(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo primo — Capitolo primo »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo primo — Capitolo primo »

Capitolo primo

Saggio Analitico sulla natura del dramma musicale. Differente che lo distinguono dagli altri componimenti drammatici. Leggi sue costitutive derivanti dalla unione della poesia, musica e della prospettiva.

[1] Qualora sentesi nominare questa parola “opera” non s’intende una cosa sola ma molte, vale a dire, un aggregato di poesia, di musica, di decorazione, e di pantomima, le quali, ma principalmente le tre prime, sono fra loro così strettamente unite, che non può considerarsene una senza considerarne le altre, né comprendersi bene la natura del melodramma senza l’unione di tutte. Mi farò dunque a ragionare paratamente di esse, lasciando per ora il parlare del ballo, il quale non sembra costituire parte essenziale dell’opera italiana, giacché quasi sempre si frappone come intermezzo, e di rado s’innesta nel corpo dell’azione. In qualsivoglia altro componimento poetico la poesia è la padrona assoluta, a cui si riferisce il restante; nell’opera non è la padrona ma la compagna delle altre due, anzi in tanto si dice buona, o cattiva, in quanto più, o meno si adatta ai genio della musica, e della decorazione. Attalchè gli argomenti poeti ci, che acconci non sono ad invaghire gli orecchi colla soavità de’ suoni, né ad appagar l’occhio colla vaghezza dello spettacolo, sono per sua natura sbanditi dal dramma; come all’opposto i più atti sono quelli, che riuniscono l’una e l’altra delle anzidette qualità. Ma siccome la parte più essenziale del dramma viene comunemente riputata la musica, e che da lei prende sua maggior forza, e vaghezza la poesia, così le mutazioni da essa introdotte formano il principal carattere dell’opera.

[2] L’unione della musica colla poesia è dunque il primo costitutivo, che distingue codesto componimento dalla tragedia, e dalla commedia. né da tale unione risulta un tutto così inverosimile come pretenderebbero alcuni, a cui pare una stravaganza che gli eroi e l’eroine s’allegrino, s’adirino, e si dicano le loro ragioni cantando. Tal cosa sarebbe certamente un assurdo, se si dovesse prender al naturale, ma così non è nel dramma musicale, il quale, siccome avviene a tutti gli altri lavori delle arti imitative, non ha tanto per oggetto il vero quanto la rappresentazione del vero, né si vuole da esso, che esprima la natura nuda e semplice qual è, ma che l’abbellisca, e la foggi al suo modo. Al pittore non si comanda soltanto, che dipinga un uomo, ma che il perfezioni nel dipignerlo, aggiungendovi quella proporzione delle parti, e quella mistura de’ colori, ch’egli non ha comunemente. Così è fino a noi pervenuta la fama di Zeusi, che volendo far il ritratto di Elena, e non trovando alcun individuo della natura, il quale adeguasse quella sublime idea della perfezione, ch’egli avea nella sua mente concetto, raccolse da molte fanciulle bellissime i tratti più perfetti, onde poi un tutto formò, che non esisteva fuorché nella mente del pittore. Si richiede dal tragico, che esprima le passioni, e i caratteri, ma che gli esprima cogli stromenti propri dell’arte sua, cioè col verso, e collo stile poetico; altrimenti s’avesse a dipignere veramente le cose quali furono, sarebbe costretto a far parlar Maometto, e Zaira in linguaggio arabo piuttosto che in francese, in prosa familiare, e non in versi alessandrini. Così la musica imita la natura, ma la imita pei mezzi, che le si appartengono, cioè col canto e col suono: il qual linguaggio, attesa la tacita convenzione che passa tra l’uditore, e il musico, non è meno verosimile in se stesso di quello che lo sia il linguaggio dei versi, e l’assortimento de’ colori, poiché l’oggetto, che la musica ad imitar si propone, esiste realmente nella natura non altramenti, ch’esista quello, che prendono ad imitare la pittura, e la poesia. Onde accusar il dramma musicale perché introduce i personaggi che cantano, è lo stesso che condannarlo perché si prevale nella imitazione de’ mezzi suoi invece di prevalersi degli altrui: è un non voler, che si trovino nella natura cose atte ad imitarsi col suono, e col canto: è in una parola accusar la musica perché è musica.

[3] Posta la prima legge fondamentale del dramma, la filosofia propone a sciogliere il seguente problema : Data la intrinseca unione della poesia colla musica, quai mutazioni debbono sultare da sì fatto accoppiamento in un tutto drammatico. Tentiamo, se si può, di metter in chiaro cotal questione, che abbraccia tutto l’argomento del nostro discorso. S’io non m’inganno, la soluzione dipende dall’esame intimo delle relazioni, che corrono fra le due facoltà.

[4] Il poeta ha per oggetto tre cose: commuovere, dipingere, ed istruire. Commuove il poeta or direttamente scoprendo negli oggetti quelle circostanze, che hanno più immediata relazione con noi, e che ridestano per conseguenza il nostro interesse, giacché niuna viva affezione può nascere nell’animo nostro verso un oggetto, il quale indifferente del tutto ci sia: ora indirettamente muovendo col ritmo, e colla cadenza poetica, colla inflessione, e coll’accento naturale della voce quelle fibre intime, all’azione delle quali è, per così dire, attaccato il sentimento.

[5] Questa seconda maniera è quella che rende la poesia tanto acconcia ad accoppiarsi colla musica: anzi siffatta proprietà, la quale fino ad un certo segno è comune ugualmente alla eloquenza che alla poesia, non è che il fondamento della melodia imitativa, ovvero sia del canto: dal che ne seguita eziandio, che la possanza della eloquenza se non in tutto almeno in gran parte dipende dalle qualità musicali della lingua, ovvero sia dalla magia de’ suoni combinati diversamente nel numero oratorio, o nella pronunzia. Dipinge ora rivestendo d’immagini materiali le idee spirituali ed astratte: ora raccogliendo le bellezze sparse nella natura per ragunarle in un solo oggetto: ora la proprietà d’un essere ad un altro trasferendo a vicenda: ora cercando, che la collocazione, la pronunzia, e il suono stesso de’ segni arbitrari, cioè delle parole l’immagine mentale da lui creata esprimano perfettamente. Anche in quest’ultima proprietà un’altra ragione d’analogia della musica colla poesia consiste: imperciocché quanto più la espressione poetica de’ motti s’avvicina alla natura delle cose, che si rappresentano, tanto più agevolmente potrà la musica le cose stesse imitare. Istruisce cercando per mezzo della cognizione del bello intellettuale, e del bello fisico portar gli uomini alla cognizione, e all’amore del bello morale. Sebbene codesto oggetto non forma un carattere distintivo della poesia se non in quanto è una conseguenza delle altre due: cosicché una istruzione scompagnata da ogni sentimento e da ogni immagine nulla affatto si converebbe alla poesia. Ciò si vede in Lucrezio il più celebre poeta filosofo dell’antichità, il quale si rende insoffribile, allorché, abbandonati i suoi vaghi episodi, s’innoltra nel puro didascalico, e più chiaramente si scorge ne’ moderni suoi pretesi imitatori, i quali si credono di poter discacciar Apollo dal seggio del parnaso, e di farci assaporire la bevanda de’ numi qualora ci regalano pezzi d’ottica, d’idrostatica, e talvolta di nuda e secca geometria nelle loro gotiche poesie2.

[6] Egli è vero che negli autori anche più celebri si trovano spesso delle sentenze morali, che paiono scompagnate dall’uno e dall’altro, e già veggo alcuno farmisi incontro con alla mano il Saggio sopra l’uomo del Pope, e con qualche altra poesia inglese, o francese tutta di moralità e d’istruzione composta: ma esaminando bene cotai componimenti, si troverà, che le sentenze loro o si risolvono ultimamente in qualche movimento di passione, o in qualche immagine, o che altrimenti annoiano tosto.

