la persuasione, e pertanto ha molto maggior influenza sullo spirito. Da ciò ne ricevono ancora una ulteriore conferma i principi stabiliti altrove152 circa gli argomenti propri del melodramma e circa la natura dei personaggi dove si fece più diffusamente vedere che i lunghi racconti, le deliberazioni, le trame, i consigli, le discussioni politiche, morali e filosofiche, tutto quello che v’ha nell’umano discorso di tranquillo e d’indifferente non si conviene al canto, come non gli si convengon neppure le passioni sordide e cupe, i caratteri freddi, contiposti, severi e dissimulati, quegli oggetti insomma i quali benché non siano afoni di sua natura, lo sono tuttavia rispetto alla musica vocale, perché non le offrono varietà né chiarezza di accento. Ed ecco un’altra non piccola sottrazione da farsi nella materia opportuna per la melodia drammatica, la quale, come più volte si è replicato, non può afferrare nella sua imitazione fuorché i tratti originali e precisi delle passioni.

[8] Nonostante la mentovata scarsezza di esemplari imitabili resterebbe ancora alla musica una più che competente ricchezza, se la poesia meno schiava nella scelta degli argomenti le somministrasse tutta la copia di situazioni espressive ond’ella potrebbe servirsene. Se i Greci, non avvisandosi di eccitar nelle loro tragedie altri movimenti che il terrore e la pietà, ebbero pure un teatro sì patetico, sì variato e sì ricco, con più ragione dovrebbero averlo i moderni, i quali avendo adottato un sistema drammatico più dilatato perché più conforme al presente stato politico della società, non si sono limitati alla rappresentazione di quelle due sole passioni, ma hanno con felicissimo evento fatto sentir sulle scene l’ammirazione, la pietà, la tenerezza, l’amicizia, la gloria, l’amor coniugale, l’amor figliale, l’amor della patria con più altri affetti consimili sconosciuti nella maggior parte dei componimenti di Esalilo, di Sofocle, e di Euripide. E certo che la varietà degli affetti e la copia de’ caratteri da noi rappresentati non ha contribuito poco ad ampliar la sfera della musica, e che Temistocle, Arbace, Aristea, Megacle, Zenobia, Ipermestra, Timante e Cleonice non hanno aperto men fertile campo né meno leggiadro alla melodia di quello che a lei aprissero in Atene i caratteri di Ecuba, Oreste, Edipo, od Ajace. Ma per un difetto prodotto dai costumi ora dominanti fra noi, la poesia non osa più trattar argomenti che non versino sull’amore, e che non si rivolgano intorno ai sospiri, ai lamenti, e alle nenie di quella passione. E ciò perché? Perché un inveterato costume vuole che in ogni opera devano comparir sul teatro due donne e talvolta anche tré, della metà delle quali non sapendo che farsi il poeta perché inutili affatto all’intreccio, né qual occupazione dar loro, bisogna pure che pensi a trovar un paio d’amanti coi quali si vezzeggino a vicenda insipidamente. Vedendosi egli a tali angustie ridotto, e costretto a riserbare pei due primi personaggi le modulazioni più vere e più appassionate, che altro può metter in bocca agli attori subalterni se non sentimenti freddi e comuni da accompagnarsi parimenti con musica insignificante e noiosa? Anche esprimendo i caratteri principali non può far a meno di non coincidere spesso e ripetere le cose medesime, perché le situazioni sono a un dipresso le stesse in tutti i drammi, e perché gli uomini posti ineguali circostanze sempre si spiegano nella guisa medesima. Tanto più nella passione amorosa, la quale come chè sia la forte e la più intensa della natura, è tuttavia la meno estesa, uno solo essendo l’oggetto che la determina e semplicissimi i mezzi. Però forniti che siano quei pochi tratti caratteristici che distinguono quella tal situazione, i protagonisti cadono anch’essi in idee comuni applicabili a cento casi diversi, e incapaci per conseguenza di svegliare un vivo interesse. Non somministrando il cuore altri sentimenti che quelli che può infatti somministrare, fa di mestieri sostituire il linguaggio della immaginazione e dello spirito che signoreggiano ampiamente nel teatro moderno, dal che deriva la rovina della musica e della poesia; poichè siccome questa altro non fa sentire per il comune che l’“idolo”, il “nume”, il “rio destino”, le “stelle infauste”, gli “astri tiranni”, le “ritòrte”, le “catene”, la “prigionia d’amore” con siffatti riempitivi dell’affetto e del metro, così quella si riduce quasi tutta ad ariette inzuccherate e a rondò. Nella poesia musicale italiana si verifica esattamente quel verso che Boileau applicava ad un suo compatriota

«Et jusqu’à “je vous hais”, tout s’y dit tendrement»,

tenerezza che sebbene talvolta da vera passione proceda, non è per lo più che un linguaggio convenzionale posto in uso dalla galanteria, la quale è per il vero amore ciò che l’ippocrisia è per la virtù153.

[9] Questo abuso è stato poi abbracciato dai compositori drammatici perché favoreggia mirabilmente la loro ignoranza e s’accomoda più d’ogni altro alla loro inerzia. L’anzidetto pattuito gergo cava d’impaccio il poeta in mille occasioni. Non sa egli come condurre avanti un’azione priva d’interesse? Un intrico amoroso gli servirà di supplemento. Gli mancano parole da mettere in bocca a’ suoi personaggi? Basta fìngerli innamorati che larga materia di discorso sapranno essi trovare ricorrendo ai luoghi topici della galanteria. Vuol proccaciarsi la protezione e il favore delle giovani spose delle vezzose dame, delle spiritose e amabili cantatrici? Egli sa per una lunga esperienza che ad ottener ciò non havvi mezzo tanto opportuno quanto il titillare sovente le loro dilicatissime orecchie con siffatti bei concettici graziosini, piccinini, tuttti pieni d’amorini. Lo stesso dico delle similitudini posticcie attaccate in fine delle scene, lo stesso del numero e qualità dei personaggi, lo stesso della maniera d’intrecciare l’azione e dell’orditura di essa, cose tutte lavorate sul medesimo disegno e che dispensano il poeta dal badare alla retta imitazione della natura e alle difficoltà che presenti un tragico lavoro accontiamente eseguito. E che importa a lui della unità di pensiero e d’argomento tanto raccomandata dai gran maestri? Che della semplicicità de’ mezzi, della verità dei caratteri, della eleganza dello stile, della pittura del cuor umano e della forza ed evidenza delle passioni quando ha trovato il segreto di salire in Parnaso con minore fatica, e di essere incoronato d’un più facile benché men durevole alloro?

