(1798) Addizioni alla Storia critica de’ teatri antichi et moderni « PARTE I — LIBRO VI » pp. 94-106
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(1798) Addizioni alla Storia critica de’ teatri antichi et moderni « PARTE I — LIBRO VI » pp. 94-106

LIBRO VI

ADDIZIONE I*
Sullo stile del Caraccio.

Chi non voglia arrogarsi una magistrale autorità che infastidisce in vece di persuadere, convien che dimostri ciò che asserisce. E per dimostrare la sublimità e la sobrietà dello stile del Caraccio, basta inviare i leggitori al di lui poema l’Impero vendicato, e al Corradino stesso. Intanto per chi ne volesse un saggio recheremo quì un passo della scena quarta del I atto in cui l’autore rileva i terrori notturni della Regina, calcando le tracce di Alvida nel Torrismondo del gran Torquato. Ella dice:

Lassa che appena i languidi occhi al sonno
Chiudere io vò, che immagini funeste
Mi rappresenta il sonno, e larve orrende
Mi rompono il riposo e la quiete.
Spesso veder mi sembra un ampio mare
Da venti scosso e in esso errar dispersi
Arbori e gabbie di spezzate navi,
E de la gente udir le strida e i pianti
Che percuotono i legni, o ingoian l’onde.
E del figlio talor la voce io sento
In un profondo baratro caduto
Da se medesmo, ed io con tanta fretta
Spingo le incaute mani a dargli aita
Che il ricopro di sassi e di ruine.
Talor veggio catene e ceppi e scuri
E di funeste carceri le mura
Grondan tutte di sangue.

Vediamone ancora un altro frammento della scena terza del III, in cui Corradino avendo saputa la deliberazione di Carlo di farlo morire, dice a Federigo:

Solo mi duol che a l’infelice Madre
Venuta insin da la Suevia a Pisa
Per me suo desiato unico figlio
Converrà trista e sola or far ritorno.
Ma pregherò (se trai nemici i prieghi
Loco aver pon) che così tronco almeno
Il cadavere mio le si conceda,
Sovra di cui sfogar l’acerba doglia
La sventurata possa e consolarsi
Almen co’ funerali ultimi ufficj . . .
E prego te se quinci avrai l’uscita
Libera, come spero e come credo
(Che in te non han d’incrudelir cagione)
Che vogli de l’afflitta illustre donna
Aver cura e pietate e quella parte
Che manca in me d’ufficioso figlio
Con suo vantaggio amicamente adempi
Si ch’ella paga al fin di quelle doti,
Che maggiori in te splendono e più belle
In una pari età, se stessa inganni
E in te credendo aver trovato il figlio,
De la perdita mia non senta danno.

Così scrivea il Caraccio, mentre gran parte dell’Europa, e singolarmente l’Italia, adulterato il gusto e lo stile teneva dietro alle stranezze di Lope de Vega e di Giambatista Marini e di Daniele Gasparo di Lohenstein. Per tal motivo il Caraccio col cardinal Delfino e con pochi altri sobrii scrittori, si considerarono da un Gravina, da un Crescimbeni e da altri gran letterati, come i primi ristoratori del buon gusto in Italia. Non avremmo noi quì ripetuto questo giudizio tanto vantaggioso al Caraccio, se un regnicolo pochi anni fa non avesse voluto asserire in una prefazione che lo stile di lui si risente dell’infelicità del suo tempo. Di grazia indicano veruna infelicità del seicento i passi allegati? ne indica tutta la tragedia? Ma il leggitore sarà curioso di sapere, su qual fondamento colui ciò affermato avesse. Ecco l’unica prova che ne ostentò con enfasi innanzi ad un componimento, in cui saccheggiò meschinamente il Caraccio; sono i due versi seguenti detti da un Messo nella scena prima del IV atto:

O superbia superba, o de le menti
Gonfia di vento idropisia mortale.

E null’altro (dirà il lettore)? Null’altro. Ma è questo forse un pensier falso? una metafora stravagante? una pazza iperbole? un’ antitesi puerile? Niente di ciò, come ognun vede. I Latini di miglior nota si valsero di simil pensiero in proposito dell’avarizia. L’emulator di Pindaro, seguendo il satirico Lucilio, l’usò nell’ode 2 del libro II,

Crescit indulgens sibi dirus hydrops,
Nec sitim pellit.

