(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro III — Capo IV. Teatro Italiano nel Secolo XVIII » pp. 316-354
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(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro III — Capo IV. Teatro Italiano nel Secolo XVIII » pp. 316-354

Capo IV
Teatro Italiano nel Secolo XVIII

Que’ pochi eruditi che con sommo cordoglio e indignazione verso la fine del passato secolo vedevano la depravazione dell’eloquenza poetica e oratoria nel seno della madre delle arti, ebbero finalmente la buona ventura di far tanti proseliti e allievi del vero gusto, che nel 1690 poterono instituire in Roma un’accademia sotto il semplice nome d’Arcadia, e seminarne di mano in mano per l’altre città d’Italia varie colonie. Rinacque allora la venerazione per Dante e Petrarca, si esigliò da tutte le adunanze letterarie la stravaganza e ’l mal gusto, si rise de’ secentisti e di chi avea tenuti in pregio e pagati sì cari i versi de’ Marini e degli Achillini; e la poesia de’ Greci e de’ Latini fu ricondotta trionfante dentro il recinto delle Alpi. Ogni genere poetico nel principio di questo Secolo prese un migliore aspetto, e la drammatica risorse anch’essa. Que’ medesimi valent’uomini che avevano principalmente contribuito a rimetter in trono la vera poesia, applaudirono alle spiritose e sensate produzioni sceniche de’ Francesi, e stimolati dal bell’esempio, ambirono di farle rifiorire ancor fra noi.

Il primo moderno ristaurator del teatro italiano é stato senza dubbio il famoso Pier Jacopo Martelli bolognese, nato nel 1665 e morto nel 1727, per quel che apparisce dall’epitasio fattogli dal celebre mattematico e poeta Eustachio Manfredi. Martelli, chiaro in Arcadia col nome di Mirtillo, cominciò a far qualche dramma musicale, e si rivolse poi di proposito alle tragedie e n’empì più volumi. Le sue favole sono ingegnose e regolate; le passioni trattate con tutta verità, e vivacità; i caratteri vari e ben coloriti; lo stile ricco, sublime, ed elegante; e la versificazione armonioso quanto comporta il metro nuovo in teatro, dal suo nome chiamato Martelliano. Vedasi la di lui maniera di maneggiar le passioni, lo stile, e la versificazione in questo squarcio della Perselide:

Eccomi Donna e sola fra barbari crudeli.
Siete voi, care mure, dove fui prigioniera
Senza bramar fra’ lacci la libertà primiera?
Quanto or mi rivedete, quanto da me diversa,
Non di lagrime liete, ma di funeste aspersa!
A me qui non le terge chi me le terse allora:
Qui non vedo, e più forse non vedrò chi m’adora.
Quella é la porta ov’egli primiero entrar si vide,
Quella, ond’io da quell’ora più non son Perselide.
Alto della vittoria entrò ec.

Son notabili nell’istessa tragedia l’esitazioni del feroce Solimano e l’espressioni del nobile Mustaso che prende congedo da Perselide, e va a morire senza manifestarglielo. L’altre sue tragedie più celebrate sono Ifigenia in Tauri, e Alceste. Rachele, é verseggiata con eleganza, ma é un dramma pastorale. Furono tutte rappresentate con grande applauso molte volte in Verona, Vicenza, Venezia, e Bologna dalla compagnia del celebre commediante Luigi Riccoboni. Martelli meritò gli elogi de’ giornalisti olandesi, e di quelli di Trévoux, i quali asserirono che pochi tragici francesi lo pareggiano; e sarà sempre ammirato da quanti comprendono le vere bellezze tragiche.

Nel medesimo tempo che Martelli, emulando i Francesi, riusciva più secondo il gusto moderno, e arricchiva le nostre scene, il dotto GianVincenzo Gravina calabrese, uno de’ gran promotori del buon gusto e dell’erudizione, pose tutto il suo studio a contraffare i greci e scrisse in tre mesi cinque tragedie, il Palamede, l’Andromeda, il Servio Tullio, l’Appio Claudio, e ’l Papiniano. Egli piacque a’ suoi giorni ad alquanti letterati, ma senza vantaggio del pubblico teatro. Risuscitò l’Eumenidi di Eschilo, richiamate già pur dal Giraldi nell’Orbecche; ma che interesse possono prendervi più i moderni? Pieno com’era della greca erudizione, non trovò difficile di far retrocedere i Leggitori più dozzine di secoli; ma qual pro? S’industriò di adoperare, secondo la greca maniera, la varietà de’ metri, ed elevare al possibile lo sdrucciolo, pretendendo farlo passare per giambo tragico; ma questo sforzo inutile non fu tollerato dalle orecchie italiane. De’ Greci si vuole imitar lo spirito, e non il portamento e l’spoglie esteriori. Contuttociò gli fu fatta da molti contemporanei soverchia ingiustizia. Le di lui tragedie semplici, regolari, e giudiziose dipingono con maestria i costumi, satireggiandoli alla maniera di Euripide, e dimostrano il filosofo e l’erudito. La più degna d’attenzione é il Servio Tullio, il cui carattere eccita compassione e terrore.

