(1764) Saggio sopra l’opera in musica « Saggio sopra l’opera in musica — Della musica »
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(1764) Saggio sopra l’opera in musica « Saggio sopra l’opera in musica — Della musica »

Della musica

[2.1] Che se niuna facoltà o arte a’ giorni nostri di ciò abbisogna, la musica è dessa; tanto ha ella degenerato dall’antica sua gravità. Messo da banda ogni decoro e oltrepassati i dovuti termini, s’è lasciata andare a ogni generazione di capricci, di fogge, di smancerie: e sarebbe ora il tempo di rinnovare quel decreto che fecero già i lacedemoni contro a colui il quale, per lo stemperato amore della novità, avea di sue bizzarrie infrascato la musica, e di virile ch’ella era, l’avea resa effeminata e leziosa. Della novità in tal genere sono pur troppo vaghi i nostri uomini. Vero è che senz’essa non avrebbe ricevuto la musica quegli aumenti che ricevuto ha; ma egli è anche vero che ha traboccato per essa in quello scadimento di cui si dolgono i migliori. Sino a tanto che le arti sono rozze per ancora, l’amore della novità è vita di quelle; ond’hanno incremento, maturità e perfezione: ma giunte al sommo, quel principio medesimo che diede loro la vita è anche quello che dà loro la morte. Appresso tutte le nazioni hanno esse provato una simile vicenda; e al di d’oggi è in esempio tra noi singolarmente la musica. Risorta ne’ più barbari tempi in Italia, si diffuse tosto per tutta Europa, e venne anche dagli oltramontani coltivata a segno, che ben si può dire aver essi per qualche tempo dato la voce e fatto agl’Italiani la battuta. Transferita dipoi in Venezia, in Roma, in Bologna ed in Napoli come nel nativo suo paese, vi fece nelle due trascorse età tali e tanti progressi, che nelle nostre scuole pur dovettero i forestieri venire ad apprenderla. E lo stesso sarebbe anche a’ giorni nostri, se in essa non usasse veramente il suo soperchio l’amore della novità. Quasi ella fosse ancor rozza e nell’infanzia, non si rifina di volerla tuttavia abbellire con nuovi ornamenti, d’immaginare nuovi arabeschi musicali, nuovi arzigogoli; e quasi fossimo nella infanzia noi medesimi, mutiamo a ogni momento pensieri e voglie rigettando noi oggi e quasi abborrendo quello di cui avevamo ieri tanta fantasia. Quella cantilena che ne facea levare in ammirazione pochi anni addietro e ne dava tal diletto, ne riesce di noia presentemente e di fastidio; non perché sia men buona, ma perché divenuta vecchia, perché andata fuori di usanza. E non meno che avvenga nelle fogge de’ vestiti e delle cuffie, in composizioni eziandio fatte per imitar la natura e quello che sta sempre di un modo, va del continuo variando la moda.

[2.2] Un’altra principal ragione ancora del presente scadimento della musica, è quel suo proprio e particolar regno ch’ella ha preso a fondare e che è cresciuto oggigiorno a tanta altezza. Il compositore si comporta quivi come despotico, vuol pure far da sé e piacere unicamente in qualità di musico. Per cosa del mondo non gli può entrare in capo ch’egli ha da essere subordinato, e che il maggior effetto della musica ne viene dallo esser ministra e ausiliaria della poesia. Proprio suo uffizio è il dispor l’animo a ricevere le impressioni dei versi, muovere cosi generalmente quegli affetti che abbiano analogia colle idee particolari che hanno da essere eccitate dal poeta; dare in una parola al linguaggio delle Muse maggior vigore e maggiore energia43. Né quella critica fatta già contro all’opera in musica, che le persone se ne vanno alla morte e cantano, non ha origine da altro, se non se dal non ci essere tra le parole ed il canto quell’armonia che si richiede. Imperciocché se tacessero i trilli, dove parlano le passioni, e la musica fosse scritta come si conviene, non vi sarebbe maggior disconvenienza che uno morisse cantando, che recitando dei versi. Ad ognuno è noto che anticamente gli stessi poeti erano musici. E con ciò la musica vocale era quale ha da essere secondo la vera instituzione sua: una espressione più forte, più viva, più calda dei concetti e degli affetti dell’animo. Ma ora che le due gemelle, poesia e musica, vanno disgiunte, qual maraviglia se avendo uno a colorire quello che ha disegnato un altro, i colori sieno bensì vaghi, ma vengano sformati i contorni? Al quale inconveniente grandissimo si troverà soltanto il rimedio nella discrezione del compositore medesimo, il quale dalla bocca del poeta voglia udire le intenzioni sue, voglia intendersela con esso lui prima di metter nota in carta, lo consulti dipoi sopra quanto avrà scritto, ne abbia quella dipendenza che avea il Lulli dal Quinault, il Vinci dal Metastasio, quale giustamente la prescrive la disciplina del teatro.