[7] Delle tre cose accennate la musica non si propone se non due sole, come fine principale il commuovere, come subalterno il dipignere. Commuove la musica ora imitando colla melodia vocale le interiezioni, i sospiri, gli accenti, l’esclamazioni, e le inflessioni della favella ordinaria, onde si risvegliano le idee, che delle passioni furono principio: ora raccogliendo cotali inflessioni, che si trovano sparse ordinariamente nella voce appassionata, e radunandole in un canto continuo, che è quello che soggetto s’appella: ora ricercando coi suoni armonici, colla misura, col movimento, e colla melodia que’ fisici riposti nervi, i quali con certa ma inesplicabil legge movendosi, all’odio, o all’amore, all’ira, al gaudio, o alla tristezza ci spingono. Dipinge ora imitando col romore degli stranienti dal ritmo musicale dottamente regolati il suono materiale degli oggetti fisici, che sono capaci d’agire sull’animo nostro qualora li sentiamo nella natura, come fa la musica allorché esprime l’armeggiar d’una battaglia, o il fragore del tuono: ora risvegliando colla melodia le sensazioni, che in noi producono le immagini di quegli oggetti, i quali per esser privi di suono non cadono sotto la sfera della musica, come allorché non potendo significare la tomba di Nino, l’odore de’ fiori, o tai cose, che appartengono ad altri sensi e non all’udito; il musico rappresenta invece loro l’effetto, che in noi cagiona la veduta maninconica di quel mausoleo, o il placido languore che inducono i fiori odorati: ora eccitando per mezzo dell’udito movimenti analoghi a quelli, ch’eccitano in noi gli altri sensi; come allora quando il musico volendo esprimere il tranquillo riposo d’uno che dorme, ovvero la solitudine della notte, e il silenzio maestoso della natura, trasporta, dirò così, l’occhio nell’orecchio, e ci rappresenta la sospensione e il terror segreto, onde vien compreso lo spettatore nel rimirare siffatti oggetti. Il lettore mi risparmierà l’entrare in più profonda ricerca intorno a questo punto. Cotale spiegazione, che tutta dipende dalla maniera con cui agiscono i suoni sulla nostra macchina, e dalla intima relazione che passa tra la vista e l’udito, relazione sospettata prima dalla esperienza, poi messa nel suo maggior lume dal Neutono, oltrachè diventerebbe troppo prolissa, non è essenzialmente legata col mio argomento3.

[8] L’istruire direttamente non le appartiene in verun conto, imperocché, essendo destinata a parlar ai sensi, e per mezzo loro al cuore, né potendo agire per altra via che per quella del movimento, non ha conseguentemente i mezzi d’arrivare fino all’astratta ragione. I suoni altro non sono che suoni: rendono le sensazioni e le immagini ma in niun modo le idee. Può nulla meno la musica accompagnare le sentenze istruttive della poesia, se non colla viva espressione d’un canto imitativo, almanco seguitando colla misura, coll’andamento e col tempo il tuono generale del discorso, purché i versi, che s’accompagnano, non abbiano suono così malagevole e rozzo, che al canto inetti riescano, e per conseguenza non siano drammatici. Per esempio in codesti versi:

                  «Comincia il regno
Da te medesmo: i desideri tuoi
Siano i primi vassalli: onde i soggetti
Abbiano in chi comanda
L’esempio d’ubbidir. Sia quel che dei
Non quel che puoi dell’opre tue misura.
Il pubblico procura
Più che il tuo ben. Fa che in te s’ami il padre,
Non si tema il tiranno. È de’ regnanti
Mal sicuro custode
l’altrui timore…»

sebbene la musica non ne renda il senso, poiché in essi nulla si trova d’immaginativo né d’affettuoso, può nonostante accrescer colla melodia naturale maggior forza alle varie posature e modulazioni della voce. Ma siccome non ha la disposizione intrinseca, che s’abbisogna per isprimerli, niente niente che duri il dissertare diverrà un rumore insignificante, che avrà l’apparenza esterna della musica senz’averne io spirito.

[9] Da questo paragone della musica colla poesia risultano due osservazioni spettanti al mio proposito. La prima che la musica è più povera della poesia, limitandosi quella al cuore, all’orecchio, e in qualche modo alla immaginazione, laddove questa si stende anche allo spirito, ed alla ragione. In contraccambio la musica è più espressiva della poesia, perché imita i segni inarticolati che sono il linguaggio naturale, e per conseguenza il più energico, egli imita col mezzo de’ suoni, i quali, perché agiscono fisicamente sopra di noi, sono più atti a conseguire l’effetto loro che non sono i versi, i quali dipendendo dalla parola, che è un segno di convenzione, e parlando unicamente alle facoltà interne dell’uomo, hanno per esser gustati bisogno di più squisito, e dilicato sentimento. Quindi è, che una melodia semplice commuove universalmente assai più che non faccia un bel componimento poetico. La seconda è che la poesia fatta per accoppiarsi colla musica, debbe rivestirsi delle qualità, che questa richiede, e rigettarne tutte le altre: circostanza che tanto più divien necessaria quanto la lingua è men musicale, poiché qual cosa imiterebbe la musica in un linguaggio privo d’accento, se la poesia non le somministrasse né sentimenti, né immagini?

[10] La breve analisi fatta finora ci ha, se mal non m’appongo, appianata la via alla soluzione del problema proposto. Se la poesia dee secondare l’indole della musica, e se questa non può esprimere se non gli oggetti, che contengono passione, o pittura, dunque il dramma musicale dee principalmente versare circa argomenti, che abbondino dell’una e dell’altra, e rigettarne quelli altresì che apportando seco lente discussioni, lunghi ragionamenti, o lunghi consigli, al genere istruttivo, del quale la musica non è capace, s’appartengono perfettamente. E così abbiam trovata la prima qualità essenziale, che distingue l’opera dalla tragedia. Questa non assoggettandosi alle leggi della musica, può maggiormente approfittarsi dei vantaggi della poesia, onde non le si disconvengono i dialoghi ragionati, gli affari politici, e tali cose, purché si facciano a proposito, e con diletto. La prima scena del Pompeo in Cornelio, e il primo atto del Bruto in Voltaire sono squarci di singolar bellezza in quelle tragedie. Ma se trasferirli volessimo all’opera farebbero morir di languore gli uditori.

[11] Quindi l’andamento del dramma dee essere rapido: imperocché se il poeta si perde intorno ai punti troppo circostanziati, la musica non può se non assai tardi arrivare a quei momenti d’interesse e d’azione, dove essa principalmente campeggia. Dal che nascono due inconvenienti: il primo che essendo il linguaggio della musica troppo vago e generico, e dovendo conseguentemente per individuare l’oggetto che vuol esprimere, far lunghe giravolte, e scorrere per moltiplicità di note; l’azione diverrebbe d’una lunghezza insoffribile se il poeta non si prendesse la cura di troncare le circostanze più minute. Il secondo, che siffatte minutezze per esser prive di calore e di energia non potrebbero accompagnarsi se non da modulazione insignificante, e triviale, che niuno spirito aggiungesse alle parole. Un passaggio facile, e pronto da situazione in situazione, un risparmio di circostanze oziose, una serie artifiziosamente combinata di scene vive ed appassionate, una economia di discorso, che serva, per così dire, come di testo, su cui la musica ne faccia poscia il commento; ecco ciò che il poeta drammatico debbe somministrare al compositore. Lasciando al tragico l’ampiezza delle parole, e il lento, ed artifizioso sviluppo degli avvenimenti, appiglisi egli pure alla precisione de’ sentimenti, e alla speditezza, e rapidità dell’intreccio. Merope nella tragedia francese che porta il suo nome, fa una lunga ed eloquente parlata chiedendo a Polifonte, che le venga restituito il proprio figliuolo. Una madre introdotta da Metastasio in simili circostanze si spiega in poche parole:

«Rendimi il figlio mio:
Ahi! mi si spenga il cor:
Non son più madre, oh Dio!
Non ho più figlio.»