[10] In siffatta povertà di espressione poetica e musicale cagionata non da vizio inerente al melodramma, ma dagli abusi accidentalmente introdottivi, il gusto, che vuol pur trovare un compenso ne’ suoi piaceri, va riponendo l’essenziale in ciò ch’è meramente accessorio. Gli abiti, i lumi, le decorazioni, le comparse, i cangiamenti di scena, queste sono le bellezze che si sostituiscono in oggi sul teatro italiano al piano sì felicemente seguitato e con tante grazie abbellito da Metastasio. La poco avventurosa riuscita dei poeti che hanno voluto imitare quell’insigne scrittore ha fatto attribuir al melodramma i difetti della loro incapacità, e perché non hanno essi saputo superare gli inciampi i che offrono nel presente stato della musica gli argomenti storici nel condurre passabilmente un’azione, si è con troppa fretta conchiuso che gli argomenti tratti dalla storia e il sistema generale dell’opera italiana non si confacciano più colle circostanze del teatro. Al che aggiugnendosi la vincitrice influenza del nome francese e i brillanti sofismi di alcuni loro filosofi altrove da me confutati154 gli Italiani cominciano a rinunziare alle bellezze del proprio paese per adottar le foggie straniere, modellando cotesta singolar produzione del cielo italico sul gusto degli abitatori della Senna. Ed ecco che ritornando indietro da quasi un secolo degenera visibilmente la poesia musicale in una nazione dove si loda Apostolo Zeno e tanto s’ammira Metastasio, il cui genio elevato e gentile non saprebbe conciliar, se vivesse, la troppo aperta contraddizione di chi onora con sì magnifici elogi la sua memoria e fino a tal segno si slontana poi nella pratica dal suo esempio e dagli suoi ammaestramenti.

[11] Non è facile il prevedere a qual punto di corruzione sarà portata la tragedia musicale colle massime recentemente adottate; ma s’è lecito anticipar un vaticinio più sicuro nelle cose letterarie che non nelle politiche e nelle materie ancora di maggior importanza, asserirò francamente che nel caso che non risorga un novello spirito in Italia simile al nobil discepolo del Gravina, il quale, promovendo le di lui virtù, compisca ciò ch’egli non ebbe coraggio d’intraprendere, il melodramma è per cadere in un grado di depravazipne non diverso da quello in cui giaceva nel secolo passato. Il Cornelio, e il Racine del teatro lirico credettero che l’eccellenza dell’opera italiana consistesse principalmente nella bella musica e nella bella poesia; si crede ora che il suo pregio maggiore consista nel favellar agli occhi piuttosto che agli orecchi, e nell’interessare collo spettacolo e con le superbe comparse anziché colla ben pensata modulazione e coi fiori della eloquenza. Siffatto principio avrà delle pericolose influenze su tutto il sistema. In primo, luogo dee ricondur sulle scene quel maraviglioso d’immaginazione, quel macchinismo arbitrario che siede benissimo in un poema narrativo qual è l’epopea, ma che distrugge affatto e perverte, secondo che pensa con molta ragione Aristotile 155, i poemi drammatici. La cagione si è perché le orecchie, che sono le giudici nella epopea, ponno essere più facilmente sedotte dalla narrativa e farci credere le cose mirabili, laddove gli occhi innanzi ai quali si suppone che si rappresenti l’azione drammatica sono più disposti a discernere il falso dal vero, e più diffìcili a lasciarsi sorprendere dai prestigi della fantasia.

                                         «E giunge
Ciò che va per l’orecchio ognor più tardi
Gli animi ad agitar di ciò, ch’esposto
È allo sguardo fedel»156

e però si va a rischio di distruggere l’illusione dello spettatore. In secondo luogo la necessità di riempire le scene in uno spettacolo, dove altro non si cerchi che di abbagliare la vista, vi ricondurrà l’uso frequente o perpetuo dei cori, e con esso tutti gli abusi ai quali è solito di andare soggetto, per esempio di urtare in mille inverosimiglianze palpabili e di restringer la sfera degli argomenti drammatici di già troppo limitata per gli altri motivi indicati. Sarà in ultimo luogo lo sterminio dello stile e della musica. Di quello per la regola generale che la poesia non può fare una convenevol figura nel melodramma, ove preponderi qualcheduna delle sue compagne, cioè l’armonia o la decorazione. Di questa perché quanto più d’attenzione porgerà l’uditore allo sfoggio delle macchine e ai colpi di scena tanto meno gli resterà per la melodia, e perché non potendo gl’impressari, a motivo del gran dispendio delle comparse, dare ai musici le paghe considerabili che davano loro per lo passato, questi scoraggiti nell’arringo rallenteranno l’ardore per lo studio a misura che verrà meno la speranza del guadagno e degli applausi. Chi sà dirmi cosa diverrà la tragedia musicale ridotta a sì misero stato?

[12] Le ricerche analitiche fatte finora sull’opera seria potrebbero ricevere una illustrazione maggiore dalle pruove di fatto s’io volessi imbrattar la mia penna col racconto delle innumerabili scipite produzioni che disonorano oggidì la scena italiana. Ma contento di leggiermente accennarle, e persuadendomi che sarebbe una pedanteria mista di malignità il considerare soltanto il cattivo d’una nazione senza voler fissare gli occhi sul buono, passerò con piacere a far menzione di quelli scrittori melodrammatici che o meritano un luogo distinto pe’ i loro talenti, o non meritano andar confusi collo stolido gregge dei dozzinali oscurissimi poetastri. Vengono essi divisi in due classi. La prima di coloro che dopo il miglioramento del melodramma hanno tentato di richiamar sul teatro il sistema francese. La seconda di quelli che seguitarono le vestigia del gran poeta cesareo.

[13] Paolo Rolli, romano scrittor elegante e delicato, celebre traduttore del poema inglese di Milton, felice imitatore di Tibullo nelle elegie, emolo di Catullo negli endecasillabi, e seguace di Anacreonte nelle sue canzonette, scrisse due melodrammi intitolati l’Eroe Pastore e Teti e Peteo, di merito assai inferiore agli altri suoi componimenti. Benché vi si scorga correzione di lingua e qualche aria ben lavorata, ciò nonostante non si ritrova in essi spezzatura né concisione nel recitativo, né rapidità nelle scene, né calore nell’azione, né contrasto negli incidenti, nulla insomma di ciò che rende interessanti e vive cotali produzioni. Difetti cagionati in lui dall’aver preso ad imitare Quinaut senza poter pareggiare le sue ragguardevoli doti, e dall’aver trascurato Metastasio, di cui neppur fa menzione nella sua storica prefazione premessa alla Teti quantunque non gli potesse essere ignoto in tanta luce di gloria, specialmente avendo vissuto entrambi sotto la direzione di Vincenzo Gravina. Laonde il suo silenzio suppone o un troppo sfavorevole pregiudizio, o un certo livore poco degno d’un sì gentile cultor delle muse.

