(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Osservazioni »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo terzo — Osservazioni »

Osservazioni

Intorno ad un estratto del tomo 2 della presente opera inserito nel Giornale Enciclopedico di Bologna N. XIII del mese d’aprile del corrente anno.

[1] Il Sig. Vincenzo Manfredini, maestro di musica, uno de’ compilatori del Giornale Enciclopedico di Bologna, ha fatto varie opposizioni a due capitoli del secondo tomo della presente opera. Mi è sembrato che l’esaminarle potrebbe contribuire a maggiormente rischiarare alcune mie idee intorno alla musica, il teatro e le Lettere. Ecco il perché ho creduto bene di rispondergli. Avrei nello stesso modo risposto ad altri miei critici, se facendolo avessi potuto sperare che la fatica restasse compensata dall’utile.

GIORNALISTA.

[2] «Noi non intendiamo di criticar questo libro, prima perché il nostro istituto è di non criticare, ma cercar solo la verità; poi perché desso è realmente corredato di molta erudizione, di bei voli di fantasia, di paragoni adattati, di filosofia… insomma degno di essere letto.»

RISPOSTA.

[3] Bel panegirico proemiale, che sotto l’apparenza di encomio nasconde una positiva e reale intenzione di screditar l’opera!

«Così all’egro fanciul porgiamo aspersi
Di soave licor gli orli del vaso».

[4] Ma io ho quella cognizione del cuore umano che basta per non ignorare che la malignità sa talvolta dispensar delle lodi. Il giornalista “non intende di criticar il mio libro”, ma il suo estratto non è che una critica continuata dal principio sino al fine. Il suo istituto è di “cercare la verità”, ma egli dissimula quasi sempre la verità delle mie ragioni, sopprime le pruove e travisa le mie opinioni per poterle poi presentare in quel lume che le renda men giuste. La mia opera è “realmente corredata di molta erudizione, di bei voli di fantasia, di paragoni adattati, e di filosofia”, ma venendo all’applicazione invece di quella filosofia e di quella erudizione altro in essa non ritrova l’estrattista fuorché “imperizia, declamazione, e contraddizioni”. Il mio libro è “degno di esser letto”, ma il giornalista fa tutto il possibile perché nessuno il legga criticandolo perpetuamente, non dando la menoma idea delle materie che vi si trattano, né della maniera con cui vengono trattate, non indicando veruna delle riflessioni ch’ho cercato di spargere utili al progresso della musica e alla perfezione del gusto, passando insomma sotto un silenzio ingiusto quel poco di nuovo e di passabile che per avventura vi possa essere, e che tanti altri accreditati scrittori d’Italia hanno avutala gentilezza di rilevare. È vero che Bayle, Bernard, le Clerc, Apostolo Zeno, gli autori della Biblioteca ragionata, e Maffei non facevano a questo modo gli estratti; ma già si sa che i giornalistici enciclopedici di Bologna non sono nè Bayle, né Bernard, né le Clerc, né gli autori della Biblioteca ragionata, né Apostolo Zeno, né Maffei.

GIORNALISTA.

[5] «Ma però con raziocinio, e non senza una buona dose di cognizioni musicali per poter discernere il vero dal falso in cui purtroppo, se rari sono gli autori che non v’incorrino, quanto più facilmente vi caderà quello che tratta di una cosa non sua».

RISPOSTA.

[6] Gli errori e le falsità che il giornalista saprà scoprire nel mio libro, e le risposte che da me gli verranno date, faranno vedere la giustezza o l’insussistenza di quest’asserzione.

GIORNALISTA.

[7] «Intendiamo dunque solamente di esporre i nostri dubbi sopra alcune opinioni sparse nel medesimo circa la musica e circa l’opera italtana, che non ci sono sembrate conformi all’idee giuste che dobbiamo avere dell’opera e dello stato presente dell’arte musica, ch’è trattata da molti, ma conosciuta da pochi.»

RISPOSTA.

[8] Prima d’esaminare se le mie opinioni fossero conformi all’idee giuste che dobbiamo avere della musica e dell’opera italiana, parmi che il vero metodo di filosofare avrebbe richiesto che il giornalista fissasse quest’“idee giuste” che circa gli oggetti in questione si debbono avere, e che poi riportasse le sue censure a quella norma inconcussa del vero musicale e poetico, intorno a cui fossimo convenuti. E ciò per non ismarrirsi in seguito nell’ambiguità e nell’incertezza di mille domande e risposte inconcludenti. Ma ho riflettuto dappoi che questo metodo obbligherebbe il povero galantuomo ad un peso, al quale si vede non essere avvezzo, cioè a quello di ragionare per principi, e che siccome sarebbe un’ingiustizia l’esiggere che tutti gli uomini dovessero avere la forza di Milone Crotoniata, o la bellezza di Nirea: così è una indiscretezza il pretendere che un maestro di musica che fa il giornalista deva avere in testa la dialettica d’un Loke, o lo spirito geometrico d’un d’Alembert.

GIORNALISTA.

[9] «Pretende in primo luogo il Sig. Arteaga che l’opera italiana sia ora in decadenza: di addurre i motivi di ciò, e di fare il parallelo della nostra musica con quella dei Greci. Ma dio buono! Come può mai paragonarsi una cosa evidente, qual è la nostra musica, con una che non si vede, qual è la musica greca, che ora esiste solamente nella testa orgogliosa degli eruditi, e che realmente non sappiamo cosa ella si fosse?»

RISPOSTA.

[10] La ragione con cui l’estrattista vorrebbe provare l’impossibilità del paragone fra le due musiche è affatto puerile. La Roma d’oggidì è “una cosa evidente”, la Roma dei tempi di Traiano non si “vede”, dunque non può paragonarsi Roma antica con la moderna? La legislazione degli Spartani non si vede più, quella de’ Viniziani è sotto gli occhi, dunque non potrà paragonarsi la politica di Licurgo con quella del governo veneto? Ciò sarebbe lo stesso che levare ogni sua influenza alla storia, ogni sua forza alle prove critiche e morali. Ma non sappiamo cosa fosse la musica greca. Ciò è vero fino a certo punto, non è vero assolutamente. Siamo all’oscuro intorno alla natura intrinseca dell’armonia, ma non lo siamo intorno al fine, intorno a più d’uno de’ mezzi ond’ella si prevaleva, e intorno agli effetti che venivano prodotti. Un’intero dialogo degno dell’autore che ancor ci rimane fra le opere di Plutarco, molte notizie tratte da Eliano, da Aristotile, da Pausania, da Ateneo, da Platone, da Boezio, e da Suida, più d’un raggio di teorica e d’istorica luce, che tratto tratto risplende negli scrittori greci di musica tradotti dal Meibomio e dal Wallis ci ponno servire di guida per inoltrarci quanto basta nella ricerca di questo ramo delle greche cognizioni. Quindi è che si può istituire fra le due musiche un parallelo ragionevolissimo. La nostra ignoranza circa le loro teorie musicali farà che non si possano comparare a priori, cioè esaminando i principi, sui quali è appoggiato l’uno e l’altro dei sistemi; ma non toglierà mai che si possano mettere in confronto a posteriori, cioè argomentando dagli effetti che produceva l’una, e che non sono stati mai generati dall’altra. Di fatti il paragone è stato più volte istituito da uomini niente meno eruditi e sensati, che Vincenzo Galilei ne’ suoi Dialoghi sulla musica antica, Giambattista Doni nei libri de praestantia musicae veteris, Isaacco Vossio nel ragionamento de poematum cantu et viribus rytmi, Monsieur Burette in più dissertazioni inserite nelle Memorie dell’Accademia di Parigi, Fra Giambattista Martini nella Dissertazione che chiude il terzo tomo della sua storia della Musica, l’Abate Arnaud nella Dissertazione intorno agli accenti della lingua greca, e cent’altri.

GIORNALISTA,

[11] «Egli asserisce che la musica e la poesia presso i Greci erano oggetti di somma importanza, quando adesso si considerano al più come un occupazione dilettevole bensì, ma sempre inutile al bene degli stati. Egli è evidente però che nello stesso modo dei Greci consideriamo ancor noi la poesia e la musica; mentre ce ne serviamo com’essi nei templi, nei teatri, nelle case… e la stessa stima ch’ebbero i Greci dei drammi l’abbiamo anche noi.»

RISPOSTA.

[12] È cosa evidente per l’incomparabile estrattista che noi abbiamo della musica, della poesia, e delle rappresentazioni teatrali le stesse idee che avevano gli antichi. Una tale evidenza si trova però essere falsissima svolgendo anche leggermente le loro storie. Bisogna vivere in una profonda ignoranza dell’antichità per non sapere che la poesia, la musica e gli spettacoli furono per molti secoli considerati dai Greci e dai Latini come oggetti di politica e di religione. Sarebbe opera troppo lunga il trattenersi a render la ragione filosofica di questa generale e incontrastabile usanza, intorno alla quale non poche cose abbiam dette nel penultimo capitolo dei secondo tomo dell’opera presente. E quantunque il giornalista non abbia addotta non che confutata neppur una sola di esse, nulladimeno sarà bene il confermarle qui con nuovi fatti e con nuove testimonianze degli antichi scrittori. Che i Greci, massimamente i primitivi, considerassero i loro musici e i loro poeti come rivestiti d’un carattere legislativo si vede da ciò che le loro prime leggi, le prime politiche istituzioni, furono tutte promulgate in versi accompagnati dalla musica. In verso dettò Orfeo le sue leggi a’ Traci, in verso parlò Anfione a’ Tebani, in verso scrisse Talete le sue massime politiche ai Cretensi; così fecero ancora Lino, Pamfo, Museo, Simonide, e cento altri. La poetessa Saffo veniva riguardata da que’ di Mitilene come una delle loro più celebri legislatrici non altrimenti che que’ della Beozia ammiravano Pindaro come uno de’ primi loro sapienti. Terpandro e Tirteo erano tenuti in Isparta per uomini di stato rispettabilissimi e per cose sacre le lor composizioni poetiche. Stesicoro fu stimato dagli Imeresi, popoli della Magna Grecia, come il Franklin e il Wasington della loro patria. Il lettore non ha bisogno d’essere avvertito che parlandosi di que’ secoli quanto si dice della poesia intendersi dee anche della musica, imperocché l’una era inseparabile dall’altra.

[13] Non è meno incontrastabile che l’anzidette facoltà fossero il primo veicolo e lo strumento principale della religione. Plutarco nel suo dialogo sulla musica ci assicura che la prima «applicazione che nella Grecia si fece della musica fu alle cerimonie religiose in onore degli dei». Gli oracoli si rendevano in musica, cioè cantando in versi la profezia. I numi stessi erano creduti musici e ballerini, e niente v’era di più comune quanto il vedere le loro imagini o sculte o dipinte con in mano qualche strumento musicale, di cui veniva ad essi attribuita l’invenzione. Mercurio avea una specie di lira consistente in un guscio di testuggine con quattro corde. Apolline portava la cetra con sette corde. Ad Iside veniva consecrato il sistro, e la sampogna a Pane. Anche Giove il padre degli dei si vedeva in qualche tempio d’Atene colla lira in mano. Quindi è che gli antichi poeti e musici meritarono il nome di “divini”, e talmente gli chiama Orazio:

«Sic honor, et nomen divinis vatibus, atque
Carminibus venit…».

[14] Ennio, il quale era più vicino a que’ secoli remoti, gli dà il titolo di “santi” secondo la testimonianza di Cicerone nell’Aringa in difesa d’Archia, «quare suo jure noster ille Ennius sanctos appellat poetas». E lo stesso Cicerone è di parere che siffatta appellazione data a’ poeti fosse comune a tutte l’età e a tutti i popoli, «ex eo hominum numero, qui semper apud omnes sancti sunt habiti atque dicti».

[15] Quanto s’è detto della poesia e della musica si debbe interamente applicare agli spettacoli del circo, e dell’amfiteatro; luoghi quasi, direi, consecrati all’idolatria, cioè alla religione dominante del paese. Erano essi dedicati quale a Nettuno, quale a Diana, quale a Marte, e quale a Saturno, e dappertutto vi si vedeano scolpiti i simboli propri delle mentovate divinità, e prima d’incominciar lo spettacolo si portavano attorno in processione i loro simolacri, o gli emblemi che gli rappresentavano. Per ciò che spetta alle rappresentazioni teatrali il fatto è fuor d’ogni dubbio, o si riguardi la loro origine, o si ponga mente all’autorità de’ più illustri scrittori. Evanzio, grammatico, riferisce il principio della tragedia alle cose divine, alle quali applicavansi gli antichi ringraziando gli dei dopo la raccolta dei frutti. Diodoro afferma che fossero inventati da un re di Macedonia in onore delle Muse e di Giove. La comune opinione vuole che fossero i drammi trovati in occasione di solennizzar le feste di Bacco; quindi a Bacco erano particolarmente dedicati, e «artefici di Bacco» si chiamavano nella Grecia i poeti tragici e gli attori. Dagli antichi scoliasti si ricava che dentro del teatro, e sulle scene, e nell’ingresso s’innalzavano delle statue in onore dei numi. La medesima usanza si raccoglie da un luogo di Plauto nell’Amfitrione, e da un altro di Terenzio nell’Andria. La prima introduzione degli spettacoli scenici in Roma fa vedere che anche in Italia erano allora considerati come riti, e cerimonie religiose. I Romani per liberarsi da una pestilenza non seppero trovare altro espediente onde placare lo sdegno degli dei, che quello di chiamare dalla Toscana gli istrioni che introducessero le rappresentazioni, come da noi in simile circostanza si farebbe un pubblico voto di digiunare per l’avvenire un giorno dell’anno; laonde non è da meravigliarsi che i più sensati autori ne facessero un così gran conto delle arti drammatiche. Platone chiama le favole sceniche un dono che gli dei aveano fatto al genere umano compassionando le sue miserie. Plutarco, come da noi altrove si asserì, dice che le rappresentazioni tragiche contendono co’ trofei, e che Eschilo e Sofocle sono paragonabili co’ più gran capitani.