[12] Ecco un esempio della concisione ch’esige il melodramma. Ma questi quattro versetti soli accompagnati dalla mossa e vivacità che ricevono da una bella musica faranno, come riflette sagiamente Grimm nel suo Discorso sul poema lirico, un effetto vieppiù sorprendente sugli animi degli uditori, che non la tragica e artifiziosa scena della Merope di Voltaire.

[13] Per la stessa ragione una orditura troppo complicata mal si confarebbe colla natura del dramma. La musica, perché faccia il suo effetto, ha bisogno di certi intervalli o distanze, che lascino luogo alla espressione, altrimenti scorrendo su troppo velocemente per le diverse note, vi si confondono i passaggi, e l’armonia si disperde. Laddove se le si accoppia una poesia troppo carica d’incidenti, l’affollamento di essi fa che l’una non vada mai d’accordo coll’altra, e che la musica non possa marcar le situazioni, che le somministra la poesia. Ed ecco un altro distintivo dell’opera cioè la simplicità, e la rapidità dell’argomento.

[14] La dipendenza altresì della poesia rispetto alla musica induce una mutazione non piccola nello stile. Questo nella tragedia debbe essere puramente drammatico, nel dramma musicale debbe essere drammatico lirico. Per far capir meglio tal differenza è d’uopo risalire fino ai principi.

[15] Il canto è una espressione naturale degli affetti dell’animo ispirataci dall’istinto, come ci sono ispirati gli altri segni esterni del dolore, gaudio, tristezza, voluttà, speranza, e timore, colla circostanza che ciascuna di esse passioni ha il suo segno particolare, che la esprime, laddove il canto le esprime tutte senza differenza. Il canto suppone dunque agitazione nell’animo, come la suppongono le lagrime, e il riso, e tanto più grande quanto esso è più vivo e calcato. Cosicché chi canta è in qualche maniera fuori dal suo stato naturale come si dicono esser fuori di se gli uomini agitati da qualche sorpresa, o affetto: dal che ne siegue che il linguaggio, che corrisponde al canto, debbe essere diverso dal comune, cioè, tale quale si converrebbe ad un uomo, che esprime una situazione dell’animo suo non ordinaria. Ora cotal alienazione, o agitazione, o come vogliamo chiamarla, o ha per oggetto le cose che interessano vivamente il cuore, e allora lo stile di chi canta sarà appassionata, ovvero ha per iscopo quelle che colpiscono l’immaginazione, e in tal caso chi canta userà del linguaggio immaginativo, o pittoresco, il quale in sostanza non è altro che il lirico. Quindi lo stile figurato, e traspositivo de’ poeti lirici, quantunque paia strano a prima vista, è nondimeno assai conforme alla natura; imperocché, supponendo che e’ cantino ciò che dicono, si suppone parimenti, che siano invasi, o sorpresi. Il canto è dunque il linguaggio della illusione, e chi canta inganna se stesso, e chi ascolta eziandio, facendogli parere d’esser divenuto maggior degli altri, e quasi divinizzatosi. A mascherare maggiormente l’errore contribuisce la musica strumentale, la quale accoppiatasi colla vocale rende più forte, e più durevole la sorpresa, e trattenendo l’uditore della sua dolcezza, fa sì ch’ei non si avvegga della sua illusione, come il cinto misterioso d’Armida impediva Rinaldo dal conoscere ch’era incantato. La possanza dell’una e dell’altra a risvegliar idee grandi, sublimi, e fuori dell’ordinario si vede da ciò che spesso i sacri Profeti avanti di proferir i vaticini ispirati loro da Iddio, richiedevano il suonatore, che risvegliasse loro lo spirito. Si vede tra i profani nell’incominciamento d’alcune odi d’Orazio, e più di lui nell’inimitabile Pindaro, appo cui tutti i nostri Chiabrera, Guidi, Rousseau, Driden, Gray, Gleim, e Klopstoc sono ciò, che è l’uccello, che svolazza intorno alle paludi, paragonato coll’aquila, che spazia imperiosamente pell’immenso vuoto dell’aria.

[16] La natura stessa del canto ci porta dunque ad ammettere lo stile lirico. Perciò molti modi di dire, che grandemente piacciono nel dramma, non piacerebbero punto nella tragedia. Per esempio questa leggiadrissima arietta del Metastasio:

«Placido zeffiretto,
        Se trovi il caro oggetto,
        Digli, che sei sospiro,
        Ma non gli dir di chi.
Limpido ruscelletto,
        Se ti rincontri in lei
        Dille, che pianto sei,
        Ma non le dir qual ciglio
        Crescer ti fe’ così.»

o questi altri versi del Quinaut nell’Iside pieni di dilicatezza e d’armonia:

«Le zéphyr fut témoin, l’onde fut attentive
Quand la nimphe jura de ne changer jamais,
Mais le zéphyr léger et l’onde fugitive,
Ont enfin emporté les serments qu’elle a faits.»

sarebbero senza dubbio mal collocati nell’Alzira, nel Polieuto, o nel Mitridate, ma bisognerebbe esser troppo in odio al dio che presiede ai musicali diletti, per volerli escludere dal teatro lirico. Ci è ancora una ragione di più per ammetterlo nell’opera, ed è l’uniformità che risulterebbe nella musica, se dovesse aggirarsi soltanto intorno ai soggetti patetici, privandoci noi spontaneamente della ricca sorgente di bellezze armoniche, che somministra la pittura degli altri oggetti. Bellissima è la musica, che esprime le affettuose smanie di Timante:

«Misero pargoletto
        Il tuo destin non sai:
        Ah! non gli dite mai
        Chi fosse il genitor.
Come in un punto, oh Dio!
        Tutto cangiò d’aspetto!
        Voi foste il mio diletto,
        Voi siete il mio terror.»

[17] Ma non è men bella l’altra che corrisponde a quell’aria tutta lirica dell’Orfeo:

«Chi mai dell’Erebo
        Fra le caligini
        Sull’orme d’Ercole
        O di Piritoo
        Conduce il piè?
D’orror l’ingombrino
        Le fiere Eumenidi,
        E lo spaventino
        Gli urli del Cerbero
        Se un dio non è.»

[18] Quanto più varia, e per conseguenza più dilettevole non si rende la musica frammezzando le bellezze di questo secondo genere a quelle del primo? Qual vaghezza di contrasti, qual ricchezza non si cresce alla poesia? Dal che si vede che troppo nemici de’ nostri piaceri si sono mostrati quegli autori per altro stimabili, i quali hanno voluto tutte le parti dello spettacolo drammatico al solo genere appassionato ridurre.

[19] È però d’avvertirsi, che sebbene il principio da noi stabilito sia generalmente vero, si modifica tuttavia diversamente secondo i diversi generi di poemi, ai quali si applica. Nell’ode siccome chi canta è particolarmente agitato dall’estro, e siccome la sua fantasia si suppone essere nel maggior delirio, così la espressione de’ concetti debbe essere più disordinata, e più libera, piena di voli ardimentosi, di trasposizioni e d’immagini, che esprimano lo stato in cui si trova lo spirito del cantore. Ma nel dramma, dove né si può, né si debbe supporre che i personaggi abbiano la mente alienata fino a tal segno, e dove l’azione, l’interesse e l’affetto hanno tanto luogo, il linguaggio, che corrisponde, può essere lirico bensì ma con parsimonia, quanto basti per dar al canto grazia e vivacità, senza toglier i suoi diritti alla teatrale verosimiglianza, e al diverso genere di passione, che vi si rappresenta. Quindi l’origine dello stile lirico drammatico proprio dell’opera in musica, la esatta proporzione del quale è quella che caratterizza Metastasio sopra tutti gli altri.

