(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « DISCORSO STORICO-CRITICO. — ARTICOLO V. Sulle due Sofonisbe Italiane, e su due Traduzioni dal Greco di Fernan Perez de Oliva. » pp. 26-42
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(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « DISCORSO STORICO-CRITICO. — ARTICOLO V. Sulle due Sofonisbe Italiane, e su due Traduzioni dal Greco di Fernan Perez de Oliva. » pp. 26-42

ARTICOLO V.
Sulle due Sofonisbe Italiane, e su due Traduzioni dal Greco di Fernan Perez de Oliva.

La prima Sofonisba è quella del Carretto, la quale dagli Scrittori Spagnuoli, che ignorano le Tragedie Italiane del XIV., e XV. secolo stimandosi decisiva circa l’anterioriorità della Tragedia a favor dell’Italia, è stata più volte combattuta. Il Compilatore del Parnasso Spagnuolo, per far luogo alle ideali Tragedie di Vasco Diaz, volle disbrigarsene dandole il titolo di Dialogo allegorico. Il Signor Lampillas non potendo non comprendere la forza, onde mostrammo l’insussistenza del discorso di quell’Erudito così riguardo alla Tragedia del Carretto, come riguardo al Vasco, ci vuole almeno rimproverare che tale Tragedia non doveva chiamarsi, come noi facemmo, regolare e scritta con arte. E sì io confesso ch’essa ha molti difetti; ma per trovarsene moltissimi ne’ migliori Tragici Spagnuoli, cioè nel Bermudez, nel Cueva, nel Virues, nell’Argensola, lascia forse il Signor Lampillas di chiamarli eccellenti?

Quì però nè anche si tratta di perfezione, ma di anteriorità nel genere; or questa come può negarsi alla Tragedia del Carretto, perchè la divise in molti Atti, ed incorse in qualche irregolarità? Essa è senza dubbio Tragedia, e non Dialogo allegorico, ed è anteriore alle vane pretenzioni fondate sul Vasco, o su qualche altra produzione posteriore. Insta il Signor Lampillas, piena la mano di alcune autorità Italiane contro di essa, cioè dell’Ingegnieri, del Quadrio, e del Maffei. Io lascio di discutere l’opinione dell’Ingegnieri, perchè non si oppone alla mia; che sebbene egli dica che era stravagante, non però nega che fosse Tragedia. Lascio anche il Quadrio, che talvolta esagera, ma che nè anche nega nè afferma, che fosse Tragedia. Vengo all’eruditissimo Signor Marchese Maffei, il quale rimuove il Carretto dal numero de’ Poeti Tragici. Mi permetterà il Signor D. Saverio, che io anteponga la ragione all’autorità. Un Dramma fa distinguere il suo genere dall’Azione, da’ Caratteri, e dalle Passioni, come dalla divisa si conosce a qual Regimento appartenga un Soldato. Chi volesse decidere del di lui Regimento dalle follie o da’ vizj di tal Soldato, mal si apporrebbe. E che hanno a fare gli errori del Poeta, il meccanismo della versificazione da lui scelta, la divisione inusitata degli Atti, colle note caratteristiche del genere? Questo è compiacersi del proprio inganno. L’Azione di questa Sofonisba è grande, è eroica, come la richiede Teofrasto: i Caratteri sono gravi e tragici, secondochè consiglia Aristotile: le Passioni forti, perturbate, superiori alla mediocrità, come si pretendono nella Tragedia da tutti gl’Intelligenti: non havvi mescolanza veruna di tragico col comico, come si trova almeno in sei o sette delle quindici Tragedie Spagnuole. Tutto ciò non dà a questa favola la giusta denominazione di Tragedia? La mente adunque del Maffei non fu di escludere contro alla evidenza la Sofonisba dalla classe delle Tragedie, bensì il Poeta dal numero de’ buoni Tragici. E dice forse altra cosa il ch. Tiraboschi? Egli1 asserisce soltanto che la moltiplicità degli Atti, il metro dell’Ottava rima, e altri capricci dell’Autore in essa introdotti, non permisero a questa Sofonisba di salire in gran pregio. E questo significa forse che non è Tragedia?