[14] Carlo Innocenzo Frugoni, poeta fra i primi del suo tempo in Italia per la robustezza dello stile, per la forza dell’epitettare e per la fertilità e chiarezza delle imagini, compose alcuni drammi musicali da rappresentarsi con regia magnificenza nel teatro della corte di Parma, i quali pruovano quanto siano limitati i confini dell’umano ingegno, e come una spezie di talento suppone per lo più l’esclusione d’un altra. Non insisterò per tanto nella irragionevolezza del piano, nei caratteri arbitrari, negli esseri fantastici personificati, nello slegamento delle scene, nella versificazione dura e poco a proposito per la musica. Perdoniamogli codesti abortivi parti di una musa invecchiata in attenzione alle altre sue cose bellissime, e contentiamoci della ingenua confessione che fa egli medesimo della sua inesperienza in fatto di poesia drammatica. «Mal venga (diceva il Frugoni in una lettera scritta a ragguardevole personaggio bolognese) ai drammi musicali ed a chi primiero li pose sopra i nostri teatri a far perdere il cervello ai poeti, a far guadagnare enormi somme ai castrati, a rovinar la poesia, ad effemminare la musica, guastare i costumi. Io non so più dove m’abbia il capo. Cammino una strada, che non è in Parnaso la mia. Incespo ad ogni passo, e se non bestemmio, si è perché sono un poeta dabbene. Voi vedrete questa mia ladra fatica quando sarà finita e stampata. ecc.» Tuttavia per quella “ladra fatica” n’ebbe il poeta dugento e cinquanta zecchini di regalo oltre l’annua sua pensione, premio che certamente non ebbero né l’Artaserse, né il Catone, né l’Ezio dell’incomparabile Metastasio. È per altro piacevole in bocca di Frugoni la doppia accusa intentata contra ai drammi musicali cioè di guastar i costumi e di rovinar la poesia. Nella prima mi sembra udire uno dei Ceteghi che rimprovera a Catilina la sua ribellione. Parmi nella seconda di ravvisare una di quelle donne sgraziate, alle quali l’avara natura negò il fortunato dono di piacere e che mossa da invidia anziché da zelo pei costumi declama contro alle galanti mode oltramontane, che tanta grazia aggiungono al portamento e vieppiù fanno apparire le naturali bellezze e la vivace leggiadria delle giovani donne più avventurose di lei157.

[15] Parecchi drammi parte seri e parte buffi scritti con bella versificazione e con viste musicali ha lavorato il Signor Riniero de’ Calsabigi, i quali ponno vedersi nel tomo secondo delle sue opere. Tra questi si distinguono l’Orfeo e l’Alceste benché più celebri per la musica eccellente del Gluck che gli accompagna che per il proprio merito. La sorte di cotai componimenti è stata di aver avuto degli accusatori illustri. Dell’Orfeo è fama che dicesse Metastasio dopo averlo letto: «In questo dramma vi sono tutti i quattro Novissimi eccettuato il giudizio.» Difatti vi si trova la morte di Euridice, l’Inferno e l’Eliso. Circa l’Alceste è ben nota la critica fatta da Gian Giacomo Rousseau nella lettera intorno alla musica di Gluck indirizzata all’Inglese Burney: critica che gli uomini di buon senso troveranno assai giudiziosa se vorranno riflettere alla monotonia che vi regna dappertutto, alla poca varietà negli affetti e nelle situazioni, all’interesse che va scemando di atto in atto invece di crescere, al poco felice scioglimento della catastrofe, e alla inverosimiglianza di alcuni incidenti. Tali sono fra gli altri il far che i numi infernali sconsiglino Alceste dal morire, laddove sarebbe più confaccente al loro carattere e al loro interesse il confermarla nella sua risoluzione, come fa la morte parlando con Apolline nella tragedia di Euripide, e la fretta altresì con cui si prepara nell’atto secondo una festa di ballo tra i cortegiani per festeggiare l’inaspettato ristabilimento di Admeto senza che in tanta allegrezza alcun si ricordi dell’assente regina che ne dovea pur essere il principale personaggio. L’autore, il quale non manca certamente d’ingegno né di cognizioni, avrebbe dovuto riflettere che una composizione così uniforme e così tetrica come l’Alceste, era forse buona per il teatro di Atene, ma che dovendosi fra noi metter in musica da un uomo conseguente a se stesso e alla poesia qual’è il Cavalier Gluk, non poteva far di meno che non istancasse la pazienza degli uditori italiani dotati da una sensibilità meno pofonda, e avezzi a un’armonia più leggiera e più brillante. Avrebbe ancora dovuto badare a non cadere in contraddizione con se medesimo; poiché dopo avere nella sua dissertazione sopra Metastasio inalzato fino alle stelle il merito del poeta cesareo, e poste nel più chiaro lume le stranezze e le irregolarità del sistema melodrammatico francese, s’avvicina poi altrettanto nella esecuzione a questo quanto si disparte dal retto sentiero indicato da quello ai poeti italiani. Il piano adottato dal Calsabigi sembra essere non di fare che la poesia somministri da se stessa i colpi di scena e le situazioni, ma di far che le situazioni e i colpi di scena si tirino dietro la poesia. Dato un tale argomento altro egli non cerca se non di colpir gli occhi e la fantasia. A questo fine ei rivolge il dialogo, stiracchia l’orditura, prepara a suo modo gl’incidenti, e travvisa come più gli torna in acconcio i caratteri. «Rem quocumque modo rem»: ecco la sua divisa. Un siffatto sistema può per accidente generar l’effetto in teatro qualora il compositore con una bella musica, il macchinista colle vaghe decorazioni, e il ballerino coll’opportuna esecuzione dei balli assalgano lo spettatore da tutte le bande cosicché non gli rimanga l’agio di badare più che tanto alla poesia. Ma svaniti che siano cotali estrinseci e passaggieri prestigi, l’uomo di gusto non potrà far a meno di non dolersi nel vedere la poesia, che dovrebbe primeggiare qual donna e regina in ogni spettacolo drammatico, servire come di mero strumento alla prospettiva e alla composizione, e invece d’ostentare il pregio delle proprie ricchezze rimanersi come la cornacchia spennacchiata d’Orazio «furtivis nudata coloribus». Dovrebbe soprattutto aver misurato un poco meglio le proprie forze allorché volle maneggiar l’arco d’Ulisse ritoccando un argomento trattato in prima da Metastasio, lo scontrarsi col quale sul cammin della gloria non è e non può essere vantaggioso per chicchesia. Di fatti le Danaidi del Calsabigi, dramma ultimamente pubblicato in Napoli è paragonato coll’Ipermestra, ciò che sarebbe uno stravagante quadro di Giordano posto accanto ad una pittura di Correggio. Se v’ha qualche carattere o qualche situazione che possa dirsi appasssionata, come per lo più lo sono gli avvenimenti d’Ipermestra e di Linceo, quelle sono ricopiate dal romano originale; del suo non ha egli messo fuorché una serie di quadri dove si vede essersi il poeta abbandonato alla falsa massima attribuita a Voltaire «frappez plutôt fort que juste». L’illustre Metastasio non avrebbe certamente cominciata una tragedia colle nozze per finirla poi colla casa del diavolo; non avrebbe in mezzo a personaggi veri e reali fatto comparir fantastici amorini che ballassero senza necesssità cogli sposi; non avrebbe sagrificato alla vana pompa della decorazione l’orditura, la verosimiglianza e il buon senso. Né si dee credere che finite appena le nozze avesse egli introdotto il padre ragunando le cinquanta figlie nel tempio di Nemesi, e consigliando loro l’uccisione degli sposi senza che questi maravigliati della improvvisa lontananza in un giorno di sposalizio ne facessero qualche ricerca col fine di penetrare l’arcano, e senza che le novelle spose mostrassero la menoma renitenza ai barbari comandi del padre. Tanto più che il carattere di Danao e delle Danaidi non ci vien dipinto dall’antichità cogli abborriti e tetri colori, con cui l’ombreggia il Signor de’ Calsabigi, presso al quale le figlie sembrano altrettante energumene sanguinarie e il genitore comparisce un perfido, uno spergiuro, un mostro; laddove nelle Supplicanti di Eschilo sì quelle che questo altro non respirano fuorché riconoscenza, umiltà, tenerezza e divozione verso gli dei. Mancò egli non per tanto al gran precetto di Orazio