[20] Si osserva facilmente quanto la natura del canto e dello stil musicale debba influire sul carattere de’ personaggi. Se il canto è il linguaggio del sentimento, e della illusione, dunque non si debbono introdurre a parlarlo se non persone capaci di commozioni vive e profonde, né in altre circostanze che in quelle che suppongono agitazione. Mal s’applicherebbe la più possente e la più energica delle arti d’imitazione ad un discorso freddo e insignificante. Mal si confarebbe ad un Socrate, ad uno stoico di viso arcigno, che scevro da ogni commozione d’affetto mi chiudesse in un’arietta quattro apotegmi del liceo. Male ad un vecchio, che agghiacciato dalla età i rivolge verso di se unicamente la sensibilità, che gli altri oggetti richiederebbono. Male ad uno statista, ad un avaro, ad un politico, a que’ caratteri insomma, che capaci solo di passioni sordide, o cupe, e per interesse, o per le circostanze divenuti guardinghi, non sciolgono giammai l’animo ad un ingenuo, e facile trasporto. Siffatti personaggi, usando per lo più d’un tuono di voce uniforme e composto, non fanno spiccar nella favella loro quella chiarezza e forza d’accento, quella varietà d’inflessioni, che sono l’anima della musica imitativa. Però si dee schivare che s’introducano nei melodramma, oppure se vi si introducono, non dovranno occupare se non un luogo subalterno, lasciando ad essi l’onore d’ottener posti più riguardevoli pella tragedia, dove una orditura più circostanziata apre più vasto campo allo sviluppo di tai caratteri. Callicrate nel Dione, Lusignano nella Zaira, Polidoro nella Merope, e simili altri fanno un gran effetto sul teatro tragico, perché i personaggi che imitano, parlano alla ragione eziandio, e perché la poesia piace non meno quando istruisce che quando commuove; la prima delle quali cose può conseguirsi egualmente coi caratteri freddi, tranquilli, o dissimulati, che coi loro opposti. Ma la natura del canto, per cui vuolsi energia e commozione d’affetto, e che non sa imitare dell’anima se non il trasporto, li rigettarebbe come inopportuni al suo scopo. Ma, poiché essi sono talvolta necessari allo sviluppo degli avvenimenti, qual luogo deggiono ottenere precisamente nel melodramma?

[21] Ecco che l’accennata interrogazione ci porta ad un altra cognizione non meno interessante, a quella cioè dei diversi generi di canto che corrispondono al diverso carattere, e alla situazione diversa dei personaggi. Havvi una situazione tranquilla, nella quale eglino s’informano a vicenda dello stato attuale delle cose, con cui si espongono le circostanze, e si riempie, per così dire, l’intervallo che passa tra un movimento di passione e un altro. Codesto genere, che appartiensi perfettamente al narrativo, è quello che caratterizza il recitativo semplice, di cui sono proprie siccome d’ogni altra narrazione la perspicuità, la chiarezza e la brevità, osservando che l’ultima di queste doti è più necessaria nell’opera che nella tragedia sì per la strettezza, e rapidità che la musica esige, e sì perché, essendo il canto o la melodia l’ultimo fine della musica imitativa, l’uditore è impaziente finché non arriva a conseguirlo. Nel recitativo semplice adunque, che declamazion musicale piuttosto che canto dee propriamente chiamarsi, giacché della musica altro non s’adopra che il Basso, che serve di quando in quando a sostenere la voce, né si scorre se non rade volte per intervalli perfettamente armonici: hanno il lor luogo i personaggi subalterni, che noi abbiamo supposto finora inutili al canto. Havvi un’altra situazione d’animo più veemente e concitata, dove i primi impeti delle passioni si spiegano, quando l’anima, ondeggiando in un tumulto d’affetti contrari, sentesi tormentata dalle proprie dubbiezze senza però sapere a qual partito piegare. Siffatta incertezza, e l’alternativo passaggio da un movimento in un altro diverso è quello che forma il recitativo obbligato, lo stile del quale dee conseguentemente essere vibrato, e interciso, che mostri nell’andamento suo la sospensione di chi parla, e il turbamento, e che lasci alla musica strumentale l’incombenza di esprimere negli intervalli della voce ciò che tace il cantante. L’anima stanca delle sue incertezze si risolve finalmente, e abbraccia quel partito che più confacente le sembra. Gli affetti più liberamente si spandono, e sono, per così dire, nell’ultimo lor periodo. Cotal situazione è la propria dell’aria, la quale considerata sotto questo filosofico aspetto non è altro che la conclusione, l’epilogo, o epifonema della passione, e il compimento più perfetto della melodia. Un esempio rischiarerà meglio il mio pensiero. Selene sorella della sfortunata Didone viene a ragguagliarla ch’Enea senza punto curarsi delle sue preghiere ha nel silenzio della notte ragunati i suoi compagni, allestite le navi, ed è fuggito da Cartago. Questa scena è composta di semplice recitativo. Didone colpita dalla improvvisa novella ondeggia fra un tumulto d’affetti, di pensieri, e di dubbi, se deggia con mano armata inseguir Enea che fugge, o darsi in braccio a Jarba suo rivale, o piuttosto procacciarsi da disperata la morte. Codesta situazione, che comunemente si esprime in un monologo, è propria del recitativo obbligato. Si decide infine, e il desiderio di morire la vince: ecco il luogo opportuno per l’aria. Che se il personaggio non si risolve, ma rimane nelle sue dubbiezze, come talvolta addiviene, allora l’aria dovrà essere come una cscita, una scappata del sentimento, cioè quella riflessione ultima, in cui l’anima si trattiene per isfogar in quel momento il suo dolore, o qualsivoglia altra affezione. Siffatta riflessione alle volte è morale cavata dall’avvertenza che si fa alle proprie circostanze; in tal caso l’aria chiude naturalmente una sentenza; giacché io non saprei convenire col cavalier Planelli 4, né col Sulzer 5, i quali ogni e qualunque sentenza vorrebbero escludere dalle arie, «perché, dicono essi, della passione non è proprio il dommatizzare». Certamente non è proprio di essa, se per «dommatizzare» s’intenda l’intuonar sul teatro un capitolo di Seneca, ovvero alcuna di quelle lunghe tiritere morali, di che tanto abbondano le tragedie de’ cinquecentisti, nel qual senso sono state ancora da me condannate: ma non è già così di piccole, e brievi sentenze, che spontaneamente vengono suggerite all’animo dallo stato presente del nostro spirito. Le quali lontano dal disconvenirsi ad una persona appassionata le sono anzi naturalissime per quel segreto vincolo, che lega insieme tutte le facoltà interne dell’uomo, onde avvien che la riflessione desti in noi le passioni, e queste destino la riflessione scambievolmente, come ognun può osservare in se stesso, e come vedesi praticato dai primi autori.

[22] L’errore di tal opinione è nata al mio avviso dal non aver penetrato abbastanza nella filosofia delle passioni, e dall’avere stabilito come regola generale ciò che dovrebbe essere una eccezione soltanto. V’ha delle passioni che ammettono le sentenze riflesse, v’ha di quelle che le ricusano. Fra queste ultime è l’amore, e la ragione dipende dall’indole di quell’affetto. L’amante, che prostrato a’ piedi della sua bella, chiede la sospirata mercede de’ suoi lunghi sospiri, sa benissimo ch’egli non è debitore né al suo ingegno, né alla sua dottrina della fortuna d’essere riamato. Sa che l’amore indipendente per lo più della riflessione, e della ragione non ha altro domicilio che il cuore, né altra legge che quella, che gli detta l’affetto. Le lagrime sono li suoi argomenti: la fedeltà, e la costanza sono i suoi titoli: tutta la sua logica consiste nel far valere la sua tenerezza, e la sua sommissione. Sarebbe dunque inutile anzi contrario al fine ch’ei si propone, l’assalire il cuore della sua amata con teoremi, o con principi tratti da una filosofia, che l’amore non riconosce.

«Egle distratta intanto
Torna, disse, a ridir, ch’io nulla intesi.»

