(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Capitolo decimosettimo, ed ultimo »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Capitolo decimosettimo, ed ultimo »

Capitolo decimosettimo, ed ultimo

Tentativi di riforma nel melodramma. Lettera d’un celebre letterato francese che contiene l’idea d’un’opera eccellente da farsi intorno alla musica.

[1] Tal è lo stato presente del dramma musicale italiano quale noi finora l’abbiamo descritto nel presente volume, e ne’ due ultimi capitoli del secondo. Il nostro divisamento è stato d’inoltrarci nella natura del gusto dominante, di risalire fino alle cagioni degli abusi, d’indicare paratamente i rimedi, e di ridurre la musica, la poesia, il ballo, e gli altri rami appartenenti a cotesto delizioso spettacolo a quella semplicità, e a quella verità d’espressione, alle quali dovrebbono aspirare tutte quante le arti imitative per conseguire pienamente l’effetto loro. Siccome lo scopo di quest’opera era di parlare principalmente dell’arte, e sol per incidenza degli artefici: così non s’è creduto opportuno il far menzione di tanti professori o passati o viventi, i quali, comecché meritino un qualche elogio per la loro abilità, non hanno però contribuito al miglioramento dello stile, o alla perfezione della musica. A maggiore e più compita illustrazione della materia io aveva pensato d’aggiugnere alcune riflessioni intorno alla storia della tragedia e della comedia italiana, e intorno all’influenza che deve avere sull’indole dello spettacolo lo stato attuale civile e politico dei costumi della nazione; ma i consigli di qualche amico illuminato e sincero m’hanno fatto cangiar opinione mostrandomi esser inutile il trattar brevemente di queste cose, e sconvenevole il trattarle alla lunga in up’opera che ha tutt’altro fine ed oggetto. Tanto più che l’Italia avrà fra poco il piacere di leggere le vicende dei due mentovati rami della drammatica esposte con molta erudizione e criterio nella Nuova Storia de Teatri che si va preparando in Napoli da un mio cortese e gentile amico, il Dottor Don Pietro Napoli-Signorelli, degnissimo segretario di quella Reale Accademia; della quale opera benché nulla abbia io veduto finora, ho però diritto di giudicarne anticipatamente e pel talento dell’autore di già conosciuto in altre sue stimabili produzioni, e per lo studio che attualmente vi pone nell’arricchirla di scelte ed opportune notizie. Per ciò che riguarda il secondo argomento vi sarà luogo a più ampiamente e più di proposito dilucidarlo in un altro libro di cui nella nota qui apposta troverà per ora il lettore una brevissima idea186.

[2] Altro non resta dunque per compiere l’intrapreso lavoro che il parlare dei mezzi imaginati da alcuni celebri autori per ricondurre la musica e la poesia drammatica al grado di perfezione, del quale la filosofia le credè capaci; perlochè m’è sembrato opportuno l’inserir per intiero una lettera del Sig. d’Arnaud, stimatissimo scrittore francese, che può chiamarsi un capo d’opera nel suo genere per l’eccellenti riflessioni e per le viste utilissime che racchiude concernenti la filosofia della musica e delle arti rappresentative. Essa è diretta ad un celebre letterato della sua nazione, e contiene l’idea d’un’opera da eseguirsi intorno alla musica, ma che per isventura della filosofia e del buon gusto non è stata finora intrapresa. Essendo la suddetta lettera divenuta rarissima anche in Francia ho creduto di non poter meglio terminare l’opera mia intorno al teatro musicale che dandola tradotta a’ lettori italiani, e corredata con alcune mie note a maggior illustrazione dell’argomento. Al vantaggio non mediocre che gli amatori illuminati di siffatte materie potranno cavare da tal lettura s’aggiunge ancora un conforto non debole per il mio amor proprio quello cioè di trovare gran parte di quelle idee sparse nella mia opera, che da alcuni imperiti sono state riputate insussistenti, avvalorate dall’autorità d’uno scrittore non meno rispettabile per la sua filosofia che per la sua critica, e la sua erudizione.