[16] Ma nulla fa capir meglio lo spirito delle antiche rappresentazioni quanto lo zelo de’ primi padri della chiesa nel riprenderle e condannarle. Erano essi così persuasi che fossero una specie di rito religioso che per loro l’assistere a’ teatri era lo stesso che confessarsi tacitamente idolatra. Di molti passi che potrebbono addursi in conferma, basterà riportarne due, che sono decisivi. Il primo è di Tertulliano nell’Apologetico: «in tanto rifiutiamo, dice parlando co’ gentili, i vostri spettacoli, in quanto abbiamo in odio l’origine loro che sappiamo venire dalla superstizione». Il secondo è di Lattanzio Firmiano nel libro sesto delle istituzioni: «La celebrazione degli spettacoli sono feste de’ numi, e si fanno per sollenizzare il loro giorno natalizio o per dedicarne un qualche tempio, e chiunque (soggiugne dopo) assiste a spettacolo, dove si concorre per causa di religione, rinuncia al culto del vero Iddio per passar a quello de’ falsi numi.» Tale appunto è il linguaggio di San Giustino, di San Cipriano, di Salviano, e d’Isidoro.

[17] Ci dica ora il degnissimo membro dell’Areopago enciclopedico di Bologna se sia cosa “evidente” che noi consideriamo nel modo stesso che i Greci la poesia, la musica e gli spettacoli? Facciamo noi forse la santissima trinità poetessa e suonatrice? Dipingiamo il Padre Eterno col flauto in bocca, o col violino in mano? Crediamo che la Madonna fosse ballerina? Si legge ne’ nostri libri canonici che gli apostoli promulgassero la legge del Vangelo per mezzo di un’ode saffica, e ballando una qualche contraddanza? Diciamo “San Ariosto, San Voltaire, San Metastasio, San le Picq, San Pergolese, San Ciccio di Maio”? Si vede esposta l’imagine di Gesù crocifisso sulle scene, o ne’ palchetti de’ nostri teatri? Vi si veggono le statue di San Francesco di Paola, di Santa Caterina, o di qualch’altro santo della nostra religione? Si fa voto di metter sulle scene un opera in musica in occasione di tremuoto, di carestia, di peste, od altra calamità publica? Ci avvisiamo di dover placare lo sdegno divino coi trilli di Marchesi o colle capriole dell’Angiolini? Se qualche calvinista interviene ad un’opera, crediamo perciò ch’egli abbia rinunziato alla setta di Calvino per abbracciare la religione romana? Se dunque nulla facciamo di ciò, anzi se il solo scrivere e proporre tai cose ci sembra stravaganza e ridicolaggine, con quale fondamento l’impareggiabile Signor Manfredini decide che su tutti i mentovati oggetti pensiamo come gli antichi? «Ma, replica egli con fortissima argomentazione, noi ce ne serviamo, com’essi nei templi, nei teatri, e nelle case ecc.» E che perciò? In tutti que’ luoghi ce ne serviamo soltanto come di cose indifferenti e semplici passatempi, e siamo ben lontani dal riguardare come oggetti di somma importanza o come un affare di stato la musica fatta, per esempio, dal Gluk sull’Alceste del Calsabigi, o le sinfonie per accademia o per camera composte dall’Hayden. È vero che abbiamo un genere di armonia destinato al culto divino, ma da questo solo ramo che comprende una picciolissima porzione di musica, e che non caratterizza per niente l’indole e il gusto della musica nazionale, vorrà forse il giornalista trarne un confronto con quella de’ Greci, la quale e nella sua istituzione, e ne’ suoi progressi, e in pressoché tutte le sue applicazioni alla poesia, e alla danza aveva uno scopo religioso, morale e politico? Ciò sarebbe lo stesso che se dall’avere il parlamento d’Inghilterra citato talvolta in giudizio il proprio re come facevano sovente gli efori in Isparta, altri argomentasse che la costituzione anglicana fosse perfettamente simile a quella di Licurgo.

GIORNALISTA.

[18] «Se allora essi servivano per dilettare e istruire, senza parlare dei più antichi, quelli dello Zeno, e del Metastasio non sono ornati di ottime massime religiose, morali e politiche?»

RISPOSTA.

[19] Ottime massime religiose e morali si leggono nel Don Quisciotte, nel Telemaco, nell’Ariosto, nella novella Eloisa, nella Clarice del Richardson, e in molti altri romanzi; ma si dirà per questo che i mentovati libri vengono considerati da noi come cose sacre, o come oggetti di somma importanza civile? Lo stesso dicasi delle rappresentazioni sceniche. I drammi degli antichi avevano per oggetto il dilettare e l’istruire: ma l’istruzione procurata dal governo e diretta dalle leggi aveva uno scopo religioso, politico, e legislativo, del che si vedevano in pratica gli effetti; presso a noi l’istruzione lasciata in balia del poeta è sempre subordinata al semplice, e mero divertimento. A provar ciò vuolsi poca serietà e poca dottrina. Il Signor Manfredini, che ha dimorato lungo tempo in Moscovia, e che vi sarà forse andato col disegno d’incivilire que’ popoli al suono degli strumenti come faceva Orfeo, o d’ispirare i principi della religione agli idolatri Samoiedi con un rondò, come facevan Lino e Museo, conserverà tuttora lo spirito di missionario e di legislatore, e quando va all’opera v’andrà probabilmente per assistere “agli esercizi spirituali”, per soddisfare alla penitenza impostagli dal confessore, o per accendersi di amor di dio coi salmi penitenziali posti in bocca d’Aristea, o di Cleonice. Quanto a noi meno costumati e purtroppo meno divoti v’andiamo per conversare, per giuocare, per far delle cenette, per passare il tempo, per ridere, per divertirci coi vezzosi gorgheggi della Maccarini, o coi bei recitativi del Pacchierotti, e pensiamo tanto “all’ottime massime religiose morali, e politiche” contenute nel libretto quanto gli indiani, allorché prendono il betel, o l’opio pensano ai dogmi del dio Brama, o ai precetti del legislatore Xenchia.

GIORNALISTA.

[20] «Se poi talvolta sono malamente eseguiti dai guastamestieri (che abbondano in ogni professione) non potendo il poeta e il compositore di musica eseguirli da loro stessi, non seguì il medesimo dei drammi greci quando migliorarono, cioè quando furono scritti a più personaggi? Mentre né Sofocle, né Euripide furono certamente multiformi da poterne rappresentar tutte le parti.»

RISPOSTA.

[21] Sviluppiamo questo garbuglio d’idee, dal quale come dall’uovo di Leda verranno fuori delle cose pellegrine. Secondo l’estrattista se i nostri drammi sono talvolta malamente eseguiti dai “guastamestieri” gli è perché il poeta e il compositore di musica non possono eseguirli da loro stessi. Dunque (prima conseguenza) non essendo in Italia il costume che il poeta e il maestro eseguiscano da loro stessi i drammi, tutti saranno malamente eseguiti. Dunque (seconda conseguenza) essendo tutti mal eseguiti, non avrebbe torto chiunque vituperasse l’opera italiana. Dunque (terza conseguenza) non essendo né Marchesi, né Pacchierotti, né la Deamicis, né Davide poeti o compositori di musica, i drammi eseguiti da loro saranno malamente eseguiti, ed eglino dovranno considerarsi come altrettanti guastamestieri. Dunque (quarta conseguenza) se i drammi fossero rappresentati dal poeta e dal maestro che li mette in musica, allora sarebbero ben eseguiti. Ecco i meravigliosi corollari che derivano dalla proposizione del giornalista. Di tutte l’illazioni surriferite, quella che più mi rincresce è l’ultima. Non posso far a meno di non isdegnarmi contro il costume che vieta ai maestri di musica di salir sulle scene a cantar i propri drammi. Oh che bello spettacolo sarebbe allora quello di vedere il Manfredini a farla da eunuco sul teatro di Venezia, e su quello di Bologna! Ma andiamo innanzi. «Non seguì il medesimo de’ drammi greci, quando migliorarono, cioè quando furono scritti a più personaggi? Mentre né Sofocle, né Euripide furono certamente multiformi da poterne rappresentar tutte le parti»? Un’altra serie di conseguenze non meno stupende. Dunque quando “migliorarono” i drammi greci furono malamente eseguiti dai “guastamestieri”. Dunque quando “peggioravano” furono eseguiti bene, perché rappresentati dal maestro di musica, e dal poeta. E quando “migliorarono”? Quando furono “scritti a più personaggi”. E quando ciò accadde sul teatro greco? Quando “né Sofocle, né Euripide erano multiformi da poterne rappresentare tutte le parti”. Così i drammi greci erano migliori quando erano peggio rappresentati, erano migliori quando furono scritti a più personaggi, e furono scritti a più personaggi ai tempi di Sofocle, e di Euripide. Il Calandrino del Boccaccio comecché fornito di logica così prelibata potrebbe infilar meglio un ragionamento? Ma pazienza se l’estrattista manca di logica, poiché si sa che questa non si può avere che dalla madre natura; il peggio si è che manca nella storia, per la quale basta aver degli occhi, e volontà di leggere. È falso che i drammi greci fossero malamente eseguiti quando “migliorarono”; anzi tutta l’antichità ci assicura che i grandi attori della Grecia fiorirono successivamente dai tempi d’Eschilo fino ai tempi di Filemone e di Menandro. È poi falsissimo che i drammi greci cominciassero a scriversi con più personaggi da Sofocle e da Euripide. Molto tempo prima che scrivessero i due mentovati poeti s’introducevano più interlocutori nella tragedia e nella comedia. Epigene, poeta tragico anteriore a Tespi, usò dei cori nelle sue tragedie e i cori certamente non erano composti da un sol personaggio. Tespi egli stesso introdusse parimenti i cori ne’ suoi drammi. Frinico, discepolo di Tespi, fu il primo a introdurre in teatro maschere da donna, «muliebram personam introduxit in scenam», dice Suida. I peani, al dire di Strabone nel libro nono, erano rappresentazioni antichissime, dove s’introducevano più interlocutori. Nelle tragedie di Eschilo si trova una folla di personaggi che parlano diversi da quelli del coro. Nelle sue Eumenidi, oltre il coro delle furie sono Pizia, Apollo, Minerva, Oreste, e l’ombra di Clitennestra. Nel Prometeo, senza nominar le Ninfe Oceanitidi, che formano il coro, declamano Prometeo, Vulcano, Oceano, Jo, Mercurio, la Forza, e la Violenza; nelle Persiane agiscono Atessa, Serse, l’ombra di Dario, ed un corriere, lo stesso si dica delle Supplicanti e degli altri componimenti di quel poeta. Sofocle, il quale venne dopo di lui, le diè l’ultima forma ordinando il primo la dipintura del palco, aggiungendo un personaggio di più al diverbio, e tre altre persone al coro composto fin allora di dodici sole: onde s’avverò ne’ suoi componimenti il detto d’Aristotile nella Poetica «che dopo assai mutazioni che sopportò la tragedia si riposò infine ottenuto ch’ella ebbe il suo intento». Che ne dice dopo tutto ciò il baldanzoso ed erudito Minosse degli altrui libri?

GIORNALISTA.

[22] «Una cagion forte della decadenza della nostra opera dipende secondo il Sig. Arteaga dalla separazione della filosofia, della legislazione, della poesia, e della musica, le quali facoltà ne’ primi tempi della Grecia possedeva tutto unite un solo autore. Ma oltreché le nostre opere, come abbiam detto di sopra, non sono prive di massime filosofiche e morali ecc., ma tale separazione doveva risultar naturalmente a misura che le dette facoltà s’ingrandivano e si miglioravano; e lo stesso successe ancora al tempo che la Grecia fu colta e sapiente. Onde non si può dire con buona ragione che la detta separazione abbia ad esse pregiudicato, poiché sono libere ed esistono da se stesse; e sebbene unite abbiano più forza, ne hanno anche molta essendo separate, come lo dimostrano le belle opere che esistono di filosofia di legislazione, di poesia, e di musica strumentale ch’è la vera essenza della musica; mentre il diletto che reca la musica vocale può derivare ancora dalle parole, se non in tutto almeno in parte; ma quando una musica strumentale giunge a toccare, bisogna dire che tutto il merito è della sola musica; sebbene però questa non può commovere se non dipinge o esprime qualche cosa; onde ancor da sé sola è un linguaggio e una specie di pittura, e di poesia.»

RISPOSTA.

[23] Essendo fra noi da gran tempo separate la filosofia, la legislazione, la poesia, e la musica, la loro individuale influenza ha dovuto esser minore perché divisa. Ha dovuto altresì esser minore, perché spesse volte contraria distruggendo l’una l’azione direttrice dell’altra. Niente di più comune fra noi che il veder i governi prescriver delle leggi opposte a quanto detterebbe la sana filosofia, che sentir i filosofi insegnar massime e principi disapprovati dal governo, che l’udir poesie lontane da ogni oggetto morale, politico, e legislativo, che ascoltar infine delle musiche effeminate e frivole, che non hanno il menomo rapporto colle altre compagne. Perciò è un paradosso che fa vedere una profonda ignoranza d’ogni filosofia l’asserire che la separazione d’esse facoltà non abbia ad esse pregiudicato, come un paradosso sarebbe in meccanica il dire che la velocità d’un corpo è la stessa quando le forze che lo spingono sono divergenti, o contrarie, che quando l’azione loro è verso d’un solo punto diretta. Che la separazione dovesse risultar naturalmente a misura che le dette facoltà s’aggrandivano, ciò è verissimo, ed io l’ho detto prima dell’estrattista; ma da questa separazione appunto e dal loro ingrandimento successivo traggono i filosofi la cagione del perché nella Grecia le arti poetiche e le musicali acquistassero nuove ricchezze e perdessero la loro antica energia. Leggete, o mio caro giornalista, l’aureo trattato del Brown sull’unione della musica e della poesia, e imparerete molte cose che ignorate.

GIORNALISTA.