[23] Ecco il perché gli apotegmi amorosi riescono così insipidi sul teatro. Lo stesso dico dello sdegno, il quale determinandosi sul momento, non ha né il tempo né l’occasione di generalizzare le idee. Non è così per esempio dell’ambizione. L’oggetto che questa si propone di sovrastar tutti gli altri, e di regnar, se potesse, in un universo di schiavi, non può conseguirsi senza un intima cognizione degli uomini, delle loro proprietà, e debolezze, delle vicende della fortuna, delle circostanze de’ tempi, e de’ mezzi di prevalersene. Cotale studio suppone nell’ambizioso uno spirito d’osservazione, e di sistema capace di rilevar la connessione delle cause coi loro eventi, e di risalire fino ai principi. Èdunque assai conforme all’indole di tal passione l’esprimersi con massime generali, che suppongono meditazione. Non è verosimile che Mirtillo nel Pastor fido la prima volta, che si abbocca con Amarilli per iscoprirle il suo amore, s’intertenga con essa lei a far, per così dire, una scaramuccia di sentenze, né ch’egli dica

        «Non è in man di chi perde
l’anima il non morire.»

nè ch’ella risponda

«Chi s’arma di virtù vince ogni affetto»

o ch’ei ripigli

«Virtù non vince ove trionfa amore»

affinch’ella soggiunga

«Chi non può quel che vuol, quel che può voglia»

colla lunga filastrocca che seguita. Ma è naturale bensì, che Artabano compreso da smoderato desiderio di regnare, al quale ha le sue mire indirizzate, si spieghi col figlio in tali termini:

«È l’innocenza, Arbace,
Un pregio che consiste
Nel credulo consenso
Di chi l’ammira, e se le togli questo
In nulla si risolve: Il giusto è solo
Chi sa fingerlo meglio, e chi nasconde
Con più destro artificio i sensi sui
Nel teatro del mondo agli occhi altrui.»

[24] Nel primo si vede il poeta, che vuol far pompa di spirito in mancanza del sentimento; nel secondo si scorge un uomo, cui la sua passione ha fatto divenir scellerato per sistema. Dall’applicazion convenevole di tai principi alle diverse passioni dedur si potrebbe una teoria generale cavata dalla natura delle cose, che risparmierebbe molte critiche poco fondate, e che riuscirebbe utilissima a chi vuol innoltrarsi nella difficile, e delicata carriera del teatro.

[25] Lo stesso dee dirsi delle comparazioni. Mi sembra egualmente ingiusto lo sbandirle affatto dal dramma, che il volerle tutte senza eccezione difendere. L’uomo generalmente è più dominato dai sensi che dalla ragione. Le catene colle quali la natura l’ha legato agli altri esseri dell’universo, e la necessaria dipendenza, in cui vive, degli oggetti esteriori, lo costringono sovente a paragonarsi con essi, e a discoprirvi le relazioni segrete che passano tra la natura loro e la propria. La fantasia ripiena di ciò che le vien tramandato per mezzo degli organi non sa creare se non immagini corrispondenti a quello che vede, e l’uomo, sul quale ha codesta facoltà sì grande imperio, non sa immaginare le cose anche più astratte se non rivestite delle proprietà che osserva negli oggetti sensibili. Quindi l’origine della metafora, figura la più conforme di tutte alla umana natura, poiché la veggiamo usarsi ad ogni momento dai fanciulli, e dalle persone più rozze anche inavvertentemente ne’ loro famigliari discorsi. “Ardo di rabbia”, “cielo allegro”, “giornata maninconica” con cento altre somiglianti espressioni s’odono ad ogni tratto nella bocca de’ più idioti. Quindi l’origine eziandio delle similitudini egualmente naturali all’uomo, allorché non trovando espressione che corrisponda alla vivacità del suo concetto mentale, s’appiglia per farsi capire alla comparazione colle cose sensibili. Nel che è da osservarsi in confermazione del mio proposito, che l’uso del parlar figurato e comparativo tanto è maggiore in un popolo quanto è più scarso il linguaggio, e meno progressi v’ha fatto la coltura delle artie delle scienze. Leggansi le prime poesie di tutte le nazioni, come sono i frammenti degl’islandesi, i poemi d’Ossian, le favole di Pilpai, il Gulistan di Saadi, e le canzonette americane, e vi si troverà una somiglianza che a prima vista sorprende, benché scritte da nazioni e in tempi così diversi. Tutto in esse è metafora, tutto è comparazione. Par quasi che il poeta non viva, e non senta, ma che senta e viva per lui la natura. A misura però che il linguaggio si stende, che le arti si moltiplicano, e che la coltura delle lettere vi si aumenta, lo stile delle figure e de’ segni s’indebolisce, s’introduce l’uso de’ termini astratti, la filosofia, riducendo l’espressioni al significato lor naturale, va poco a poco ammorzando l’entusiasmo, la poesia, e la eloquenza divengono più polite, e più regolari, ma conseguentemerite meno espressive: appunto come i grani d’oro assottigliati, e ridotti in foglia dagli artefici, i quali, come dice l’Abbate Terrason, perdono in solidità tutto ciò che acquistano in estensione.

[26] Può dunque il poeta drammatico metter in bocca de’ suoi personaggi le similitudini, ma acciochè riescano verosimili, dee metterle come lo farebbe la natura, e non altrimenti. Ora che insegna la natura su tal proposito agli uomini appassionati? A non usar di comparazioni dirette, a non fermarsi su tutti i punti di convenienza, a non esaminar ogni menoma relazione. Ciò s’appartiene piuttosto allo spirito tranquillo che alla passione, la quale occupata unicamente di se, non vede gli altri oggetti se non se alla sfuggita. Allorché sento una persona incollorita, che parlando di sé, prorompe:

«Orsa nel sen piagata,
Serpe, che è al suol calcata,
        Tigre, che ha perso i figli,
        Leon, che aprì gli artigli
        Fiera così non è.»

[27] Io conosco per cotali similitudini proferite con quella brevità ed energia un uomo dallo sdegno fortemente compreso. Ma qualora sento Aquilio, che immerso ne’ più profondi pensieri mi vien fuori con questo paragone così circostanziato:

«Saggio guerriero antico
        Mai non ferisce in fretta?
        Esamina il nemico
        Il suo vantaggio aspetta,
        E gl’impeti dell’ira,
        Cauto frenando va.
Muove la destra e il piede
        Finge, s’avanza, e cede
        Finché il momento arriva
        Che vincitor lo fa.»

allora io credo ascoltar un poeta, che vuol insegnarmi l’arte della scherma, non già un personaggio occupato in pensieri di qualche importanza. Ciò che dico della presente comparazione, dico di tutte le altre lavorate di simil gusto: potranno esse prese separatamente considerarsi come squarci bellissimi di poesia, sulle quali un gran musico potrà addattare una modulazione eccellente, ma sempre mancherà loro la primaria bellezza, che consiste nella fedele espressione della natura, e nella relazione col tutto. Orazio mi susurra all’orecchio «pulcrum est, sed non erat hic locus». So che a difendere Metastasio, il quale sovente inciampa in questo difetto, s’adduce da alcuni l’esempio di Sofocle, e d’Euripide, che ne usarono talvolta nelle loro tragedie; ma (dicasi con coraggio) né Sofocle, né Euripide, né Metastasio hanno autorità che basti a distruggere i fermi ed inalterabili principi della ragione.