«O la comune opinion seconda,
O cose in ogni parte a se conformi
Fingi o scrittor.»158

[16] Nè il poeta cesareo si sarebbe immaginato che per render interessante e teatrale la sua tragedia fosse di bisogno che le figlie, dopo aver commesso l’atroce misfatto, si vestissero tutte da baccanti e venissero sulla scena a cantare e a ballare senza che anteriormente venga indicata la cagione di così improvvisa e furibonda allegrezza, e senza che la loro venuta abbia verun altro oggetto fuorché quello di formar un coro e una comparsa. E trovò egli benissimo la maniera d’eccitare gli affetti, di strappare le lagrime, di dipigner a meraviglia i caratteri, di far brillare la musica, di condurre per tre atti un’azione, e di scioglierla con somma felicità senza ricorrere al solito ripiego di Calsabigi, ch’è di far apparire l’inferno coi demoni, mettendo in bocca loro per giunta una moralità tanto ad essi appropriata quanto lo è a S. Giovanni Evangelissa il ridicolo discorso che Ariosto gli fa tenere col paladino Astolfo nel globo della luna. Però non ostanti i suoi talenti poetici, nonostante la dovuta stima ch’esige il Signor de’ Calsabigi per lo studio posto nelle cose teatrali di cui ci porge egli eccellenti saggi non meno nella citata dissertazione che nella sua lettera al Conte Vittorio Alfieri; bisogna pur accordare esser egli uno de’ principali corruttori del moderno musicale teatro.

[17] Ma non tutti i poeti del nostro tempo si sono rivolti alla imitazion dei Francesi: molti ancora vi sono che vollero piuttosto seguitar Metastasio nella sua luminosa carriera somiglianti a que’ satelliti che s’accerchiano intorno all’orbita del pianeta maggiore. Il Migliavacca, l’Olivieri, il Cigna, il Damiani, e il Fattiboni lavorarono qualche componimento passabile. Nei drammi di Lodovico Coltellini, poeta cesareo alla corte di Pietroburgo, si scorge chiarezza di stile, varietà nelle arie, bellezza nei recitativi, qualche scena di forza insiem coll’arte pregevole di acconciamente innestare le massime filosofiche nel corpo dell’azione. Lo spettacolo altresì ha gran luogo ne’ suoi componimenti, ma si trae per il comune dai fonti della storia, e i costumi e i riti de’ popoli vengono osservati a dovere. Egli è un peccato che nell’ordire i piani non sia stato abbastanza felice, che non dipinga i caratteri colla costanza che si richiederebbe, che gli scioglimenti siano freddi e per lo più inverosimili, e che il desiderio di ridurre il melodramma ad un certo sistema adottato da lui, il quale consisteva nell’intrecciar insiem nell’azione la poesia, il ballo, la musica e la decorazione, l’abbia talvolta fatto cadere in istravaganze. Per tali devono riputarsi nell’Antigono la scena muta dei due fratelli Eteocle e Polinice, che compariscono sul teatro nella prima scena unicamente col fine di ammazzarsi senza profferir una parola: combattimento introdotto dal poeta per cagione della comparsa, ma che troppo funesta fin dal principio l’immaginazione dello spettatore non preparato ad un simile orrore. E tali sono ancora le danze fuori di luogo frapposte almeno nella maggior parte, essendo certo che un giorno di lagrime e di lutto quale dovea essere per gli Argivi quello ove perduta aveano ad un solo tratto pressoché tutta la stirpe dei loro re, non era il più a proposito per ordinare quattro balli differenti. Tralascio l’inverosimile cambiamento di Creonte nell’ultima scena contrario al maligno e scellerato carattere che da tutta l’antichità gli viene attribuito, e fatto solo per cavar d’impaccio il poeta terminando col solito formolario d’uno sposalizio. Gli stessi pregi e i difetti stessi s’osservano nella Ifigenia, tragedia musicale assai lodata del medesimo autore.