Gl’Italiani l’adoperarono ancora. Benedetto Menzini maestro di poetica e di gusto nella satira V disse l’avara idropisia. Ora il leggitor saggio sa ben distinguere un ornamento, che può essere straniero forse alla poesia scenica, da un concettuzzo falso e proprio della corruzione del secolo XVII. Sa egli però che di tali ornamenti non sempre proprj della scena molti se ne hanno non solo nel Caraccio, ma in altri celebri Italiani del XVI e in cento Francesi, e nell’istesso P. Corneille ed in Giovanni Racine.

ADDIZIONE II*
Su i preti smaschiati di Madrid.

Nella Real Chiesa dell’Incarnazione pur di Madrid tra’ sacerdoti che vi uffiziano, trovansene quasi sempre non pochi smaschiati.

ADDIZIONE III*
Nuovo teatro di Milano.

El’altro poi assai più splendido, vasto, e bene architettato fattovi in seguito costruire per comando dell’imperadore Giuseppe II.

ADDIZIONE IV**
Sull’espulsione de’ Mori dalle Spagne.

Che non riparò i mali dell’espulsione di un immenso popolo di Mori Spagnuoli.

ADDIZIONE V*
Convitato di pietra del Zamora.

In Ispagna si è continuato a mostrar su quelle scene fino a tanto che Antonio de Zamora non vi espose la sua commedia sul medesimo argomento trattato con minori assurdità. In Italia si tradusse quella del frate dal Perrucci siciliano.

ADDIZIONE VI**
Omissioni degli apologisti Spagnuoli.

E Lasciando gl’innumerabili insetti del Parnasso Spagnuolo che professano di tutto ignorare, il sig. Andres le ha mai contate fralle buone della loro nazione, egli che trionfa colla Celestina alla mano? Huerta, inurbano Gongorista, che solo stava bene in Orano, le ha mai poste in vista? Si confrontino le loro scritture.

ADDIZIONE VII*
Esame delle tragedie del Virues.

La gran Semiramis a buona ragione non dee reputarsi una tragedia divisa in tre atti o giornate, ma una rappresentazione de’ fatti di questa regina in tre favole separate. Nella prima giornata trattasi dell’incontro di Nino con Semiramide moglie di Mennone, cui il re propone di cedergliela; egli ricusa; il re gliela toglie per forza; e Mennone s’impicca. Dalla prima alla seconda giornata passano sedici anni, e l’azione consiste nell’esser Nino avvelenato, nel chiudersi tralle Vestali per ordine di Semiramide is figliuolo Ninia avuto da Nino, e nel coronarsi re Semiramide che per la somiglianza è creduta Ninia suo figliuolo. Corrono altri sei anni dalla seconda alla terza giornata, in cui si tratta della dichiarazione che fa Semiramide di esser donna, della cessione dello scettro a Ninia dichiarandosene innamorata, e della morte che ne riceve.

La cruel Cassandra contiene molti fatti e molti ammazzamenti, ed è la più spropositata delle favole del Virues. Ad eccezione di uno o due personaggi che poco figurano nella multiplicità delle azioni di tal componimento, tutti gli altri sono perversi e scellerati. Vi muojono otto interlocutori, e nello scioglimento veggonsi sulla scena cinque cadaveri; tal che lepidamente un erudito Spagnuolo soleva dire, che in vece di una tragica azione sembrava rappresentazione di una peste. Tutto in essa è sconcerto, stranezze, puerilità; nè lo stile nè la versificazione rendono tanti spropositi tollerabili.

Atila furioso non cede alle altre nelle scempiaggini e tutte le vince in atrocità. Vi muojono intorno a cinquantasei persone oltre di una galera bruciata con tutta la gente che vi è imbarcata. La furia di Attila non disapprovata dal Montiano, è poi la cosa più sciocca e ridicola del dramma, sembrando che Attila dovrebbe dipingersi furioso, se non come Oreste pieno di rimorsi, almeno come dominato dall’ira in estremo grado, ma non già ridicolo ed impetuoso come un pazzo.