Lettera sopra la musica indirizzata al Sig. Co. di Caylus e stampata l’anno 1754

Signore,

[3] L’opera mia ha per oggetto la musica. Quell’arte deliziosa, che i saggi dell’antichità risguardavano come il dono più grande che gli dei avessero fatto agli infelici mortali, formò mai sempre la passione delle anime bennate, e divenne insieme lo scopo delle meditazioni, e delle ricerche de’ più illustri filosofi. Né ho difficoltà di asserire che fra tutte le materie questa è forse quella intorno alla quale gli uomini si sieno vieppiù esercitati. Ma da una banda il maggior numero di coloro che hanno professata quest’arte l’han considerata non altramenti che s’ella fosse una cosa di puro istinto e d’abitudine, ned hanno rivolto l’ingegno loro se non se a considerare la sua parte grammaticale, di cui ci esposero soltanto gli elementi; dall’altra poi i filosofi a niente badarono fuorché alle varie combinazioni de’ suoni fra loro, cioè a dire alla sua parte scientifica. Quanto a me, senza imbarazzarmi in una teoria, in ogni arcano della quale credo impossibil cosa il penetrare, sono d’avviso che guardar si possa la musica sotto un altro punto di vista ancor più vantaggioso de’ primi. Si sono finora limitati gli uomini ad insegnarci l’accozzamento de’ suoni, a ordinar de’ concerti, a conoscere i moti e le misure anzi che a darci a divedere le differenti energie di essa, a indicarci le forme particolari, alle quali la musica deve la sua possanza di commovere, e di dipingere, e ad illuminarci finalmente intorno all’uso che di tali forme dee fare chiunque voglia ottenere il suo intento. Noi abbiamo sopra l’archittetura, la pittura, e la poesia de’ trattati analitici ripieni di precetti e d’esempi, e la musica, quella di tutte le belle arti che più ci commove, quella che ha maggior imperio sugli animi nostri, è l’unica facoltà a cui niuno, ch’io sappia, ha prestato per anco il servigio medesimo. E siccome gli obbietti d’imitazione nella musica sono infinitamente più moltiplicati e molto meno costanti e sensibili che gli obbietti delle altre arti, avendo essa di più il privilegio di poter piacere anche allor quando non ottiene il fine di acconciamente imitare gli oggetti, così fa d’uopo convenire essere oltre modo difficile l’analizzar bene questa facoltà. Per altro l’abuso sorprendente che di tali obbietti fanno i più degli artisti, i quali non gli adoperano le più delle volte fuorché ad abbellire i capricci della loro fantasia, ne ha in tal guisa sformati i lineamenti, e confasi i caratteri, che si credette impossibile il ravvisarli. Pure a ciò sono diretti i miei tentativi. Io presento a’ musici la rettorica della musica, e quest’è l’oggetto mio principale. Dico così perch’io imprenderò a trattare lungamente della musica degli antichi, e di quanto ha relazione con essa. Confesso però ch’io debbo l’idea della mia opera, e i migliori mezzi onde sarà eseguita allo studio per me fatto della loro musica e in un della poesia loro. Quando si parla o si scrive sopra le belle arti, si sono giammai consultati gli antichi senza ritrarne gran frutto? Egli è vero bensì che la via d’intenderli bene e di gustarli non è tanto quella della discussione, e dell’analisi, quanto quella del gusto, e d’un certo tatto squisito somministratoci dal sentimento. Pare che que’ grand’uomini vogliano essere conosciuti nella guisa stessa ch’essi conobbero la bella natura. Io non riguardo adunque la musica, se non come un’arte imitativa ricercando e mettendo dinanzi agli occhi i mezzi, ch’ella pone in opera per riuscire acconciamente in tale imitazione. E a fine di procedere col miglior metodo che per me si potrà nella lettera che mi dò l’onore d’indirizzarvi, io mi farò imprima a scomporre la musica, e ne esaminerò in seguito separatamente le parti principali cioè il ritmo, la melodia, e l’armonia. Non già ch’io adotti questa divisione nell’opera mia. No, mio Signore, egli è impossibile il ridurre tutte le parti di essa a questi capi generali. Dopo molti e molti riflessi mi sono anzi avvisato che non potrei trattarla felicemente se non se dividendola per capitoli, giusta l’esempio delle istituzioni oratorie di Quintiliano.

[4] Gli antichi consideravano il ritmo come la principal parte della musica. Qui non cade in acconcio l’esporvi, o Signore, i differenti significati che gli autori più antichi e que’ de’ secoli posteriori attaccavano a siffatta parola. Allorché noi sappiamo indubitatamente che la musica loro era rigorosamente soggetta alla quantità, d’altro non abbiam d’uopo che di por niente al meccanismo della loro poesia per fissare insieme l’importante e vera forza di tal termine. E di ciò appunto io ne feci serio esame. A tutti è noto che il più bello e più squisito artificio della versificazione greca e latina consisteva nella combinazione delle sillabe brevi e lunghe. È palese ancora che le parole atte a formare la misura propria di ciascuna spezie di versi furono chiamate piedi o numeri secondo il maggior o minor numero di sillabe di che eran composti. I grammatici, i retori, i poeti ed i filosofi ancora han disaminate le varie proprietà di questi piedi e di questi numeri: e comecché una pronunzia esatta basti per farci sentire l’indole diversa, e le peculiari energie di tai piedi o numeri, pure ho creduto di poter dare un’idea di essi ancor più precisa e più chiara trasferendoli alla musica per modo che il valore d’ogni nota corrispondesse perfettamente a quello d’ogni sillaba. Con questo metodo così semplice ho veduto operarsi i più meravigliosi effetti. Il trocheo al dire degli antichi grammatici è un piede saltante, leggiero, pieno di forza e di nobiltà; cosicché noi leggiamo in Aristotile 187 che quando la tragedia era un’intreccio di canti e di danze rusticane eseguite da un coro di bifolchi si adoperava in essa il verso tetrametro, il quale è composto di trochei. Ora una serie di questi medesimi piedi m’ha espresso il movimento proprio di gran parte delle nostre contradanze, e in particolar modo delle da noi chiamate “gavotte” e “vaudevilles”. La grandezza e dignità dello spondeo, che Platone voleva che fosse consecrato ai canti religiosi, m’ha tornato in mente la sinfonia preliminare, e l’accompagnamento dei bassi del Juravit Dominus di Lalande, e l’apertura del suo Exurgat Deus, composizioni alla cui maestosa e sublime semplicità non potrebbero arrivare giammai li più studiati raffinamenti. Valerio Massimo 188 ci riporta che i Lacedemoni correano animosi alla zuffa, allorché i loro bellici strumenti facevano sentire l’anapesto; e difatti mercé la veemenza e l’impeto di questo piede Tirteo riaccese negli animi loro il valor guerriero, che da molte reiterate perdite era quasi spento del tutto. I nostri artisti se ne prevalgono ognora ne’ canti bellicosi, e il Signor Rameau, benché non avesse posto giammai attenzione al passo di Valerio Massimo, pure m’ha confessato egli stesso che fa toccar di continuo l’anapesto in quelle sinfonie dove cerca di esprimere, imitandolo, il canto sublime e vigoroso di Tirteo. Il giambo è vivo e pieno di fuoco, ed ha quindi il primo luogo ne’ soggetti ardenti ed appassionati. Lo stesso m’è venuto fatto d’osservare in tutti gli altri piedi da me indicati, ed ho ravvisato con piacere (e meco l’hanno parimenti ravvisato i più dotti artisti e gli amatori dell’arte, ai quali comunicai le mie esperienze) accordarsi esattamente l’osservazioni degli antichi colla natura, e gli esempi miei colle osservazioni degli antichi.

