(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro II. — Capo I. Ritorno delle Rappresentazioni Teatrali dopo nate le Lingue moderne. » pp. 181-187
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(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro II. — Capo I. Ritorno delle Rappresentazioni Teatrali dopo nate le Lingue moderne. » pp. 181-187

Capo I.
Ritorno delle Rappresentazioni Teatrali dopo nate le Lingue moderne.

L’orrore e la desolazione non furono le peggiori conseguenze di quella rapida folgore boreale che tutto mise in combustione l’imperio romano. Col tempo li riparano le stragi, si seminano di nuovo i campi, li rialzano gli edifici, se il nuovo signore lascia intatti i costumi; e non alterando gran fatto il governo, sembra egli stesso conquistato in certo modo dal popolo aggiogato. I tartari ultimi conquistando la China, vi divennero cinesi. Ma i figli de’ tartari antichi che inondarono le provincie romane, col nuovo governo che vi stabilirono, togliendoci i patri costumi, ci trasformarono nella loro barbarie; ed oh quanto tardi il tempo distrugge gli effetti di sì luttuoso vicende! Pose sulle nostre ruine il suo trono il governo feodale, polizia fino a quel punto a noi ignota, e per natura poco propizia all’ordine e alla pubblica tranquillità. Un sistema per indole portato a dividere più che a unire, tagliava ogni più dilatato reame in tante minute signorie, le quali se nella guerra per bisogno formavano un sol corpo, nella pace nulla quali fra loro, e poco s’attenevano al tutto. Naturalmente geloso alimentava una continua discordia e avversione tra ’l monarca e i baroni, tra’ baroni e baroni, e tra’ baroni e ’l popolo. Di là vennero tante armate barriere, fortezze, castella baronali, opposte a’ compagni e al sovrano più che a’ nemici stranieri, delle quali e nel nostro regno e altrove veggenti tuttavia in piedi su ripide balze grosse reliquie: di là tante guerre intestine, tanti diritti de’ leudi e antrustioni, vassalli angari parangari, e schiavi prediali ec. Or quando gli uomini trovansi quasi in una mutua guerra, quando poca é la sicurezza personale e pressoché nulla la libertà, quando gli spiriti gemono commossi dal timore e depressi dall’avvilimento, come coltivar le scienze e le arti, polir i costumi, e richiamar il gusto fuggiasco o rimpiattato? Spazia allora senza ritegno la stupida la cieca ignoranza, e tutto é squallore, ruvidezza e tenebre; e tale era l’aspetto dell’Europa sino al secolo undecimo114.

Qualche solitario allievo della sapienza, fortunatamente apprestatosi al solio se all’udito di Carlo Magno, avea eccitato il di lui genio ad accingerli alla più che erculea fatica di rischiarare e ingentilire i popoli; e in fatti quello gran principe col soccorso di alcuni italiani115 avea sparso per le provincie oltramontane un barlume passeggiero. Ma sotto i di lui successori si ricadde nella pristina oscurità. Dimenticate le leggi scritte, il diritto romano, i capitolari, sorsero da per tutto le costumanze. La giudicatura cadde nelle mani d’uomini senza lettere, i quali non di rado venivano dalle parti obbligati a provar coll’armi la propria integrità e la giustizia della sentenza data, per la qual cosa richiedevasi in essi più forza di corpo che di mente. La maggior parte degli ecclesiatici intendeva a stento il latino del breviario116. Luttavano allora con questo linguaggio adulterato cento idiomi oltramontani, e in tal conflitto di voci la necessità di farsi intendere dava la vita a certi nuovi gergoni, ciascuno de’ quali prendeva un carattere nazionale e distinto, in Italia, in Francia, e nelle Spagne.

Chi avrebbe mai allora potuto indovinare che in quelle nuove lingue dovea col tempo rifiorire la più sfoggiata eloquenza ateniese e romana? che tutte le muse doveano abbellirle di tutte le loro grazie? E pure il corso naturale delle nazioni apportò una rivoluzione sì vaga e sì mirabile. Per un flusso e riflusso costante avverato da’ fatti, corrono le nazioni, dalla barbarie alla coltura e poi da questa a quella, quando l’una e l’altra arriva al grado estremo. La barbarie estrema produce l’inopia, la quale, col divenir per forza industriosa, apporta successivamente ricchezza e coltura. La coltura estrema degenera nera in lusso eccessivo, il quale diventa padre della mollezzza e poltroneria, e allora col trascurarsi le arti migliori ed utili, depravasi il gusto e rientrasi nella barbarie.

L’Italia governata da’ savi pontefici romani e dagl’Imperadori greci, prima d’ogni altro popolo emerse dalle ombre. Essa avea conservato meglio l’uso della scrittura e i semi dell’industria117, e fu la prima a veder il cammino d’arricchire per mezzo del commercio. Fornì questo a molte città d’Italia il modo di rimettersi in libertà, sotto i cui auspici solo possono gl’ingegni uscir della stupidità e inazione. L’esempio per la vicinanza passò prima in Francia, e si comunicò di mano in mano all’Alemagna, all’Inghilterra, alla Scozia, e alla Spagna. In tal guisa il governo feodale fu da per tutto ferito mortalmente. S’indebolì l’indipendenza de’ baroni, le corone accrebbero la propria prerogativa, e ’l popolo uscendo della schiavitù, diede allo stato cittadini utili, liberi, industriosi. Ed ecco come in tal periodo da per tutto si videro i talenti posti in movimento, e sbucarono i versificatori volgari provenzali, piccardi, siciliani, e toscani.