La infeliz Marcela non è solo una specie di novella, come diceva il medesimo Montiano, ma un tessuto ci scene sconnesse, improprie, talvolta buffonesche, talvolta atroci. I personaggi per lo più sono inutili ed episodici; le inconseguenze continue; lo stile ineguale ora plebeo e della feccia del volgo, ora fuor di proposito elevato, sempre sconvenevole e lontano dalla tragica gravità, la versificazione dove pomposa, dove triviale. L’autore volle in Marcella rappresentare l’Isabella dell’Ariosto amata da Zerbino. Ed appunto nella prima parte del la favola del Virues accade a Marcella l’avventura d’Isabella che condotta da tre seguaci del suo amante resta in potere di uno di essi preso di cieco amore per lei, che allontanato con un pretesto il più forte degli altri due, ferisce l’altro. Alarico mentre Marcella dorme, manda Ismenio per procurare un cocchio, e ferisce Tersillo che ricusa di secondarlo. Marcella tenta la fuga, Alarico la trattiene, ma accorsi alle grida di lei alcuni banditi, Alarico fugge. Formio capo della masnada consegna Marcella a Felina, come Isabella nell’Ariosto è data in custodia alla vecchia Gabrina. Manca poi al Virues la guida del poeta ferrarese, e si avvolge nel resto in avventure mal accozzate, in bassezze e indecenze.

Elisa Dido non rappresenta questa regina amante di Enea come cantò Virgilio. La favola del Virues si aggira sul matrimonio che Jarba vuol contrarre con Didone. Ella, tuttochè piena della memoria di Sicheo, promette nella prima scena di unirsi all’Affricano. Alcuni capitani suoi vassalli che aspirano alle sue nozze, per turbare il trattato assaltano il campo de’ Mori e rimangono uccisi. L’ambasciadore moro torna a Didone, ed a nome di Jarba le presenta una spada, una corona ed un anello. Didone presso a conchiudere il suo matrimonio con Jarba torna col pensiero a Sicheo; ma pure per suo comando Jarba è introdotto in città. Questo re che non si è veduto ne’ primi quattro atti, comparisce nel V, ed il Coro apre la stanza ove dimorava Didone, e si vede questa regina trafitta dalla spada di Jarba, che ha la corona a’ piedi ed una lettera in mano. Jarba (che sembra venuto unicamente a leggere quel foglio, e a disporre l’esequie di Didone) comprende dalla lettera che la regina per mantenere eterna fede a Sicheo ha scelta la morte. Impone dunque, altro non potendo, a’ Cartaginesi di adorarla come una divinità, e la tragedia finisce. Tutti i cinque atti sono ripieni d’inutili, inverisimili e freddi amori de’ capitani di Dido, e di un racconto de’ suoi andati casi impertinentemente cominciato nel I atto, narrato a spezzoni ne’ seguenti, interrotto quattro volte, e compiuto nel quinto. Il Montiano affermava che in questa favola si rispettano le regole, ma per regole intende solo le unità di tempo e di luogo. Il Lampillas che senza nulla intendere di poesia, volle parlar della drammatica, stimò questa Dido una tragedia perfetta. Compete questa osservazione ad una favola, di cui tre atti almeno sono inutili, e dove Didone, senza apparire la necessità che l’astringe a promettersi a Jarba, è posta nel caso di darsi la morte per non isposarlo? Ciò è tanto più sconvenevole, quanto più Jarba, che viene in iscena sì tardi, si dimostra lontano dalla fierezza, dotato di un cuor nobile, compassionevole e religioso. Si dirà perfetta una tragedia, in cui Seleuco, Carchedonio, Pirro e Ismeria, personaggi totalmente oziosi, la colmano sino alla noja di declamazioni e di racconti gratuiti e seccanti? E’ argomento di perfezione, che mentre i personaggi subalterni cicalano a dismisura, Elisa, figura principale del quadro, in cinque atti recita appena 170 versi, e Jarba non men necessario all’azione è riserbato solo per lo scioglimento con sotterrar Didone? Piano così assurdo verseggiato in istile tanto lontano dalla gravità e dalla correzione, a chi poteva parer tragedia perfetta se non all’ab. Lampillas?

[Errata]

ERRORI

 

CORREZIONI pel tomo IV.

pag. 89, lin. 2 Ayqueja

 

Ay que ya

pag. ivi lin. 7 Hallaros ha huerfanitos

 

Hallaros ha horfanitos

pag. 285, lin. 1 del corrente anno 1789

 

dell’anno 2789