ARTICOLO I.
Su i Teatri Spagnuoli sotto i
Romani.
Non sarà infruttuoso questo mio Discorso, qualora le censure del Signor Apologista mi porgano occasione d’illustrare qualche punto curioso della Storia teatrale. In questa che alla prima mi si presenta, avrò motivo di aggiugnere alcune notizie su i Teatri da me descritti nel trattare del Voto della Storia teatrale.
Il Signor Lampillas pretende che io abbia letto male un
passo dell’Opuscolo di Luis Velazquez sulle Origini della Poesia
Castigliana, ch’egli così traduce1: “Sindachè
i Romani introdussero in Ispagna la buona Poesia, furono in essa
conosciuti i Giuochi Scenici; e le rovine di tanti antichi Teatri, che
sino a’ nostri giorni si conservano in diverse Città, sono altrettanti
testimonj di quanto si fosse impossessato del Popolo questo genere di
divertimento”.
Ed io ben credo che così avvenisse; ma per
soddisfazione degli Stranieri non si dovea avvalorare questa semplice
asserzione con qualche pruova, col nominare almeno le Città dove tali rovine
esistono? Queste pruove io desiderai nel comporre la mia Storia.
L’Apologista però pensa che nulla manchi a quelle parole, e vi rinviene la più convincente pruova a dimostrare l’uso de’ Giuochi
Scenici in Ispagna sin da’ tempi de’ Romani, e si maraviglia, che
io non l’abbia ravvisata: “Quale autorità più incontrastabile che i
magnifici avanzi degli antichi Teatri conservati in Ispagna dopo tanti
secoli?”
Ma il dire non è provare, replica ora il Signorelli. Ha
forse il Velazquez additate almeno queste Città? Ha mostrato che tali
magnifici avanzi sono di Teatri, e non di altra fabbrica? Ben dovrebbe
sapere l’Apologista le fatiche durate tratto tratto dagli eruditi Antiquarj
per assicurarsi della natura dell’Edifizio, di cui esaminavano gli avanzi. E
quanti di questi lasciano chiaramente comprendere di essere teatrali? Un
avanzo di un Circo, di una Naumachia, che non abbia conservate
le proprie note caratteristiche, può dagl’inesperti
credersi tutt’altra fabbrica. Legga l’Opera De
Amphitheatro di Giusto Lipsio [per non inviarlo a quella di un
Italiano, del dottissimo Canonico Simmaco Mazzocchi De
Ampitheatro Campano], e vedrà che l’Anfiteatro non era se non un
doppio Teatro, e che le scalinate, i recinti, le uscite, convengono
appuntino ad esso ugualmente, che al Teatro secondo le regole Vitruviane. Ci
volea dunque a quegli magnifici avanzi pruova sufficiente per distinguerli
col nome di teatrali: e il Signorelli lesse bene, e non
alla sfuggita il passo del Velazquez, e la sua pretensione
fu giusta; ed è il Signor Lampillas che alla bella prima prende quì per
Giunone una nuvola, per dimostrazione geometrica un’ asserzione.
Io per verità fui più diligente del Velazquez, mentovando almeno il Teatro Saguntino, e più il sono nella preparata nuova edizione della Storia de’ Teatri in tre Volumi, nominandovi ancora il Teatro di Merida, accompagnato dalle necessarie citazioni, e quello estemporaneo eretto da Cornelio Balbo in Cadice, sendo Pretore, di cui nè anche il Lampillas si è ricordato. Avrei parimente accennate le rovine teatrali di Clunia e di Castulo, che si mentovano nel Saggio; ma confesso non averne avuto contezza, nè poi l’Apologista cita veruno scrittore per quello di Clunia. Nè anche egli ebbe notizia, a quel che pare, di alcune rovine teatrali site presso il luogo, che oggi occupa Senetil de las Bodegas, dove fu Acinippo, antico Popolo della Celtica nominato da Plinio1 con altri contenuti a Bæti ad fluvium Anam, dal Betial Guadiana. Il Signor Montiano le accenna nel 11. Discorso della Tragedia sul testimonio di un Antiquario Spagnuolo dell’Accademia della Istoria; asserendo che tuttavia vi si discernono le tre Porte della Scena. Nè anche fu noto all’Apologista un altro Teatro Romano-Ispano mentovato da un erudito Professore di Poetica in Madrid in una Lettera su gli errori della Storia Letteraria di Spagna, pubblicata nel 1781. Una Tarteso differente da Cadice, che portò pure questo nome, chiamata da’ Greci Carteia, secondo Strabone, Pomponio Mela, e Plinio, era situata distante una lega da Calpe venendo da Alghesira, e al presente si chiama Cortijo del rocadillo. Ora di questa Città, anche a’ tempi di Pomponio Mela abitata da’ Fenicj venuti dall’Africa, trovansi sparse le rovine per una lega e mezza, e veggonsi tra esse i vestigj di un Teatro, ed anche di un Anfiteatro.
A chi poi è ignoto che la vita di Apollonio scritta da Filostrato non sia un puro romanzo artificiosamente per malignità accozzato per contrapporla alla vita del nostro Salvadore? Perchè dunque l’Apologista consuma due pagine e mezza per mostrare la Greca fede di Filostrato? Se io scrissi, che il Velazquez in vece di prorompere in invettive inutili [quali reputo ora le due pagine e mezza del Saggio] contro Filostrato, avrebbe dovuto convincerlo di errore con pruove chiare, e non voci, ciò forse significa che io sia persuaso della verità del Romanzo di Filostrato? I miei Precettori non m’insegnarono a ragionare a questo modo.