[28] Se non che né comparazioni, né sentenze, né poesia fraseggiata dovranno aver luogo nei duetti, terzetti ecc. Ciò sarebbe lo stesso, che render affatto inverosimili tali componimenti, i quali hanno bisogno di tutta la magia della musica per esser probabili. Se si disamina con giusta critica niente v’ha di più stravagante a sentirsi, come ben riflette il marchese di San Lamberto nella sua bella lettera francese intorno al dramma intitolato l’Onfale, che due o tre personaggi, che parlano alla volta, e si confondono, dicendo le medesime parole, senza curarsi l’uno di quanto risponde quell’altro: ciò è contrario egualmente alla urbanità di chi parla, che alla sofferenza di chi ascolta, e però si sbandiscono a ragione dalla tragedia, dove hassi tanto riguardo al decoro. Nullameno considerando, che il duetto lavorato a dovere è il capo d’opera della musica imitativa, e che produce sul teatro un effetto grandissimo: riflettendo, che l’agitazion d’animo veemente, che ne’ personaggi si suppone, basta a rendere se non certa almeno possibile la simultanea confusione di parole, e d’accenti in qualche momento d’interesse, la quale possibilità basta a giustificar il poeta nella sua imitazione: ripensando, che lo sbandir dal dramma siffatti pezzi sia lo stesso, che chiuder una sorgente feconda di diletto alle anime gentili; il critico illuminato sarà costretto a commendarne l’uso non che a permetterlo, avvisandosi, che nelle belle arti l’astratta ragione debbe sottoporsi al gusto come questo si sottopone all’entusiasmo, e al vero genio. L’unico uffizio della critica è quello di perfezionarli, riducendoli alla maggiore semplicità e verosimiglianza. perché il poeta drammatico sceglierà per il duetto il punto più viva, ovvero sia la crisi della passione, userà il più che possa del dialogo nell’aria che lo precede, sarà ristretto ne’ periodi, conciso ed animato ne’ sentimenti.

[29] Che se pochi autori hanno osservate ne’ loro scritti siffatte distinzioni, se si leggono arie, recitativi, e duetti lavorati su principi diversi, ciò altro non prova se non che pochi autori hanno penetrato nello spirito dell’arte loro, e che appunto veggonsi tanti drammi noiosi e languidi perché non sono stati scritti secondo le regole, che prescrive una critica filosofica.

[30] Dall’esame dei cangiamenti, che dal suo accoppiamento colla musica nella poesia risultano, passiamo ora a vedere le mutazioni che induce la prospettiva, ovvero sia con vocabolo più esteso la decorazione. L’opera non è, o non dovrebbe essere, che un prestigio continuato dell’anima, a formare il quale tutte le belle arti concorrono, prendendo ciascuna a dilettare or l’uno l’altro dei sensi. E siccome dalla unione colla musica ne soffre alquanto la verosimiglianza poetica per la difficoltà, che v’ha nel concepire un aggregato di persone, che agiscono sempre cantando, e che siffatta difficoltà non si toglie via se non tenendo occupato lo spettatore in una perpetua illusione, la quale gli impedisca dal pensare al suo errore; così debbesi cercare per ogni verso di trattenerlovi, chiamando un senso in aiuto dell’altro, massimamente in que’ momenti d’ozio, dove non potendo la musica tutta la sua energia mostrare, lo spettatore in nulla occupato ha l’agio di riflettere a ciò ch’ei vede. A tal fine giovano la prospettiva, e la decorazione ora rivestendo i personaggi di quella pompa, che l’occhio invaghisce cotanto, ora spiegando tutte le bellezze della pittura, ora dando maggior risalto alla grandiosità coll’intenso e artifizialmente variato chiarore, ora offrendo alla vista oggetti sempre nuovi, e sempre vaghissimi nelle frequenti mutazioni della scena. Tutte le quali cose producono l’illusione, non solo come supplemento della musica, e della poesia, ma come un rinforzo eziandio dell’una e dell’altra, poiché assai chiaro egli è, che né l’azione più ben descritta dal poeta, né la composizione più bella del musico sortiranno perfettamente il loro effetto, se il luogo della scena non è preparato qual si conviene a’ personaggi che agiscono, e se il decoratore non mette tal corrispondenza fra gli occhi, e gli orecchi, che gli spettatori credano di essersi successivamente portati, e di veder in fatti que’ luogi ove sentono la melodia.

[31] Da quai prestigi eglino abbacinati, ed assaliti, a così dire nelle loro facoltà da tutte le bande veggonsi all’improvviso trasferiti, come Psiche, nel palazzo incantato d’amore. La loro immaginazione tutta occupandosi nel godimento, non lascia il tempo alla fredda ragione di riflettere se ciò che vede, sia vero o falso; l’immagine del luogo che si ha presente, seguita a mantener l’illusione quando più non s’ascoltano i suoni, e la grand’arte combinata della musica e della pittura consiste nel mantenerlo nell’errore costantemente. Guai se cade il velo dagli occhi! Guai se i critici vengono a destarlo dal sonno!

«Qu’il maudirait le jour, où son âme insensée
Perdit l’heureuse erreur qui charmait sa pensée!»

[32] In una parola lo scopo del melodramma è di rappresentare le umane passioni per mezzo della melodia, e dello spettacolo, o ciò, che è lo stesso, l’interesse e l’illusione. Il buon gusto e la filosofia debbono tutto sagrificare a questi due fini, e siccome gli uomini radunati in società rinunziarono alla metà de’ suoi diritti per conservar illusa l’altra metà, così il poeta purché conservi ed accresca i dilicati piaceri del cuore, e della immaginazione, purché dia campo alla musica d’ottener compiutamente il suo fine, non dee imbarazzarsi gran fatto dei cicalecci dei critici, che gli si oppongono. La prima legge dell’opera superiore ad ogni critica è quella d’incantare, e di sedurre.

[33] Quindi, essendo necessaria per l’illusione la rapidità, e la prontezza dello spettacolo, (altrimenti colla lentezza lo spettatore s’accorgerebbe di essere stato ingannato) l’unità di scena, che s’opporrebbe all’una e all’altra, è bandita per sua natura dal dramma. Non è del tutto certo se sia ben fatto nella tragedia il mantener sempre la stessa scena, atteso che la premura di conservar la verosimiglianza in una cosa, è la cagione che venga violata in molte altre, mancandosi sovente al decoro, alla verità, ed al costume per far che tutti gli avvenimenti accadano nel medesimo luogo, siccome vedesi in alcune tragedie dei Greci, in quelle di Seneca, e più nei moderni grecisti dal Trissino fino al Lazzarini. Ma egli è fuor di dubbio nel melodramma, dove siffatta unità apporterebbe molti inconvenienti oltre gli accennati della tragedia. Abbiamo detto che la poesia debbe esser variata, che dee parimenti variarsi la musica in guisa che le situazioni si succedano rapidamente l’una all’altra, passando dall’affettuoso all’immaginativo, e dall’espressivo al pittoresco, cosicché tutto sia movimento, e azione. Ora cotal fine si distruggerebbe, se ciò che si vede, fosse in contradizione con ciò che si sente, se godendo l’orecchio della varietà successiva de’ suoni, l’occhio fosse condannato all’uniformità costante de’ medesimi oggetti, e se obbligassimo lo spettatore a sentire una musica di guerra negli appartamenti d’una fanciulla, o un’arietta d’amore in un campo di battaglia.

[34] E qui ci si affaccia un dubbio importante, che conviene dilucidare, il sapere cioè se alla interna costituzione del dramma convengano più gli argomenti tratti dal vero, oppure i maravigliosi cavati dalla mitologia o dalle favole moderne. Il motivo del dubbio sì è ch’essendo l’opera, siccome si è veduto, un componimento fatto per dilettare l’immaginazione e i sensi, pare che ad ottener un tal fine siano più acconci degli altri gli argomenti favolosi, ne’ quali il poeta, non essendo obbligato allo sviluppo storico de’ fatti, può variare a grado suo le situazioni, può essere più rapido ne’ passaggi, e può accrescere, e sostener meglio l’illusione, somministrando all’occhio maggior copia di decorazioni vaghe, nuove, e maravigliose. Inoltre, dovendosi escludere dalla musica tutto ciò che non commuove, e non dipinge, e dovendosi in essa sfuggire le situazioni, ove l’anima rimanga, per così dire, oziosa, sembra, che ciò non s’ottenga così bene negli argomenti di storia, ne’ quali la verosimiglianza seguitandosi principalmente, ci entrano per necessità discussioni, moralità, ed altre circostanze che legano un accidente coll’altro, e che sostituiscono la lentezza alla passione. O ci converrà dunque affrettar di troppo gli avvenimenti, o si cadrà nel languore. Tali sono a un dippresso le ragioni onde si sono mossi i Signori d’Alembert 6 e di Marmontel 7 a dar la preferenza all’opera francese, dove regna il maraviglioso, sull’italiana, dove regna il vero comunemente.