[5] Io debbo qui avvertire, o Signore, che la legge della quantità, alla quale s’assoggettavano i musici, non li costrigneva talmente che non potessero allontanarsene un cotal poco. Quintiliano osserva esser doppio il rapporto della breve e della lunga, e corrisponder la lunga ora a due brevi, ora a più di due, ora ad una breve e mezzo soltanto. Egli soggiugne in appresso esservi dei monosillabi assai più lenti e più tardi gli uni degli altri, e ad esempio ci addita le parole “stant tristes”; ove, come si scorge, il monosillabo “stant” esige una pronunzia più lenta e più durevole che in queste “stant acies”. Leggesi ancora nel medesimo autore (IX. 4.), che vi ha delle sillabe lunghe più lunghe delle une e dell’altre, e così delle brevi più brevi; “pallentes” per esempio, e “divini” sono del pari composte di tre lunghe: ad ogni modo e chi non s’accorge che la prima parola va più lentamente della seconda? Perlochè a questo corso più o meno rapido, più o meno lento de’ medesimi piedi io ho attribuita la principal cagione dell’estrema varietà e dell’irregolarità frequente del ritmo della musica antica. Io non poteva far conoscere a nostri musici tutti i mezzi che il ritmo appresta per l’imitazione, né poteva tampoco indicare la corrispondenza delle misure impiegate dagli antichi con quelle onde noi ci serviamo, senza metter in chiaro lume questa parte della loro musica onde mi sono inoltrato con tanto più impegno quanto più sapeva nulla essersi scritto finora di concludente su tale proposito, e M. Burette medesimo essere malgrado la sua perspicacità e l’estesa sua erudizione incorso in grandissimi abbagli. Né mi dimenticherò di riflettere che ogni sorta di misura ha l’energia sua propria, e che siffatte energie non ponno trasferirsi, scomporsi, o simplificarsi, ove non se ne alteri l’espressione. Del che tenterò accuratamente di spiegar le ragioni, e soprattutto d’avvalorarle cogli esempi onde sieno meglio intese; giacché molte di tali sensazioni si devono collocare nel novero di quelle percezioni indistinte, che noi proviamo spesso senza poterle valutare, e quasi senza conoscerle. La musica dice, M. Leibnizio 189, non è a molti riguardi che un calcolo oscuro e secreto che l’anima fa senza esserne consapevole190.