Anche quì mostra l’Apologista il suo rincrescimento perchè ripetei di passaggio, che prima assai di questa Tragedia gl’Italiani ne aveano avute più altre; ma non mi trattengo a disingannarlo, bastando a ciò l’Articolo precedente. Intanto per non rendersi si va lusingando di poter ajutarsi col Varchi e con Giraldi Cintio, che dissero essere il Trissino stato il primo a scrivere in nostra lingua una Tragedia degna di sì gran nome. Ma se avesse scorsi i passi di questi Letterati meno alla sfuggita, avrebbe osservato che essi dicono che il Vicentino fu il primo a scrivere una degna Tragedia in questa lingua, cioè in idioma Italiano. Nè poteva dire altrimenti chi non ignorava che nell’altro secolo se n’erano composte in Latino. E che? Forse per essere Latine perdettero il dritto di essere Tragedie? perdettero l’altro della Cittadinanza Italiana? Non appartennero a’ Latini le Tragedie di Tito Vespasiano, e la Commedia di Claudio, perchè composte in Greco?

L’altra Sofonisba è quella di Gian Giorgio Trissino, della quale si contrasta il tempo della rappresentazione, il merito tragico, e il pregio dell’invenzione. Quanto al tempo, dice l’Apologista, che secondo Gregorio Giraldi, essa fu terminata di scrivere verso la fine del 1515. Una domanda Signor Lampillas. In quale edizione del Giraldi avete ciò letto? Nel Giraldi della Biblioteca di S. Angelo a Nido in Napoli, e nella Reale di Madrid, trovo soltanto, che mentre Ariosto era per dare alla luce il Furioso, nè avea ancora prodotto le sue belle Satire, ma solo alcuna Commedia che fu intorno al 1498., il Trissino (dice il Giraldi) habet Sophonisbam Tragædiam in manus, cujus quosdam actus nonnumquam ille recitat.1 Con ciò si afferma forse che egli terminò di scriverla verso il 1515., come Voi fate dire al Giraldi? Se l’avete letto voi stesso, vi prego a rileggero a miglior lume, e non alla sfuggita: se qualche coadjutore vi somministrò tal notizia, ditegli per un’ altra volta che vene trasmetta delle più accurate. Di grazia Signor Abate, non vogliate rassettare a vostro modo i libri composti più di due secoli e mezzo prima di Voi. Circa il luogo dove si rappresentò la Sofonisba, si trova nelle Opere del celebre Filosofo, e Letterato l’Ab. Antonio Conti Nobil Veneto, che in Vicenza, e in Roma furono cantati i Cori della Sofonisba, ciò che ci addita le due rappresentazioni. Non disconvengono i Francesi; e M. de Voltaire in un passo da me recato nell’aumentar la Storia de’ Teatri, narra la magnifica rappresentazione fattasene in Vicenza nel 1514. [vale a dire, secondo il Signor Lampillas, un anno prima che fosse terminata di scriversi]. Inoltre è chiaro che, ad insinuazione del Trissino suo sviscerato amico, il Rucellai compose la Rosmunda, che ognun sa che fu posteriore alla Sofonisba; or la Tragedia del Rucellai si recitò in Firenze nel 1516.; quella dunque del Trissino che la precedè, fu recitata prima del 1516., come io dissi. Vero è che il Zeno nelle Note al Fontanini dice che la Rosmunda si rappresentò nel 1517.; il Voltaire però che porta la rappresentazione della Sofonisba in Vicenza, al 1514., dice così di quella della Rosmunda: “Deux ans aprés le Pape Leon X. fit répresenter à Florence la Rosmunda de Rucellai avec une magnificence très-superieure à celle de Vicence. L’Italie fût partagée entre le Rucellai & le Trissino”. Sempre adunque la Sofonisba si rappresentò due anni prima della Rosmunda. Siasi poi, o no, rappresentata in Roma, è una cosa fuori della presente questione col Signor D. Saverio. Importa solo il sapere che due anni prima del 1516., come vuole il Voltaire, o del 1517. come risulta dall’osservazione del Zeno, la Sofonisba si rappresentò nella Patria dell’Autore. Vediamo ora ciò che dice l’Apologista sul merito di questa Tragedia.