[18] Larga sorgente di poetica vena, gran rapidezza, e gran lettura di Metastasio appariscono nelle poche produzioni drammatiche stampate fra l’opere del celebre Signor Don Saverio Mattei, napoletano. La traduzione de’ salmi di quest’autore eseguita con ispirito, con disinvoltura e con brio benché inesatta in più luoghi perché troppo libera, e mancante forse di quella dilicatezza e finitura alla quale difficilmente pervengono i troppo fervidi ingegni, fa vedere che nessuno più di lui era forse in istato di rimpiazzare la perdita dell’illustre amico se la feconda fantasia che non s’appaga di una sola spezie di gloria, o le circostanze domestiche non l’avesser costretto a rivolgere la sua attenzione ad altri diversi lunghi e moltiplici studi. Mi confermo nella mia opinione osservando la felicità con cui ha egli trasferita nella italiana favella una scena dell’Ecuba di Euripide, la quale ci fa vivamente desiderare di veder dalla stessa mano in simil foggia vestito non solo quel poeta ma tutti gli altri drammatici antichi. Senza però ch’io inclini per questo ad abbracciare i brillanti e poco solidi pensamenti che intorno alla convenienza del sistema drammatico degli Ateniesi col nostro ha l’autore con molto ingegno ed erudizione ma non con uguale giustezza proposti nella sua dissertazione intorno alla maniera d’interpretare i tragici greci.

[19] Un colto spagnuolo, che con esempio non facile a rinvenirsi ha avuto il coraggio d’intraprendere in lingua non sua uno de’ più difficili lavori della ragione poetica qual è la tragedia, ha parimenti voluto sperimentare le sue forze pubblicando un dramma musicale. Lo Scipione in Cartagine dell’Abate Colomes merita un luogo distinto fra quelli del nostro tempo, ed io non avrei difficoltà di dir che fosse il primo, se alla semplicità della condotta, alla scelta e varietà nei metri, alla ricchezza lirica delle arie, e al merito di qualche scena degna di Metastasio avesse l’autore voluto congiugnere maggior rapidità nell’intreccio, più di calore nell’azione, e un più vivo contrasto negl’incidenti. Altri forse avrebbe desiderato, che la virtù di Scipione fosse meno tranquilla, e che i personaggi subalterni non s’usurpassero tanta parte di quell’interesse che dovea principalmente cadere sul protagonista; essendo certo che sebbene il carattere di Scipione considerato filosoficamente sia grande ed eroico, non è tuttavia sì teatrale né sì atto alla musica quanto quello di Arminia e di Lucio. La cagione si è perché a produrre l’azione (ch’è l’anima del teatro musicale) assai più acconcio è il combattimento e il contrasto delle passioni, qualmente si vede in que’ due sfortunati sposi, che non la saggia fermezza d’un eroe di cui poco si pregia la vittoria perché poco gli è costato il sagrifìzio. Marco Aurelio e Plutarco vorrebbero che gli uomini fossero simili ad una rocca, la quale immobile nella propria base spezza le onde che furiosamente le romoreggian d’intorno, e talmente ha l’Abate Colomes dipinto il suo protagonista; ma il teatro, che ha una statica tutta sua, gli vorrebbe somiglianti piuttosto al naviglio, che sferzato da venti contrari ondeggia incerto del proprio destino in mezzo ai tempestosi flutti, eccitando in chi lo guarda dalla riva una sensazione mista di timore per il pericolo del navigante e di compiacenza per la propria salvezza159.

[20] Purgatezza di lingua, venustà di stile, colorito poetico, varietà e delicatezza d’immagini espresse con ottimo gusto, sono le doti che caratterizzano l’Alessandro e Timoteo del Conte Gastone della Torre di Rezzonico rappresentato anni fa nel regio ducale teatro di Parma Pochi, o per dir meglio, nessuno fra i drammi musicali moderni è scritto con uguale vaghezza. Ha inoltre il pregio incontrastabile della novità, essendo egli stato (per quanto a me pare) il primo che, cambiando il sistema di cotesto spettacolo, abbia renduta drammatica un’ode puramente descrittiva qual è quella dell’inglese Dryden intitolata Gli effetti della musica a le cui sorgenti ha l’autore italiano largamente bevuto. Un’altro inglese chiamato Brown gli ha somministrata l’idea nella sua dissertazione sulla unione della musica e della poesia. In altro luogo ci converrà parlare più a lungo degl’inconvenienti e dei vantaggi annessi al metodo proposto dall’inglese. Per ora non si può far a meno di non lodare la buona intenzione di chi cercando di rimediare agli abusi del moderno teatro, propone al pubblico un tentativo di questa sorta. Nelle regioni del gusto, come nelle vaste pianure dell’oceano, molti paesi sarebbero sconosciuti ancora senza l’intrepido coraggio di alcuni navigatori simili ai Cooki e ai Draki. Eppure non sembra che il pubblico la intenda così se giudicar dobbiamo dalla fredda accoglienza che ha fatta al dramma del Conte Rezzonico. A che attribuire quest’apparente ingratitudine? Ecco il motivo s’io non m’inganno. In primo luogo il suo stile benché assai poetico ed elegante manca di quella mollezza e di quella facilità senza le quali non è possibile adattar acconciamente le parole alla musica. Veggasi quanto su tal proposito s’è detto nel tomo primo di quest’opera, dove si parlò delle qualità che deggiono avere lo stile e la lingua per rendersi musicali, e dalle ragioni ivi allegate si conoscerà essere manifestamente false e insussistenti le teorie d’alcuni moderni italiani che vorrebbero trasferire alla poesia accompagnata dai suoni le leggi medesime di stile che voglionsi per le poesie non inservienti alla musica. In secondo luogo l’argomento scelto da lui buono per un poema narrativo manca intrinsecamente di quella illusione e interesse che richiede il teatro. L’autore, imitando troppo esattamente il suo Dryden, ci fa intendere fin dalla prima scena che Taide e Timoteo vogliono rappresentar innanzi agli occhi di Alessandro un fìnto spettacolo

                           «Non solo
Colla voce e col suon l’orecchie e l’alma
In questo dì, ma le pupille ancora
Vuol di vano terror, di piacer vano
Affascinarti con portenti.»