Rinate colla Libertà l’industria e l’opere dell’ingegno, si risvegliò lo spirito imitatore rappresentativo. Il commercio fece stabilir le fiere; e la necessità di chiamarvi e trattenervi il concorso, v’introdusse le danze e i divertimenti. Or il clero, cui importava che i popoli non venissero distratti dalla divozione, alla prima proscrisse sì fatti spettacoli, ed in seguito, cangiando condotta, volle egli coltivarli. Così in quel tempo poco luminoso una spezie di rappresentazione s’intruse sin nel culto divino, e le feste si celebravano rappresentandosi. Era notabile in Roano la Festa Asinaria, nella quale intervenivano tutti i profeti antichi colle loro divise, e l’istesso Balaam sull’asina. Correva il popolo volentieri alla festa de’ pazzi, a quella degl’innocenti e anche alla musica che fu introdotta nelle chiese. I monaci poi si avvisarono ancora di mettere in dialoghi le vite de’ santi, come quella di Santa Caterina rappresentata da’ monaci di San Dionigi, ed altri innumerabili dialoghi di simil fatta, che andaronsi recitando di mano in mano in Francia, in Alemagna, in Italia, e nelle Spagne, dove durarono per molti secoli. Essi solcano ne’ primi tempi recitarli nelle chiesa, o ne’ cimiteri, dove passava il popolo, come a una pia ricreazione, dopo aver ascoltata la predica in chiesa. Tali pietosi divertimenti ne’ cimiteri, i quali fango sovvenire del bel contrasto del famoso quadro del Puffino della tomba in Arcadia, svegliarono molto naturalmente le idee teatrali. Ma fino al principio del secolo XIII non troviamo fra tante poesie piccarde, provenzali, siciliane, e toscane, veruna cosa che veramente si appartenga al teatro. Si favella di tragedie e commedie composte da Anselmo Faidits nella poco esatta e veridica Storia de’ Poeti Provenzali del Nostradamus; ma quegli fiorì nel secolo tredicesimo, essendo morto nel 1120. E non ostante il titolo di tragedie e commedie, esse altro non erano che meri monologhi, o dialoghi satirici senz’azione, posti in musica da lui stesso118, e cantati insieme con sua moglie, ch’egli menava seco in cambio di menestrels, o jongleurs, da noi detti giullari. L’Heregia dels Preyres é il titolo che ci é restato di uno de’ dialoghi di Faidits. I nominati menestrels, a guisa de’ rapsodi dopo il tempo di Omero, andavano suonando e cantando sui loro stromenti la musica, e i versi de’ trovatori provenzali, e giravano per i castelli de’ signori per divertirli colla musica, nell’ora di desinare119. Di quelli menestrels ebbero ancora gl’inglesi, gli scozzesi, e i danesi, e forse furono i successori dei bardi e degli scaldi. L’Alemagna nel secolo XIII avea i suoi minnesaenger, o cantori d’amore, nelle cui poesie, che ancora esistono, neppur si vede cosa veruna teatrale. Nelle Spagne si trovano i versi cantati da’ pellegrini che visitavano il sepolcro di San Giacomo, da’ quali ha saputo Don Blàs de Nasarre rintracciare la famosa origine letteraria delle Orazioni de’ Ciechi.

L’Italia che già contava vari dotti poeti, come Guitton d’Arezzo, Dante de Maiano, Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Brunetto Latini, e ’l migliore di tutti Dante Alighieri, par che sia l’unica nazione che ci presenti alcuni monumenti veramente teatrali del secolo XIII. Il signor Apostolo Zeno di conosciuta erudizione, probità, ed esattezza istorica, ricavò da varie cronache, che in Padova nel prato della valle si fece una rappresentazione spirituale nel giorno di Pasqua di Resurrezione dell’anno 1243, o 1244120. Un’altra rappresentazione de’ misteri della passione di Cristo ec. trovasi fatta nel Friuli all’anno 1298121. Anche il Bumaldi pretese, che Fabrizio da Bologna nel 1250 componesse volgari tragedie. Ma questo fatto é confutato dal Quadrio nella Storia e Ragione d’ogni Poesia tom. IV pag. 62, e dal P. Ireneo Asso di Busseto nella prefazione all’Orfeo del Poliziano. Quel che però non sembra ammetter dubbio alcuno, si é, che in Roma nel 1264 fu istituita la Compagnia del Gonfalone (i cui statuti furono ivi pubblicati nel 1584), la quale si prefisse per oggetto principale di rappresentar i misteri della passione di nostro Signore, siccome per lungo tempo eseguì ciascun anno nella settimana santa122.