[35] Ad onta della mia stima per così chiari scrittori ardisco di slontanarmi dalla opinione loro, tanto più che la trovo appoggiata sulle false nozioni ch’eglino ci danno dell’opera. «Presso di noi, dice il primo, la commedia è lo spettacolo dello spirito: la tragedia quello dell’anima: L’opera quello de sensi.» «L’opera, dice il secondo, non è che il maraviglioso dell’epica trasferito al teatro». Ma, se mal non m’appongo, in niuna delle anzidette cose è posta la natura del dramma in musica. Non nella prima, imperocché quantunque l’opera debba parlare ai sensi, questo non è se non un fine secondario per arrivare al principale, il quale consiste nel penetrare addentro nel cuore, e intenerirlo. Il fine ultimo della tragedia e dell’opera è dunque lo stesso, né si distinguono se non pei mezzi che vi conducono: quella per lo sviluppo più circostanziato de’ caratteri e degli affetti, questa pei prestigi della illusione, e della melodia.

[36] Altrimenti se l’opera non badasse che a dilettar i sensi, in che si distinguerebbe da una prospettiva, o da un concerto? A che gioverebbe la poesia piena di varietà, e d’interesse, che dee pur essere il principal fondamento? Si dirà forse, che l’Olimpiade, e il Demofoonte parlano meno all’anima di quello, che facciano la Fedra, o la Zaira? Ovvero altro non sono che lo spettacolo de’ sensi i caratteri di Tito, e di Temistocle?

[37] Non nella seconda, imperocché, essendo l’opera un componimento teatrale destinato alla mozione degli affetti, né distinguendosi dalla tragedia se non per le modificazioni che risultano dal suo accoppiamento colla musica, egli è chiaro che la sua essenza non è riposta nel maraviglioso dell’Epica, il quale ne distruggerebbe colla inverosimiglianza il principal interesse. Io prendo in questo luogo la parola “maraviglioso” come la prende il Marmontel, vale a dire, per una serie di fatti che accadono senza l’intervento delle leggi fisiche dell’universo per la mediazione improvvisa di una qualche potenza superiore alla umana spezie. Ora in questo senso non si può dubitare, che il maraviglioso dell’Epica trasferito al dramma non faccia perdere il suo effetto a tutte le parti che lo compongono. Se riguardiamo la poesia, niun’artifiziale orditura si può aspettar dal poeta, quando i prodigi vengono a frastornare l’ordine degli avvenimenti, niun carattere, ben sostenuto, quando i personaggi sono chimerici, niuna passione ben maneggiata, quando chi si rallegra, o si rattrista sono le fate, i silfi, i geni ed altri esseri immaginari, de’ quali ignoro le proprietà e la natura, né la sorte loro sarà in alcun tempo la mia. Altrettanto varrebbe l’interessarmi per l’idee astratte di Platone, o per l’ircocervo dei peripatetici8. Se riguardasi la musica, poca unità d’espressione vi può mettere il compositore, perché essa non si trova nell’argomento, poco interesse nella melodia, perché poco v’ha nell’azione, e perché la poesia non è che un tessuto di madrigali interrotti da stravaganze, la modulazione non è che un aggregato di motivi lavorati senza disegno. Se si pone mente alla esecuzione, niuna cosa più inverosimile, e insiem più difficile ad eseguirsi che codesti personaggi fantastici. Non vi par egli che l’atteggiamento, e le sembianze d’un fiume, dell’aquilone, del zeffiro, della paura, dei demoni e di tali nomi egualmente leggiadri siano facili ad imitarsi? È possibile trovar i gesti e il linguaggio, che s’appartiene ad essi. Un vestiario, una conciatura di testa, che divenga lor propria? Dove ne troveremo i modelli? Dov’è la regola di comparazione, onde possiam giudicare della convenienza, o disconvenienza?

[38] Essendo dunque gli argomenti maravigliosi sottoposti a tanti difetti, ragion vuole, che si debbano ad essi preferire gli storici. né non è già vero, come pretende il Marmontel, che questi non somministrino al decoratore abbondanza di spettacoli nuovi e brillanti. Se non vi si vedrà sbuccar all’improvviso una furia, né si vedrà volar per l’aria una sfinge, un castello, che comparisce e poi si dilegua: se un sole non si prenderà il divertimento di ballar tra le nugole, con altre somiglianti strambezze solite ad usarsi nelle opere francesi, non è per questo, che non abbia in essi un gran luogo la prospettiva, rappresentando ameni giardini, mari tempestosi, combattimenti terrestri e navali, boscaglie, dirupi, tutto insomma il maestoso teatro della natura considerata nel mondo fisico: spettacolo assai più vario, più dilettevole e più fecondo di quello, che sia l’universo ideale fabbricato nel cervello de’ mitologi e de’ poeti. né ci è pericolo altresì che illanguidisca la musicale espressione, purché l’autore secondo le regole stabilite di sopra scelga nelle storie argomenti pieni d’affetto d’interesse sfuggendo le particolarità, che nulla significano: anzi il dover rappresentare gli umani eventi, che il musico ha tante volte veduti, o de’ quali almeno può formarsi una giusta idea, gli sarà di un aiuto grandissimo a vieppiù internarsi nella passione, e a penetrare più addentro nell’animo dell’uditore, come il dover dipingere eziandio gli oggetti naturali, che sono sotto gli occhi di tutti, gli darà più mossa e coraggio a destramente imitarli. Dal che si vede, che sebbene il pittore pochissimo, o niun giovamento ritragga dal musico, non è piccolo quello, che il musico può ritrar dal pittore. La veduta di una scena ben decorata, la vivacità e la forza degli oggetti espressi da lui riscalderanno maggiormente il genio del compositore. Non solo s’udirà sortir dalla orchestra più minaccioso il fragore della tempesta, che il decoratore avrà sul teatro maestrevolmente dipinta, non solo gli strumenti renderanno più spaventevole l’ingresso della grotta di Polifemo, ovvero i flutti d’un mare agitato, ma più dilettevole, e più grato apparirà coi suoni d’una bella sinfonia il solitario boschetto sacro al riposo, e alla felicità degli amanti: scorrerà più vivace, e più fresco il ruscello, dove Licida s’addormenta diverrà più vermiglia l’aurora, che presiede alle tenerezze di Mandane, e d’Arbace, e la volta de’ cieli pennelleggiata dalla mano d’Aiaccioli, o di Bibbiena parrà fregiarsi d’un azzuro più bello, e comparir più ridente dopo i suoni dolcissimi d’un Tartini.