[6] Da quanto ho l’onore di dirvi, o Signore, ne viene che gli antichi non ebbero il costume d’affastellar più note intorno ad una stessa sillaba, e che non conobbero punto le prolazioni191. Noi all’opposto ci approfittiamo talmente della libertà che ci lascia la troppo ignorata prosodia delle nostre lingue, che spezzando e ognor più accorciando i nostri suoni indeboliamo di giorno in giorno quella parte della espression musicale, ch’è fuor d’ogni dubbio la più vigorosa. Io voglio adunque persuadere a’ nostri musici quanto lor monterebbe di conoscere il meccanismo della loro lingua, e segnatamente di rivolgere l’attenzion loro all’energia de’ piedi onde ogni parola è composta. Io addito loro i moltissimi vantaggi che ne trarrebbono da questo studio. E primieramente mercè la scelta e il giudizioso intreccio di tali piedi, e di tali numeri essi perverrebbero a fissare, e a determinare l’espressione vaga, e sovente difettosa delle lor sinfonie. Mi farò in oltre a svegliare la loro emulazione mostrando il grado di perfezione a cui essi potrebbero inalzare la nostra lingua. La greca, che per la sua bellezza meritò d’essere considerata come l’opera degli dei, altro non fu che l’opera de’ musici. Del resto io son ben lontano dall’escludere tutte le prolazioni. Servono esse talora a creare di novelli sentimenti, e delle imagini novelle, nel qual caso sono da commendarsi assaissimo. Né intralascierò di indicare i luoghi ove queste suppliscono in un modo vantaggioso e superiore ancora ad una delle maggiori bellezze della lingua greca, voglio dire all’onomatopea, di cui Quintiliano ne fa tanto conto, che si lagna forte perché la lingua latina non ne sia abbastanza doviziosa. La nostra ci fornisce pur troppo pochissimi esempi. Porrò fine facendo di passaggio un qualche motto della lunga controversia che durò sì lungo tempo tra gli eruditi, e che non può ancora dirsi spenta intorno alla natura degli accenti. Isaacco Vossio e il Padre Montfaucon furono di parere che non si potesse riflettere a questi nella pronunzia senza distruggere l’armonia del verso. Cosiffatti segni, l’istituzione de’ quali è posteriore d’assai alla bella età della lingua greca, non furono inventati se non per fissare i suoni di questo linguaggio veramente musicale in occasione che gli stranieri erano avidi d’impararlo considerandolo come il primo passo inverso la scienza e la coltura, e non già per alterare la quantità delle sillabe a cui erano apposti. Puossi pronunziare, e si pronunzia di fatti ognora una sillaba più alta e più bassa, senza che v’entri per niente la sua quantità, ed io non capisco il perché la maggior parte degli eruditi s’ostinano a slungare una sillaba che sarà breve di sua natura, ove unicamente sarà segnata con accento acuto; gli è questo un opporsi tutto ad un tratto al sentimento ed alla ragione distruggendo la bellezza principale, e l’artifizio il più felice della greca versificazione. Per quanto siasi beffato il celebre Erasmo dei sapienti del suo secolo192, i quali confondendo in tal guisa i suoni coi tempi s’erano dichiarati in favore di questa difettosa pronuncia, ad ogni modo essi hanno avuto de’ successori, coi quali vengo alle prese, e oppongo loro delle ragioni invincibili, e senza replica cavate dalla cognizione della musica. Oltracciò le riflessioni da me fatte sopra il ritmo m’hanno naturalmente portato a dedurne delle altre intorno al meccanismo delle lingue, al loro genio, e al loro carattere. Avvegnaché vi sieno dei filosofi, i quali sostengono che parlando a rigore non avvi lingua alcuna che possa dirsi superiore ad ogni altra, e che le diverse qualità degli idiomi essendo puramente arbitrarie e dipendenti dai costumi, dagli usi, e dal carattere dei popoli non contengono cosa che meriti una preferenza esclusiva: io porto ciò nonostante opinione che sebbene le lingue sieno strumenti arbitrari e fattizi delle nostre idee, niente di meno questi strumenti ponno essere, e sono in realtà più aspri o più dolci, più lenti o più rapidi, più deboli o più forti gli uni degli altri. Prescindendo da ogni pregiudizio il suono d’un flauto è più dolce di quello d’un tamburo… Ma io non m’avveggo che qui mi fo a sviluppare le cose, quando voi non m’addimandate che un semplice abbozzo. Prima di passare alla melodia permettete, o Signore, ch’io ragioni un poco de’ modi della musica antica, che non differivano dalle nostre modulazioni. A dir vero noi ci sforziamo a rendere di giorno in giorno più giuste le inquietudini de’ saggi, i quali gridano contro alla decadenza del gusto. L’idea delle proprietà, e di caratteri insensibilmente dileguasi, e poco manca che le lettere e le arti non ricadano in quella confusione onde furono tratte dai riflessivi nostri antenati per opera appunto di coloro, la fama, e il grado de’ quali sembra che renderli dovesse non i distruggitori ma i sostenitori del decoro delle arti e delle scienze. S’è già posto in obblio avere la tragedia un diletto proprio di essa, e non comunicabile agli altri generi, come più non si pensa che il ridicolo è l’anima e il fondamento della commedia 193. Noi ci promettiamo de’ nuovi e più squisiti piaceri allor che ne infettiamo le sorgenti, e ne confondiamo la diversa natura. Quello che parla all’imaginazione, che ne ricrea lo spirito, e lo sorprende, quello che porta seco un certo carattere di novità, e di singolarità è accolto e gustato contrasporto, e quasi direi con delirio. Ma basta egli che piaccia una cosa, perché debba essere accolta ed applaudita? E non fa egli d’uopo che il piacere che se ne ritragge, conciliar si debba colla ragione? Altrimenti cosa diremo a coloro che preferiranno l’archittetura de’ Goti e de’ barbari a quella de’ Greci e de’ Romani, il poema di Lucano a quello di Virgilio, e le tragedie di Seneca a quelle di Sofocle? Gli antichi conobbero molto meglio il pregio della bellezza. Voi sapete fino a qual segno la tennero in considerazione. Non sì tosto la scopersero che si fecero un religioso divieto non dico di corromperla ma persin di metterla fuori di luogo; cosicché ne’ templi ch’essi ergevano agli dei, non solo faceano mostra delle più belle proporzioni, ma applicavano ad ogni divinità l’ordine che più s’acconciava al suo carattere. Il dorico pien di forza e di maestà fu consecrato a Giove sovrano degli dei e degli uomini, il corintio che spira eleganza e dilicatezza fu destinato a Venere madre degli amori e delle grazie; e quest’attenzione ch’essi mettevano universalmente nella pratica di tutte le arti, la portarono con la scrupolosità la più grande alla musica. Ogni soggetto avea il suo modo, da cui era disdetto l’allontanarsi. Aristotile dopo aver notati i differenti generi di musica soggiugne che ognuno di questi avea un modo e un’energia sua propria, e che il carattere dell’uno non si affacceva all’altro. Platone paragona una vita menata in mezzo a’ disordini ad una melodia ove entrasse alla rinfusa ogni maniera di ritmo. E ciò mi torna a mente un tratto singolare, che mi fia permesso di farvi noto. L’anno 1751, alcuni musici ottennero dal re il permesso di formare un’Accademia di musica a Parigi, ma per quanto dilettosa ella si fosse, non essendo né diatonica, né cromatica, ned enarmonica, ma piuttosto un intreccio confuso di questi tre generi194, e ciò ch’è più, discorrendo questa per diversi modi in uno stesso soggetto, il presidente Dudrac e tali altri membri del Parlamento deputati all’esame di simile novità la riprovarono e la bandirono con particolare decreto. Mi sarebbe lecito di avventurare una riflessione intorno ad una condotta così singolare? Questi magistrati temettero senza dubbio riguardo a’ costumi de’ Francesi que’ tristi effetti che Platone presagiva a’ costumi de’ Greci, ove eglino permettessero che il disordine, la confusione, ed anche il solo cangiamento entrasse nella loro musica195. La lettura di Platone formava l’occupazione e le delizie de’ sapienti di quel secolo, e le inquietudini del filosofo ateniese dovettero fare vie maggior impressione nel cuore de’ magistrati avendo l’agio di osservare in Plutarco, in Dione, e in Massimo di Tiro, che la decadenza della musica de’ Greci seco trasse anche quella de’ loro costumi. Ma tornando a noi, la musica de’ Greci fu nella sua origine in tal modo semplice che ogni strumento non avea che un modo solo196. E questo ci rende ragione della quantità prodigiosa de’ loro strumenti, e in un ci scopre come essi giunsero a formarsi delle proprietà e de’ modi un’idea così ben fondata che giammai li confusero insieme. Io so che rigorosamente parlando v’hanno due modi, il maggiore e il minore: e contuttociò un pezzo di musica d’un genere grande rimane tanto sfigurato, ove si voglia trasportarlo ad un’altro genere quanto resterebbe un opera di gusto trasferita da una in un’altra lingua. Di ciò non può dubitarsi in verun conto. Sì: ogni modo o modulazione ha la sua energia, la sua proprietà; ed è talmente vera questa proposizione che non havvi suono il quale ne sia privo. E se i musici si mostreranno ritrosi nell’accordarmela, io dimanderò a loro donde nasca ch’essi tutti spinti da un senso interiore impieghino i re maggiore ne’ canti romorosi e bellicosì, l’ut minore ne’ soggetti teneri e lamentevoli, e il fa minore nelle cantilene tetre e lugubri? Or io esorto appunto i nostri compositori a non confondere le proprietà de’ modi da loro impiegati, a rintracciarne quelli ch’essi trascurano, e a porli in opera acconciamente. Per riuscirvi non si avrebbe mestieri che di prescrivere un tuono, e di fissarlo per tutti i concerti dell’Europa. Tal mezzo non potrebbe essere più semplice, e più vantaggioso insieme. In cotal guisa ci verrebbe fatto di comprender lo spirito, e la verità dei diversi componimenti che dovrebbono eseguirsi; i nostri organi acquistarebbero un’aggiustatezza più decisiva e costante, e la nostra perspicacia in distinguere e separare la natura d’ogni modo s’adopererebbe con maggiore avvedutezza, e con sicurezza maggiore. Potremmo eziandio comparare allora i nostri tuoni con quelli degli antichi, e venirne a capo, avvegnacchè io non possa convenire con M. Vallis, il quale pensa che il nostro minore risponda al modo dorico affaccendosi assai poco la gagliardia e la maestà che attribuivano a questo modo gli antichi, alla molle dolcezza del nostro “A-mi-la”. Del resto s’io rivolgo il pensiero alla severità della musica antica, non perciò pretendo di ristabilirla; voglio bensì che il musico conduca un medesimo soggetto per diverse modulazioni, purché queste rendano più interessante e più forte l’espressione, e che innanzi ad ogni altra cosa abbia egli in vista d’afferrare quella giusta ed adeguata misura, fuor della quale fuggono, e a così dir, si dileguano tutte le bellezze di quest’arte. Quanti pezzi sublimi non languiscono e non restano impiccioliti o per isregolatezza di fantasia, o per la smania di mostrare spirito e profondità! L’imitazione è un solo tratto, un punto, a così dire, ove l’arte e la natura si uniscono e si prestano vicendevolmente abbellimento ed aiuto. Ben avventurato l’artista che sa coglierlo! E più felice ancora colui che dopo aver toccato il segno, non lo lascia smarrire di nuovo!