Antonio Conti, nobile veneto, altro filosofo e letterato grande, ha coltivato ancora con felicità la poesia tragica. Meritano ben di leggersi le quattro sue tragedie, Giunio Bruto, Marco Bruto, Cesare, e Druso. La condotta delle favole n’é sommamente giudiziosa; lo stile grande e sublime, e i versi liberi da lui usati con destrezza rendono le sue tragedie superiori a quelle del Martelli e del Gravina. Soprattutto il decoro de’ costumi e la verità de’ caratteri v’é guardata esattamente, e, quello che si desidera per lo più ne’ tragici francesi, i romani vi compariscono veri romani, e vi si riconosce Cassio, Bruto, Cesare, i Tarquini ai loro particolari lineamenti, all’indole, ai sistemi da essi seguitati, tramandatici dagli scrittori antichi. L’autore volle ricondurre nelle tragedie i cori nella fine degli atti per riunire alla rappresentazione tragica quella forte di musica che le conviene; ma i commedianti schivano le spese, e non le rappresentano. La più felice sembrami Giunio Bruto, la cui arringa é un miracolo d’eloquenza animata da tutta la bellezza poetica conveniente alla scena. Tutta volta bisogna confessare che l’eloquenza, e l’erudizione profonda, e la regolarità e lo stile di quelle tragedie, non ballano per farle proporre alla gioventù per esemplari. Vi manca un calore nelle passioni, un’attività progressiva nella favola, un’interciso in tutto, onde si mantenga svegliato il leggitore o l’uditorio. «E chi (dice ottimamente il signor Bicchierai autore di due tragedie la Virginia e la Cleone stampate in Firenze nel 1767 con alcune considerazioni sopra il teatro) non infrangerebbe piuttosto tutte le leggi del teatro che riuscire un autore senza invenzione e senza interesse? E chi non preferirebbe la sorte delle tragedie di Shakespear a quelle del Gravina e dell’abate Conti? Il violare una legge vorrà significare al più rendere un Dramma in qualche parte inverisimile, atroce, straordinario, difetti troppo minori dell’esser freddo e noioso».

Il marchese Scipione Maffei veronese, chiaro per gran dottrina ed erudizione, più felice degli anzilodati compose la Merope rappresentata sempre con ammirazione e applauso, e tradotta in tante lingue. In una orazione latina del P. La-Santé impressa in Parigi nel 1728, nella quale si pretende dimostrare che la letteratura francese é superiore a quella di tutta l’Europa, si encomia sommamente la Merope del Maffei208. M. de Voltaire la tradusse e l’imitò; ma per tirar poi a se tutti gli elogi dati all’originale, ancorché in apparenza si dimostrasse amico del Maffei, mascherato sotto il nome di un ideale M. de la Lindelle, si scatenò contra la nostra Merope, trattandola come produzione fanciullesca e collegiale, e chiamando l’autore «poeta da fiera senza ingegno, senz’arte, e senza fantasia» 209. Ma qual esser debbe l’eccellenza della tragedia Italiana, se tutto un Voltaire, per contrabbilanciar la voce universale e screditarla, ha dovuto ricorrere a un’astuzia sì vergognosa degna degli antichi Davi, la quale scopre in lui il letterato invidioso, e ne fa svanir l’uomo onesto210? Non é già, ch’essa vada esente da ogni neo; ma dov’é la produzione teatrale moderna senza verun difetto? é forse la Merope di Voltaire? Ma si fa che i medesimi Francesi ne fecero una sanguinosa critica. Un anonimo arriva fino a rimproverare al Voltaire qualche errore di lingua e di rima; lo chiama copiatore e traduttor della Merope del Maffei; e asserisce che ne peggiorarla maggior parte, e se ne allontana con isvantaggio, come fece nell’atto V che non piacque a’ Francesi. Quest’anonimo però volle poi mettersi a letterato ed entrare in una provincia a lui poco nota, e disse, che l’autore italiano «avea saccheggiato e sfigurato l’Amasi di M. de la Grange», e che il Voltaire «rivendicando il furto, avea restituito alla nazione francese quello ch’era suo». Ma preso appresso da un capogirlo, affermò che «Merope era un argomento di tutti i paesi trattato già da Euripide». Un cumulo di contraddizioni e di parole inconseguenti. Se Euripide precedette a tutti in trattarlo, perché non si ha da dire che appartiene alla grecia? S’é di tutti i paesi, perché ne attribuisce la proprietà alla Francia, e taccia di furto tutti i paesi che volessero farne uso? Egli né anche mostrò di sapere, che del Cresfonte di Euripide non é a noi rimasto altro che il nome, e qualche frammento, e un argomento secco nelle favole d’Igino. Ignorò parimente l’anonimo, che bastarono quelle sole notizie agl’Italiani del cinquecento per ideare, prima che altri potesse essere in istato di saperle leggere negli antichi, varie tragedie sopra tale argomento, come il Telefonte del Cavalerino, pubblicato nel 1582, il Cresfonte del Liviera, uscito alla luce della stampa nel 1588, e la Merope del conte Torelli, impressa nel 1598. Né pur seppe l’anonimo, o finse di non sapere, ciò che aveva osservato l’istesso Voltaire; cioé che la Grange ed altri francesi e inglesi di molto posteriori ai nominati italiani trattarono l’istesso argomento con sì poca felicità, che le loro tragedie restarono sepolte appena nate. E se egli confessa che il pubblico ha ricevuta con applauso, e si legge con piacere, quella di Voltaire dovea avvederli, che senza la Merope del Maffei, senza quella povertà italiana copiata da Voltaire, i Francesi fra tante di loro buone tragedie non conterebbero ancora una Merope degna di nominarsi. Ma cotest’anonimo che ignorò queste e tante altre, volle criticare e l’originale e la copia, produzioni di due ingegni grandi, i quali dovea egli solo ammirare.

L’abate Domenico Lazzarini di Macerata illustre poeta ha pure composta una giudiziosa tragedia, intitolata Ulisse il giovane, nella quale si richiama sulla scena tutto il terrore e la forza tragica del teatro ateniese.