[39] Che seppur qualche lentezza, o qualche momento ozioso, dove la musica non campeggi, si mischia ne’ drammi tratti dal vero, ciò prova soltanto che non tutte le situazioni sono egualmente suscettibili del medesimo grado di passione, che la musica dee talvolta piegarsi all’uopo della poesia in attenzione ai molti sagrifizi, che fa questa in grazia di quella, e che si ricchieggono degli intervalli, ne’ quali il poeta abbia luogo d’intrecciar fra loro gli avvenimenti, e l’uditore, e il musico di respirare, per così dire, dalla troppo viva commozione, che desterebbesi da una melodia continua. Le quali circostanze sono le stesse non solo per gli argomenti storici, ma pei favolosi eziandio, che: non vanno esenti da simili difetti, come si potrebbe far vedere coll’esame imparziale dei drammi di Quinaut, se l’opportunità il richiedesse. Io convengo coll’illustre autore che non ogni argomento di storia è proprio dell’opera, siccome non è improprio ogni soggetto favoloso. Si dee schivar in quello il lungo raggiramento: si può ammetter questo qualora la favola mescolata di storica narrazione, e per lungo corso de’ secoli fino a noi tramandata, abbia acquistato una spezie di credibilità, che la spogli dell’inverosimile ributtante. Tali sarebbero a un dipresso Euridice ed Orfeo, la destruzione di Tebe o di Troia, Teseo ed Arianna, Ifigenia in Aulide con altre simili. Ma il voler bandire dal dramma musicale la verità per sostituirvi il piano adottato da Quinaut, avvilir l’opera italiana per innalzar la francese, è lo stesso, che voler imitare il costume di que’ popoli della Guinea, che dipingono neri gli Angioli, perché stimano, che il sommo grado della bruttezza consista nel color bianco.

[40] Riandando le cose anzidetto possiamo a mio parere determinare in che consista il vero carattere dell’opera. Essa è la rappresentazione sul teatro di qualche azione diretta al gran fine di giovar dilettando: utile dulci. L’azione rappresentata può esser triviale come nella commedia, o grande come nella tragedia: quindi la distinzione dell’opera in seria, e in buffe. Ma quello, che non ha di comune né coll’una né coll’altra è il dover appagare non solo il cuore ma anche l’orecchio, e l’immaginazione; onde non può scompagnarsi dalla poesia i dal canto, dal suono, e dalla decorazione. Da tale accoppiamento risulta un tutto drammatico, che ha le sue leggi privative, e peculiari, come le hanno la tragedia, e la commedia. Cotali leggi in generale sono: Per il poeta: Primo: esaminare attentamente l’indole della musica: Secondo: conoscere le relazioni di questa colla lingua in cui scrive: Terzo: assoggettar alia musica la lingua e la poesia. Per il musico: Primo: conoscere il vero genio della lingua, e del verso. Secondo: saperne trar vantaggio dall’una, e dall’altro a pro della modulazione. Per il decoratore giovar alla illusione, disponendo la prospettiva secondo il piano stabilito dagli altri due. Ma dove la musica non vi si opponga, il poeta è tenuto a guardar i suoi diritti alla poesia, e al teatro, e l’abilità di lui consiste nel combinar le cose in maniera, che divenga il compagno, e non lo schiavo del compositore. Se questi il costringe talvolta a rimettere in alcuni punti della severità teatrale, non perciò vien egli dispensato dal badare alla verosimiglianza, al decoro, al costume, ai caratteri, all’unità d’azione, e di tempo, ed alle leggi universali a qualunque si voglia composizione drammatica, e la mancanza di queste non è men viziosa in lui di quello, che sia nel tragico, e nel comico. Anche in quelle occasioni, nelle quali gli si comanda, o gii si permette di piegarsi all’uopo della musica, non debbe portare il comando o la licenza fino all’eccesso, ma fin là soltanto dove il richiede il fine propostosi. Si vuol da lui che sfugga gli argomenti troppo lunghi o troppo complicati, ma non già che ne intrecci una serie di scene disunite, e senz’alcun disegno. Glissi permette l’uso delle comparazioni e della stile lirico drammatica, ma gli si raccomanda d’usarlo con sobrietà, e di consultar prima la verosimiglianza. Non dee star attaccato alla unità di scena, ma non dee trascurarla a segno, che ad ogni scena vi sia un cangiamento, o che gli spettatori vengano trasportati ad un tratto da Pechino a Madrid, o dall’Erebo all’Olimpo:

«In vitium ducit vitii fuga…»

[41] Insomma il poeta drammatico abbia pur fisso nell’animo, che il buon senso vuol essere da per tutto rispettato, e che gli squarci più vaghi d’immaginazione, e d’affetto non difendono un autore dalla censura quando va contro ai dettami della ragione. Chi fu più gran poeta di Quinaut? Chi più di lui tra i Francesi è ricco d’armonia, di numero, di colorito, di genio, d’immagini, insomma di vera poesia? Eppure per non aver consultato il buon senso nell’orditura de’ suoi drammi fu posto in ridicolo da Boileau 9.

[42] Dalle leggi generali stabilite di sopra relativamente alla interna costituzione del dramma si deducono molte altre in particolare spettanti alla natura delle parti che lo compongono. Ma molte di esse sono state di già accennate in passando, altre si ricavano facilmente da’ princicipi proposti, altre si toccheranno nel seguito di quest’opera. Basti per ora il sapere che dal complesso di tali regole nasce una differenza essenziale tra il melodramma, e gli altri componimenti teatrali assai diversa da quelle, che sono state assegnate finora dagli autori. Non consiste, siccome vogliono alcuni, nel numero degli atti, poiché può darsi un’opera bellissima divisa in cinque atti, come in tre o in due. Non nel carattere del protagonista, poiché non si vede qual diversità essenziale passi tra esso e quello della tragedia e della commedia, né come gli affetti, che svegliar mi debbe il primo, si differenzino dagli affetti che svegliar mi debbe il secondo. né tampoco nella scelta degli argomenti favolosi a preferenza dei veri, poiché, come abbiamo veduto di sopra, gli argomenti tratti dalla storia s’addattano egualmente bene, anzi meglio che i favolosi alla natura dell’opera. Non finalmente nell’esito tristo o lieto della favola, potendosi tanto nell’uno quanto nell’altro caso accoppiare una eccellente poesia ad una musica bellissima. Parlasi qui dell’opera seria non della buffa, nella quale vuolsi, come nella commedia, giocondo fine. né veggo perché il Catone in Utica sarebbe men pregievole se il protagonista s’uccidesse in presenza degli spettatori di quello che sia facendo altrimenti. Le ragioni che s’arrecano da alcuni, sono di poca o niuna conseguenza, oppure, s’hanno un qualche valore, l’avrebbero nella tragedia egualmente, dove però si vede praticato con evento felice dai più gran poeti l’uso di far morire i personaggi in teatro. Può addursi all’incontro l’esempio costante dello Zeno e del Metastasio, i quali hanno terminato tutti i loro drammi con lieto fine. Ma siffatta usanza ebbe origine da tutt’altro che dalle leggi fondamentali del componimento. L’Imperatore Carlo VI cui l’Italia è debitrice in gran parte della sua gloria drammatica, era uno di que’ Signori a’ quali non aggradavano gli spettacoli sanguinari, non volendo che il popolo tornasse a casa scontento dal teatro10. Quindi il suo gusto particolare divenne una legge prima per lo Stampiglia, indi per Apostolo Zeno, e ultimamente per Metastasio, tutti poeti della corte. Supponghiamo che Carlo VI avesse avuto genio contrario, que’ poeti per secondarlo avrebbero fatto andare tutti i loro componimenti a tristo fine, e dall’esempio loro si sarebbe cavata una regola inviolabile pei suoi successori. I critici avrebbono allora cicalato altrettanto per provar che l’esito infelice era essenziale all’opera, quanto fanno ora per provare l’opposto. Così avverrà sempre che la critica anderà scompagnata dalla filosofia.

[43] Il lettore avrà riflettuto che in questo ragionamento si è parlato dell’unione della poesia, musica, e prospettiva, atteso lo stato in cui si trovano attualmente presso di noi queste facoltà, senza pretendere d’applicar le stesse osservazioni a qualunque unione possibile. Il diverso genio della musica, della lingua, e della poesia in una nazione, le costumanze, e i fini politici possono indurre cangiamenti tali che gli spettacoli abbisognino d’altre leggi e d’altra poetica. Quindi è che poco fondata mi è sembrata mai sempre la rassomiglianza, che alcuni hanno preteso di ritrovare fra il nostro sistema drammatico-lirico, e quello degli antichi.