[7] La melodia è un campo feracissimo di osservazioni, ma io non farò che sbozzarne i principali caratteri. Definisco la melodia in generale, o quello che noi chiamiamo “un bel canto” una tessitura di suoni omogenei e proporzionati che hanno un intimo legame fra loro, e ch’esistono in qualche guisa da sé. E siccome giusta l’osservazione de’ veri filosofi il canto in ogni lingua debbe essere sì vario come lo è l’accento naturale, (poiché altrimenti ciò ch’esprimerebbe bene una passione in una lingua, la esprimerebbe male in un’altra) così io soggiungo che codesti suoni debbono essere conformi a quelli di cui abbonda il linguaggio della nazione. Distinguo la melodia libera da quella che non lo è. La melodia libera, la strumentale a modo d’esempio può scorrere a suo grado per tutte le idee musicali che si vorranno, e per quanto vaga e indeterminata sia la sua espressione, purché riesca grata ed uniforme al gusto generale ella ne ha sortito l’intento. Non avviene lo stesso della melodia obbligata, o vocale. Abbia questa tutte le bellezze e le ricchezze possibili, pure può essere difettosa oltre modo; e di fatti lo è sovente. Imperocché essendo una seconda espressione de’ sentimenti e delle imagini che si ricercano, essa non debbe essere toccante, viva, allegra, maninconica, dolce e terribile, se non quanto lo permettono le parole197. Onde può rilevarsi a qual segno monti a nostri compositori il fare uno studio serio e profondo non solo delle differenti proprietà de movimenti e de’ modi, ma ancora di quelli de’ suoni; studio che gli antichi aveano molto a cuore, e che caldamente raccomandavano ai principianti, come la parte della musica la più utile all’eloquenza e in cui mostrerò a qual grado di perfezione essi salirono.