[24] «Due altre cagioni della decadenza della nostra musica il Sig. Arteaga le rileva da due de’ suoi più bei pregi, cioè dalla sua ricchezza e dal contrappunto. Ma chi può con certezza asserire che anche i Greci non conoscessero una specie di contrappunto, e che nei tempi più floridi della Grecia non vi fosse una musica ricca al par della nostra? Se v’era, essa sarà stata probabilmente simile alla presente, e se non v’era, sarà stata inferiore; perché il diventar più ricca specialmente in materia dì scienza, non crediamo che sia un demerito.»

RISPOSTA.

[25] Il giornalista movendo in aria di confutazione un dubbio, se i Greci conoscessero o no il contrappunto, pare che voglia dare a credere ch’io sono per la negativa. Quest’è una mancanza d’esattezza e di buona fede. Io non mi sono deciso né per l’una, né per l’altra opinione. Alla pagina 184 del secondo tomo ho detto «noi abbiamo un contrappunto del quale si dice che gli antichi non avessero alcuna notizia». Alla pagina 240 scrissi le seguenti parole parlando del comporre a’ più parti: «Senza decidere se cotesta invenzione sia propria de’ secoli moderni, e del tutto sconosciuta agli antichi (questione odiosa intorno alla quale non potremmo assicurarci giammai nonostante i molti e celebri tutori che l’hanno trattata).» Ora un “si dice” in un luogo, ed un dubbio così decisivo in un’altro fanno chiaramente vedere ch’io sono ben lontano dal voler pigliare partito in così fatta questione.

[26] La ricchezza parlando delle arti d’imitazione e di sentimento può renderle più dotte, più variate, più estese, ma non è una conseguenza che debba renderle più patetiche e più commoventi. Nel luogo citato dal giornalista ho provato a lungo siffatta proposizione, ho fatta l’applicazione alla musica, ho esaminata la forza de’ suoni considerata nel loro carattere fisico e morale, l’ho confermato scorrendo la storia della musica, e coll’esempio della cinese, dell’araba, e delle nostre antiche cantilene di chiesa, ho speso in tali ricerche sedici pagine, cioè dalla 184 fino alla 201 del secondo tomo, delle quali l’estrattista non fa neppure un sol cenno. Le rilegga egli adunque, rechi in mezzo le mie ragioni, le esamini, e non usi la poca onestà di far credere a’ lettori ch’io avventuro delle cose senza provarle.

GIORNALISTA.

[27] «E il contrappunto non solo non ha pregiudicato alla musica, ma anzi, avendo fatto conoscere qual sia la buona armonia e buona modulazione, è stato quello che ha contribuito più di tutto all’avanzamento di essa. Ma qual è quella cosa ottima che non degeneri, se se ne abusa? Così segue del contrappunto, l’uso moderato del quale non può esser che buono; ma abusandone, cioè volendo comporre a troppe parti unite, e per conseguenza a troppe varie cantilene eseguite tutte in un tempo, come segue nel contrappunto, cori diversi, e nelle fughe in quelle specialmente a più soggetti, non può nascer altro sicuramente che un gran danno alla buona melodia ch’è quella accompagnata con poca e discreta armonia ossia poco contrappunto.»

RISPOSTA.

[28] Un’altra prova demostrativa della inesattezza o della mala fede del giornalista. A sentir lui pare ch’io abbia condannato in genere e assolutamente il contrappunto come cattivo, non già in ispezie, e riferendolo alla sola musica drammatica. Eppure è tutto all’opposto. In più luoghi delle mie Rivoluzioni ho fatto espressamente questa distinzione. Lungo sarebbe il rapportarli qui tutti di nuovo, basterà soltanto ridire ciò che ho detto nel capitolo stesso citato dal Manfredini, acciocché si veda quanto deve fidarsi il lettore di certa classe d’estratti od’estrattisti. Si rilegga la pagina 240 del secondo tomo, e si troveranno parlando del contrappunto le seguenti parole: «egli è chiaro, che la sua utilità almeno per la musica teatrale è tanto problematica, che poco o niun motivo abbiamo d’insuperbircene». Alla pag. 244, ragionando della nostra armonia e del contrasto delle parti, io dissi: «Non si niega che da siffatto contralto non possa per opera d’un valente compositore cagionarsi talvolta una combinazione di suoni che diletti l’udito per la sua vaghezza ed artificio, e tale è appunto il merito intrinseco della moderna musica dove l’arte et intrecciare le modulazioni, la bellezza delle transizioni e dei passaggi, l’artificiose circolazioni intorno al medesimo tuono, la maestria nello sviluppare e condurre i motivi, in una parola le bellezze estetiche dell’armonia sono pervenute ad un grado di eccellenza sconosciuto affatto agli antichi.» Ecco un elogio della nostra armonia maggiore assai di quanti ne possa fare l’estrattista. È dunque falsissimo ch’io abbia mai asserito aver il contrappunto pregiudicato alla musica in generale; ho detto bensì che pregiudicava alla musica drammatica, e anche qui con distinzione, perocché parlando del contrappunto ch’era in voga in Italia verso il fine del Cinquecento lo condannai come contrario alla musica scenica, nel che altro non feci che tener dietro alle pedate di Vincenzo Galilei, di Giulio Caccini, di Pietro Cerone e di Giacopo Peri, le parole dei quali addussi in vari luoghi della mia opera. Ma fui ben lontano dal condannar l’armonia moderata, come si vede dagli elogi che fo in cento luoghi, e del giusto tributo di laude che rendo ove parlo del secol d’oro della musica italiana, a coloro che la ripurgarono dal fiammingo squallore. Soggiunsi che l’artifizio del contrappunto non è atto ad eccitar le passioni, e provai alla distesa la mia asserzione internandomi nell’essenza dell’armonia, e facendo vedere che la moltiplicità delle parti, la natura degli intervalli e l’intrinseca repugnanza che regna nel nostro sistema armonico, (ripugnanza nata dal comprender insieme più spezie contrarie di movimento) non la rendono acconcia a produrre una determinata e individuale passione203. L’estrattista osserva un’alto e perfetto silenzio intorno alle distinzioni fatte da me, ommctte tutte le autorità allegate, passa di lungo senza nemmeno accennar una sola delle mie ragioni, e poi si fa avanti in aria trionfale, come farebbe Alessandro dopo la conquista di Tiro. Oh! Sì che questa è una bella maniera di far gli estratti

GIORNALISTA.

[29] «Pretendere ancora come fa il N. A. che altre cagioni più forti dimostrino la disuguaglianza delle due musiche, cioè i prodigi che faceva l’antica de’ quali è scarsa la nostra: la considerazione in cui l’aveano i Greci, che l’impiegavano nei loro maggiori bisogni ecc. quest’è un discorrere in aria.»

RISPOSTA.

[30] Un “discorrere in aria” chiama il giornalista ciò che si dice della possanza della musica greca e della somma stima in cui era presso agli antichi? Sarà dunque un “discorrere in aria” l’appigliarsi all’autorità de’ più distinti poeti, degli storici più celebrati, de’ più sensati filosofi e de’ più illuminati critici, che tutti concordemente ne assicuran di ciò. E quando Pitagora, non contento di render musicali la terra, l’anima, e gli elementi, sollevò fino al cielo l’armonia volendo ch’ella fosse il principio regolatore del movimento dalle sfere; quando Platone fa dipender da essa non solo l’allegrezza, il dolore, l’iracondia colle altre passioni, ma le virtù eziandio e i vizi e la sapienza degli uomini; quando Ateneo ci assicura che gli Arcadi deponessero la loro ferocia costretti dalla soavità dell’armonia, e che a questa fossero debitori di più temperati e più religiosi costumi; quando Plutarco ci insegna aver gli dei donata ai mortali la musica non pel vano ed inutil diletto dell’orecchio, ma sibbene acciochè s’occupassero ad affrenare gli sregolati movimenti che destan nell’animo le troppo lussureggianti imagini delle terrestri Muse sotto il qual nome compresa viene ogni sorta di sregolata cupidigia; quando Gaudenzio, poeta greco, al cominciar il suo poema sulla musica scaccia «lungi da sé i profani» protestandosi di dover parlare d’un’arte affatto divina; quando Polibio ne inculca la necessità della musica per l’educazione, e rammenta i prodigiosi effetti operati da essa su alcuni popoli della Grecia; quando Montesquieu impiega un’intiero capitolo della sua opera immortale dello spirito delle leggi nel verificare i fatti che si rapportano, e nel rintracciarne le cagioni; quando il dottissimo Brown ci fa toccare con mano la grande e generale possanza che acquistò l’armonica facoltà sulle menti e sulle azioni degli antichi Greci; quando Burney, il più accreditato scrittore ch’esista della storia musicale, conferma il fin qui detto con una serie prodigiosa di fatti e d’antiche testimonianze: sarà un “discorrere in aria” l’argomentare dall’autorità riunita di tanti e così bravi scrittori, che gli Antichi avessero della musica un’idea superiore di molto a quella che noi ci formiamo di essa, e che avvezzi fossero a veder operati dalla melodia degli effetti sconosciuti ai moderni? E con quali ragioni s’oppone il giornalista ad una opinione così verificata e così generalmente stabilita? Quali autorità opposte reca egli in mezzo per distruggerla? Con qual logica con qual erudizione ci pruova che tutto ciò altro non sia che un “discorrere in aria”? È inutile il dimandarglielo poiché altro non apporta che la sua sola e semplice asserzione. Ma oh mio Signor Manfredini dolcissimo! Voi non siete Pitagora, ned io sono pitagoreo per ammettere come testo canonico il vostro ipse dixito.

GIORNALISTA.

[31] «O son favolosi o alterati tali prodigi.»

RISPOSTA.

[32] Tai prodigi sono certamente favolosi, se per prodigi intendete il far camminare i boschi e le montagne come faceva Orfeo, il guarire il popolo tebano dalla sciatica al suono del flauto, come si narra di Meria, l’inalzar al suono della lira le muraglie di Tebe come dicesi d’Anfione, o il farsi ubbidire dai delfini, come si racconta da Arione. Ma non sono né favolosi, né alterati, se per prodigi s’intendano i meravigliosi effetti morali prodotti dalla musica sugli animi dei Greci sulla loro educazione, sulla loro politica, sui loro costumi, e il dubitare di questi se non paratamente, almeno in grosso, e quanto basta per attribuire alla loro musica una sorprendente energia, è lo stesso che spingere il pirronismo storico al grado cui lo spinse lo stravagante e pazzo Arduino.

GIORNALISTA.

[33] «O bisogna credere che non sarà stata la sola musica che gli avrà operati, ma ancora la poesia, che dessa accompagnava, dalla quale un tone nasce certamente maggior diletto e maggior forza.»

RISPOSTA.

[34] Vè che uomo avveduto è egli mai codesto maestro di cembalo dell’Imperator delle Russie. E la nostra musica non s’accompagna altresì colla poesia? Che vuol dire adunque che un siffatto accoppiamento non opera presso di noi il menomo di quei prodigiosi effetti che operava presso gli antichi Greci? La diversità dell’effetto non indica in buona logica la diversità delle cause.

GIORNALISTA.

[35] «Ma perché incolpare la musica, che adesso non operi tanto, se i miracoli gli ha già fatti, cioè, se ha già umanizzata gran parte di mondo.»

RISPOSTA.

[36] Oh il meraviglioso e singolar ritrovato! Non più i principi d’una morale dolce e sublime qual è quella insegnataci dalla religione cristiana, non l’abolimento dell’anarchia feodale, non lo stabilimento di governi più regolari, non la saviezza e la forza delle leggi che imbrigliarono l’impetuosità dell’interesse personale, non la comunicazione fra tutte le parti del globo procurata per mezzo della navigazione, non lo scambievole commercio fra il vecchio e il nuovo continente, non le ricchezze e il lusso che indi ne derivarono, non lo spirito di società il quale avvicinando l’uno all’altro i due sessi ne tempera la ferocia e ne ringentilisce lo spirito, non più il progresso della filosofia e dei lumi sono a’ nostri tempi le cagioni che hanno “umanizzata gran parte del mondo”, ma la musica fu la meravigliosa operatrice di cosìffatti prodigi. Montesquieu s’è affaticato invano ricercando le cause dell’attuale incivilimento d’Europa. Se quel francese avesse posseduti i talenti superiori del nostro enciclopedico baccalare le avrebbe tosto ritrovate nel Micrologo di Guido Aretino, o nel Dodecachordon d’Arrigo Glareano. Il re di Spagna dovrà essergli sommamente obbligato di questa scoperta. Se quel sovrano vorrà sottomettere alle leggi del vivere onesto e civile i Pampas, gli Apaches, i Tegas, i Siba-Papi, i Moxos, i Chiquitos ed altri popoli selvaggi dell’America non ha da far altro che spedire nel nuovo continente il maestro Manfredini che insegni loro quattro leggi di contrappunto al giorno accompagnate da qualche lezioncella di salterio, ed eccoti “umanizzata” quella parte del globo.

GIORNALISTA.

[37] «E se anche adesso l’uomo di cuore più duro e indifferente purché abbia l’orecchio disposto alle impressioni della melodia, non può resistere al di lei incanto quand’è veramente della più perfetta, e perfettamente eseguita?»

RISPOSTA.

[38] E appunto perché di questa musica veramente la più perfetta, e perfettamente eseguita v’ha pochissimo fra i moderni, noi restiamo indifferenti all’azione di essa.

GIORNALISTA.

[39] «La musica cangiò al tempo dei Greci, ed ha cangiato al tempo nostro. Nella Grecia fu bambina, a poco a poco crebbe, divenne adulta e per conseguenza migliore, e lo stesso ha fatto in Italia. I Greci ebbero ancor essi i loro “guastamestieri” corruttori del buon gusto ecc,… e lo stesso è seguito e segue ancora fra noi; ma da tutto questo si deve forse arguire che non esiste più una buona musica, o si deve piuttosto confessare per nostra confusione che finché durerà il mondo vi sarà sempre il male accanto al bene, e vi saranno sempre autori mediocri e cattivi in tutte le arti e in tutte le sciente accanto a’ buoni? Sì, bisogna confessarlo, e ciò che è ancor più fatale ma che non è men vero, si è che non sempre gli stessi bravi autori hanno fatte opere perfette.»