[21] Non è dunque da maravigliarsi se mancando in chi ascolta la sorpresa derivata dal creder vero ciò che gli si racconta, manca in lui l’illusione eziandio, figurandosi d’esser presente ad una mascherata invece di assistere ad un’azione vera e reale. La natura dell’argomento è la cagion parimenti dello slegamento delle scene, succedendosi queste in tal guisa fra loro, che tolta via qualunque di esse, poco o nulla ne soffre l’intiera composizione160. Aggiungasi che il protagonista il cui nome dovrebbe eccitare l’idea dell’eroismo, non m’offre nel dramma del Conte Rezzonico veruna di quelle qualità che risvegliano l’interesse. Ivi non comparisce magnanimo, né eroe, né uomo di genio, ma piuttosto un farnetico divenuto giuoco della sua eccessiva sensibilità, uno schiavo della mollezza che ci vendica fra le sue catene dell’ascendente che aveva sopra di noi acquistato la sua fortuna. Pecca altresì nel fine morale. Volendo far conoscere i prodigiosi effetti della musica, non dovevano questi manifestarsi spingendo un giovin sovrano ad una risoluzione così violente e disumana come è quella di abbrucciare fin colle proprie mani una popolatissima città che, deposte le armi, era pacificamente divenuta sua suddita. Se fosse stato vero che Alessandro (com’egli pazzamente s’imaginava) era figliuolo di un nume, questo fatto solo m’obbligherebbe a crederlo anzi prosapia delle Furie infernali che germe di Giove. Mi si risponderà ch’egli è mosso a farlo dal desiderio di vendicar i Mani de’ Greci trucidati in altri tempi dai persiani, lo che ad un atto di giustizia o di patriotismo dovrebbe attribuirsi piuttosto che ad un capriccio irragionevole. Ma cotal difesa non giova. In primo luogo perché non da principio riflesso di virtù si suppone ivi che fosse spinto Alessandro, ma da macchinale furore eccitato in lui dai prestigi d’un musico e dalle istigazioni d’una cortigiana. In secondo luogo perché nel caso ancora che un falso amore della patria determinato l’avesse ad eseguire quell’atto di crudeltà, né il teatro, né la filosofia dovrebbero autorizzarlo giammai esponendolo sulle scene alla pubblica imitazione. Oh mortali! Non è abbastanza feroce lo spirito della guerra senza che voi cerchiate d’inferocirlo ancor più divinizzando l’alloro che gronda di vostro sangue? E sì poco barbaro vi sembra il despotismo, che non avete orrore d’inghirlandarlo colla corona immortale, che le belle arti non dovrebbon servare fuorché pei talenti superiori o per la benefattrice virtù?

[22] Ma tempo è ormai di venire all’opera buffa. Se si riflette ai vantaggi che ha la commedia musicale sopra la tragedia, parrà strano che giaccia quella nell’obbrobrioso stato in cui si ritrova oggi in Italia. La sfera d’imitazione per la moltiplicità de’ caratteri, per la forza di essi, e per la verità della espressione è più dilatata nella prima che nella seconda. Gli argomenti tragici, e conseguentemente quelli che danno motivo ad una musica nobile e patetica, devono essere meno frequenti, perché nell’universo morale, come nel fìsico, le grandi catastrofi sono più rare, e perché, sebbene la vita umana sia una serie di muovimenti or dolorosi or piacevoli, la natura che attacca la conservazione dell’individuo allo stato di mezzo, gli risparmia, in quanto è possibile, gli estremi del dolore, come gli è pur troppo scarsa degli estremi piaceri. Attalchè la crisi d’una passione violenta non è più durevole nell’uomo di quello che lo sia in una stagione l’eccessivo rigore del freddo, o gli sconvolgimenti del tremuoto in un paese. Ora le passioni tragiche non divengono musicali se non quando sono vicine alla violenza, e dall’altra parte la classe dei personaggi illustri, a’ quali appartengono esse, è di numero troppo scarso rispetto alla massa generale della nazione; quindi minore altresì esser deve la somma degli argomenti onde formare una tragedia musicale. L’opposto avviene nella commedia. I soggetti che vi s’introducono formano la classe più numerosa della società. Gli avvenimenti che vi si rappresentano sono frequentissimi nella vita comune. Ecco non pertanto una dovizia maggiore per il poeta nelle persone e nelle cose. Quidquid agunt homines è la divisa del comico. Ma bisogna andare più oltre. Le affezioni della gente popolare sono meno riconcentrate, e conseguentemente sono più aperte. I loro caratteri meno artefatti e perciò più facili ad essere rappresentati. L’accento della loro voce più sfogato e vivace, e in conseguenza più musicale. I ridicoli loro più evidenti e più caricati che è lo stesso che dire più acconci a piegarsi sotto la mano di chi vuol imitarli. Tutto ciò deriva dalla eterna providenza di colui che, reggendo con invariabil sistema le cose di quaggiù, mette un perfetto equilibrio fra gli esseri morali, amareggiando col sospetto, col rimorso, colle spinose e tacite cure la condizione de’ potenti schiavi sempre della fortuna e del pregiudizio nell’atto stesso che alleggerisce i disagi involontari del povero colla maggior apertura di cuore, indizio d’un’anima più ingenua, e colla non mentita allegrezza, indizio d’uno spirito più contento.

[23] Per poco che il lettore voglia inoltrarsi nelle idee accennate, troverà dunque che il sistema dell’opera buffa considerato in se stesso è più ferace e più comodo di quello che sia il sistema dell’opera seria per il poeta, per l’attore e per il compositore. Lo è per il primo mercè la gran copia che gli somministra di caratteri o sia di natura imitabile. Lo è per il secondo a motivo della più facile esecuzione sì perché i tratti dell’oggetto rappresentato sono più spiccati e decisivi, come perché ritrova ovunque originali da poter agiatamente studiare. Lo è per il terzo a motivo della ricchezza delle modulazioni che scaturisce dalle stesse sorgenti, e dal non vedersi obbligato ad alterar la natura almeno fino al grado che s’altera e si sfigura nell’opera seria. Imperocché il timore di non slontanarsi troppo dal parlar familiare proprio de’ personaggi che rappresentano, fa che i buffi non si perdano in gorgheggi o cadenze smisurate, e che non facciano uso di quel diluvio di note, col quale inondandosi nella tragedia le arie più patetiche e interessanti, hanno gli altri cantori non so se disonorato o abbellito il canto moderno. E questa è la cagione per cui la musica delle opere buffe è, generalmente parlando, in migliore stato in Italia che la musica seria, e perché per un motivo di quest’ultimo genere che si senta composto con qualche novità e caratterizzato a dovere, se ne trovano dieci nella musica buffa.

[24] Mossi da tali ragioni vi sono di quelli che preferiscono ed amano, e mostrano di pregiare assai più la commedia musicale che la tragedia. E a dirne il vero, quantunque io non gusti nella caricatura dei buffi quel diletto intimo che pruovo nelle lacrime dolci e gentili che mi costrigne a versare una bella musica tragica, e benché per una non so quale disposizione del mio temperamento mi vegga sospinto ad amare nella letteratura tutto ciò che parla fortemente alla immaginazione e alla sensibilità senza curarmi gran fatto di ciò ch’eccita il riso; nulladimeno siccome la prima legge del critico filosofo esser debbe di non istabilire massime generali su casi particolari, e molto meno ritraendole da se medesimo, così, riflettendo ai pressoché incorreggibili abusi dell’opera seria e alla maggiore verità di natura e varietà di espressione che somministra l’opera buffa, concederò volontieri che non deve facciarsi di stravaganza o di cattivo gusto chiunque sopra di quella a questa dasse la preferenza.