[2.3] Tra le disconvenienze della odierna musica dee notarsi in primo luogo ciò che la prima cosa salta, per cosi dire, agli orecchi nell’apertura stessa dell’opera, o vogliam dire nella sinfonia. Di due allegri è composta sempre e di un grave, strepitosa quanto si può il più, non è mai varia, cammina sempre di un passo e di un modo. E qual diversità, per altro, non si dovrebbe egli trovare tra una sinfonia ed un’altra? Tra quella, per esempio, che precede la morte di Didone abbandonata da Enea, e quella che precede le nozze di Demetrio e di Cleonice? Suo principal fine è di annunziare in certo modo l’azione, di preparar l’uditore a ricevere quelle impressioni di affetto che risultano dal totale del dramma. E però da esso ha da prendere atteggiamento e viso, come appunto dalla orazione l’esordio. Ma la sinfonia non altrimenti viene riputata al di d’oggi che come una cosa distaccata in tutto e diversa dal dramma, come una strombazzata, diciamo così, con che si abbiano a riempiere d’avanzo e ad intronare gli orecchi dell’udienza. Che se pure taluni la pongono come esordio, convien dire che sia di una medesima stampa cogli esordi di quegli scrittori che con di bei paroloni si rigiran sempre sull’altezza dell’argomento e sulla bassezza del proprio ingegno, che calzano a ogni materia e potriano stare egualmente bene in fronte di qualsivoglia orazione.

[2.4] Dietro alla sinfonia vengono i recitativi; e come quella suol essere la parte nella musica la più strepitosa, cosi questi ne sono, per cosi dire, la parte più sorda. E pare oggimai che i nostri compositori sieno venuti in parere che i recitativi non meritino il pregio che vi si ponga grande studio, non potendosi aspettare ch’e’ siano altrui di molto diletto cagione. Dove ben altrimenti la intesero gli antichi maestri. Basta vedere quanto nel proemio della Euridice ne scrive Iacopo Peri, che con giusta ragione è da dirsi l’inventore del recitativo. Datosi a cercare l’imitazion musicale che conviene ai poemi drammatici, volse l’ingegno e lo studio a trovar quella che in somiglianti soggetti usavano gli antichi Greci. Osservò quali voci nel nostro parlare s’intuonano, e quali no; che viene a dire quali sono capaci di consonanza, e quali non sono. Si pose a notare con ogni minutezza di quali modi ci serviamo ed accenti nel dolore, nell’allegria e negli altri affetti da cui siam presi: e ciò per far muovere il basso al tempo di quelli, ora più ed ora meno. Non tralasciò di scrupulosamente consultare in tutto questo l’indole della nostra lingua e il fine orecchio di molti gentiluomini, cosi nella poesia come nella musica esercitatissimi. E conchiuse, alla fine, che il fondamento di una tale imitazione ha da essere un’armonia che seguiti passo passo la natura, una cosa di mezzo tra il parlare ordinario e la melodia, un temperato sistema tra quella favella, dic’egli, che gli antichi chiamavano diastematica, quasi trattenuta e sospesa, e quella che chiamavano continuata. Tali erano gli studi de’ passati maestri; con tali avvertenze e considerazioni procedevano; e ben mostrava l’effetto che non si perdevano in vane sottigliezze. Il recitativo era vario e pigliava forma ed anima dalla qualità delle parole. Correva talvolta con rapidità eguale al discorso, tale altra procedeva lentamente, e faceva sopra tutto bene spiccare quelle inflessioni e quei risalti che la violenza degli affetti ha forza d’imprimere nell’espressione. Lavorato a dovere era udito con diletto; e si ricordano ancor molti come certi tratti di semplice recitativo commovevano gli animi dell’udienza in modo, che niun’aria a’ giorni nostri ha saputo fare altrettanto.