Egli veramente da se nulla ne dice, ma la stima di poco pregio appoggiandosi all’autorità di Messer Benedetto Varchi. Quando l’Apologista fida sul di lui giudizio, avrà certamente scoperti in lui requisiti, che il rendano giudice competente delle altrui Tragedie; ed io gliene saprei grado, se me gli additasse. Imperocchè, quanto a me, i di lui giudizj sulle cose Drammatiche non sembranmi i più sicuri; ed eccone qualche ragione che ne assegno. Il Varchi preferì le Favole del Ruzzante alle Atellane. Ma di queste avea egli una chiara idea, qual debbe aversi nel comparar due cose? poteva egli averla? Io trovo sulle Atellane così contrarie opinioni negli Scrittori, che non saprei determinarmi a diffinirle, se non col prendere il partito accennato nella Storia de’ Teatri, cioè assegnando loro due epoche, o sia riconoscendo in esse un’ alterazione successiva, che di sobrie, gravi, e degne di essere privilegiate, le converse in leggiere, oscene, e licenziose. Or non essendo sicuri della loro specie, come poteva il Varchi compaparle con le favole del Ruzzante? come posporle a queste? In oltre il Varchi parla dell’Antigona di Luigi Alamanni, e dice che anzi che Tragedia debba dirsi traduzione dell’Antigona di Euripide. So che Euripide per certi versi de’ suoi frammenti ci fa chiari che avesse anch’egli, come Sofocle scritta un’ Antigona. Ma non so come l’Alamanni poteva tradurre una Tragedia Greca per noi perduta forse da due mila anni. A queste osservazioni che ci dimostrano, che il Varchi, benchè avesse scritta qualche Commedia, non si curò di applicarsi gran fatto sulla Poesia Drammatica, aggiungasi l’animosità del Varchi contro del Trissino. E se il Signor Lampillas volesse saperne anche la sorgente, rifletta e alla traduzione fatta dal Trissino del Libro di Dante De Vulgari Eloquentia scoperto dal Corbinelli, la quale amareggiò non poco col Varchi tutti i Fiorentini, e all’avere sempre il Trissino sostenuto che il Dialetto Fiorentino non dovea considerarsi come lingua generale Italiana. Or quando l’erudizione antica, specialmente Tragica, fosse stato uno de’ meriti principali del Varchi, debbe il giudizio di un nemico prevalere a quello degl’indifferenti? a quello de’ contemporanei e de’ posteri? a quello de’ buoni Francesi? a quello di M. de Voltaire Tragico insigne? “Essa è nobile (egli dice), è regolare, e scritta puramente. Havvi de’ Cori, e vi respira in tutto il gusto dell’Antichità. Altro non si può rinfacciare al Trissino, che qualche declamazione, qualche difetto nel viluppo, e qualche languidezza, che però erano anche i difetti de’ Greci. Ei gl’imitò troppo nelle loro debolezze, ma pervenne parimente ad ornarsi di alcune loro bellezze.” Ma tacciano le autorità, e mi dica il Signor Lampillas, se dee valere il giudizio del Varchi contro l’umana sensibilità? se i posteri debbano convertirsi in macchine, e non contraddire a questo Scrittor Fiorentino? Forse più di un moderno Leggitore si tedierà in certe scene della Sofonisba; ma chi non vi troverà molti pregi? Così appunto pensa di essa il Cavalier Tiraboschi, benchè l’Apologista il citi a suo favore, e in confermamento del giudizio del Varchi, di che più di uno si maraviglierà. Lo Storico adunque della nostra Letteratura riconosce nella Sofonisba de’ difetti1, come la poca gravità dello stile: ma vi scorge ancora molti pregi. Tra questi possiamo notare quel patetico accennato da me nella scena del veleno e di Sofonisba moribonda, che forma un quadro degno di Euripide. E se il Signor Lampillas si prendesse il travaglio di leggere questa parte di quel Dramma, presumendolo dotato di cuore sensibile, son certo che in questo ci accorderemmo; nè mi condannerebbe per aver io dubitato che qualche Oltramontano avvezzo alla gonfiezza sdegnerebbe forse quella naturale, viva, patetica dipintura. E molto meno seguiterebbe a cercar di deprimere la Sofonisba col criticare la scena che siegue alla morte di questa Regina, allorchè viene Masinissa, la quale scena all’ Apologista sembra freddissima. Quando anche ciò fosse, che perderebbe la scena da me lodata? Se in un quadro si osservi una figura egregiamente disegnata, espressa, e colorita, non mai essa perderà il suo merito, perchè in un altro lato se ne noti un’ altra non così finita e perfetta. Che se poi il Signor Abate sia pur fermo nella determinazione di sconfiggermi, il modo più proprio di conseguirlo si è mostrare a dirittura la mia mala scelta, il mio mal gusto nella citata scena, palesandone la mancanza di verità e di patetico. Ma il Signor Lampillas non potendo riuscire in una quistione salta in un’ altra; fugge dallo steccato, e poi minaccia in altra parte. Don Chisciotte nol farebbe per non trasgredire le regole Cavalleresche, dovesse anche farsi accoppare da qualche Biscaglino.