RISPOSTA.

[40] Che la musica cangiasse al tempo dei Greci, come ha fatto nel nostro; che presso loro fosse prima bambina; che indi a poco a poco crescesse, e poi divenisse adulta al paro dell’italiana; che i Greci avessero i loro guastamestieri come abbiamo noi; ciò ha tanto che fare colla questione come i porri colla luna. Queste somiglianze estrinseche e generalissime possono stare, e ci stanno benissimo con una intrinseca e reale diversità di fini, di sistema, e di mezzi. L’arguire da tutto ciò che più non esiste una buona musica, è una conseguenza arbitraria, che cava l’estrattista, ma che a me non è venuta in mente nemmeno per sogno. La nostra musica è buona buonissima se si riguarda in essa la varietà, l’artifizio, la dottrina, il brio, la squisitezza, e il raffinamento. Il suo estetico è più copioso e più ampliato di quello dell’antica. Ma tutto ciò è assai diverso dal patetico nel quale, come ancora nello scopo morale e politico, la musica greca, e per mio avviso e per quello di molti uomini assai più dotti di me, superava altrettanto la moderna, quanto questa supera l’antica in altre doti pregievoli. L’ignorare queste cose note, come suol dirsi lippis et tonsoribus, sarebbe di poco decoro per qualunque erudito ma è un vitupero e un’obbrobrio per un maestro di musica, scrittore di professione, il quale dà con ciò a divedere essergli affatto sconosciuti i fondamenti filosofici dell’arte propria.

GIORNALISTA.

[41] «Il medesimo Sig. Arteaga, unendosi alle opinioni del Sig. Brown inglese (Dell’origine e progressi della poesia, e della musica) e del Sig. Rousseau (Essai sur l’origine des langues), conviene con essi che noi siamo realmente all’oscuro sulla vera natura dell’armonia de’ Greci, sui loro generi, modi, strumenti ecc. quindi gli sembra strano che si voglia pospor la loro musica alla nostra; ma per le stesse ragioni non è ancor più strano il volerla antiporre?»

RISPOSTA.

[42] In primo luogo è falsissimo ch’io abbia antiposta la musica greca alla moderna senza restrizione. Replicherò per la decima volta che l’ho antiposta nella semplicità, nell’espressione, e nell’oggetto morale, come l’ho posposta all’italiana nell’artifizio, nella ricchezza, e nel raffinamento. In secondo luogo è anche falsissimo che non si possa instituire un paragon ragionevole fra le due musiche, quantunque non ci sia del tutto nota l’indole dell’armonia de’ Greci. Ho risposto su tal proposito nel principio dell’estratto.

GIORNALISTA.

[43] «Pensa ancora il Sig. Arteaga che la nostra musica non possa accoppiarsi ad ogni genere di poesia p. e. al Sonetto, alla Canzone petrarchesca, alla pindarica, all’anacreontica ecc. ecc., ma altro è che tali poesie noi non usiamo di porle in musica alla maniera delle arie che sono più proprie a tale assunto; e altro è che la nostra musica non abbia modi da esprimerle: mentre desse si possono cantare benissimo, (e tutto ciò che si canta, anche da una sola voce, è sempre musica) e si possono ancora rivestir con note alla maniera delle arie; poiché, se si fa tal musica a della poesia quasi prosaica e barbara come sono certe composizioni latine ecc, tanto più si deve poterla fare a delle composizioni veramente melodiche, come sono le suddette cannoni pindariche ecc.»

RISPOSTA.

[44] Quest’accusa è una delle infinite inesattezze del fogliettista. Nel luogo da lui citato 204 io non ho mai detto che la nostra musica non possa accoppiarsi ad ogni genere di poesia; ho detto soltanto «che per una generale inavvedutezza noi abbiamo esclusi dal genere musicale quasi tutte le moltiplici specie della poesia». Ora queste espressioni non indicano un’intrinseca impossibilità nella nostra musica d’accoppiarsi coi suddetti generi, come vorrebbe farmi dire il sempre degno estrattista, ma un’inveterato costume ne’ compositori di non mai eseguirlo. Tutto il paragrafo non è altro che un’illustrazione, un comento dell’accennato pensiero, anzi tanto è lontano della verità ch’io voglia negare alla nostra musica la capacità d’accompagnarsi coi detti generi poetici che in più luoghi delle mie Rivoluzioni ho parlato de’ sonetti del Petrarca posti in musica dal Villaers e dal Giusquino, del famoso canto del Dante dove parla del conte Ugolino modulato da Vicenzo Galilei, dei Pietosi affetti di Don Angelo Grillo vestiti armonicamente dal Caccini, dell’Oronta del Preti poema in ottava rima cui fecero la musica i più bravi compositori romani, e di cent’altre sorti di poesie. Non può negarsi che il Signor Manfredini non legga con attenzione l’opere che vuol onorare della sua critica.

GIORNALISTA.

[45] «Passa quindi il N. A. ad asserire che noi ignoriamo la quantità sillabica nella poesia; che non sappiamo p. e. quale sia la sillaba più lunga della parola “spoglie”; che il maestro abbandona il valor della poesia per badare al valor delle note ecc. ma tutto questo è falso stante che il bravo compositore conosce benissimo la quantità e la qualità delle sillabe nella poesia sa che la parola “spoglie” è di due e non di tre sillabe, come ei la crede, e sa ancora adattar le note al valor della poesia.»

RISPOSTA.

[46] Tante proposizioni, altrettanti spropositi. In primo luogo il compositore non può conoscere né benissimo né malissimo la quantità delle sillabe nella nostra poesia, perché nessuno può conoscere ciò che non esiste. Fino i ragazzi che imparano i primi rudimenti della rettorica sanno che la nostra poesia non ha quantità sillabica, e che questa era propria soltanto dei versi greci e latini, e in generale dei versi appartenenti alla poesia chiamata metrica, i quali si regolavano col numero e varietà dei piedi, e colla lunghezza e brevità delle sillabe; all’opposto dei versi appartenenti alla poesia detta armonica come la nostra, i quali badano soltanto al numero delle sillabe e all’acutezza e gravità degli accenti. In secondo luogo è una scempiaggine il pretendere che il compositore conosca la quantità sillabica nella parola “spoglie”, perché sa che costa di due sillabe, e non di tre. Il sapere il numero non è lo stesso che sapere la quantità, perocché in grammatica e in filosofia sono due cose differentissime, e un giovinetto da scuola a cui scappasse di bocca un tale sproposito si meriterebbe le battiture del maestro. In terzo luogo, dove le sillabe non hanno un valore determinato di brevi o di lunghe il compositore non può adattare le note al valore della poesia, qualora il Sig. Manfredini non voglia dare alla parola “valore” un significato diverso da quello che da tutti le vien dato in grammatica ed in rettorica. Nel qual caso noi lo consigliamo a premettere per l’avvenire ad ogni sua critica un picciolo dizionario che fissi la significazione arbitraria dei termini adoperati da lui, e ciò per risparmiare le quistioni di voce e per guadagnar tempo prezioso a tutti e in particolar modo a’ giornalisti che devono parlar d’ogni cosa.

GIORNALISTA.

[47] «Come non è men falso che, se sopra alla musica stessa si possono applicar varie parole, ciò dipende, perché il musico nella collocazione delle note non ha altro regolatore che il proprio arbitrio, poiché una tale operazione non può esser ben fatta, se non quando i versi sieno di una stessa misura, e il sentimento delle parole sia lo stesso: onde egli è sempre vero che non è la poesia che deve servir la musica, ma bensì questa che deve star soggetta in tutto alla poesia, e all’argomento della medesima: e in tal modo sono espresse le più belle composizioni che ora abbiamo, delle quali voglio supporre anch’io, che la Grecia abbondasse, e forse ne avesse anche delle migliori, ma queste esistono, e quelle sparirono, come pur troppo il tempo edace, sebben più tardi, farà sparire anche le nostre.»

RISPOSTA.

[48] Mi dica il mio avvedutissimo critico se la nostra poesia manca di quantità sillabica, ch’era quella che presso agli antichi diriggeva il tempo e la misura della musica e regolava il numero delle note, qual altro regolatore hanno i nostri compositori nelle cose accennate fuorché il proprio genio ed arbitrio? Se avessero eglino una norma fissa e costante a cui accomodarsi nella collocazion delle note si vedrebbero tanti capricci, tante irregolarità, tanti modi diversi di vestir l’aria istessa? Che vuol dire che se Gluk, Paisello, e Mazzoni metteranno sotto le note le stesse parole dalle mani del primo verrà fuori per lo più un lavoro esatto, ragionato e pieno di forza, da quelle del secondo una composizione vaga, ricca, e brillante, e da quelle del terzo probabilmente una cosa mediocre, o cattiva? Ciò vuol dire che ciascuno combina le note e gli accordi secondochè gli suggerisce il proprio talento, il quale non essendo eguale in tutti tre, nemmeno eguale può essere l’effetto che ne risulta. A questo inconveniente andava molto meno soggetta la musica greca principalmente ne’ primi secoli, quando il carattere di poeta e di musico si trovava riunito nella stessa persona, e quando i musici ubbidivano religiosamente alle leggi prescritte loro dai poeti. Non replicherò le pruove, che trovansi esposte alla distesa nella mia opera nel luogo appunto criticato dal giornalista, il quale fedele sempre al lodevolissimo costume adottato da lui combatte le proposizioni dell’avversario sopprimendo tutte le ragioni su cui sono appoggiate. I due canoni che prescrive il Signor Manfredini per applicar rettamente la stessa musica a varie parole, cioè che i versi sieno d’una stessa misura, e che il sentimento delle parole sia lo stesso, sono piuttosto regole di ciò che dovrebbe esser che di ciò, ch’è infatti, imperocché ad eccezione d’alcuni pochi maestri la maggior parte dei moderni lavora delle musiche applicabili a cento sentimenti diversi, come io l’ho fatto demostrativamente vedere colle pruove alla mano in otto pagine dell’ultimo capitolo del secondo tomo, adducendo inoltre le carte musicali che lo confermano205, quantunque né di queste né di quelle l’incomprensibile benignità dell’estrattista abbia creduto opportuno di farne menzione.

GIORNALISTA.

[49] «In qualche abbaglio è incorso il N. A. parlando dei principi musicali in cui confessa egli stesso di essere poco iniziato. Egli asserisce p. e. che gli intervalli che sono in uso nella nostra armonia si riducono all’ottave, due settime, due seste, due terze, una quinta, una quarta, la seconda, il tuono, e il semituono, come se questi due ultimi non fossero due altre seconde, cioè la maggiore e la minore, e come se anche quasi tutti gli altri intervalli non fossero triplicati a riserva dell’ottava, ch’è d’una sorte sola.»

RISPOSTA.

[50] Ognuno s’aspetta che questa obbiezione debba essere la più terribile di tutte, giacché non è imaginabile che un maestro di musica riprenda uno che non è della professione intorno ai termini facoltativi dell’arte, e che non dica delle cose incontrastabili. Nulladimeno siccome nel mondo di quaggiù l’aspettazione degli uomini resta sovente delusa, così sarà bene il disaminare se per disavventura siamo ora in questo caso. Ei mi rimprovera perché noverando gli intervalli che sono in uso nella nostra armonia, non ho fatto parola delle due seconde maggiore e minore, e perché non ho detto che tutti gli altri intervalli a riserva dell’ottava sono triplicati. Buon per me che il rimprovero non cade sopra di me soltanto, ma sopra d’uno scrittore il quale s’inalza per comune opinione sì nella teorica che nella pratica della musica tanto al di sopra di tutti i critici giornalisti.

[51] «Quantum lenta solent inter viburna cupressi. Ecco le sue parole, la cantilena (fermandosi nel genere diatonico in cui tutti convengono) non può formarsi se non da tanti determinati intervalli i quali sono semituono, tuono, due terze maggiore e minore, quarta, quinta, due seste maggiore e minore, e l’ottava; nulla di più (noti bene l’accigliato estrattista) perché il resto non è che una replicazione degli antecedenti 206 ». Ora a chi dovranno prestar fede i lettori a Tartini o all’estrattista? La conseguenza è facile a ricavarsi. Oltrecché è falsissimo ch’io abbia passato sotto silenzio le due seconde maggiore e minore. Eccone la prova. Non ho io forse nominato il tuono, e il semituono? E il tuono e il semituono non sono essi appunto gli intervalli che si chiamano con altro nome seconda maggiore, e seconda minore? Lo dice espressamente l’Alembert nella introduzione a’ suoi elementi di musica, «Le ton, sono le sue parole, s’appelle encore seconde majeure ecc. le demi-ton, seconde mineure». Lo dice lo stesso giornalista, «come se questi due (cioè il tuono e il semituono) non fossero due altre seconde la maggiore, e la minore?» Ora qual è lo sbaglio da me commesso? Il non aver dato al lettore l’importante notizia che i teorici davano due nomi diversi allo stesso intervallo; lo chè in altri termini equivale a condannare uno storico perché nominando Cicerone non s’è presa la cura d’avvertire chi legge, che altri lo chiamarono ancora Marco Tullio. Così potrebbe con eguale giustezza rimproverarmi, perché non mi sono avvisato di dire che la terza minore si nomina qualche volta seconda superflua, e che alla settima maggiore si da in qualche occorrenza l’appellazione di settima superflua. Indi mi potrebbe accusare, perché non ho parlato del triton e della quinta falsa, e dopo aver parlato di queste, perché non ho fatto menzione della quinta superflua, e della settima diminuita, e così riprendermi all’infinito perché spiegandole cause generali della decadenza del melodramma non ho fatto un trattato teorico degli intervalli.

GIORNALISTA

[52] «Ritornando poi a parlare del contrappunto che consiste in una successione di varie voci espresse contemporaneamente con diverso movimento pretende che tutto questo pregiudichi all’unità della cantilena, la quale certamente non può muovere gli affetti, se non è chiara, semplice, precisa; ma abbiamo già detto che quando il contrappunto è moderato (cioè quando le altre parti non confondano colle loro cantilene la cantilena principale, ma solamente la secondano, la rinforzano, e l’accompagnano) egli non solo non le pregiudica, ma anzi la fortifica e la perfeziona.»