[2.5] Una qualche commozione egli sembra che cagioni presentemente il recitativo, quando esso sia obbligato, come soglion dire, e accompagnato con istrumenti. E forse non disconverrebbe che una tale usanza si facesse più comune ancora ch’ella non è. Qual calore e qual vita non viene a ricevere infatti un recitativo, se là dove si esalta la passione sia rinforzato dall’orchestra, se ogni sorta d’arme assalga il cuore ad un tempo e la fantasia? Non se ne può dare a mio giudizio la più manifesta prova, quanto adducendo in esempio la maggior parte dell’ultimo atto della Didone del Vinci, che è tutta lavorata a quel modo. È da credere che se ne sarebbe compiaciuto lo stesso Virgilio, tanto è animata e terribile. Un altro buon effetto seguirebbe da simile usanza: che non ci saria allora tanta la gran varietà e disproporzione tra l’andamento del recitativo e l’andamento delle arie, e verrebbe a risultarne un maggior accordo tra le differenti parti dell’opera. E già non pochi debbono essere stati più di una volta offesi a quel subito passaggio che si suol fare da un recitativo liscio et andante ad una ornatissima arietta, lavorata con tutti i raffinamenti dell’arte. Non è egli la medesima cosa che se altri in passeggiando venisse tutto ad un tratto a spiccar salti e cavriole?

[2.6] Bene è vero che, a meglio ottenere tra le varie parti dell’opera un più dolce accordo, savio partito anche sarebbe quello di lavorar meno e di meno instrumentare, che far non si suole, le arie medesime. Furono esse in ogni tempo la parte dell’opera che più delle altre risaltò. E secondo che la musica da teatro si è venuta raffinando, hanno ricevuto via via lumeggiamenti sempre maggiori. Di somma semplicità rispetto a quello che sono al dì d’oggi si può affermare che fossero da principio. Tantoché e per la melodia, e per gli accompagnamenti, poco più alto sorgevano del recitativo. Il vecchio Scarlatti fu il primo a dar loro più di mossa e di spirito; e le rivestì sopra tutto di belli e più copiosi accompagnamenti. Erano essi nondimeno dispensati con sobrietà, aperti, chiari, di gran tocco, dirò cosi, non leccati e minuti. E ciò non tanto in riguardo alla vastità del teatro, dove la lontananza si mangia la diligenza, ma in riguardo ancora alle voci, a cui debbono soltanto servire. Non picciola è la mutazione che da quel maestro è seguita a’ tempi nostri, nei quali si è oltrepassato ogni segno, e le arie si rimangono oppresse e quasi sfigurate sotto agli ornamenti con che studiano sempre più di abbellirle. Soverchiamente lunghi sogliono essere quei ritornelli che le precedono e ci sono assai volte di soprappiù. Nelle arie di collera per esempio; che troppo ha dell’inverisimile che un uomo in collera se ne stia ad aspettare con le mani a cintola che sia finito il ritornello dell’aria, per dare sfogo alla passione che bolle dentro il cuor suo. Quando poi, finito il ritornello, entra la parte che canta, quei tanti violini che l’accompagnano che altro mai fanno se non abbagliare e coprir la voce? Pare che per ogni ragione se ne avesse a scemare il numero. Tanto più che ne sono bene spesso cosi affollate le nostre orchestre, che avviene in esse come in un naviglio, che la gran moltitudine delle mani, in luogo che giovi al governo di quello, gli è al contrario d’impedimento. Perché non far lavorare maggiormente i bassi, e accrescere piuttosto il numero de’ violini, che sono gli scuri della musica? Perché non rimettere i liuti e le arpe, che col loro pizzicato danno a’ ripieni non so che del frizzante? Perché non restituire il loro luogo alle violette instituite già per fare la parte media tra i violini e i bassi, onde risultava l’armonia? Una delle più care usanze al dì d’oggi, sicura di levare nel teatro il maggior plauso collo più strepitoso batter di mani, è il far prova in un’aria di una voce e di un oboe, di una voce e di una tromba; e far tra loro seguire con varie botte e risposte una gara senza fine e quasi un duello sino all’ultimo fiato. Ma se tali schermaglie hanno potere di prendere gran parte della udienza, riescono pure alla più sana parte di essa rincrescevoli. E non si può abbastanza esprimere quanto diletto sorgesse in contrario dal fare ad ora ad ora accompagnar sobriamente le arie da diversa qualità di strumenti, dalla violetta, dall’arpa, dalla tromba, dall’oboe e forse anche dall’organo, come era altre volte in costume44. Così però che ciascuna qualità di strumenti convenisse all’indole delle parole a cui debbono servire, e che eglino entrassero a luogo a luogo, dove più lo richiedesse l’espression della passione. Non saria allora per niente coperta la voce del cantore, verrebbe ad esser rinforzato l’affetto dell’aria e l’accompagnamento saria simile al numero nelle belle prose, il quale, a detto di quel savio, convien che sia come il batter de’ fabbri, musica insieme e lavoro.