[25] Fin qui è vero della musica, e lo dovrebbe essere parimenti della poesia: ma se da ciò che dovrebbe e potrebbe essere vogliamo argomentare a quello che è, resteremo sorpresi nel vedere che non havvi al mondo cosa più sguaiata, più bislacca, più senza gusto di questa. Come la famosa statua di Glauco descritta da Platone, la quale posta sul lido del mare era stata dai flutti talmente battuta e corrosa che non vi si scorgeva né un dio né un uomo ma uno scoglio informe, così i pregiudizi e gli abusi hanno in tal guisa sfigurata quella sorta di componimento che non vi si ravvisa veruna delle spezie appartenenti alla ragione poetica. Per farlo vedere più chiaramente figuriamoci un poco il discorso che tiene l’impresaro coll’autore quando gli raccomanda di scrivere un libretto da mettersi in musica. Esso non sarà tutto di mia invenzione; tale a un di presso è stato fatto anni sono anche a me con un aria di persuasione capace di ottener il suo intento se il Messer Pandolfo, che mel fece avesse trovato il Damone di Boeleau per proselito, o le orecchie di Mida per ascoltatrici. Io toccherò i principali difetti dell’opera buffa riducendoli ad una spezie di teoria.

«I bolognesi, (mi diceva egli) sbigottiti dal terremoto, sono stati gran tempo privi di teatrali divertimenti, il primo adunque che si rappresenterà tornerà in profitto considerabile dell’impresaro. Io ho divisato non per tanto d’aprire a questo settembre uno spettacolo, e voglio che sia nuovo perché il pubblico è ormai ristucco delle anticaglie di Metastasio, di cui (sebbene sia il primo drammatico del mondo) vuolsi fare quell’uso che si fa nelle case dei vasellami d’argento e delle gioie di gran valore, le quali si cavano fuori in una occasione straordinaria, mentre il restante dell’anno s’adoperano altre masserizie più triviali.

«Potrei accomodarmi all’uso corrente d’Italia che è quello di strozzar i drammi di quell’autore, levando via a capriccio il più bello per inserire in sua vece arie e duetti fatti da qualche versificator dozzinale; dal che restano essi così sfigurati e mal conci che più non gli riconoscerebbe il padre che li generò, se per nuovo miracolo di Esculapio tornasse a viver fra noi. Ma non mi piace siffato costume. L’eunucare un povero poeta che non ha fatto alcun male, è crudeltà che ripugna al buon cuore. Il sostituire poi a ciò che a lei manca le altrui fanfaluche o le mie è cosa, che pute un cotal poco di prosunzione.

«Ricorro a voi non per tanto, attendendo prima di tutto dalla vostra discrezione, che non sarete difficile intorno al prezzo. Io ho da pagar somme tanto considerabili ai virtuosi, ai ballerini, al maestro di cappella, ai suonatori, ho da far tante spese negli abiti, nelle decorazioni, nei lumi, nell’affito del teatro e in altre cose che poco o nulla mi rimane per voi. Inoltre le parole sono quello che meno interessa nell’opera e nel caso che voi non vi troviate i vostri convenevoli, ci è una folla di poeti in Bologna che me le venderono a buonissimo mercato. E vedete, se si compone una canzone per cinque paoli, non basterà un paio di scudi per un libretto, il quale alla fin fine val meno assai d’una canzonetta passabile?

«Io vi credo abbastanza istrutto ne’ principi dell’arte drammatico-musicale; nulladimeno siccome trattasi del mio guadagno o della mia perdita, così mi permetterete che vi dia alcuni suggerimenti dai quali non vi dovrete dipartire.

«Non vorrei che il dramma fosse intieramente serio, perché vi vorrebbono troppe spese, né tampoco buffo del tutto, perché si confonderebbe colle opere dozzinali. Vorrei che fosse di mezzo carattere (lo che in sostanza vuol dire che non abbia alcuno) che facesse piangere e ridere allo stesso tempo, che il giocoso entrasse in una lega che mai non ha avuta col patetico, che ad un’aria appassionata tenesse dietro una di trambusto, e che aprisse campo di mostrar la sua abilità alla virtuosa Pelosini, che spicca nel tenero e virtuoso Gnaccharelli, che sostiene la parte di buffo per eccellenza. Non vorrei nemmeno che l’argomento fosse tratto dalla storia; esso diverrebbe troppo serio, né sarebbe buono per altro che per comporre secondo le leggi di Aristotile, le quali nulla han che fare coll’opera: mi piacerebbe bensì che ci entrassero dentro dei cangiamenti di scena e delle macchine in quantità secondo il gusto de’ Francesi. Oh quei Francesi hanno sfiorato il bello in tutte le cose! Oltre che le decorazioni piacciono moltissimo al popolo, io ho desiderio di far vedere una bellissima dipintura d’una prigione e d’un bosco che si trovano nello scenario preso ad affitto.

«Voi altri poeti avete certe regole di stile che vi fanno lambiccar il cervello per tornire acconciamente un periodo. Si dice che v’abbia con i suoi precetti comunicata cotal malattia contagiosa un maestro dell’arte, chiamato Orazio, e che i Greci e i Francesi v’abbiano fornito l’esempio. Quanto a me vi dispenso volontieri dalla eleganza, e se vi piace anco dalla grammatica, insegnandomi l’esperienza che si può senza l’una e senza l’altra riscuoter sul teatro un durevole applauso. Non ha guari che si replicò più di quaranta volte sulle scene un’opera buffa dove un’aria cominciava

“Lei si figuri adesso”

e finiva con uguale proprietà di sintassi

“Lei asino sarà”.

«La vostra malizia applicherà senza dubbio le ultime parole al poeta.