RISPOSTA.

[53] In primo luogo l’estrattista attacca al suo solito la mia proposizione isolata, e non adduce neppur una sola delle molte pruove che la fortificano. In secondo luogo è falsissimo ch’io abbia detto che se la cantilena composta in contrappunto non muove una qualche determinata e individuale passione, ciò nasca dal non esser la cantilena chiara semplice e precisa. L’inefficacia del contrappunto per muover gli affetti l’ho ricavata da ciò, ch’essendo necessaria ad eccitar un determinato affetto nell’animo una serie di movimenti tutti dal principio sino alla fine conformi alll indole di esso affetto, il contrappunto non può produrre la detta serie di movimenti conformi, perché composto di moltiplicità di parti, ciascuna delle quali agisce con un movimento non conforme, ma diverso, e perché si prevale d’intervalli, ciascuno de’ quali agisce con un’energia, ed una direzione differente207. L’estrattista dunque non sol non ha inteso per niente né la mia proposizione, né le ragioni su cui s’appoggia, ma ha ravvisato sconciamente e quella, e queste. In terzo luogo non è men falso ciò ch’avanza il Manfredini, che quando il contrappunto è moderato non solo non pregiudica, ma anzi fortifica e perfeziona la cantilena. La perfeziona bensì, se per perfezionare s’intende darle quella unità, che risulta dal trasportare la stessa melodia in più tuoni, e dal collocarla ne’ siti analoghi della composizione, o anche dal congruamente alternare le diverse cantilene, onde nasce la varietà208; e di questa sorta di perfezione si trovano molti, e distinti esempi ne’ moderni contrappuntisti dal Palestrina fino al Valotti; ma non la perfeziona punto quando si tratta di produrre il vero patetico ovvero sia l’imitazione degli affetti umani. Per quanto le cantilene subalterne accompagnino e rinforzino la cantilena principale sarà sempre vero che a generare non già un’affetto vago e indeterminato (del quale non è quistione presentemente), ma una determinata e individuale passione voglionsi de’ movimenti omogenei e tendenti tutti ad un fine; lo che non può assolutamente ottenersi col contrappunto. Perocché le parti subalterne agiscono anch’esse coi rispettivi movimenti che sono diversi in ciascuna dal movimento della parte principale, e gli intervalli per cui scorrono quelle sono di natura differente da quella degli intervalli per cui camina questa: È impossibile adunque che non risulti nel tutto una mischia di forze, una ripugnanza, un contrasto tra la privativa energia degli intervalli e delle parti, il quale impedisca d’eccitare la determinata serie di movimenti che voglionsi a svegliare un tale affetto. Sentasi il Tartini, che da gran maestro ha prevenuta e disciolta l’obbiezione del giornalista. «Né giova dire che la voce acuta, per esempio, come estremo più intenso, essendo la dominante, si sentirà distintamente a confronto delle altre voci, e però potrà produrre il suo effetto. Questa proposizione è falsa secondo la pratica (notate bene, Manfredini dolcissimo, perché mi preme che un giornalista sia docile alla verità, notate, dico, che uno de’ più eccellenti pratici che abbia mai avuti la vostra nazione dice che la vostra proposizione è falsa secondo la pratica) in armonia perché tre voci contro una sola han più forza sebben la sola sia più intensa, le altre più rimesse, purché siano proporzionate, senza la qual proporzione non s’otterrà giammai l’armonia. E nel caso che s’accordasse la proposizione non si può almeno di non negare che nascerà necessariamente una tal distrazione tra la voce principale e le aggiunte, che impedirà quella totale attenzione senza cui è impossibile ottener l’intento di commuovere.»

GIORNALISTA.

[54] «Insomma ci può dir quel che vuole per provare che la nostra musica è inferiore alla Greca, che non proverà mai nulla, non potendosene fare il confronto; e le autorità dei tre rispettabili professori che adduce in favor suo ancor esse sono inutili su tal questione. stanteché il Tartini, il P. Martini e il Marcello sono stati certamente grandi uomini, ma ebbero i loro pregiudizi ancor essi, fra gli altri quello che hanno quasi tutti i vecchi professori di qualunque arte, e ch’è prodotto da una specie d’invidia pei loro contemporanei, cioè di lodare assai le cose antiche e sprezzar le moderne, come se tutte le arti, nello stesso modo che son soggette a declinare, non fossero suscettibili di miglioramento, la qual cosa è assai più probabile per quella gran ragione che è facile l’aggiunger perfezione alle cose già inventate.»

RISPOSTA.

[55] Se la taccia di “pregiudicati” e d’“invidiosi” data a tre uomini de’ più rispettabili che abbia avuti l’Italia fosse una ragione, noi conchiuderemo che l’estrattista sapeva dire delle ragioni; ma essendo quelli epiteti una ingiuria altro non si può conchiudere se non ch’egli sa dir delle ingiurie. Colla stessa ragione potrebbe tacciare il Galilei, il Doni, il Vossio, il Meibomio, il Kirkero, lo Scotti, il Calmet, il Gregory, il Brown, il Rousseau, il Dutens, e cento altri valenti scrittori, i quali accoppiando la più sagace filosofia all’erudizione più scelta hanno deciso nella presente quistione in favore della musica antica. Essi adunque tutti saranno pregiudicati, invidiosi, e adoratori del rancidume. Ad onta però della magistrale decisione del Manfredini, ci permetta parlando di qualunqne de’ suddetti scrittori che noi gli susurriamo rispettosamente all’orecchio «malo cum Platone errare, quam cum… bene sentire» e ci permetta altresì di mettergli sotto gli occhi le seguenti parole tratte dalle opere d’uno di quei “pregiudicati” e “invidiosi”, le quali potranno forse servire di correttivo alla ridicola baldanza di più d’uno dei moderni maestri. «Sempre fra gli uomini fu grandissimo il numero di coloro a cui piacque più la loro età che l’antica, non tanto perché reputiamo un atto lodevole pensar bene de’ nostri contemporanei, quanto perché traendo origine ogni nostra affezione dall’amor proprio lodiamo con compiacenza que’ tempi, dei quali crediamo esser noi stati un non mediocre ornamento. Di ciò è un manifesto argomento il vedere che infinite persone di niuna o pochissima vaglia e di cui non potrebbe assegnarsi il luogo che occupano presso i loro contemporanei, ciò nonostante inalzano a tal segno il secolo in cui vissero, che per poco non vanno sulle furie quando altri commenda i tempi ov’essi non furono. La provvida natura dispose con tale accorgimento le umane cose che sebbene l’uomo sia inchinevole a lagnarsi di tutto, non si trova neppur un solo che non viva persuaso e contento del proprio ingegno, e ciò che oltremodo fa meravigliare si è che quanto più si scarseggia di talento, tanto di se medesimo più vantaggiosamente si pensa.» 209

GIORNALISTA.

[56] «Cosa diremo noi, se il Signor Arteaga sembra essere appunto nel numero di quei tali vecchi spregiatori, lodando egli moltissimo le opere del Carissimi, del Palestrina ecc. a preferenza delle più moderne, che sono cento volte migliori e più perfette?»

RISPOSTA.

[57] Queste quattro righe altro non sono che un gruppo d’inesattezze e di false supposizioni.

[58] 1. Finora s’era parlato della musica moderna in generale paragonandola coll’antica; ora il generale si converte all’improvviso in parziale, la parola “moderna” si confonde con quella “de’ nostri tempi”, dal sistema si salta al gusto e da tal confusione propria dell’estrattista risulta un’accusa contro di me, che mai non ho pensato a confondere una cosa coll’altra.

[59] 2. Il giornalista mi riprende mettendomi nel numero de’ vecchi sprezzatori, perché ho lodato Palestrina e Carissimi, due compositori che sono stati ricolmati di lodi dai più accreditati scrittori di musica non meno stanieri che Italiani.

[60] 3. M’imputa d’aver commendate l’opere del Carissimi a preferenza delle più moderne, che sono cento volte migliori e “più perfette”, lo che è falso assolutamente, giacché non ho lodati i recitativi del Carissimi se non paragonandoli cogli altri del suo tempo, ch’erano negletti, non già con quelli dell’età posteriore, quando s’imparò ad applicare la musica alla drammatica con più gusto e leggiadria. Ecco le mie parole: «Giacopo Carissimi, illustre compositore romano dopo la metà dello scorso secolo, cominciò a modular i recitativi con più di grazia e di semplicità avvegnacchè non vi si facesse allora particolar riflessione, sì perché il gusto del pubblico rivolto intieramente alle macchine e alle decorazioni badava poco alla dilicatezza della composizione, come perché la poesia dei drammi così poco interessante faceva perdere il suo pregio anche al lavoro delle note». Convien dire che gli occhiali con cui il Signor Manfredini guarda le cose abbiano la virtù di rappresentare gli oggetti al rovescio. Del resto, se prima di censurare i detti altrui si prendesse egli la briga d’esaminare il fondamento delle proprie censure, avrebbe potuto vedere nella Musurgia del Kirkero una serie di composizioni musicali de’ più bravi maestri del passato secolo, e comparando queste collo stile recitativo del Carissimi, di cui esistono pure gli esempi, avrebbe rilevata la differenza tra gli uni e gli altri.

GIORNALISTA.

[61] «Cosa diremo, se egli che attribuisce al contrappunto la rovina della musica, lodale suddette opere, delle quali il più gran merito consiste appunto nell’abbondare di contrappunto?»

RISPOSTA.

[62] Ho già spiegato più volte in qual senso io condanni il contrappunto. Del resto appunto perciò ho commendati i recitativi del Carissimi, perché fra quelli de’ suoi contemporanei sono i meno ingombrati di contrappunto.

GIORNALISTA.

[63] «Per criticar poi la musica delle nostre arie, adduce quei difetti che sono già stati conosciuti da tanti altri, e dei quali son più di venti anni che sin la ciurma dei nostri compositori se ne astiene, e in cui veramente i bravi maestri mai non sono incorsi. Essi infatti non hanno mai fatti ritornelli e passaggi dove non andavano, non hanno mai coperta la voce colla troppa affluenza degli strumenti, non hanno ecc.»

RISPOSTA.

[64] Se i difetti da me apposti alla musica de’ nostri tempi sono stati conosciuti da tanti altri, essi adunque sono verissimi, e il quadro ch’io ho proposto non è per niente alterato, come ha finora preteso il giornalista. Parmi per altro d’aver toccate molte cose non osservate imprima da nessuno scrittore, particolarmente intorno alle cagioni del difetto, e ai mezzi di correggerlo. È poi falsissimo che da venti anni in quà fin la ciurma de’ compositori se ne astenga. Gli esempi che ho recato in mezzo (e de’ quali secondo il costume non fa parola l’estrattista, quantunque gli aprissero un bel campo di farsi onore difendendoli) non sono cavati dalla ciurma, ma dalle opere di compositori stimabili. Se però tutti questi sembrano pochi al Signor Manfredini, chi scrive gli promette di slungare in altra occasione il catalogo, e di fargli toccare con mano che la maggior parte de’ moderni maestri mettono i ritornelli e passaggi dove non ci andavano, coprono la voce colla troppo affluenza degli strumenti, hanno ecc. ecc.

GIORNALISTA.

[65] «Egli asserisce ancora che Metastasio, colle molte bellissime comparazioni, ha contribuito a propagare il difetto della troppa musica strumentale nei teatri, ma queste comparazioni hanno anzi giovato alla musica; come da noi si asserì nella nota 13 del nostro Libro delle Regole armoniche

RISPOSTA.

[66] Senza riccorrere alle Regole armoniche del Manfredini (libro frivolo, che altro non contiene fuorché delle nozioni elementari e triviali), io aveva detto nel tomo 2. pag. 263. della mia opera che le belle comparazioni che si trovano ne’ drammi di Metastasio hanno giovato alla musica. Ma ciò che ho detto io, e che il Manfredini non vorrebbe che si dicesse, si è che dall’uso troppo frequente di esse comparazioni è risultato il troppo affollamento degli strumenti, e per conseguenza il prossimo pericolo d’affogar la voce del cantore. Si può aggiungere ancora che siffatta usanza troppo intemperantemente imitata dai seguaci di Metastasio ha recato ancora un gran danno alla poesia, perocché i poeti alloppiati dalla vaghezza delle similitudini profondono le bellezze di pura imaginazione in quei luoghi del dramma, dove solo dovrebbero aver luogo le bellezze di sentimento. L’estrattista doveva esaminar queste ragioni e combatterle, e non contentarsi di citar se stesso e le Regole armoniche, perché ned egli né le sue Regole armoniche fanno autorità, quando non sono avvalorate dal giusto ragionamento.

GIORNALISTA.

[67] «Dove si disse ancora il nostro parere circa all’apertura dell’opera di cui parlando il N. A., e parlando della nostra musica in generale, impiega una quantità d’osservazioni inconcludenti o false…»

RISPOSTA.

[68] Se l’estrattista si fosse degnato d’indicare partitamente quelle osservazioni, io cercherei ora di rispondergli o di confessargli il mio torto; ma essendosi contentato di dire in generale che sono “inconcludenti, e false” senza provarlo, non posso risponder altrimenti che dicendo esser falso il suo “false”, e inconcludente il suo “inconcludenti”.

GIORNALISTA.

[69] «Che esamini bene le buone composizioni di Piccini, di Sacchini, Guglielmi, Sarti, Paesello, Anfossi, Gluk, e di tanti altri, e veda se il moderno quadro della musica teatrale è tal quale ei lo dipinge.»

RISPOSTA.