[2.7] Ma non sono questi, quantunque assai gravi, i maggiori disordini che sieno entrati nella composizione delle arie. Conviene risalire più alto per trovare la sede primaria del male. Il maggior disordine, giudicano i veri maestri, che abbia radice nella trovata e nella condotta del soggetto stesso dell’aria. Rade volte si cerca che l’andamento della melodia abbia del naturale, o risponda al sentimento delle parole che ha da vestire. E le tante varietà in cui lo vanno girando tuttavia e rigirando, non bene sogliono riferirsi a un centro comune, a un punto di unità. Blandire in ogni modo le orecchie, allettarle, sorprenderle, è il primo pensiere degli odierni compositori, non muovere il cuore o scaldar l’immaginativa di chi ascolta. E ad ottenere tal loro intendimento l’uscir bene spesso dalle righe, prodigalizzare i passaggi, ripeter le parole senza fine e intralciarle a loro piacimento, sono i tre principalissimi mezzi ch’ei mettono in opera.

[2.8] La prima cosa è piena veramente di pericolo, se uno guardi al buon effetto della melodia che, stando anch’essa nel mezzo, tiene maggiormente della virtù; e nella musica si vuol fare quell’uso degli acuti che si fa dei lumi ardenti nella pittura.

[2.9] Quanto ai passaggi, prescrive la sana ragione che non convenga usargli, salvoché nelle parole esprimenti passione o moto. Altrimenti non si hanno da dire, a propriamente chiamargli, se non se interruzioni del senso musicale.

[2.10] Quelle repetizioni poi di parole e quegli accozzamenti fatti soltanto in grazia della musica e che non formano senso veruno, quanto non sono essi mai noiosi ed insoffribili? Le parole non si vogliono replicare, se non con quell’ordine che detta la passione e dopo finito il senso intero dell’aria, e il più delle volte non si dovrebbe neppure dir da capo la prima parte; che è uno de’ trovati moderni, e contrario al naturale andamento del discorso e della passione, i quali non si ripiegano altrimenti in se stessi e dal più non tornano al meno.

[2.11] Potrà ancora ciascuno avere assai volte avvertito che il sentimento dell’aria sarà concitato e furioso; ma scontrandosi in essa le parole di padre o di figlio, non manca quivi giammai il compositore di tener le note, raddolcendole il più ch’ei può, e di rallentare a un tratto l’impeto della musica. Con che si persuade, oltre all’aver dato alle parole quel sentimento che si conviene, di aver anche condito la composizione sua di varietà; ma noi diremo piuttosto che egli l’ha guasta con una dissonanza di espressione da non potersi in niun modo comportare da chi ha fior di ragione; chè già non si ha da esprimere il senso delle particolari parole, ma il senso che contiene il tutto insieme di esse, e la varietà ha da nascere dalle modificazioni diverse del medesimo soggetto, non da cose che al soggetto si appiccino e sieno ad esso straniere o repugnanti.

[2.12] Egli sembra che i nostri compositori adoperino come quegli scrittori che per nulla badando al legamento del discorso e all’ordine, mirassero solamente a porre insieme e ad infilzare di belle voci. Per quanto sonore ed armoniose si fossero, non altro che vana ed inetta ne riuscirebbe l’orazione. E lo stesso è della musica, se altri non si prefigge di dipingere una qualche immagine o di esprimere un qualche sentimento45. Vana riesce essa pure; e dopo aver forse riscosso un qualche passeggero applauso, è lasciata dall’un de’ lati, per quanto artifizio siasi posto nella scelta delle combinazioni musicali, e condannata a un eterno silenzio ed obblio. Laddove si rimangono soltanto scolpite nella memoria dell’universale quelle arie che dipingono o esprimono, che chiamansi parlanti, che hanno in sé più di naturalezza; e la bella semplicità, che sola può imitar la natura, viene poi sempre preferita a tutte le più ricercate conditure dell’arte.