Vuol finalmente l’Apologista (p. 87.) togliere al Trissino anche il merito dell’invenzione per una ragione tutta sua: “Non può pretenderla poichè trovò in Tito-Livio e l’argomento e il piano della sua Tragedia”. Or chi l’avrebbe pensato? Quando la maggior parte de’ Critici intelligenti ingiunge che si evitino gli argomenti finti (ad onta di varie ottime Tragedie di fatti ideati, come il Torrismondo, l’Alzira &c.), e che si cavino dalla Storia, dalla Mitologia antica, e da’ Poemi Epici moderni ancora, di maniera che quasi più difficoltoso pare che sia il rinvenire un fatto Eroico proprio della Tragedia, che il tesserne la favola e il ben verseggiarla: il Signor Lampillas ardisce in faccia all’odierna Europa riprovar questo appunto che s’inculca, e attribuire a difetto d’invenzione nel Trissino l’aver tratta da Livio l’avventura di Sofonisba! Adunque addio Eraclidi di Euripide, poichè l’argomento, il piano, il nodo, lo scioglimento, la morte di Macaria, la protezione di essi presa dagli Ateniesi contro di Euristeo, è una storia delle antichità Attiche, che si legge nel I. Libro di Pausania: addio antica Alope di Cherilo, addio famose Ifigenie di Euripide: addio Medee, Ajaci, Ecube, poichè tutte le loro storie trovansi conservate con bronzi, con marmi, con legni, e con pitture nelle rispettive Patrie, e poi ripetute da’ Poeti antichissimi, onde i Tragici trassero gli argomenti delle favole che ne idearono, di che vedasi il citato Pausania: addio insomma diremo a tutte le Tragedie Greche, Latine, Italiane, Francesi, Inglesi, Spagnuole, e Alemanne. Esse tutte senza eccezione, secondo la Critica di ultima moda del Signor Lampillas, mancano d’invenzione, per essere stati prima narrati i loro argomenti dagl’Istorici e da’ Mitologi. Strana cosa che un Apologista sì acuto non vedesse ove il menava un argomento che provaesorbitantemente? Ma venghiamo alle due Favole tratte dal Greco e scritte in prosa dal Maestro Fernan Perez de Oliva, le quali l’Apologista vorrebbe strascinare al tempo che si compose la Tragedia del Trissino.