[70] E appunto perché le buone composizioni di Piccini, Sacchini, Guglielmi, Sarti, Paesello, Anfossi e Gluk meritano che si parli con distinzione, l’autore delle Rivoluzioni ha parlato con distinzione ed ha cavato l’esempio del recitativo obligato, del rondò, dell’aria e delle altre parti che ha preso a disaminare dal Borghi, dall’Andreozzi, dall’Astaritta e da più altri, che non sono né Gluck, né Anfossi, né Paesello, né Sarti, né Guglielmi, né Puccini, né Sacchini. E se pure in questi valentuomini ha talvolta ripreso qualche difetto, lo ha fatto rendendo loro la dovuta giustizia, separandoli dalla feccia comune, e nominandoli con particolar elogio. Qual nuovo genere d’onestà letteraria è mai quella di tacere ciò che ha detto l’avversario, e poi combatterlo come se realmente non l’avesse detto? È malignità? È stolidezza? È capriccio?

GIORNALISTA.

[71] «Senza tanto declamare e senza ripetere ciò ch’è stato già detto da altri (cioè che vi sono molti guastamestieri che le regole non sono ancora tutte perfette; e che se anche lo fossero esse non basterebbero per formare un grand’uomo, lo che è più vero) poteva dire che pochi riescono nell’arte musica, perché non tutti son nati per la medesima; ma non perché i maestri insegnano il contrappunto ai loro scolari col fargli ritrovare gli accordi, e concertare le parti sul cembalo mentre questo è falsissimo.»

RISPOSTA.

[72] Quest’ultima riflessione mi giunge nuova. Mi farebbe la grazia il giornalista d’insegnarmi come imparano gli scolari il contrappunto senza avvezzarsi a “ritrovare gli accordi, e a concertate le farti”?

GIORNALISTA.

[73] «Come non è men falso che tutti i compositori siano tanti ignoranti non sappiano nemmeno la propria lingua non che la latina, non conoscano la poesia, la letteratura e gli autori che han trattato e trattan di musica; poiché gli conoscon benissimo; e sanno ancora distinguere gli aurori buoni dai mediocri, e non li pongono tutti a sacco, come ha fatto il N. A. alla pag. 81.»

RISPOSTA.

[74] Io non ho parlato punto di tutti quanti i compositori, ma del maggior numero; pure confesso d’avere il torto. Invece d’avanzare ciò ch’ho avanzato, dovea sostenere con zelo apostolico che la maggior parte dei moderni maestri sono dottissimi, che intendono a meraviglia la lingua latina, e gustano le più intime squisitezze della toscana, che sono versatissimi nella poesia, e nella letteratura, che hanno come suol dirsi sulla punta delle dita tutti gli autori, che hanno trattato e trattan di musica. Infatti per tacer di tanti altri la scelta erudizione è vastissima, la prodigiosa lettura, la critica finissima, le viste sublimi e filosofiche, l’aureo stile e la logica esatta che risplendono nell’estratto del Signor Manfredini mi doveano far accorto del mio errore.

GIORNALISTA.

[75] «Perché condannar tanto il desiderio di novità che hanno gli uomini in generale di musica, se lo hanno ancora per tutte le altre cose, e se a quelli che non sono automi viene infuso dalla natura? Dunque, perché vi fu un Orazio, un Virgilio ecc. non doveva scrivere un Tasso, un Ariosto, ecc.? Perché vi è stato un Pergolesi, un Giumelli, ecc., non dovrebbe scrivere un Piccini, un Paesiello ecc.? E se ognuno che coltiva una professione vuol distinguersi dai compagni, desidera di esser grande piuttosto colla lode propria che coll’altrui, cerca di avanzarsi nella sua carriera per sentieri non battuti ecc., perché farlo reo, quando al contrario giusto per questo è degno di lode? In verità noi non intendiamo un tal modo di ragionare.»

RISPOSTA.

[76] Quando l’estrattista avrà un pò più di filosofia in testa, intenderà facilmente il mio modo di ragionare. Allora vedrà ch’ei non ha inteso né poco né molto lo stato della quistione, e che lavora in falso, perché non sa dare alla parola “novità” il significato che nel caso nostro le si conviene. Il desiderio di novità considerato metafisicamente è una inclinazione ingenita in noi dalla natura, come un’effetto immediato della curiosità. L’anima nostra è fatta per pensare, cioè per percepire e combinare l’idee. Tutti gli oggetti dell’universo sono legati fra loro e quasi direi in dipendenza scambievole gli uni degli altri; quindi è impossibile il conoscerne un solo senza che si svegli il desiderio di conoscere quello che seguita, o quello che lo precede. Ma quest’idea metafisica di novità lodevole in se stessa anzi necessaria all’uomo è in tutto differente dall’altra che vien condannata allorché si parla delle arti di sensibilità e d’imaginazione. Il desiderio di essa altro non significa allora se non se il prurito che hanno molti di coloro che le coltivano, di rendersi singolari scostandosi dal buono stile e dagli ottimi esemplari, o l’inquieta smania degli ascoltanti, che infastiditi delle cose passate e noiati delle presenti bramano ricevere delle scosse, e delle agitazioni mai più sentite. L’una e l’altra di queste cose sono la rovina delle arti e delle belle lettere, imperocché consistendo il bello di esse nell’imitazione della natura, ed essendo siffatta imitazione ristretta ad una limitata sfera di sentimenti e d’imagini espresse con certi colori e con certe determinate forme, qualora la suddetta sfera sia stata, a così dire, intieramente trascorsa per opera dei trapassati autori, e qualora agli artisti comincino a sviare da quelle forme e da quella determinata maniera; vanno a rischio di perder affatto le traccie della vera imitazione, smarrita la quale non resta per loro altro principio regolatore fuorché il capriccio, onde si genera la stravaganza. Ecco il perché la novità degenera sì spesso in licenza nelle materie di gusto, e perché il rispetto per gli antichi e così commendabile, quando non si converte in fanatismo o in idolatria. Legga il Signor Manfredini l’aureo dialogo De causis corrupte eloquentiae attribuito a Quintiliano, e fra i moderni la bella Dissertazione del Tiraboschi intorno alle cause della decadenza del gusto, e vedrà la felice applicazione ch’ivi si fa del principio esposto pur ora all’eloquenza, alla poesia, e alla storia. Legga il terzo libro della Repubblica di Platone, e i Trattenimenti sullo stato della musica greca intorno al quarto secolo dell’era cristiana di Monsieur Barthelemy, e troverà verificato il mio principio anche nella musica. Dopo ciò si vergognerà forse di aver combattuto una proposizione chiara quanto il lume di giorno, e capirà che un ragionamento che serve di base ai più accreditati scrittori per ispiegar la decadenza del gusto non può essere alterato con tre “perché” e con cinque ridicolosi “eccetera”, i quali fanno vedere essere egualmente ignote al giornalista l’arte di pensare, e quella di scrivere.

GIORNALISTA.

[77] «Quello poi che ci sorprende maggiormente si è che dopo che il N. A. ha resa giustizia a una quantità di professori viventi separandoli dai mediocri torna da capo, sostiene che la maggior parte delle finezze armoniche onde vanno tanto superbi i moderni maestri, invece di provare il miglioramento del gusto altro non provano che la sua decadenza. Questa non è una patente contrariazione? Quando si vuol sostenere un opinione bisogna ben provarla, e non contraddirsi, come fa talvolta il N. A.»

RISPOSTA.

[78] Il giornalista somiglia a quel Margita sì celebrato dai maestri di rettorica del secolo scorso, il quale, quando vedeva incurvarsi sotto l’acqua una parte del suo bastone, invece d’attribuirlo ad un’inganno della propria vista, credeva che il bastone si fosse realmente sotto l’onda incurvato. Non avviene altrimenti delle contraddizioni che vede ne’ miei sentimenti il giornalista, ma ch’esistono soltanto nel di lui cervello. Due proposizioni hanno dei rapporti alquanto lontani, ma conciliabili fra loro, non si scorge da chi legge il filo che le avvicina o per pochezza d’ingegno, o per precipitazione di giudizio, e tosto grida “contraddizione”. Quindi questa sorta d’accuse deve essere ed è molto frequente presso certa classe di censori; i quali veggono ne’ libri i pensamenti degli autori come gli itterici veggono negli oggetti la giallezza onde sono tinti gli umori de’ propri occhi. Ma esaminiamo ora quelle che mi vengono imputate, e incominciamo dalla prima. Trova un’opposizione il giornalista ne’ miei sentimenti, perché avendo resa imprima la dovuta giustizia ad una quantità di professori viventi separandoli dai mediocri, sostengo poco dopo che «la maggior parte delle finezze armoniche, onde vanno tanto superbi i moderni maestri» invece di provare il «miglioramento del gusto altro non provano che la sua decadenza». Se quest’ultima proposizione cadesse su quegli stessi maestri ch’io separai dai mediocri, il giornalista avrebbe ragione di dire ch’io era in contraddizione con me medesimo; ma cadendo, come cade infatti, sui mediocri, invece di provare ch’io mi sono contraddetto altro non prova se non ch’egli precipita i suoi giudizi e le sue censure. Si ricorra alla pag. 130. del mio secondo tomo e si vedrà che dopo aver terminato il catalogo dei valenti professori che meritano, a mio avviso, d’essere separati dagli altri, soggiungo: «sarebbe più facile ad una ad una noverar le stelle, che il fare partitamente menzione di tanti altri compositori o esecutori ptù giovani, che sotto la scorta degli accennati maestri coltivano quest’arte deliziosa in Italia. Ma l’andare più oltre né piace, né giova, non essendo il mio scopo il tessere una nomenclatura od un catalogo, ma presentare soltanto agli occhi de’ lettori una rapida prospettiva. Quello che in generale può dirsi è che nelle mani loro (cioè non de’ maestri accennati prima ma di questi secondi), la musica acquista a certi riguardi una maggiore bellezza mentre la va perdendo a certi altri». Dopo alcune righe dove c*ontinua sempre senza interruzione il sentimento medesimo, viene l’altra proposizione citata dal giornalista. Dov’è dunque, o Manfredini dolcissimo, la patente contraddizione?

GIORNALISTA.

[79] «S’egli vuol sostenere, per esempio, che la musica sia decaduta, perché nel primo tomo parlando della melodia si è lasciato uscir di penna il seguente paragrafo? «Essa è l’unica parte della musica che cagioni degli effetti morali nel cuor dell’uomo, i quali oltrepassano la limitata sfera dei sensi, e che trasmette ai suoni quell’energia dominatrice che ne’ componimenti s’ammira de’ gran maestri.» (T. 3. pag. 177.) Se non vi fosse come si potrebbe ammirare?»

RISPOSTA.

[80] Le mie parole citate nell’estratto si trovano alla pagina sesta del tomo secondo della presente edizione. Chiunque si prenderà la pena di leggerle troverà ch’io, facendo in quel luogo il paragone tra l’armonia e la melodia, esalta i pregi della melodia in riguardo all’espressione e all’imitazione della natura, e che favellando di essi dico che dobbiamo a lei principalmente «quell’energia dominatrice, che ne componimenti s’ammira de gran maestri». Egli è chiarissimo che parlandosi ivi della melodia in genere e non in ispecie, anche i maestri, ne’ componimenti de’ quali s’ammira la sua energia, devono intendersi in genere e non in ispecie, cosicché può applicarsi con ogni giustezza la mia proposizione tanto ai compositori greci, latini, tedeschi, francesi quanto agli italiani. Per trovarmi dunque in contraddizione avrebbe dovuto il giornalista far vedere ch’io in qualche luogo della mia opera avessi espressamente negata a’ compositori d’ogni età l’arte di far valere la melodia, e che poi nel luogo citato da lui l’avessi loro espressamente conceduta. Non potendo egli provare ch’io abbia avventurato né l’una né l’altra di tali proposizioni, anzi trovandosi in molti luoghi delle mie Rivoluzioni smentite entrambe, mi permetterà che torni alla mia similitudine di Margita, col quale il giornalista ha più d’un punto di rassomiglianza

GIORNALISTA.

[81] «E più oltre parlando della melodia in contrappunto si spiega come segue: “Si badò sopra tutto a conservar l’unità nella melodia, regola fondamentale di musica, come lo è di tutte quante le belle arti, la quale consiste nel rivolgere verso un’oggetto tutta l’attenzione e tutto l’interesse dell’uditore, nel rinforzar il motivo dominante, ovvero sia il canto della parte principale con quella di ciascuna in particolare, e nel far sì che l’armonia, il movimento, la misura, la modulazione, la melodia e gli accompagnamenti s’acconsentano scambievolmente, e non parlino, a così dire, che un solo linguaggio. Codesto pregio che non sembra a prima vista né straordinario, né difficile ad ottenersi, è nulla meno uno degli sforzi più grandi, ch’abbiano fatto i moderni italiani.” Basti questo solo saggio di contraddizioni per far vedere, che il Sig. Arteaga non doveva deprimere quelle cose che prima egli avea lodate con tanta eloquenza. E s’egli ci dirà che s’intese di lodar la musica de’ primi inventori del buon gusto, come di un Pergolesi, di un Leo ecc. e non la nostra; noi gli risponderemo lo stesso che già si rispose ad altri nella summentovata nota13. del nostro libro Regole armoniche, cioè che la musica d’allora in poi avendo sempre guadagnato, non è stata mai tanto eccellente come lo è presentemente.»

RISPOSTA.

[82] E dov’è mai in queste parole neppur un’ombra di contraddizione? Ho detto che uno degli sforzi più grandi che abbiano fatto i moderni italiani, è quello di conservar l’unità della melodia; ho inteso nel luogo citato (tom. 2. pag.) per “moderni italiani” lo Scarlatti, il Leo, il Vinci, il Pergolesi e più altri di quell’età; non ho mai smentito il giusto elogio dato a que’ valentuomini, dove dunque si trovano depresse da me quelle cose ch’io aveva lodato? Ma io ho depresso alcuni compositori della nostra età? Ebbene il lodare gli scrittori d’un tempo e il biasimare alcuni d’un altro è forse un contraddirsi? O pretenderebbe il giornalista che per non essere in opposizione con me medesimo avessi io dovuto confondere i compositori d’allora coi compositori di cinquanta anni dopo? La pretensione sarebbe tale che non meriterebbe risposta. Circa i guadagni e le perdite che ha fatto la musica dai tempi del Pergolesi e del Vinci insino a’ nostri giorni, io ho detto il mio sentimento nell’ultimo paragrafo del secondo tomo. Se il Manfredini non lo trova giusto, rechi in mezzo fedelmente le mie ragioni, le combatta, e poi la discorreremo. Ma non si contenti di dirci un sì e un no, poiché il sì e il no in buona logica lasciano le cose come si stavano. E se il ragionare gli costa fatica, tralasci di fare il censore e il Radamanto degli altrui libri colla sicurezza che la repubblica letteraria ne farà piccolissima perdita.