Non entro frattanto di proposito a seguitare l’
Apologista nelle sue congetture sul Teatro Saguntino, cioè che i Saguntini
presero i Giuochi Scenioi da’ Greci, pensando io in
questo discorso a ristrignermi a quello soltanto che a me appartiene.
Accenno però di passaggio, ch’egli dovrebbe addurne altre più solide, o
disperare dell’impresa. In prima ei si conforma al parere dell’erudito P.
Mignana che stima essere il Teatro Saguntino stato innalzato giusta il
modello di quel di Atene. Ben potrebbe darsi: ma da ciò che ne consiegue?
che tal Teatro si eresse da’ Greci, come pensò Gasparo Ercolano? Il
Lampillas insinua l’istesso (p. 21.) con tali parole:
“Ora se i Saguntini presero da’ Romani e non da’ Greci il Teatro,
perchè mai lo fabbricarono conforme a’ Teatri antichi di Grecia
piuttosto che a’ Teatri Romani”?
L’erudito Apologista, dedito
forse tutto alle sublimi scienze, non si ricordò in ciò dire, che i Teatri
Romani, come il Saguntino, furono tutti copie esatte di quelli di Atene,
Mitilene, Epidauro ec., e sebbene vi corse qualche lieve differenza, fu
questa di niun momento per le parti essenziali1.
Che poi il dottissimo P. Mignana stimi che il Teatro Saguntino non sia
conforme alle regole Vitruviane, parmi che in ciò discordi dalla descrizione
datane dal Martì nella Lettera al Zondadari. La differenza che v’incontra
l’erudito Decano di Alicante, consiste nell’essere gli scaglioni che servivano per sedere, più alti di due
palmi e mezzo, benchè la larghezza fosse conforme a’ precetti
dell’
Architetto Latino; cioè di tre palmi e un
quarto. Io tralascio qualche altra conformità di tale edificio con altri
precetti Vitruviani, e specialmente la situazione per esso eletta, che non
può essere a quelli più simile. Nè mi stendo a rilevare che nel Teatro di
Morviedro non apparisca indizio del luogo, ove situavansi i Vasi di rame ne’
Teatri Greci; ed è probabile che essendo costrutto alla Romana, non ne
avesse punto, come non ne aveano quei di Roma, in ciò differenti da quei di
Grecia. Osservi però il Signor Lampillas queste parole del Martì:
“Sul portico si vedeano altre quattro scalinate, ed è difficile
indovinare a qual ordine di persone fossero destinate; imperciocchè i
Senatori occupavano l’Orchestra, gli Equiti le prime quattordici
scalinate, e il Popolo il rimanente. Ora a chi toccavano le altre
quattro”?
Adunque riconosce il Martì nel Teatro di Morviedro
l’Orchestra costrutta alla Romana, cioè destinata a’ Senatori; là dove
l’Orchestra Greca avea alcuna diversità, e serviva alla Timele per i Musici
e i Ballerini. Aggiunga ancora a queste cose l’Apologista ciò che scrive D.
Antonio Ponz1:
“Alla lettera del Martì non unisco la stampa del Teatro come
difettosa, non essendo nè pianta nè alzato, ma un ammasso di cose nel
modo che se la figurò chi non era Professore; ed in suo luogo può
sostituirsi una pianta del Teatro di Marcello molto simile a questo di
Morviedro.”
Vegga dunque il Signor Lampillas dalle cose riferite qual solidezza abbiano le congetture dell’Ercolano da lui adottate, per provare che nelle Spagne vi fossero Teatri prima che in Roma. Ed avverta ancora, che quando anche ciò fosse dimostrato, non che dimostrabile, Roma ch’è una sola Città, benchè sempre chiara, non derogherebbe a tante Città Italo-Greche, che vantarono magnifici Teatri, di cui esistono le reliquie, che si addurranno colle dovute prove a suo luogo; e ciò nel tempo che fioriva l’antica Grecia transmarina.
Per non fare un altro articolo di un’ altra rigida censura del Signor
Lampillas contro la storia de’ Teatri, non meritandone la pena, la
soggiugnerò in questo luogo. Dice il Censore [p. 23.]:
“L’Autore della storia de’ Teatri fa onorevole menzione di molti
illustri Romani che abbellirono la scena .... ma non ricordò quanto
splendore dovette a Cornelio Balbo”;
dicendo ciò per le quattro
colonne di onice che egli espose rel suo Teatro. L’Autore dell’accennata
storia risponde, che del Teatro di Balbo fece menzione con ogni altro
Scrittore, ed invoca la testimonianza del pubblico. Chiede poi perdono
all’Apologista, se omise l’importante notizia da scriversi per tutto l’Orbe
delle quattro colonne di onice possedute da
quell’onorato Spagnuolo, colle quali ornò il suo Teatro. Il Signorelli
sempre povero di cuore e di mente si fe troppo occupare da’ piccioli
ornamenti del Teatro di Scauro, consumati poi in Villa dal fuoco per
malignità de’ di lui schiavi, la cui valuta si stimò che ascendesse a cento
milioni di sesterzj, cioè a due milioni e mezzo di scudi Romani moderni, o
sia cinquanta milioni di reali
Spagnuoli, oltre alle
tremila statue di bronzo che si collocarono fralle trecensessanta colonne.
Così abbacinato da tali magnificenze di un privato che diveniva Edile, le
quali saranno povertà per altri di maggior cuore, non
pensò a quel tesoro inarrivabile di quattro colonne di onice, le quali tutto, e con molta ragione, riempierono il vasto
cuore dell’Apologista Spagnuolo.