Il signor D. Alonso Varano di Camerino é uno de’ tragici, di cui l’Italia si può gloriare a ragione. Il suo Giovanmi di Giscala é pieno di bellezze. Ma il Demetrio é veramente una tragedia che non dovrebbe porsi molto al di sotto della Merope maffeiana. Il P. Granelli é notissimo autore di tragedie. Apparisce il di lui studio sui greci: ha egli parecchie scene eccellenti; e buono n’é ordinariamente lo stile. Tuttavia le tragedie del P. Granelli hanno avuto una gloria efimera, mal grado di tutti gli encomi, de’ quali le ha caricate il signor abate Bettinelli. Il P. Giustiniani Genovese, monaco olivetano, ha scritta una sola tragedia, intitolata il Numitore, in cui, toltane alquanta trascuraggine di stile ne’ due ultimi atti, trovasi un numero di rari pregi, che l’hanno fatta riuscire con infinito successo sulle scene, e che la rendono anche pregevole ai lettori più severi. Il signor Flaminio Scarselli bolognese si é voluto altresì distinguere fra i tragici italiani; ma che ne dicano alcuni de’ suoi amici e compatrioti, ei si é rimasto di lunga mano indietro ai tre prellodati valentuomini. Frequenti rappresentazioni si son fatte, e si fanno tuttavia in Italia delle tragedie del P. Ringhieri. Molte ne ha egli scritte, e la più parte nello stile drammatico metastasiano. Il suo dialogo degenera sovente in dispute sottili e mezzo scolastiche. I suoi caratteri non sono ordinariamente che protei. L’armonia poetica non regna ne’ suoi versi che a salti, per così dire, e spesso inopportunamente; ma l’azione viva e lo spettacolo di alcuni colpi forse anche troppo teatrali hanno sostenute le tragedie del P. Ringhieri, le quali hanno fatta la fortuna di parecchie compagnie d’istrioni.

Hanno pur coltivata la poesia tragica con qualche felicità Giambatista Recanati, il marchese Giuseppe Gorini Corio, il consiglier Saverio Pansuti, Antonio Caraccio, il duca Annibale Marchese, Giulio Cesare Beccelli, il conte Savioli, Filippo Trenta, e qualche altro. Oltracciò molti buoni letterati hanno trasportate con maestria nella nostra lingua le migliori tragedie francesi, e tra essi si sono contraddistinti l’abate Frugoni, il cavalier Richeri, il nobile Agostino Paradisi, l’abate Domenico Fabbri, il marchese Albergati, il conte Gozzi, il cavalier Guazzesi, il Cesarotti e ’l Ceruti211. Quest’ultimo ha formata ancora dalle Troadi e dall’Ecuba di Euripide una tragedia intitolata le Disgrazie di Ecuba, la cui sola lettura fa fremer di compassione e terrore, con tanta energia vi si maneggiano gli affetti. Il piano é semplice, e l’economia della favola é sul gusto de’ greci; ma é scritta in prosa, giusta il progetto anni sono proposto da M. Diderot e da non seguitarsi punto nella tragedia212. A qualche rigido oltramontano potrà parere che ’l titolo stesso manifesti non esser una l’azione; che gli eventi si annunziano con una uniformità che può ristuccare; che nella morte d’Astianatte il dolor di Andromaca fa perder di vista quello di Ecuba personaggio principale. Ma le osservazioni della fredda critica non sogliono ascoltarsi da’ lettori sensibili, i quali commossi, perturbati da tante situazioni dolorose, da tanti quadri compassionevoli coloriti maestrevolmente alla greca, molli di lagrime accompagneranno la desolata madre di Ettore e Polissena.

Con una traduzione di Roma Salvata di Voltaire fatta da Saverio Bettinelli si sono pubblicate in Bassano nel 1771 le tre tragedie di questo letterato, Gionata, Demetrio Poliorcete, e Serse, nelle quali preso a imitar le tre stelle della poesia tragica francese, Racine, Corneille, e Voltaire nell’Ifigenia, nel Cinna, e nella Semiramide.

Ma debbesi al generoso invito del sovrano di Parma il novello ardore degl’italiani per la tragedia, che ha in quelli ultimi anni aumentato il numero delle nostre buone prefazioni. Si fa leggere con piacere la tenera elegante Zelinda, tragedia del conte Calini da Brescia, benché imitata da Blanche e Guiscard (e quando mai una felice e spiritosa imitazione su riprensibile nelle lettere? é forse grandissimo il numero de’ poemi immortali senza verun modello?) Ella fu coronata in Parma nel 1772 insieme col nobil Corrado del conte Magnocavallo di Casal-Monferrato. Hanno in seguito trionfato tra le premiate negli anni susseguenti il ben degno Valsei o sia l’Eroe Scozzese di Antonio Perabò milanese, e la Rossana dell’anzinomato Magnocavallo.

Dallo scrittore de’ primi anni delle romane Efemeridi e della Gazzetta Universale Fiorentina riscuote molti elogi l’appassionata Bibli, tragedia del conte Paolo Emilio Campi da Modena, formata sull’eccellente esemplare della Fedra di Racine; ma qui in Madrid non é ancor giunta. Degne di mentovarsi sono ancora la Morte d’Alessandro e l’Arsinoe del sig. D. Ignazio Gaione, il quale ha mostrato con quelle e con altre produzioni teatrali uscite della velocissima sua penna in poco tempo, quanto varrebbe in questo genere, se il suo ingegno vivace, e l’applicazione agli studi più severi, gli lasciassero maggior agio.

Due illustri donne meritano ancora di essere ricordate nei recenti fasti del teatro italiano. La prima é la signora Elisabetta Caminer Turra veneziana, la quale accoppia il gusto più squisito alle più belle e rare cognizioni. Essa intrapreso anni sono, e continuò felicemente un pregiabilissimo lavoro col titolo di Raccolta di Composizioni Teatrali moderne. Questa raccolta comprende tragedie e commedie francesi, inglesi, tedesche e spagnuole dalla signora Caminer tradotte. Forse le versioni potrebbono esser più esatte e più eleganti. Nulladimeno però l’opera reca vantaggio al teatro italiano e onore all’autrice. Molti volumi sono usciti di quest’opera; e più edizioni se ne veggono. L’altra donna che vogliamo accennare, é la signora Maria Fortuna che ha già fatto stampare la Zaffira e la Saffo, due tragedie in versi sciolti, nelle quali vi é il pregio di uno stile fluido e purgato. Nel resto queste tragedie sono sufficienti a formare un inerito poetico non ordinario ad una fanciulla, e nulla più. Francesca Manzoni, donna assai valorosa di Milano, e di cui abbiamo molte buone poesie, é ancor autrice di una tragedia passabile.