GIORNALISTA.

[83] «Non ci sembra neppur ben provato ciò che asserisce il Sig. Arteaga, cioè: «L’amor del piacere che ricompensa gl’Italiani della perdita della loro antica libertà, e che va del paro in una nazione coll’annientamento di pressoché tutte le virtù politiche, ha fatto nascere la frequenza degli spettacoli (…). In ogni piccola città, in ogni villaggio si trova inalzato un teatro (…). Il popolo italiano ora non chiede che panem, et circenses, come facevano i Romani a’ tempi di Giovenale. ecc.» Ella è cosa incerta se ogni villaggio ed ogni picciola città abbia il teatro, ma egli è ben certo che l’abbondanza dei teatri e la frequenta degli spettacoli quando però non sia eccessiva, prova piuttosto l’avanzamento che l’annientamento delle virtù politiche d’un paese; mentre se per istruire e incivilire gli uomini giovano anche molto le buone rappresentazioni teatrali; e se gli spettacoli sono necessari e vantaggiosi ad una colta nazione per riunirla e per trattenerla con qualche onesto ed utile passatempo, crediamo appunto che anche perciò l’Italia possa dirsi fortunata, conciosiachè se adesso più che in passato abbonda di teatri e di spettacoli, abbonda ancora degli ornamenti più essenziali, cioè di Università, di Accademie, di Scuole, di Stamperie, di Spedali di altre pie istituzioni, e di uomini sapienti in ogni facoltà, dei quali pregi tutti, se gli stranieri stessi, quelli che sono giusti ed imparziali non ne fossero persuasi non verrebbero sì spesso in Italia, chi per vederla e goderla, e chi per istruirsi.»

RISPOSTA.

[84] Il giornalista entra nelle regioni della filosofia come i soldati di Goffredo entravano nella selva incantata. Sarebbe una scipitezza il trattenersi a combatterlo seriamente, giacché non si saprebbe come né da qual banda afferrarlo non trovandosi nel suo scrivere la menoma analisi la menoma connessione. Per far conoscere il guazzabuglio d’idee che regna nelle sue parole basterà scomporre le fila del mirabile ragionamento che vi s’asconde. Aveva io detto: «L’amor del piacere, che va del paro in una nazione coll’annientamento di pressoché tutte le virtù politiche, ha fatto nascere la frequenta degli spettacoli.» Per distruggere la mia asserzione il giornalista doveva provare due cose, che l’amor del piacere in una nazione non va del paro coll’annientamento di pressoché tutte le virtù politiche, e che l’amor del piacere non ha fatto nascere la frequenta degli spettacoli. In luogo di ciò pianta fin da principio una proposizione in tutto differente, cioè che l’«abbondanza de’ teatri e la frequenta degli spettacoli provano l’avanzamento delle virtù politiche in un paese». Fin qui si vede ch’egli non ha inteso me, vediamo almeno se intende meglio se stesso. Come prova la sua tesi? Ecco il sillogismo: se per «istruire, e incivilire gli uomini giovano molto le buone rappresentazioni teatrali, e se gli spettacoli sono necessari ad una nazione per trattenerla con qualche onesto passatempo», dunque, la conseguenza doveva essere l’abbondanza de’ teatri e la frequenza degli spettacoli provano l’avanzamento delle virtù politiche in un paese, ma la conseguenza è dunque «crediamo appunto che anche perciò l’Italia possa dirsi fortunata». Non vi par che l’estrattista giuochi al giuoco degli spropositi, e che interrogato “perché fa caldo nella state?” risponda “perché il Padre Sanchez ha fatto il Trattato del matrimonio”? Tralascio le proposizioni intermedie che non reggono a martello per tener dietro alla sua logica mirabile. «Conciosiachè, ecco la causale che dee rinforzare la sua conseguenza, se adesso più che in passato abbonda di teatri e di spettacoli, abbonda ancora d’Università, d’Accademie, di Scuole, di Stamperie, di Spedali», come se gli Spedali, le Stamperie, le Scuole, l’Università e l’Accademie fossero altrettante virtù politiche generate in Italia dall’abbondanza de’ teatri, e dalla frequenza degli spettacoli, ch’era ciò che doveva provarsi. «De’ quali pregi (seguita il nostro Margita musicale) se gli stranieri giusti ed imparziali non fossero persuasi, non verrebbero sì spesso in Italia, chi per vederla e goderla, chi per istruirsi.» Sicuramente vi vuol poca persuasione, poca imparzialità e poca giustizia negli stranieri, per credere che in Italia vi saranno degli Spedali, delle Scuole, delle Stamperie e delle Università come vi son dappertutto, né penso che il desiderio di vedere tali cose gli spronerà a partire dal proprio paese; ma che ha da fare tutto ciò colla prima proposizione che doveva dimostrarsi falsa cioè: l’«amor del piacere ha fatto nascere la frequenta degli spettacoli»? La dialettica del Manfredini ha l’arte di raccozzar le cose come si trovano raccozzate in quel verso del Burchiello

«Zaffiri, orinali, ed ova sode».

GIORNALISTA.

[85] «E lo stesso Sig. Arteaga se non ci fosse venuto da giovine, non ci avesse fatti i suoi studi, e non dimorasse ancora fra una nazione ricca in ogni coltura (quantunque si veda ne’ suoi scritti, che non l’ho per anche conosciuta), non avrebbe potuto diventare quell’uomo erudito e virtuoso ch’egli è.»

RISPOSTA.

[86] Anche qui sembra che il giornalista amico di sollazzarsi abbia guiocato al giuoco dei pegni, e che per riscuoterne qualcheduno de’ suoi gli sia stato imposto per penitenza che dica una lode e un biasimo. Lo ringrazio quanto debbo, e debbo ringraziarlo moltissimo per la prima, la quale cortesemente mi dispensa senza meritarla; e in quanto al secondo compreso nella parentesi mi protesto che attenderò per conoscer meglio la letteratura italiana, che l’eruditissimo Sig. Manfredini, della cui estesa e profonda dottrina in ogni ramo dell’italico papere ha l’Europa tante luminose e replicate prove, mandi in luce una storia generale di essa che ci faccia dimenticare quella del Tiraboschi.

GIORNALISTA.

[87] «Nei tre seguenti capitoli, cioè nel terzo, quarto, e quinto, che compiscono questo secondo tomo, grazie al cielo non vi sono tante opinioni che ci facciano dubitare di loro certezza, ma anzi vi sono tante belle verità, specialmente sopra l’infame usanza dell’evirazione, e sopra molte altre cose, che ci uniamo ben volentieri alle giuste idee del N. A., ma preghiamo il lettore a vederle in fonte, perché troppo ci vorrebbe se tutte volessimo qui riportarle.»

RISPOSTA.

[88] Più d’un osservazione può farsi intorno alle precedenti parole. Ne’ tre seguenti capitoli del secondo tomo dell’edizione bolognese non vi sono secondo l’estrattiva tante opinioni che gli facciano dubitare della loro certezza: pure i principi ond’io parto per esaminare lo stile del moderno canto italiano sono gli stessi stessissimi, che mi serviron di scorta per disaminare lo stile delle moderne composizioni. Se questi sono falsi, anche falsi devono essere quelli del canto, e se non si può dubitare della certezza de’ secondi, non può nemmen rivocarsi in dubbio la certezza de’ primi. Nulladimeno il giornalista accusa di “false”, e d’“inconcludenti” le mie riflessioni intorno ai compositori, e trova poi “tante belle verità” nel capitolo dove si parla dei cantanti. Che vuol dire questa incoerenza? Forse ch’ei non ha letto con attenzione quel capitolo, o che non l’ha inteso?

[89] Si mostra inoltre molto soddisfatto di quanto dissi intorno «all’infame usanza dell’evirazione», ma non creda il lettore che ciò sia per farmi una grazia. Il giornalista ha le sue cagioni segrete, onde bramare di vedere alquanto umiliati cotesti evirati. Uno di essi ebbe la temerità di rivedere ben bene i conti al Signor Manfredini mostrandolo agli occhi del pubblico ignorante ne’ principi della scienza del canto210, quindi l’astio del Manfredini contro gli eunuchi. Lo compatisco. Se Martano fosse giunto una volta a buttar giù dall’arcione Rinaldo, Rinaldo avrebbe ragione d’impallidire ogni qual volta sentisse nominare Martano.

GIORNALISTA.

[90] «Solo non avremmo voluto udire che uno, il quale ha preteso di unirsi al Sig. Borsa per tacciare i moderni scrittori italiani di neologismo straniero, chiamasse “ressorti della virilità” le parti nobili dell’uomo, essendo vero francesismo la parola ressorti, e non abbisognandone la nostra ricca favella.»

RISPOSTA.

[91] L’espressione “ressorti della virilità” è stata cangiata “in sorgenti della virilità” nella veneta edizione. Se il Manfredini avesse (siccome il pregai espressamente per lettera) compilato l’estratto della mia opera sull’edizion veneta anziché sulla bolognese, il secondo tomo della quale fui costretto per motivi che non sono di questo luogo a non riconoscere per mio, avrebbe ora risparmiato questa frivola riprensione. Ma in tal caso avrebbe preferita la gloria d’esser cortese e gentile alla meschina e miserabile compiacenza di criticare un francesismo nel libro d’un’oltramontano, compiacenza a cui difficilmente resiste quella genia di persone che vive delle secrezioni dei talenti come i corvi e gli avoltoi si pascono della carne infracidata dei cadaveri.

GIORNALISTA.

[92] «Nè si vorrebbe ch’egli avesse asserito che «la musica non sa accompagnarsi colla poesia senza portar seco tutto il corredo degli abbigliamenti, e per conseguenza senza opprimere la compagna, e a guisa dell’amore ella non sa regnare che sola». No: questo non sembraci vero. La musica può regnar sola, ma non vuole, e sanno benissimo i bravi maestri che dessa ha sempre più efficacia ed espressione quand’è unita alla poesia.»

RISPOSTA.

[93] Non mi saprebbe dire il lettore quale fosse in questo paragrafo la confutazione, e quale la cosa confutata? Io aveva detto, che «la musica, cioè non la musica in genere, ma la troppo sfarzosa e brillante, non sa accompagnarsi colla poesia senza opprimerla». Il giornalista risponde che non è vero, e perché? «Perché la musica può regnar sola, e perché i maestri sanno benissimo ch’ella è più efficace ed espressiva quando va congiunta colla poesia». La mia proposta era che la musica al dì d’oggi affoga le parole. La risposta è che la musica può star da per sé, e che ha più forza quando s’unisce alle parole.

«La raison dit Virgile, et la rime Quinaut

GIORNALISTA.

[94] «Egli è ancor d’opinione che la divisione in recitativo semplice, obbligato, ed aria, di cui è formata la nostra opera, non fosse la stessa presso i Greci, ma noi ci uniamo piuttosto al parere del Sig. avvocato Mattei, e crediamo che fosse la stessa stessissima.»

RISPOSTA.

[95] Il giornalista è prudente, e politico nel tempo stesso. Ei si dispensa dal ragionare, e in ciò mostra la sua prudenza. L’esame che fin qui s’è fatto della sua logica mostra parimenti che avrebbe fatto meglio ad essere prudente più di buon’ora. Mi vorrebbe inoltre costringere a venir alle prese con un letterato di tanto polso, qual è il Signore D. Saverio Mattei, e in ciò fa vedere la sua politica insidiosa. Di più, non indicando in qual luogo delle sue opere, che sono comprese in molti volumi, abbia quel dotto ed erudito scrittore asserito che la nostra divisione in recitativo semplice, recitativo obligato, ed aria fosse la stessa stessissima presso ai Greci, io non posso né disaminare le sue ragioni, né accusare di falsiti il giornalista. Due sono le dissertazioni dove il celebre avvocato napolitano tratta di proposito questa materia; l’una intitolata Nuovo sistema d’interpretar i tragici greci, l’altra intorno alla poesia lirico-drammatica de salmi. Nella prima il lodevole desiderio di veder trasferita in Roma e in Napoli l’antica Atene lo sollecita a cercar nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e d’Euripide le arie, i duetti, i terzetti, i quartetti e i finali qualmente si trovano nell’opera italiana. Ei ci dà questo suo sistema come una nuova scoperta sconosciuta a tutti fino al presente. Se ciò fosse vero non si dovrebbe sdegnare l’illustre autore, che il pubblico non abbandonasse così presto l’opinione di venti secoli per l’ingegnose conghietture di pochi giorni. Allora avrà diritto di trarre il mondo letterario nel suo sentimento, quando vedremo da lui rischiarato l’abbuiamento dei codici ch’egli suppone tutti scorretti, e rettificati i pregiudizi de’ traduttori e de’ commentatori ch’egli crede tutti inesperti. Ma fin tanto che il dotto scrittore non s’accigne a così magnanima impresa, noi continueremo a far uso dell’edizioni che abbiamo, e a prestar fede a que’ dotti commentatori, l’osservazioni de’ quali non ci fanno punto vedere ne’ drammi greci quelle rassomiglianze coi nostri ch’egli pretende che vi siano. Per esempio, nella prima scena dell’Atto IV. dell’Ecuba d’Euripide tradotta dal Signor Mattei con molto brio e molta disinvoltura, trova egli un duetto in due versi greci d’Euripide tradotti da lui in questa guisa:

Ecuba ed uno del coro } a 2:

«Ahi chi udì, chi vide mai
        Chi provò di quel ch’io sento
        Un affanno, ed un tormento
        Più terribile e crudel?
Se dell’ospite infedele
        Non punite il tradimento
        Ah che fate, o numi, in ciel?»

ma con quali argomenti si prova che l’aria qui esposta sia un duetto? 1. Nel testo greco le parole si mettono in bocca d’Ecuba. 2. In nessuna edizione d’Euripide s’applicano al coro e alla confidente. 3. I versi sono giambici, come tutti gli altri di puro recitativo, non anapestici o lirici d’altra natura, quali essere dovrebbono se formassero un duetto. 4. Il sentimento non indica per niente che qui vi deva essere un duetto. Ecco la traduzione letterale dalla quale si è scostato un pò troppo il Signor Mattei: «Cose infami, inaudite, da farne stupire, inique, insopportabili! Dove sono i castighi contro gli ospiti?» Lo stesso dico del finale che il traduttore mette in bocca di tutti al terminarsi la scena, quantunque non vi sia edizione che non lo ponga in bocca della sola Ecuba, e dovendosi considerare manifestamente quelle parole come una continuazione del senso anteriore.