[2.13] La poesia e la musica, comecché tanto strettamente congiunte, camminarono di un passo tutto contrario tra noi. La musica nell’altro secolo era ben lontana dal dare in quelle affettazioni e in quelle lungaggini in cui dà oggi giorno; entrava nel cuore e vi rimaneva dentro, veniva ad incorporarsi colle parole e a farsi verisimile, era insomma affettuosa e semplice, quando la poesia era tutta fuori del vero, iperbolica, concettosa, fantastica. E da che si mise nel buon sentiero la poesia, lo smarrì la musica. Il Cesti e il Carissimi si videro ridotti a dover comporre sopra parole dello stile dell’Achillino; essi ch’erano degni di rivestir di note i casti sospiri del Petrarca; ed ora le naturali e graziose poesie del Metastasio sono assai volte messe in musica da compositori secentisti. Non è però che una qualche immagine di verità non si scorga anche a’ di nostri nella musica. Ne sono in esempio singolarmente gl’intermezzi e le operette buffe, dove la qualità principalissima dell’espressione domina assai meglio, che in un qualunque altro componimento che sia: e ciò forse dal non potere quivi i maestri, essendone mediocrissimi i cantanti, dispiegare a loro talento tutti i secreti dell’arte, tutti i tesori della scienza; onde loro malgrado sono costretti ad attenersi al semplice e a secondar la natura. Da qualunque causa ciò venga, a cagione appunto della verità che in sé contiene, ha la voga e trionfa un tal genere di musica, benchè riputata plebea. E dessa pur fu che estese la nostra riputazione di là dall’Alpi nel bel paese di Francia, rivale in ogni bell’arte coll’Italia. A niuno può esser nascosto come nel campo singolarmente della musica durava tra le due nazioni viva da gran tempo ed accesa la guerra. Non si trovava la via da accordare col nostro canto le orecchie dei Francesi, ed era da essi loro rigettata l’oltramontana melodia, come vi fu altre volte aborrita la oltremontana reggenza. Quando ecco fu udito in Francia lo stile naturale ed elegante insieme della Serva padrona con quelle sue arie tanto espressive, con que’ suoi graziosi duetti; e la miglior parte de’ Francesi prese partito a favore della musica italiana. Cosi che quella rivoluzione che non poterono operare per lunghissimi anni in Parigi tante nostre elaboratissime composizioni, tanti passaggi, tanti trilli, tanti virtuosi, la fece in un subito un intermezzo e un paio di buffoni. Sebbene, non già nelle sole opere buffe sta racchiusa la buona musica. Nelle opere serie è anche forza confessare che si odono qua e là dei pezzi degni dei tempi migliori. Fanno fede al mio detto parecchie fatture del Pergolesi e del Vinci, rapitici da morte troppo di buon’ora; del Galuppi, del Iomelli e del Sassone, che non potranno mai abbastanza vivere. A così fatti uomini sarebbe da commettere la musica, quale noi la vorremmo nella nostra opera. Che già avendo essi scosso di per sé il giogo di alcuni vecchi pregiudizi, come è aperto a vedersi in alcune delle loro composizioni, e nell’Andromaca singolarmente del Iomelli, riuscirebbe loro meno difficile che agli altri lo entrare nella intenzion nostra, che è di secondar sempre e di abbellir la natura. La bella modulazione trionferebbe del continuo nei recitativi, nelle arie, nei cori medesimamente di che vanno corredate le nostre opere, ne’ quali cori saprebbono metterci di contrappunto quel tanto che bastasse e nulla più. Infatti ella è opinione de’ migliori nostri maestri che il contrappunto, o vogliam dire l’armonia simultanea di varie parti, possa bensì produrre una certa temperanza, che alla musica di chiesa dà tanto decoro e solennità, ma che a risvegliare nell’animo nostro le passioni non sia atto per niente. E la ragione che ne adducono è questa. Essendo esso composto di varie parti, l’una acuta, l’altra grave, questa di andamento presto, quella di tardo, che hanno tutte a trovarsi insieme e ferir l’orecchie ad un tempo, come potrebbe egli muovere nell’animo nostro una tal determinata passione, la quale di sua natura richiede un determinato moto e un determinato tuono: allegrezza, moto veloce e tuono intenso e acuto, moto lento e tuono rimesso e grave la mestizia, e così delle altre? Attissima bensì ad accendere in esso noi qualunque si voglia passione è la melodia, la quale cammina sempre di un passo e di un tuono allo stesso fine. E se a ben condurre la melodia non ci vuole per avventura tanta profondità di dottrina, quanta a ben condurre il contrappunto, ci vuole però un gusto finissimo e una somma discrezione di giudizio; lo più bel ramo, dice quello antico savio, che dalla radice razionale consurga. In tal modo adoperando, saremo sicuri che la musica ne darà bene spesso sul teatro un qualche saggio di quella vittoriosa sua forza che mostrava ne’ tempi addietro, e che presentemente nelle dotte composizioni dispiega di Benedetto Marcello, uomo forse a niun altro secondo tra gli antichi e primo certamente tra’ moderni. Chi fu più acceso dall’estro e più regolato insieme di lui? Nelle cantate del Timoteo e della Cassandra e nella celebre opera de’ Salmi, non solo egli ha mirabilmente espresso le passioni tutte, i più delicati sentimenti dell’animo, ma è giunto ancora a rappresentare alla fantasia le stesse cose inanimate. E con tutta la severità della musica antica ha saputo congiugnere le grazie e i vezzi della moderna; ma son vezzi da matrona46.