«Ho sentito dire altresì che il ridicolo comico dev’essere cavato dalla esperienza non tratto dalla fantasia, che si devono studiare profondamente gli uomini prima d’esporli sul teatro, che le debolezze di temperamento non i vizi di riflessione, i difetti nati da una stranezza di pensare innocente non i delitti odiosi e nocivi sono la materia propria della scena comica, che questa materia dee rappresentarsi abbellita da un colore alquanto caricato e forte ma non esagerato, con cert’altre filastrocche che voi altri autori dite esservi state prescritte dal buon senso. Ma vi torno a dire che il buon senso non è fatto per noi. Il teatro non ha altra poetica che quella delle usanze, e poiché queste vogliono che deva ognor comparir sulle scene un martuffo con un visaccio da luna piena, con una boccaccia non differente da quella de’ leoni che si mettono avanti alla porta d’un gran palazzo, con un parruccone convenzionale, e con un abbigliamento che non ha presso alla civile società né originale né modello; poiché è deciso che cotal personaggio ridicolo abbia ad essere ognora un padre balocco, od un marito sempre geloso e sempre beffato, od un vecchio avaro che si lascia abbindolare dal primo che gli sa destramente piantar le carote, poiché il costume comanda che per tariffa scenica devano mostrarsi in teatro ora un Olandese col cappello alla quakera che sembri muoversi colle fila di ferro a guisa di burattino, ora un Francese incipriato e donnaiuolo che abbia nelle vene una buona dose d’argento vivo, ora un goffo tedesco che non parli d’altro che della sciabla e della fiasca, ora un Don Quisciotte spagnuolo che cammini a compasso come figura geometrica, pieno di falsi puntigli, ed abbigliato alla foggia di due secoli addietro, poiché insomma tutto ha da essere stravagante, esagerato, eccessivo e fuori di natura, voi mi farete la grazia d’accomodarvi mandando al diavolo quanti precettori v’ammonissero in contrario.

«V’avverto che non dovete introdurre più di sette personaggi, né meno di cinque. Sapete qual carattere devono avere le due prime parti. Al terz’uomo, ovvero sia al tenore, darete carattere sostenuto di padre, di vecchio, di geloso, di mercante Olandese, o di qual più vi aggradi. Se colui che fa la parte del padre ha quindici o vent’anni meno del figliuolo poco mi cale. Il viso acconciamente forbito, il rossetto in buona dose e la lontananza aggiustano ogni cosa. Ma che il rimanente de’ personaggi parli assai poco, imperocché quei che mi sono toccati in sorte quest’anno cantano male. E siccome l’amore è il regno delle donne e l’anima del teatro, così v’avvisarete di fare che il primo uomo sia innamorato della prima donna, e il secondo della seconda; senza codesta legge non ci sarebbe verso di contentar le mie virtuose, le quali vogliono ad ogni modo smaniar un tantino in presenza del pubblico. E poi questi amori o siano principali, ovvero di episodio si confanno mirabilmente col genio della musica. In ricompensa del disagio potrete sceglier i mezzi che più v’aggradino per maneggiare lo scioglimento. Ne fo così poco conto della condotta che nulla mi cale se va piuttosto così che altrimenti.

«Ho la buona sorte di avere un primo uomo dotato di voce snodatissima e leggiera, onde converrà aprirgli campo acciocché brilli al suo talento. Egli ama poco il recitativo, dal che ne siegue che voi dovete essere estremamente laconico a costo ancora di affollare gli avvenimenti, ma si compiace nelle ariette principalmente, in quelle dove si può gorgheggiare come sono le romorose, o che chiudono qualche comparazione. E siccome incontrò una volta assai bene cantando il

“Vo solcando un mar crudele”,

così vorrebbe un’aria lavorata sullo stesso metro e con delle parole consimili. Se non vi vien fatto di lavorarla, come ei vuole, poco importa, attaccheremo quella stessa, e tutto anderà a dovere. Sarà poi mio pensiero far che il maestro vi adatti sopra una musica sfoggiata e pomposa, e affinchè spicchi di vantaggio la di lui abilità, faremo nascere una tenzone musicale fra la voce del cantante e un qualche strumento con botte, e risposte da una parte e dall’altra, che sarà proprio una delizia.

«Vi metterete un solo duetto, il quale, come sapete, appartiene esclusivamente al primo uomo e alla prima donna. Guai se venisse cantato da altri che da loro! Nascerebbe un dissidio poco minore di quello che accese in altri tempi i Geminiani contro ai Petroniani per la Secchia rapita. A fine di schivar le contese fa di mestieri parimenti che tutti i personaggi cantino per ordine le loro ariette incominciando dal primo uomo o dalla prima donna infino all’ultimo, e siccome vorrei che vi si mescolasse il buffo, così non farebbe male un finale dove tutti cantassero ad un tratto. Meglio poi se ci entra nelle parole un non so che di mulinello, di tempesta, di zuffa o di cosa che apportasse gran fracasso. Allora l’orchestra batterebbe fuoco, e gli uditori sguazzerebbero per l’allegrezza. Egli è vero che codesti finali rassomigliano per lo più ad una sinagoga di ebrei anzi che ad un canto ben eseguito, ma nelle cose di gusto non bisogna essere cotanto sofistico.

«Avrete cura di fare che tutti gli attori abbandonino il teatro dopo aver cantato le loro ariette, e che verso la fine dell’atto vadino sfilando a poco a poco. Cotal costume mi piace assai ed è caratteristico dell’opera. Lascio poi in vostra balia il tirar giù a grado vostro l’ultimo atto; basta che sia curto, che non vi si frammezzino arie d’impegno, né decorazioni importanti, e che i personaggi alla perfine si rappattumino insieme così che ogni cosa fornisca amichevolmente. Mi direte che ciò non si conviene, e che anzi l’ultimo atto dovrebbe essere il più vivo e incalzante. Ma coteste sono sottigliezze dell’arte, nelle quali non me ne intrico. Quello ch’io so è che, fornito il secondo ballo, l’uditorio va via, e che i suonatori e virtuosi non vogliono più faticare.»

[26] Con tali principi, su quali s’aggira in pratica tutto l’edifizio dell’opera buffa, non è da maravigliarsi se i lettori non degnano di gettare uno sguardo sul libretto, se il poeta da sovrano, quale dovrebbe essere, è divenuto ligio, e se va a soqquadro ogni cosa. Da questa proscrizion generale vanno esenti pochissimi scrittori. Se Girolamo Gigli e Goldoni hanno fatta in questo genere qualche composizione passabile, il loro merito è comparativo, e non assoluto. Essi non devono confondersi tra i Bavi o i Mevi, ma qual distanza fra loro e gli Aristofani o i Terenzi? Ma se l’Abate Casti applicherà a siffatti lavori la sua vivace imaginazione, il suo talento pieghevole e il suo stile agiato e corrente (cercando però di rammorbidirlo alquanto secondo i bisogni della melodia, e mettendo un poco più di contrasto e di forza nelle situazioni e nei caratteri) avrà egli fra poco la gloria di regnare senza rivali sul teatro buffo italiano. Mi fanno pensare in tal guisa il Teodoro re di Corsica, e molto più la Grotta di Trifonio, due commedie musicali di questo poeta che si sono rappresentate nell’imperial corte di Vienna e che ci fanno desiderare di vederne sortire altre molte dalla stessa penna.