Non son del gusto di questo secolo le favole pastorali. Possiamo ravvisarne una spezie nell’Endimione di Alessandro Guidi, il cui piano appartiene alla regina Cristina di Svezia, e nella Sulamitide di monsignor Ercolani, ch’é una parafrasi della cantica di Salomone.

Non si é però trascurato di coltivar la buona commedia. Nel teatro italiano di Parigi Riccoboni ne ha prodotta qualcheduna ben ricevuta. Il lodato Maffei ha ritratti felicemente i bilingui ridicoli nel Raguet, e gli stucchevoli cerimoniosi nelle Cerimonie, commedie scritte con giudizio, spirito, ed eleganza. Il celebre Geronimo Gigli ha consacrato qualche ozio alla poesia comica in Siena, ed oltre al Don Pilone, elegante imitazione del Tartuffo, e alla Dirindina. Intermezzo piacevole e bene scritto, ha composte varie leggiadre commedie di caratteri bene espressi, e piene di sali e lepidezze. In Firenze il grazioso Giambatista Fagiuoli ha composte e rappresentate su’ teatri accademici molte commedie ingegnoso e piacevoli. Meritano pur di conoscersi le traduzioni di tre commedie di Plauto fatte da Rinaldo Angelieri Alticozzi in versi sciolti, e intitolate il Testone, i Due Schiavi, e i Gemelli. In Napoli l’erudito Niccolò Amenta ha prodotte sette commedie bene avviluppate senza multiplicità di accidenti, regolari, piacevoli, e morate; Gennar-Antonio Federico vi ha pubblicate altre due graziose commedie d’intreccio e di carattere, i Birbi, e ’l Curatore che Niccolò Salerno de’ Baroni di Lucignano, uno de’ più fecondi e piacevoli ingegni napoletani, fé stampare in Genova nel 1717 il Gianne Barattiere, commedia pregiata, e scritta in buona prosa; e Domenico Barone marchese di Liveri vi ha dipinte con grazia le maniere della nobiltà in varie commedie, colle quali avea la sorte di divertire il gran Carlo III, oggi il Tito delle Spagne. Quello scrittore rappresentava con molta verità e delicatezza la parte d’innamorato; ma sventuratamente ha fatti tutti i discepoli in estremo affettati e noiosi, perché egli sentiva, leggeva, e copiava la natura, e i discepoli privi d’ogni lettura, e di sensibilità, si studiano solo, a maniera degli uccelli indiani, di contraffar la cantilena del maestro. Napoli si pregia ancora delle produzioni teatrali del dottissimo cattedratico e avvocato D. Giuseppe Cirillo, il quale, oltre a varie buone commedie scritte a soggetto ben circostanziate per uso di alcuni civili e illuminati attori Accademici Improvvisatori, che ivi fiorirono alquanti anni addietro, lasciò ancora inedite due commedie di ben espressi caratteri correnti scritte interamente, il Notaio, o le Sorelle, e la Marchesa Castracani. Quell’ultima per più di venti anni si é rappresentata continuamente ne’ privati e ne’ pubblici teatri, e circa dieci o dodici anni sono, si pubblicò sfigurata da’ tratti grossolani d’una penna dozzinale. Ultimamente vi si é impressa e rappresentata parimente con applauso un’altra commedia degna di nominarli tra le buone «per essere (mi scrive un letterato che fa onore all’Italia) molto bene scritta, ben condotta, e ben condita e cospersa di sali naturali». Ella é l’Ippolito del signor D. Carlo Pecchia chiaro nella patria per talenti, per dottrina e buon gusto213.

Tentò nobilmente in Venezia la riforma del teatro istrionico, e quasi ne venne a capo, il non poche volte buon dipintor della natura Carlo Goldoni. Ma gli si attraversò un altro ingegno, il noto signor abate Chiari, il quale, non volendo fecondare il sistema del Goldoni riguardo allo smascherare i commedianti, impedì forse la cura radicale degli abusi. Goldoni annoiato cesse al tempo, e cangiò cielo, e in Parigi ha composta una commedia francese intitolata le Bourru Bienfaisant, la quale gli ha prodotto oro ed onore. L’abate Chiari é andato componendo vari volumi di commedie, finché é comparso un nuovo scrittor teatrale, il conte Carlo Gozzi. Questo letterato avrebbe potuto far gran progressi nella drammatica; ma si é contentato di provar col fatto a’ suoi competitori, che ’l concorso del popolo non é argomento della bontà de’ componimenti scenici, e per conseguirlo é ricorso scaltramente al solito rifugio del maraviglioso delle macchine, trasformazioni, e incantesimi, o ha composto nuovi mostri teatrali, il Corvo, il Re cervo, l’Oselin bel verde, ne’ quali le perturbazioni tragiche, le piacevolezze comiche, le favole anili, le metamorfosi, un ricco fondo d’eloquenza poetica e di riflessioni filosofiche, concorrono tutte ad un tempo a incantare e sorprendere gli spettatori veneziani.

Spunta di Bologna una nuova luce comica che annunzia nel marchese Onofrio Albergati un Molière italiano. Egli si é fatto ammirare colle sue commedie del Saggio Amico, col Prigioniero, coll’Ospite Infedele, e con altre produzioni giudiziose, che vanno pubblicandoli in Venezia col titolo di Nuovo Teatro Comico. Traggono da esse i comici lombardi tanto frutto e riputazione, che finalmente saran costretti dall’evidenza a deporre il rimanente de’ pregiudizi mimici de’ loro predecessori.