Secondo le date messe in campo dal Lampillas, il Perez di anni 18., o 19. venne da un suo zio chiamato in Roma, e vi dimorò tre anni. Morto questo zio, andò a Parigi, ove si trattenne altri tre anni col suo Maestro Siliceo. Da queste epoche ricava l’Apologista, che il Perez soggiornasse in Italia dal 1514. sino a’ principj del 1517. Ciò posto soggiugne [p. 79.]: “Ora avendo egli composte le sue Tragedie nel tempo in cui dimorò in Italia, dovettero esse comporsi nel 1515., o 1516.” Bel bello, Signor mio, che Voi fate certi salti più prodigiosi di quello di Alvarado nel Messico. Dite, ora avendo egli composte le sue Tragedie in Italia: E quando Voi, o i vostri nazionali, avete provato che in Italia le componesse? Costa ciò, o non costa? Se costa, perchè non ne adducete i documenti che possono a dirittura dirimere la quistione? Se non costa, a che darlo per certo? a che affastellar cose di niun momento? S’io non m’inganno, niuno degli Scrittori nazionali sognò mai di asserire simil cosa, cominciando da Ambrogio Morales che pubblicò le Scritture di quel suo zio. Don Nicolas Antonio afferma soltanto che tali scritture autografe si trovarono morto il Perez, e il Morales le raccolse, e fece imprimere nel 1585. Il Montiano che fu assai diligente altro non dice nel I. Discorso se non che “sono così antiche le Tragedie in Ispagna, che prima dell’anno 1533.” se ne aveano due ben distinte del Maestro Perez. Questo prima del 1533. è ben diverso dal 1516. affermato positivamente dal Signor Lampillas; nè poi a verun patto dice il Montiano che si componessero in Italia. Il Signor D. Giuseppe Lopez de Sedano dice, come il Montiano, che le scrivesse prima del 1533., ma non già che ciò avvenisse in Italia: “Costando (egli dice) che le compose prima del 1533., e trovandosi fuori di Spagna, e per esercitarsi nel nativo idioma, non v’ha ragione che ripugni a credere che ciò potè essere [pudo ser] verso il 1520.” Nè anche però vi è ragione, che ripugni a credere che le componesse in Ispagna; e così rimangono in uguale incertezza entrambe le congetture. Solo il Signor Lampillas più franco e coraggioso dà per sicuro che le componesse in Italia, appena lasciate le scuole di Spagna. Egli è forse permesso agli Apologisti il recare per pruova quello appunto che si contrasta? E perchè non additare a’ leggitori il fondamento della sua credenza? Ma qual fondamento sperarne, se di quel Valent’uomo ignorano i nazionali fin anco il tempo in cui nacque! Essi si combattono: il Signor Sedano presume che il Perez potesse nascere verso il 1497. il Signor Lampillas, il quale, pel suo intento, ha bisogno di alcun anno di più, risale sino al 1494., o 1495. Non vi è altro di certo se non che s’ignora, del pari della nascita, il tempo e il luogo, in cui il Perez compose le sue Tragedie, e che restarono sconosciute a tutto il Mondo; nè s’impressero, nè mai si rappresentarono, e giacquero sepolte per più di mezzo secolo. Or che tanto arzigogolare per approssimarle a quella del Trissino? Qual prò dalle sofisticherie, dove sono contrarj i fatti?

“Che giova ne le fata dar di cozzo?”