[8] Io applico alla melodia quel riposo di cui son tanto gelosi i pittori e gli architetti. La mancanza di questo induce dell’imbarazzo, e del disordine in tutte le parti, e per esso nella musica lo spirito gode del canto presente di quello che lo ha preceduto, e si accorge in certa guisa del canto che dee venire in appresso. Bellezza inestimabile e negletta per disavventura dalla maggior parte de’ nostri artisti anche più celebri. Io osservo che nella musica più che in ogni altra arte v’ha de’ luoghi che si dovrebbero trascurare, o levar via del tutto, imperocché quanto più un’arte è dilettevole, altrettanto è vicina a generare la sazietà. Bacone, e insieme Leibnitzio, hanno giudiziosamente notato che il merito principale delle dissonanze è di preservar l’anima dalla noia insopportabile d’una continua e non mai interotta dolcezza. Io farò che tutto ciò comparisca più evidente per mezzo di esempi; e siccome non parlo a prima giunta che della sola melodia francese: così li traggo dalle opere de’ nostri più rinomati autori. Poscia mi rivolgo al canto italiano, il quale giusta la definizione per me data innanzi della melodia, e giusta le osservazioni ch’io farò su d’esso trattando dell’analogia del canto colle lingue, debbe così differir dal nostro, come l’accento, le inflessioni, il meccanismo della lingua, e i costumi degli Italiani differiscono dalla prosodia, dai costumi, e dal genio de’ Francesi. Porrò a confronto ciò ch’han detto della musica italiana alcuni personaggi ragguardevoli per la varietà e l’ampiezza delle loro cognizioni, con quello che ne han pensato i più grand’uomini dell’Italia 198, e tenterò infine di scoprire le cagioni della sua seduzione, e della sua magia, mostrando che la monotonia di cui noi l’incolpiamo deriva meno dall’uniformità dei tratti, delle combinazioni, e dei riposi del nostro canto che dall’uniformità del suo andamento. Soggiugnerò che le forme del canto italiano non sono né più abbondanti né più varie di quelle del nostro, ma che la musica italiana debbe in gran parte l’interesse e l’incanto ch’ella produce, al contrasto che v’è fra la maniera secca e quasi direi urtante del suo recitativo colle grazie e colle dolcezze dell’aria199. Farò ravvisare ad un tempo stesso l’intreccio felice de’ suoi modi, la finezza de’ suoi passaggi, la bellezza de’ suoi episodi uniti mai sempre al soggetto, e sopra ogni altra cosa l’artifizio ammirabile con cui sono sviluppati i motivi. Mi fo lecito d’assicurarvi, o Signore, che trattando siffatta materia, io cercherò di farlo con quel candore e con quella imparzialità che si richiede da chi ama e tiene in pregio il bello, ovunque lo ritrova. A me piace fuor di modo la musica italiana, ma non perciò voglio rassomigliare a quegli amanti appassionati che adorano fino i difetti delle loro belle200. I dotti i più giudiziosi e più illuminati dell’Italia traveggono de’ difetti e de’ vizi nella lor musica, e perché dunque ci faremo noi coscienza di osservarli entrando nel medesimo loro sentimento? Del resto, perché la poesia italiana è dotata d’un’arditezza maggiore, perché ha più di spirito e di brio che non la nostra, perché abbonda di tuoni più felici fa d’uopo perciò avvilire la poesia francese? Ma a miglior agio riserbiamo cotale riflessione, e vegniamo intanto all’armonia.