Il programma di Parma non ha finora data la vita a veruna commedia degna di ricordarsi, a riserba del Prigioniero dell’Albergati, coronato nel 1774. La Marcia, commedia da noi non vista, ha riportata la corona del 1775 per mancanza di cosa più soffribile, per quello che ne riferiscono gli Efemeridisti. La commedia sarebbe e mai più difficile della tragedia214?

Tra tante buone produzioni drammatiche lei presente secolo, l’opera ha fatto maggior romore ne’ paesi oltramontani. Ne abbiam veduta nel passato la fanciullezza; in questo se ne vede l’adolescenza e la virilità. Si osserva la prima nell’opera di Eustachio Manfredi intitolata Dafni, nell’Arsace di Antonio Salvi, nel Polifemo di Paolo Rolli, e con ispezialità nel Turno Aricino, ne’ Decemviri, nell’Eraclea, nel Tito Sempronio Gracco, ed altri drammi di Silvio Stampiglia, poeta cesareo dell’imperador Carlo VI. Le favole dello Stampiglia sono doppie e piene d’intrighi amorosi simili alla pretta galanteria di certe tragedie francesi, e lo stile abbonda di pensieri e di espressioni liriche. Tutte le opere che io ne ho vedute, senza eccettuarne l’istesso Turno Aricino condannato da’ principi latini confederati con Tarquinio il Superbo, sono di lieto fine. Di più alcuna di esse é anteriore alle opere di Apostolo Zeno; le altre sono uscite nell’istesso tempo. Dunque a Silvio Stampiglia, e non allo Zeno, come asserisce nel trattato della musica il signor Eximeno, si dee con più ragione attribuire il costume osservato poi costantemente nello scioglimento de’ drammi musicali di far mutare di sinistra in prospera la fortuna dell’eroe. La virilità dell’opera comincia nel signore Apostolo Zeno veneziano, e si perfeziona nell’abate Metastasio romano. Il dotto Zeno, poeta e isterico cesareo, é stato più regolare più naturale, più maestoso dello Stampiglia. Ha maggiore invenzione, più arte di teatro, più delicatezza nel maneggio delle passioni, più forza e nobiltà nelle dipinture de’ caratteri eroici. La lingua é pura, lo istile é ricco, lontano dal lirico, proprio del dramma, ma talvolta manca d’eleganza e di calore. I di lui drammi e oratori sacri son compresi in dieci tomi in ottavo, ma i due ultimi contengono i componimenti fatti in compagnia di Pietro Panati.

Il celebre abate Pietro Trapasso, detto Metastasio, ancor poeta della corte imperiale di Vienna sotto Carlo VI, Francesco I, e Giuseppe II, trionfa per l’eleganza, vaghezza, sublimità, precisione, chiarezza, e armonia dello stile215. Gareggia col pennello grandioso di Corneille e col delicato di Racine. Ne’ suoi personaggi si ravvisano i grand’uomini della storia, benché migliorati alla maniera di Sofocle nelle passioni ch’ei dipinge, ognuno riconosce i movimenti del proprio cuore. Un tesoro di filosofia verismo a tempo e senza traccia di affettazione Regolo, Tito, Temistocle. Salta agli occhi degli eruditi la di lui profonda erudizione, tanto sacra negli oratori, quanto latina e greca da per tutto. Imita gli antichi, ma con un artificio, con un garbo, con una maestria che par nato or ora ciò ch’essi dissero venti secoli in dietro. Son rari assai coloro che fanno dare agli altrui pensieri quell’aria di naturalezza che si scorge in Metastasio, la quale fa sì, che si accordano con tutto il resto, e non se ne offende l’uguaglianza dello stile. Vedasi come bene appropria a Tito l’auree parole del gran Teodosio quando quelli abolì una legge antica che dichiarava rei di morte quelli che profferivano parole ingiuriose contro il principe216.

Publio dice a Tito,

Ma v’é, signor, chi lacerare ardisce
Anche il tuo nome

e Tito risponde,

… E che perciò? Se ’l mosse
Leggerezza, nol curo;
Se follia, lo compiango;
Se ragion, gli son grato; e se in lui sono
Impeti di malizia, io gli perdono.

Notisi ancora quanto acconciamente si trovino incastrate nello stile di Metastasio moltissime sentenze di Seneca. Esse vi conservano tutta la sublimità, e solo vi si spogliano dell’affettazione talvolta ragionevolmente imputata all’originale. I suoi personaggi non rispondono, come in Seneca, improvvisamente con un aforismo. Quel «Dubiam salutem qui dat afflictis, negat», é più naturale in Fulvia, addotto come una ragione,

Non dir così; niega agli aflitti aita
Chi dubbiosa la rende.

Megara che incomincia a rispondere ad Anfitrione

Quod nimis miseri volunt,
Hoc facile credunt,

inoltra una certa ruvidezza pedantesca che sparisce nelle parole di Metastasio,

E poi quel che si vuol, presto si crede

Dal Petrarca dallo Zeno, da’ Francesi ha saputo trarre qualche mele; e perché astenersene quando i moderni dipingono la bella natura al pari degli antichi? Ma che mai pareva ricavar da Calderón che se ne scostò tanto, spezialmente quando si gonfia e pensa di elevarsi al tragico? Uno spagnuolo pretendeva che ne avesse prese alcune invenzioni; ma quali? Molti critici hanno asserito che la maggior parte delle favole metastasiane viene dalle francesi, perché non seppero che la maggior parte delle francesi si trasse dalle italiane. Questo traffico degli uomini di lettere é antichissimo; ma i criticastri non distinguono il plagio vergognoso dall’imitazione lodevole217. Meno sono essi in istato di comprendere, per mancanza di principi e di notizie, quando gli autori s’incontrano per ventura, e quando si sieguono a bello studio218. Aretade pressi i greci fece un volume de’ pensieri di vari scrittori che s’incontrarono senza seguirsi219.