Furono le Tragedie del Perez la Venganza de Agamenon, che è l’Elettra di Sofocle, e l’Hecuba triste, che è l’Ecuba di Euripide. Osarono il Sedano e il Signorelli chiamarle Traduzioni, e il Lampillas che pur le avea egli stesso così chiamate in un altro Volume del Saggio1, e che pure nega al Trissino l’invenzione per aver preso l’argomento della sua Tragedia da Livio, si stizza, s’imbizzarrisce poi perchè si chiamino Traduzioni due favole Greche travestite, raccorciate, e scritte in prosa Castigliana. Questo è scherzare, o parlar di Letteratura? L’argomento, il piano, gli eventi, l’orditura, il nodo, lo scioglimento, tutto insomma appartiene agli originali Greci. La maggior parte delle scene vien tradotta quando da verbo a verbo, quando con giunte, variazioni, o troncamenti, quando posponendo, o anteponendo, qualche scena, o tutta, o in parte. E questo non è tradurre? Non sarà mia la Biblioteca, se Voi veniste in mia Casa, e sconvolgeste l’ordine de’ miei Libri? Ma felice il Perez se invece di scorciare, alterare, e rattoppare, come ha fatto l’Elettra del Greco Maestro, l’avesse con più fedeltà seguita! Quanto a’ personaggi egli ha conservati ancora quelli degli originali, coll’importante variazione, che nella prima ha dato ad Oreste Pilade per compagno, che rimane un personaggio insulso, inutile, e per cui l’idea dell’eroica fortezza di Oreste viene diminuita. Nella seconda ritiene parimente i personaggi dell’Ecuba Greca, eccettuandone Taltibio. Ha ritenuta in questa anche il titolo di Ecuba aggiugnendovi triste. Ed in ciò vede il Lampillas una delle prove convincenti per dimostrarla lontana dall’Originale. Pruova apologetica sottilissima! quasi che potesse darsi un protagonista Tragico allegro e festevole. Un altro vantaggio ha prodotto ancora quel triste annessovi con tanta felicità. Per esso ha rimediato (dice il Signor Lampillas) “in parte alla moltiplicità delle azioni che si trovano nell’originale Greco, unendole tutte sotto un giusto titolo”. Or chi avrebbe creduta tanta virtù occulta in quell’aggiunto triste? Avete ragione, Signor Lampillas; la difficoltà di rimediare alle cose consiste in inventare o incontrare un vocabolo felice. Spiacemi intanto che di sì felice osservazione non vi si debba la gloria intera, e converrà che vi contentiate di dividerla col Signor Sedano, che ve l’ha suggerita. Ma a Voi tanta parte ne rimane, che potete riceverne le congratulazioni. Perdonate però se interrompo un’ estasi così bella con rappresentarvi che le azioni dell’Ecuba Greca non sono già molte, come Voi dite, senza forse ricordarvi della favola di Euripide, ma due, cioè la morte di Polissena, e la vendetta presa da Ecuba di Polimestore; che la morte di Polidoro è seguita prima dell’azione della Tragedia. E queste due azioni, a dispetto della virtù talismanica infusa dall’Apologista nella parola triste, sono ancor due nella traduzione del Perez. E che ci volete fare, Signor Lampillas? Lasciate correre: già sapete in qual mondo oggi siamo: vi sono alcuni saputelli, che vogliono saper più de’ Saccentoni, nè si accomodano più a certa Filosofia di un tempo, in cui le voci bastavano a dar corpo alle ombre.

Quanto alla locuzione certamente il Perez merita ogni lode per la purezza, eleganza, e naturalezza, con cui spiega i suoi concetti. Ma lo stile talora si abbassa, e più di una fiata vi si desidera la tragica gravità degli originali. Si vorrebbe talvolta in qualche pasio che il Perez si fosse più attaccato all’originale (perchè sempre è meglio tradurre che peggiorare). Infatti nella Scena di Elettra col Coro l’espressioni del Perez sono contrarie al semplice vago linguaggio della passione. Dice Elettra. “Principalmente que yo os ruego me digais què lluvia pensais que tengo yo en mi cuerpo, donde se consumiesen tantas lagrimas como vierten mis ojos” . . . Chi si va lagnando abbattuto da gravi calamità fa di siffatte richieste? va cercando che altri gli dica che gran piova serbi nel proprio corpo per versar tante lagrime? “Què capacidad es la demi pecho para detener en èl la muchedumbre de mis gemidos, que salidos fuera no caben en los ayres?” . . . Oltre al non esservi natura in questo modo di esprimersi sulla scena, scorgesi in tal sentenza una falsità più propria del secolo XVII., dando corpo a’ gemiti e asserendo che non possono capire nell’atmosfera. “Habed yo os ruego de mi compassion: no querais atapar con vuestros consejos los respiraderos de las hornazas de fuego que dentro me atormentan”. Vi par questo linguaggio scenico? I ventilatoj delle fornaci che ha nel corpo, non vuole che se le turino co i consigli? I consigli convertiti in turacciuoli? Queste metafore, quando anche fossero ben concepite, continuate con troppa cura e corrispondenza ricercata, sono il veleno del patetico, disdicevoli al genere Drammatico. Con qual altra proprietà ed energia di passione, parla l’Elettra Greca in questo medesimo luogo! Due soli versetti producono quell’effetto che si distrugge cogli accennati consigli, ventilatoj, gemiti che riempiono tutta l’estensione dell’atmosfera.