[9] Il maggior numero dei dotti che hanno penetrato più addentro in questa parte della musica, vuol concordemente che fosse sconosciuta agli antichi. Il Signor Burette fra gli altri ha esposta quest’opinione con un’erudizione così profonda che parve non lasciar più adito alcuno a chi volesse sostenere il sentimento opposto; ma per quanto rispetto io porti alla memoria di questo sapiente accademico non posso aderire ciecamente al giudizio di lui. Ho letto le opere sue colla possibile attenzione, e in mezzo al grande apparato di dottrina, onde avviluppa, e involge i suoi pensamenti v’ho tuttavia rilevato delle dubbiezze, delle oscurità, delle contraddizioni, e degli sbagli. Ardisco adunque di ravvivare la disputa che sembrava conchiusa da lui, e reco a pro dell’opinion mia una folla di passaggi, dai quali sfido chiunque a trarne un senso favorevole ove non suppongasi la cognizione, e l’uso dell’armonia presso agli antichi. Io convengo nientedimeno che le nostre idee su tale proposito sieno di gran lunga superiori alle loro cognizioni. L’arte delle fughe, delle imitazioni, dei disegni opposti e in contrasto fra loro, quel concorso di dissonanze, quelle ardite combinazioni, tutto era ad essa nascosto: ma queste ricchezze che stan così bene che nulla più alla musica istrumentale, non convengono per niente alla vocale. Io distinguerò i luoghi di cui l’uso savio e moderato reca nuovo abbellimento e nuovo vigore all’espressione, da quelli che non servono ad altro che a procacciar fama di scienziato al compositore. Cercherò di render note le particolari energie degli accordi risguardati dalla parte delle proporzioni, e non già relativamente ad alcun oggetto. Passerò in appresso all’armonia di situazione ovvero sia di carattere, e la ravviserò come quella corrispondenza di mezzi, che adoprano tutte le arti imitatrici cogli oggetti che devono da loro imitarsi. In tali circostanze i suoni meno atti ad unirsi insieme, gli accordi i più disparati, e più aspri si cangiano in altrettante bellezze squisite e sublimi. Di tal maniera i piaceri dello spirito e della ragione devono preferirsi a quelli de’ sensi. Io parlerò poscia delle più intime squisitezze dell’armonia, e di tutti i mezzi ch’essa ci offre per l’imitazione. Osserverò soprattutto quanta diligenza vi si debbe prestare per non esporsi a quelle gratuite ripetizioni che il senso delle parole non vorrebbe, e che s’adottano soltanto pel bisogno di afferrar di nuovo le prime modulazioni.

[10] Dopo che vi ho accennati, o Signore, e sviluppati per quanto ad un estratto si conviene, i mezzi, onde si prevale la musica per giugnere al suo scopo ch’è l’imitazione, vengo al più importante oggetto dell’opera mia, ch’è l’imitazione medesima. Questa si rappresenta alla mia mente come il principio universale di tutte le belle arti, la cui natura, e le cui proprietà non potrebbero alterarsi per quanto fossero differenti fra loro i mezzi, e lo strumento, e le vie prese da ciascuna delle arti per riuscirvi. Io fo qualche motto in appresso del mezzo principale, onde si valeva la poesia antica a compiere la sua imitazione. Essa giusta il parere dell’Ab. Fraguier otteneva ciò mercè quella misura invariabile composta di differenti parole, la modulazion delle quali variavasi all’infinito. Ma come quest’illustre accademico s’era egli dimenticato che Platone e Aristotile non han giammai dichiarato essenziale al poema il verso? Tali altri fondano l’essenza della poesia nelll entusiasmo, ma (parliamo di buona fede) l’entusiasmo è egli mai il carattere esclusivo della poesia? Si rinviene egli mai presso agli antichi la menoma prova, la più picciola conghiettura di siffatta opinione? Essi ci rendono consapevoli all’opposto che l’opere di Empedocle, di Parmenide, di Nicandro, e di Teognide, comecché fossero scritte in versi, pure non furono giammai comprese nel numero de’ poemi, non perché loro mancava l’entusiasmo, ma perché era da loro sbandita la finzione. Egli è non pertanto indubitabile che col mezzo della finzione e della favola, la poesia antica formava la principal sua imitazione, ed è perciò che gli antichi l’hanno mai sempre risguardata come l’essenza della poesia201.