Il calor della disputa con un altro ha trasportato, anni sono, un letterato italiano ad affermare in Londra che Metastasio ha tolto il Demoofonte dalla Inès de Castro dell’ingegnosissimo La Mothe che fece una ridicolissima versione dell’Iliade di Omero220; ma l’ingegnosissimo La-Mothe ha posto in francese l’argomento della tragedia spagnuola di Bermudez; e ’l di lui plagio é manifesto, perché non esce dalla nazione portoghese, dagli affetti e dalla semplicità della favola spagnuola. Ma il Demofoonte si scosta moltissimo dall’originale, perché la favola avviluppata alla maniera dell’Edipo, i costumi di Tracia che vi si dipingono, i colpi di teatro necessari al genere drammatico musicale, e tanti nuovi pensamenti, danno al componimento di Metastasio un’aria totalmente originale.

Dall’Ambigu Comique di Montfleury (dice l’istesso critico) ha tratta la Didone. Quest’Ambigu non é altro, che un componimento capriccioso, uscito nel 1671, composto di tre atti, ciascuno de’ quali contiene un argomento differente maneggiato in diverso stile. Ma Scudery e Boisrobert aveano scritte in Francia due tragedie su Didone; e in Ispagna molto prima di essi Cristofano Virues avea pubblicata la sua intitolata Elisa Dido. Egli é però, manifesto a chi fa la storia letteraria, che di tutte le tragedie fu questa fondatrice di Cartagine le italiane composte da Giraldi Cintio e da Lodovico Dolce verso la metà del secolo XVI, furono le primogenite, o per meglio dire, le genitrici. É probabile che quest’ultime sieno state ville dall’erudito alunno del dotto Gravina; ma avrà egli lasciato di consultar su Didone la divina Eneide per lo nominato Ambigu francese? Anche l’Attilio Regolo (afferma il medesimo italiano) ha ricavato da’ francesi. Il teatro francese prima di Metastasio non ha conosciuto altro Regolo che quello dell’insipido Pradon, poeta dozzinale, tanto screditato nelle satire di Boileau e nell’epigramma di Racine. Or il Regolo di quel poetastro é un Petit-Maître innamorato che si fa veder sempre colla sua Bella accanto221. Pare al nostro Critico che l’Attilio eroico e veramente Romano del poeta Cesareo poteva uscir di sì molle padre? Finalmente quell’Italiano ed altri hanno asserito che dal Cinna formò Metastasio la Clemenza di Tito. Confessiamo ingenuamente che ’l Cinna merita gli sguardi d’ogni gran poeta, e che la Clemenza di Tito nulla perderebbe quando anche ne fosse un’imitazione esatta222. Ma per instruzione della Gioventù, e per far giustizia al vero, osserviamo in qual maniera si son condotti quelli due grand’Ingegni, maneggiando in generi diversi due umili congiure e due perdoni tramandatici dalla Storia. Il Cinna é una tragedia, la quale ha per fine di commuovere lo Spettatore: il Tito é un’Opera, che ha per oggetto di commuoverlo e di appagarne l’occhio. Un Ingegno grande che voglia riuscir nella prima, si vale di un’azione importante, ma semplice, per lasciar campo al dialogo, in cui spicca l’entusiasmo tragico. Un buon poeta obbligato a componi pel Teatro musicale ha bisogno di maggior attività e rapidezza nella Favola, per servire al tuo oggetto, dovendo soggettare il dialogo a una precisione rigorosa per dar luogo alla Musica odierna. Corneille e Metastasio han soddisfatto compiutamente al loro intento ma se quell’ultimo avesse, seguite l’orme del primo nella condotta della Favola, avrebbe fatta un’opera fredda d’una buona tragedia. Egli dunque ha dovuto profonder nel suo argomento maggior ricchezza d’invenzione; e questa, che nel Tito si scorge ad ogni passo per gli nuovi colpi teatrali, e pe’ bei quadri nati da’ contratti di situazione, non poteva trovar l’Italiano nei poeta Francese, ed ha tratte dal proprio sondo le fila, che gli’ abbisognavano per la sua tela. Non basta a Metatasio, che Sesto ami Vitellia che lo seduce e lo precipita nella congiura; ma ha bisogno che Vitellia aspiri a una vendetta, non di un padre come Emilia, ma di un’ambizione attiva delusa nella speranza di regnare. Ha bisogno che Tito faccia uno sforzo e rimandi Berenice, per risvegliare quella speranza di Vittelia, ma che poi elegga egli per consorte, chi? Vitellia? No; Servilia sorella di Sesto impegnata con Annio nobile, virtuoso, e degno della tenerezza di Servilia. Ha bisogno che Sesto strascinato dalla passione alla congiura, e richiamato dalla virtù e dalla gratitudine si salvar Tito, nel tempo stesso che conspira contri di lui, corra a difenderlo da’ congiurati: che chiamato da Tito, non osi presentarsi a lui col manto macchiato di sangue: che Annio gli dia il suo: che questi col manto di Sesto segnato colla diviso de’ congiurati arrivi alla presenza dell’imperadore in tempo, che la virtuosa Servilia ha scoperto il segreto del nastro, e che ’l suo amante risulti colpevole all’apparenza, e’ ponga in confusione l’inconsiderato Sesto, ed Annio nella necessità di apparire reo d’accular l’amico. Questo e tutto il rimanente fa riuscir il componimento musicale italiano diversissimo dal francese per la ricchezza ed economia dell’azione223. I caratteri poi di Augusto, Emilia, e Cinna, non son punto quelli di Tito, Vitellia, e Sello. Augusto é clemente la prima volta stanco dalle famose proscrizioni, e la clemenza é la nota caratteristica della vita di Tito, delizia del genere umano; caratteri, come ognun vede, ch’esigono un colorito differente Emilia innamorata di Cinna intraprende lo sconvolgimento dello stato contro a un benefattor suo per vendicar la morte d’un padre; nel che si trova qualche aria di romanzo, perché l’affetto filiale narrato non scuote tanto lo spettatore, quanto i benefici attuali di Augusto, e la di lei passione per Cinna esposta agli sguardi. Ma Vitellia é un ben dipinto carattere somministrato dalla natura, e superiore forse all’istessa Ermione di Racine, da cui deriva. Ella é una romana piena d’ambizione, che più non sperando di conseguir l’imperio colo la mano di Tito, si prevale della debolezza di Sesto per tramar la ruina dell’imperatore; e l’ondeggiamento delle sue mire comunica al dramma un continuo patetico movimento. Cinna e Sesto son veramente due ingrati per cagione di una donna; ma Cinna sempre considera Augusto come un tiranno, e i suoi rimorsi dell’atto III non provengono dalla conoscenza dell’ingiustzia del suo attentato, ma da’ benefici ricevuti da Augusto. Al contrario Sesto incomparabilmente più patetico é combattuto dalla conoscenza delle virtù eroiche di Tito, dall’amicizia da lui oltraggiata, dalla spaventosa immagine del tradimento senza veruna discolpa, dalle virtù, a cui non ha del tutto rinunziato, e dalla debolezza per Vitellia che lo tiranneggia. Per conoscere la manifesta diversità de’ due caratteri, mettasi Sesto in luogo di Cinna nella scena sull’abdicazione di Augusto, e si vedrà che la tragedia non passerà oltre, non potendo convenire a Sesto la parte che vi fa Cinna d’ipocrita e di traditor determinato. Personaggi così diversi producono situazioni ancor più differenti. É senza dubbio eccellente la scena I dell’atto V tra Cinna e Augusto dopo scoperta la congiura; e benché ne sembri troppo famigliare l’incominciamento; «Cinna, prendi una sedia e ascolta senza interrompermi», il discorso di Augusto si va elevando gradatamente, finché conchiude con quel famoso,