ἐατεμ᾿ ῶδ᾿ ἀλύειν
ἀί ἀί ἰκνοῦμαι

Ahi di me! lasciatemi quì, ve ne supplico, a trattenermi colle mie tribolazioni 1. Queste sono le variazioni fatte dal Perez nell’originale Greco, per le quali combatte l’Apologista. Aggiugnerò solo un altro esempio della seconda Traduzione. Il nobilissimo carattere di Polissena, che sin dalle prime parole traluce in Euripide, non apparisce nel di lei dialogo con Ecuba alla presenza di Ulisse, nella maniera che stà espresso nella copia:

“Pol.

Què es esto, Madre, que lloras con tan tristes gemidos? què quieren estos hombres armados?

“Hec.

Vienen, hija, por ti. Oh hija triste, à que talamo te han de llebar!

“Pol.

Como, di, Madre, entre tantas desventuras nuestras me quieren casar?

“Hec.

Si, hija Policena, adonde nunca me veas!

“Pol.

El Esposo quien es? adonde està?

“Hec.

Està con los muertos.

“Pol.

Ahi, Madre mia, con hombre muerto me quieren casar?”

Ora in tal dialogo si riconosce più la Polissena Greca saggia in quanto dice, magnanima ancor morendo? Non pare convertita in un’ Agnès, in una sempliciona? Non dovea ella accorgersi dall’aspetto degli astanti, dal dolore inteso, e dalle espressioni della Madre, che non si trattava di nozze? Assai diversamente le fa annunziare l’amara notizia il tragicissimo Euripide nella scena che incomincia, ιὠ μᾶτερ μᾶτερ τι βοᾶς. Ecco come io informemente tradurrei questo breve squarcio seguendo esattamente l’originale.

“Pol.

Quai novità? quai gemiti? Quì fuori
Come atterrito augel, Madre volai
Di terror piena. Or che a gridar ti spinse?

“Ec.

Ahi figlia!

“Pol.

Ancor con mesta infausta voce
Mi appelli? ahi qual per me presagio è questo?

“Ec.

Figlia, ahi di te!

“Pol.

Più non tacere. Io temo,
Temo quel pianto, e la cagion ne cerco.

“Ec.

Compiangi, o figlia, un’ infelice Madre.

“Pol.

Deh perchè mai?

“Ec.

Te delle schiere Argive,
Di Achille in sulla tomba, il comun voto
Oggi a morir destina.”

Altri passi potrei aggiugnere, ne’ quali il Traduttore, per appartarsi dall’Originale, ha nociuto o alla naturalezza, o al patetico, o alla maestà che in quello si ammira. E quante bellezze non ha egli perdute nel lasciarne i bellissimi Cori? Ma io non vò portare oltre questo esame, e dirò colle parole di Torquato:

“Nessuna a me col busto esangue e muto
“Riman più guerra.”

Riguardo poi all’esser queste favole del Perez composte in prosa, se vuole il Signor Lampillas patrocinare la prosa nelle Tragedie, è padrone del suo ozio e della sua penna. Chacun a son gout. Per me la rifiuterò costantemente co i migliori delle migliori Nazioni. Oggi in Italia una Tragedia Reale scritta in prosa, sarebbe un delirio. Non abbiamo se non l’eloquente Ceruti, che volle provarsi ad animare una Tragedia con una prosa armonica, seguendo le idee di M. Diderot; ma qual compagno potremo dargli? In Francia sarebbe certamente fischiata una Tragedia Grande in prosa, fosse anche dettata dall’elegantissimo Racine, o da un Voltaire; nè è di questo luogo addurne le ragioni. Dico però che l’Apologista, nel volere assegnare alcuna di quelle sue convincenti ragioni a favore della prosa nelle Tragedie, cavalca a disdosso, dicendo [p. 83.], che si veggono applaudite tante Commedie scritte in prosa. Egli crederà che in tutte la cose si combacino questi due generi, o che essi siano un solo genere eterogeneo, come furono nelle mani di Lope e Calderon. Io non dubito del gusto dell’Apologista in Poesia, avendone egli dato pruove e co’ suoi Sonetti e colle sue Critiche; ma mi perdonerà se intorno all’ammettere la prosa nelle Tragedie, io da lui disconvenga.