[96] Nella seconda dissertazione dice molte belle cose, parte delle quali mi sembra vere, e parte no intorno allo stile drammatico-lirico in generale, e intorno a quello de’ salmi in particolare, ma io non ho saputo rinvenire il luogo dov’egli, secondo il giornalista asserisca, «che la divisione della nostra opera in recitativo semplice, recitativo obbligato, ed aria fosse la stessa stessissima presso ai Greci». Quanto a me ho ritrovato bensì la distinzione tra il recitativo e l’aria come l’ho fatto distesamente vedere nella lunga nota posta alla pagina cinquantesima terza di questo volume, ma non m’è venuto fatto di ritrovare la differenza tra il recitativo semplice e l’obligato.

GIORNALISTA.

[97] «Soggiunge ancora (ibid.), che un dramma di Metastasio moverà le lagrime leggendolo, e sentendolo cantare sarà indifferente: ma ancor questo ci sembra un inganno, mentre se il dramma sarà ben accompagnato dalla musica e bene eseguito dai professori, toccherà assai di più.»

RISPOSTA.

[98] Questa è una di quelle verità che gli Spagnuoli chiamano “di Pietro Grullo”, e in qualche parte d’Italia “del Dottor Graziano”. Se in tempo di notte vi fosse il sole, ci si vedrebbe, ma appunto perché di notte il sole non c’è, non ci si vede. Se i drammi di Metastasio fossero ben accompagnati dalla musica e ben eseguiti dai cantanti, senza dubbio ci moverebbono di più che se fossero semplicemente recitati, ma appunto perché non c’è codesto accompagnamento ben adattato né cotesta acconcia esecuzione, essi ci lasciano sul teatro freddi quanto un ghiaccio. Che così realmente accadda in pratica è una verità di fatto, e solo può darsi ad intendere il contrario a qualche tartaro Kalmuko che non abbia la menomissima idea delle rappresentazioni musicali. E tanto è vero che i drammi del Metastasio non fanno più effetto sulle scene, che rare volte hanno gli impresari il coraggio di esporveli, e se talvolta lo fanno, non gli espongono se non mutilati, e così mal conci che appena sono riconoscibili. Le cagioni di questo fenomeno non sono difficili a ritrovarsi. 1. Il canto moderno altera colle sue stranezze, e travisa l’imitazion naturale a segno che, tolta ogni connessione colla poesia, altro non rappresenta fuorché un quadro arbitrario, e in tutto disforme. 2. Il recitativo semplice, onde si forma la maggior parte del dramma, è così trascurato dai maestri e dai cantanti, che non può ned eccitare la curiosità dell’uditore, né tener sospesa la sua attenzione. 3. I balli occupano in oggi tanto spazio di tempo nella rappresentazione, che bisogna accorciare anzi stroppiare i drammi acciocché lo spettacolo non riesca d’una insofferibiie lunghezza. Dalla forza ed evidenza degli accennati motivi è venuta ai poeti la quasi necessità di slontanarsi dal piano stabilito da Metastasio riducendo il melodramma ad una serie di quadri con pochissima connessione fra loro come hanno fatto il Calsabigi, e il Conte Rezzonico; e così la tragedia musicale, che fra le mani dell’illustre poeta cesareo avea toccato la perfezione di Sofocle, e d’Euripide, è ritornata un’altra volta ai tempi di Eschilo. Al vedere l’ignoranza che mostra di tutte queste cose il giornalista non si crederebbe ch’egli fosse un maestro di musica de’ nostri tempi, ma che simile al greco Epimenide si fosse addormentato quaranta o cinquanta anni fa, e che avesse prodigiosamente continuato il suo sogno fino alla mattina che compilò l’estratto.

GIORNALISTA.

[99] «Quindi non è colpa della musica se tante volte le opere sono malamente composte, e peggio eseguite, e la questione non consiste nel decidere se i drammi, che ora si rappresentano, son male composti e male eseguiti, che questo purtroppo succede spesso; consiste nel deffinire se abbiamo adesso una buona poesia e musica teatrale, in favor di che le opere del gran Metastasio e di qualcun altro, e l’eccellente musica di tanti bravi maestri parlano abbastanza. La scarsezza dei bravi artisti non può mai derogare alla perfezione d’un arte; anzi ci sembra che questo appunto sia un segno del suo valore sublime; mentre il diventare artista quando l’arte è ancor fanciulla è facile a molti, ma diventarlo eccellente quando l’arte è quasi giunta alla perfezione, è fortuna di pochi. Pauci quos aequus amavit Jupiter. »

RISPOSTA.

[100] La questione non consiste nel decidere se abbiamo ora una buona poesia, od una buona musica, se per tali cose s’intende qualche pezzo di buona poesia e qualche pezzo di buona musica. Gli altissimi e sinceri elogi dati da me a Metastasio, e la lode con cui ho nominati molti maestri della trascorsa età e della presente, fanno vedere ch’io non ho mai dubitato né dell’uno, né dell’altro. Ma la questione consiste nel sapere se al presente vi sia tra i più una buona musica ed una buona poesia; ed ecco ciò ch’io ho negato, e che il Signor Manfredini non m’ha provato finora. E se tra i più non regna il buon gusto nelle anzidette facoltà, io ho avuto ogni ragione di dire ch’esse sono al presente nella loro decadenza; giacché lo stato d’un’arte in un secolo, e presso ad una nazione dai più si misura, e non dai pochi. E siccome i Cherili, gli Iperboli, e i Carcini non tolsero al secolo d’Alessandro la gloria d’essere uno dei più illustri nella storia della greca letteratura, come i Bavi, i Mevi, e i Batilli non impedirono che l’età di Cicerone, di Virgilio, e d’Orazio non venisse chiamata il secol d’oro delle lettere romane, come i Chapelain, i Cottini, i Padroni non annebbiarono per niente il letterario splendore del felicissimo regno di Luigi XIV, così uno scarso numero di buoni autori, quando la maggior parte è cattiva, non basta a caratterizzar il buon gusto d’un’epoca intiera; altrimenti il Seicento, ch’ebbe in Italia il Cardinal Bentivoglio, il Pallavicini, il Sarpi, il Bartoli, e il Chiabrera anderebbe dal paro col secolo avventuroso di Leon X; e Cornelio Celso e Pomponio Mela, scrittori puri ed eleganti, basterebbono per mettere a livello i tempi di Seneca con quelli d’Augusto; e Teocrito e Callimaco potrebbono essi soli eguagliar l’epoca di Tolomeo Filadelfo a quella di Pericle e di Filippo.

[101] È inoltre da osservarsi che il giornalista, il quale finora altro non ha fatto che menar rumore perché mi sono mostrato poco contento dello stato presente della musica, conviene ora meco intieramente accordandomi, che siamo «nella scarsezza de’ bravi artisti e che l’opere che al presente si rappresentano sono mal composte, e peggio eseguite».

«Quo teneas vultus mutantem Protea nodo?»

GIORNALISTA.

[102] «È ancor di parere uniforme il Sig. Arteaga al P. Martini e a qualcun altro, cioè che la musica non abbia un gusto fisso; che le composizioni dei primi maestri del nostro secolo sieno già divenute anticaglie; e che lo stesso succederà alle migliori che si compongono presentemente, e tutto ciò perché vi è molta musica, tanto antica che moderna, assai mediocre e inverisimile, non essendo adattata niente affatto alle parole e agli oggetti che deve imitare ecc. Ma perché parlar di questa, e non della buona? Non segue forse lo stesso nelle altre arti rappresentative? Per una Venere medicea, per un Apolline di Belvedere ecc., ecc., quante statue inferiori di gran lunga a queste non abbiamo. Per una Madonna di Corregio, un S. Pietro di Guido ecc., non son quasi infinite le pitture mediocri ch’esistono? Per finir dunque ripeteremo solamente ciò che già si disse nella più volte citata nota 13. delle Regole armoniche ed in un altro estratto incluso in questo giornale al N. VIII dell’anno scorso, cioè che quello ch’è veramente buono e bello in qualunque arte vesta sempre tale; che la musica, essendo un’arte nuova o rinnovata, i suoi perfetti monumenti non possono essere sì antichi come quelli sono di pittura e di scultura, arti perfezionate molto prima, e che se le composizioni dei primi maestri del nostro secolo fossero state buone, lo sarebbero ancora, come lo sono alcune del Lulli, del Corelli, dello Scarlatti, di Porpora, di Leo, di Durante, di Handel, di Rameau, del Vinci, del Pergolesi, del Marcello, del Perti, del P. Martini, del Buranello, del Trajetta, dell’Jomelli, dell’Hasse e di tanti e tanti altri, le quali composizioni potranno sempre servire di classico esemplare ai giovani che vorranno diventare eccellenti nell’arte di comporre.

Manfredini

RISPOSTA.

[103] Io non mi sono contentato di dire che la nostra musica non ha un gusto fìsso. Ho cercato di provarlo adducendo delle ragioni, e indicando delle viste filosofiche su tal proposito, che mi lusingo non saranno riputate triviali da chi è qualche cosa di più che cattivo compilatore di estratti. Siffatte ragioni si trovano dalla pag. 82 fino alla 89 del presente volume, ed ecco il perché mi dispenso dal riportarle qui di nuovo. Ivi pure si trova prevenuta e disciolta l’obbiezione del giornalista tratta dal paragone della pittura e della scoltura; obbiezione che forse non gli sarebbe mai venuta in mente se non l’avesse letta nel mio libro. Ma desideroso di comparire sulla fine dell’estratto, qualis ab incepto processerat non adduce veruna delle mie pruove, non si fa carico dei fondamenti su cui s’appogiano le mie opinioni, lascia a capriccio e muta ciò che non intende, o che non fa per lui, ricorre a luoghi comuni nel confutare, e riempie le mezze pagine di declamazioni fuor del luogo, o di critiche frivolissime che spariscono da sé tostochè si sono rilette le mie parole. È poi una incoerenza delle molte, in cui è solito d’incorrere il logicismo estrattista, il dire che le composizioni del Pergolese, e del Leo fra gli altri potranno sempre servire di classico esemplare ai giovani che volessero diventar eccellenti nell’arte di comporre. E non m’ha egli ripreso in altro luogo, perché ho lodata la musica del Pergolesi e del Leo a preferenza di quella de’ nostri tempi? Ecco le sue parole: «E se il Signor Arteaga ci dirà che s’intese di lodar la musica de’ primi inventori del buon gusto come d’un Pergolese, e d’un Leo ecc. e non la nostra, noi gli risponderemo lo stesso che già si rispose ad altrui nella summentovata nota 13. del nostro libro Regole armoniche, cioè che la musica d’allora in poi non è stata mai tanto eccellente quanto lo è presentemente.» Ora se la nostra musica “ha sempre guadagnato” dai tempi di Pergolese e di Leo infino al presente, e se trovasi attualmente nella sua eccellenza, perché non trarre i classici esemplari dalla nostra musica, da loro anziché da quella degli inventori del buon gusto? O se Pergolesi e Leo devono servire di esemplare e di modello alla gioventù, come può darsi che la musica abbia sempre guadagnato dopo loro, e che si ritrovi nella sua eccellenza, ora che tanto s’è allontanata dal gusto di quei classici scrittori? Contradizioni infelici!

[104] Mi pare d’aver partitamente risposto alle opposizioni fattemi dall’enciclopedico giornalista. Tocca ora ai lettori giudiziosi e imparziali (i soli al cui suffragio io aspiri), il riflettere con quanta ragione avesse il Signor Manfredini promesso fin dal principio del suo estratto «di segregare il vero dal falso, in cui pur troppo se rari sono gli autori che non v’incorrino, quanto più facilmente vi caderà quello che tratta d’una cosa non sua». Se l’amor proprio non mi seduce mi sembra però che l’autore “che tratta di una cosa non sua”, ha evidentemente mostrato al giornalista dotato di tanto “raziocinio”, e di tanta “dose di cognizioni musicali” che il raziocinio di lui è inconcludente, frivolo e contrario alla buona logica, e che la sua dose di cognizioni musicali, è molto scarsa in ciò che spetta la parte filosofica storica e critica della musica, i soli aspetti cioè sotto i quali venga riguardata quell’arte nell’opera delle Rivoluzioni. Ciò mi fa sperare che il Signor giornalista diverrà un pò men baldanzoso per l’avvenire, e che uscirà dalla persuasione in cui è che il saper combinare bene o male dei diesis e dei bemolle gli dia un diritto d’infallibilità quando parla a coloro che non sono della professione. Se questi devono avere la prudenza di non mischiarsi nel tecnico e nel pratico dell’armonia, per non precipitar negli sbagli (dei quali per altro il giornalista non ha saputo ritrovare neppur un solo nel mio secondo volume), i maestri devono guardarsi non meno dal farla da filosofi, da eruditi, e da metafisici nell’arte propria per non palesare la propria ignoranza. «Tocca, dice Giovambattista Rousseau, a’ poeti far la poesia, e a’ musici far la musica, ma non s’appartiene che al filosofo il parlar bene dell’una e dell’altra.»