Cinna, tu t’en souviens, et veux m’assassiner.

Questi però si risolve, come ogni reo ordinario a negare il delitto,

Moi, Seigneur, moi que j’eusse une âme si traîtresse!

Augusto lo confonde mostrandosi inteso delle più minute disposizioni della congiura, e Cinna convinto prende il partito di far il coraggioso,

Vous devez un exemple à la postérité,
Et mon trépas importe à votre sûreté.

Tutto é detto con giudizio e grandezza, e nulla é straordinario. Ma che fa nascere nel dramma italiano lo scoprimento della congiura? Due incontri originali inimitabili. Nella scena IV dell’atto II Tito fa che si congiura contro la sua vita, ma non che Sesto sia il reo principale; perciò vedendolo venire va a lagnarsi con lui medesimo, coll’amico, dell’ingratitudine de’ romani:

Tit. Sesto, mio caro Sesto, io son tradito.
Sest. Oh rimembranza! Tit. Il crederesti, Amico?
     Tito é l’odio di Roma. Ah tu che sai
     Tutti i pensieri miei; che senza velo
     Hai veduto il mio cor; che fosti sempre
     L’oggetto del mio amor, dimmi se questa
     Aspettarmi io dovea crudel mercede.
     Sest. L’anima mi trafigge, e non sel crede.

Che contrasto interessante per lo spettatore fa quell’aspetto franco e amichevole di Tito, e quella confusione di Sesto lacerato da’ rimorsi. Nella scena VI dell’atto III non si conosce meno il maestro. Tito già non ignora che Sesto é il traditore, che ’l senato l’ha convinto, e ch’é stato condannato a morire. Pur vuol parlargli e all’appressarsi si sforza di far comparir nel suo volto la rigorosa maestà offesa. Sesto si avanza, sbalordito affatto dal delitto palese. L’uno osserva la mutazione dell’aspetto dell’altro, e lo spettatore vi ammira un quadro sommamente patetico;

Sest. Numi! é quello ch’io miro
     Di Tito il volto? Ah, la dolcezza usata
     Più non ritrovo in lui. Come divenne
     Terribile per me! (Tit. Stelle! ed é questo
     Il sembiante di Sesto? Il suo delitto
     Come lo trasformò! Porta sul volto
     La vergogna, il rimorso, e lo spavento!)

Tali cose non s’incontrano nel Cinna, né altrove. Son bellezze parimente originali fatte per l’immortalità tutte le vie tentate da Tito per sapere il segreto di Sesto; le angustie di quell’infelice, posto nel caso d’accusar Vitellia, o di commettere una nuova ingratitudine verso il suo buon principe; l’ammirabile combattimento de’ sentimenti da Tito nel soscriver la sentenza; il trionfo della sua clemenza sul giusto risentimento ec. I grand’ingegni anche imitando diventano originali224. I Virgili prendendo Omero per modello ci arricchiscono d’una nuova foggia di poemi eterni. I grandi drammatici dell’antichità scrissero moltissime volte sull’istesso argomento componimenti che non si rassomigliano. Chi imita con maestria migliorando, nasce per esser successivamente imitato. E ’l nostro poeta imperiale ha prodotta una folta schiera d’imitatori italiani, che lo sieguono senza raggiugnerlo né avvicinarsegli; ed é stato tradotto e imitato in Francia da molti poeti pregevoli, Le Franc de Pompignan, Collé, de Belloy, Dorat ec. Tacciano adunque una volta gli stici saccentuzzi, i meschini gazzettieri, i pretesi poeti petrarchisti, dantisti, e pindarici, e i pettoruti ammiratori delle regole di Aristotile che mai non lessero; tacciano ormai tanti invidiosi, i quali si collegano e si danno la mano per tutta l’Europa per far argine alla piena degli applausi universali che riscuote l’Euripide italiano dagli eruditi e da’ volgari, Metastasio é la gloria del teatro e del nome italiano225, che per lui risuona sulla maggior parte delle scene europee bisognose della nostra musica. A Metastasio fa plauso la leggiadra gente, e la veramente dotta

Dai dorati palchetti e dall’arena,
Lieta, che ornai per lui l’itale scene
Grave passeggia il Sofocleo Coturno.