[11] Coloro che non abbracciano siffatta opinione ricorrono all’autorità de’ Latini, ma non s’avveggono che questi non aveano e non doveano aver nemmeno della poesia la medesima idea che i Greci, i poeti de’ quali furono i primi teologi, i primi legislatori, ned altro fecero che comunicare alla loro nazione la sapienza ch’essi ritraevano dagli Egiziani unita alla maniera di metterla in opera. I più degli autori moderni che han trattato di tale materia, anzicchè svilupparla e rischiararla l’hanno involta in maggiori tenebre, e confusione; lo che nacque dal non avere studiata accuratamente l’origine, e il genio della poesia antica. La semplice filologia non giugnerebbe mai a dilucidare queste materie. Siccome essa non si propone che di cucire, e tessere insieme de’ testi separati capevoli di varie interpretazioni, sui quali può ognuno profferire il proprio giudizio; così d’ordinario non fa che moltiplicare inutilmente i trattati, e i sistemi. Io ho voluto tanto più applicarmi all’esame di questa parte quanto più vedeva l’affinità di essa col mio soggetto, sendochè il canto era inseparabile dalla poesia degli antichi, appo i quali l’arte di comporre in versi era secondo l’Abate Vatry l’arte d’unire delle parole acconcie ad essere cantate, com’io proverollo più a lungo parlando della loro declamazione. Quindi io ritorno ai mezzi che la musica adopera per imitare, e dopo averli esaminati separatamente, osservo come tutti insieme concorrono a formare una buona imitazione. Vengo in appresso alle imitazioni particolari, e subordinate, ch’io divido seguendo l’esempio di Platone in icastiche e fantastiche. Chiamo icastiche, o similitudinarie quelle che hanno per oggetto le cose non adatte alla fantasia, e tutti gli esseri fisici; chiamo fantastiche quelle che rappresentano gli esseri morali e le idee della imaginazione, che non hanno una certa e determinata corrispondenza cogli oggetti esterni. Metto in vista tutta l’indecenza e la scurrilità delle imitazioni istrioniche. La migliore imitazione, dice Aristotile, è la più semplice, e la meno semplice è quella senza dubbio che vuol tutto imitare. Vò scorrendo tutti i tropi, tutte le figure onde si serve la musica del pari che l’eloquenza a piacere, commovere, e persuadere; parlo de’ suoi dialoghi e delle sue riflessioni, e mi sforzo di svelare infinite sue bellezze parando innanzi l’analogia che hanno coi fenomeni che ci stanno intorno; paragono le nostre opere in musica con le tragedie antiche, e quinci ne traggo molte cose nuove accende a riordinare la forma de’ nostri drammi lirici, che di tutti i drammi sono certamente i più imperfetti, non essendo per lo più che una serie d’episodi staccati fra loro senza verun bisogno e senza veruna verosimiglianza. Esorto i poeti a sbandir da loro quel pregiudizio a cui ha dato origine la debolezza del maggior numero de musici, imperocché se la musica ha potuto accompagnare le tragedie d’Eschilo, e di Sofocle, può senza dubbio maneggiar ancora gli argomenti tragici, grandi, e regolari. E appunto io fo accorti i nostri compositori, come ciò verrebbe lor fatto, se essi s’avezzassero a cogliere per tal modo il carattere principale de’ poemi che ponessero mente alle parti senza trascurare il tutto, se affrettassero la declamazion delle scene fermandosi meno sull’arie, e soprattutto se rivolgessero la sinfonia al suo vero fine ch’è d’accompagnare di sostenere, e non di dominare pervertendo il senso delle parole202. Conchiudo alfine osservando i diversi stili de più celebri musici non meno della scuola francese, che dell’italiana.

[12] Ecco o Signore un leggiero abbozzo dell’opera ch’io ho meditata soggiornando in un angolo d’una provincia, nel solitario gabinetto e nel silenzio che accompagna la riflessione. Amico dell’oscurità, il cui soave riposo m’è sembrato mai sempre più caro che non il fasto pieno d’inquietezze, e di noiosi fastidi, io non cantai, al dir d’un antico, che per me, e per le muse. Del resto se da un canto lo zelo dell’avanzamento delle arti m’incoraggiava talvolta, il sentimento della mia debolezza, e la grandezza, e la difficoltà della impresa mi sbigottivano dall’altro. I pochi mezzi, ch’io avea per le mani mi faceano cader d’animo intieramente, né mi lasciavano altro conforto che quello d’abbandonarmi a delle querele inutili. E di fatti dolevami non poco che simil disegno non fosse stato conceputo da qualche uomo rispettabile per l’autorità sua nella repubblica delle lettere, o delle arti, e portava invidia alla pittura, per aver meritato che voi le consecraste le vostre fatiche e le cognizioni vostre. Ma posciacchè vi ho comunicato il mio progetto, e voi avete creduto bene d’ispirarmi coraggio, tutto il mio ardore s’è acceso di nuovo. Il vostro consenso ha dileguati gli ostacoli, che fin ora aveano rallentato il mio corso, e dacché posso nodrire la dolce speranza, che voi seconderete i miei sforzi, e m’aiuterete coi vostri lumi non v’ha cosa, ch’io non osassi d’imprendere. Sono col più profondo rispetto.

Vostro Umil. Dev. Serv.
L’Ab. d’Arnaud.