Metastasio é quegli,

……………… Alla cui mente spira
Degli erranti fantasmi ordinatrice
Aura divina, e ch’or nel molle Sciro
Or d’Affrica sul lido, ora mi pone
Sull’aureo Campidoglio, ed or di speme
Or di vani terrori il petto m’empie.
Degli affetti signor, quegli é il poeta,
Di Flacco in sulla lira Apollo il canta,
E adombra Metastasio ai dì futuri
Verace nume. A piena man spargete
Sovra lui fiori, e del vivace alloro
Onorate l’altissimo poeta.

Un incredibil numero d’opere comiche, chiamate buffe, sono uscite in questo secolo, alcune delle quali si sono inserite nella biblioteca teatrale compilata in Lucca nel 1765. Esse generalmente son da collocarsi nella classe delle farse. Hanno qualche tintura più propria della commedia alcuni drammi giocosi dello Zeno e del Pariati, la Buona Figliuola e ’l Filosofo di Campagna del Goldoni, e la maggior parte de’ drammi del napolitano Gennaro Antonio Federico.

Il più riscaldato, più burbero, e più prevenuto nemico del nome italiano non contrasterà all’Italia il primato sopra tutti i popoli moderni nella bell’arte incantatrice della musica. Uscirono dal di lei seno i primi musici legislatori, e i compositori più famosi. E come non avrebbero gl’italiani e meglio e prima degli altri coltivata quella dominatrice de’ cuori, essi che a tutti gli altri precedettero in istudiar l’uomo, in fecondar per tante vie l’immaginazione, in arricchirsi di cognizioni scientifiche? Essi che per clima ebbero in forte gli organi più ben disposti, più armonici, sensibili e vivaci? Che per industria pervennero a formarsi un’idioma il più atto e pieghevole alla delicatezza dell’armonia226? Guido d’Arezzo benedettino eccellente musico in sul principio del XI secolo, avendo studiati gli scritti degli antichi, vi aggiunse le proprie scoperte, e compose un metodo di musica più facile e più giudizioso. Fu seguito dal Franco nel XIII, e dal Tinetoris, Franchini, e Gaffurio nel XIV, e finalmente da Giovanni Zarlino che in Venezia pubblicò nel 1580 un trattato di musica in Italiano che oscurò tutti gli altri. Fiorirono tosto il Peri, il Viola, il Giovannelli, il Monteverde, il Teofilo, il Soriano e vari altri chiari maestri di musica, i quali seppero prevalersi di tante scoperte, e felicemente spianarono la strada al buon gusto e alla perfezione che si ammira nel nostro secolo. Scarlati, Vinci, Leo, Porpora, Corelli, Veracini, Tartini, il nobile Marcello, il P. Martini, Durante, Pergolese, lo Groscino, Latilla, Jommelli, Piccini, Cafora, Majo, Sacchini, Traetta, Paiselli, e tanti altri maestri famosi, per la maggior parte figli di partenope, faranno confessare ai posteri disappassionati (secondo che afferma l’autor inglese del Parallelo della condizione e delle facoltà degli uomini) che la perfezione di sì bell’arte é confinata nella parte più occidentale dell’Europa. Egli é ben vero che i tedeschi studiando la musica italiana, che conobbero per la nostra opera drammatica, come attesta il re di Prussia, son pervenuti ad aver Hafs, Gluck, ed altri eccellenti musici che hanno studiato in Italia, e si son fatti emuli degl’italiani. Gl’inglesi illuminati dal tedesco Hendell si vanno formando sugl’italiani e i tedeschi. I francesi ancora sono alla fine pervenuti ad avere il signor Rameau: ma basta quest’unico, difficil certo227, ma poco naturale compositore francese, per contendere di preminenza cogl’italiani228, e per gareggiare con un coro foltissimo d’eccellenti musici pratici e teorici che lor presenta Napoli229, Bologna, Venezia, e ’l rimanente dell’Italia? «Veux-tu savoir, jeune artiste (scrive Gian Giacomo Rousseau, ottimo giudice, nel suo Dizionario di Musica all’articolo Génie) si quelqu’étincelle de ce feu dévorant t’anime? Cours, vole à Naples écouter les chefs-d’œuvre de Leo, de Durante, de Jommelli, de Pergolese. Si tes yeux s’emplissent des larmes, si tu sens ton cœur palpiter, si des tressaillements t’agitent, si l’oppression te suffoque dans tes transports, prends le Metastase et travaille; son génie échauffera le tien, tu créeras à son exemple, et d’autres yeux te rendront bientôt les pleurs que tes maîtres t’ont fait verser. Mais si les charmes de ce grand art te laissent tranquille, si tu n’as ni délire ni ravissement, si tu ne trouves que beau ce qui transporte, oses tu demander ce qu’est le génie? Homme vulgaire, ne profane point ce nom sublime; que t’importerait de le connaître? Tu ne saurais le sentir: fais de la musique française».

Trionfa ancora oggidì in Italia la danza e l’arte pantomimica ridotta finalmente a rappresentar favole intiere e seguite. Il signor Angiolini Toscano ha prodotti in Italia, in Alemagna, e nelle Russie vari balli comici e tragici applauditi. In Vienna diede il Convitato di Pietra, in Milano il Solimano II, Errico IV alla Caccia, la Ninetta in Corte, in Venezia il Disertore Francese con lieto fine. Si ammirano eziandio come eccellenti esecutori del ballo grottesco il Viganò, e del serio e gentile il fiorentino Vestris che nel teatro lirico di Parigi tanti applausi riscuote fin da’ francesi in siffatto genere tanto delicati.