(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « DISCORSO STORICO-CRITICO. — ARTICOLO X. » pp. 112-139
/ 175
(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « DISCORSO STORICO-CRITICO. — ARTICOLO X. » pp. 112-139

ARTICOLO X.

I. Se l’Italia nel XVI. secolo ebbe solo traduzioni e servili imitazioni.

II. Se nel XVII., si dilettasse solo di Arlecchinate.

III. Se dal tempo di Lope si bandì dal Teatro Spagnuolo l’indecenza.

I.

Ecco quel che de’ Drammi Italiani del Cinquecento dice il Signor Lampillas (p. 194.): “Le più celebrate Tragedie, le Commedie più regolate non furono altro, che una troppo timida e superstiziosa imitazione degli Antichi. Invece di trasportare l’arte di que’ primi Maestri a’ moderni costumi e genj delle Nazioni, esse si videro trasportate a’ tempi de’ Greci, e de’ Romani: e in vece di vedersi sul Teatro i ritratti de’ moderni Italiani, si videro quelli delle nazioni antiche”.

Caro Signor D. Saverio, chi vi ha prestate queste parole, chi vi ha dato ad intendere generalmente siffatte cose della Drammatica del Cinquecento, non ebbe presenti i Fatti. Perchè non leggete cogli occhi vostri? Avete pure molto talento, avete criterio, discernimento; vedreste che, se molte sono le dotte imitazioni dal Greco, e le traduzioni fatte da insigni Italiani, un numero ancor maggiore di Drammi si trovano in Italia composti su nuovi argomenti (di cui poi si valsero gli stranieri), con caratteri di Orientali, di Egizj, Africani, i quali non si rinvengono nel Teatro Greco, e con tessitura novella, nè ricavata servilmente dagli Antichi. Vedreste ancora che, quantunque varie Commedie si componessero felicemente fra noi imitando le Latine che pur son Greche, vi si ritrassero però al vivo gl’Italiani moderni; di che saranno sempre testimonio la Clizia del Machiavelli, i Fantasmi del Bentivoglio, e moltissime altre, nelle quali si palpano gl’Italiani del tempo degli Autori. Io non voglio che crediate alla mia nuova Storia teatrale quando si produrrà: ma su quello che io riferisco, pregovi a fermarvi, e a dubitar, sì, com’è giusto, ma a cercare di sciogliere i vostri dubbj, confrontando da voi stesso i Drammi; e son certo, che se amate la verità, vi ravviserete quello che mai non pensavate, e stupirete di aver finora fatta la guerra alle ombre infantate dalla vostra fantasia. Siete Voi un fanciullino da farvi imboccare la lezione?

E con qual fondamento istorico dite che la Drammatica Italiana fu solo una servile imitazione degli Antichi? Prima degli Oresti, degli Edipi, delle Medee, delle Alcestidi, delle Ifigenie, noi avemmo l’Ezzelino, l’Antonio della Scala, il Piccinino, il Ferdinando, la Sofonisba, la Rosmunda, la Tullia, l’Orbecche, l’Altile, il Tancredi &c. E lungi dal copiare servilmente le antiche invenzioni Comiche noi cominciammo dalle Filologie, da’ Paoli, dalle Catinie, dalle Polissene, da’ Filodossi, da’ Timoni, dalle Amicizie, argomenti così lontani dagli Antichi, e caratteri da colorirsi così diversamente. E quanto al secolo XVI. Lodovico Ariosto non dovè a’ Latini le invenzioni del Negromante, della Cassaria, della Lena, della Scolastica, nè il Machiavelli quella della Mandragola, nè il Bentivoglio del Geloso, nè l’Aretino dell’Ipocrito, nè il Caro degli Straccioni, nè l’Oddi della Prigione d’Amore e delle altre due favole, nè il Guarino dell’Idropica, nè il Brignole Sale del Geloso non geloso, nè il Porta della Turca, de’ Fratelli Rivali &c. &c. Voi troverete argomenti, piani, caratteri, colpi teatrali, situazioni, satire, ridicolo, tutto nuovo, tutto tolto dagli originali di que’ tempi, e non già una rancida copia de’ vizj e de’ difetti delle Antiche Nazioni, come voi francamente asserite giurando forse sulle parole di qualche Dedicatoria, senza aver letto neppure una delle Favole Comiche Italiane. Perciò nella Risposta a Giambattista Sacco disse ottimamente il Bonciario, che “non da’ rottami di Menandro, nè dalle intere favole di Aristofane, ma di loro invenzione ed ingegno fecero gl’Italiani delle loro Commedie gli argomenti, intrecciamenti, e scioglimenti”. Torno a ripetervelo, caro Signor Abate, voi avete bisogno di fare migliore studio delle cose letterarie Italiche, se volete combatterle, e non fidarvi delle altrui capricciose asserzioni. Prendetevi un poco di fastidio, esaminate da voi stesso, giacchè avete voluto mettervi in questo gineprajo; nè sperate molto negli sforzi Logici e Rettorici, perchè dove i Fatti sono contrarj, questi sforzi sono languidi soccorsi, che, se volete, possono far numero, ma non già peso; sono come le foglie su di un cesto di frutta, che allo scoprirsi ciò che stà di sotto, restano sparse per lo suolo. Oltre di che non sapete che i Fiorentini dicono, Tanto sa altri quanto altri? Informatevi adunque ben bene delle Storie, e allora o vi dissingannerete, o farete apologie robuste, e vivaci. Al contrario esse porteranno sempre incisa nel frontispizio un’ aria d’incertezza, di argomentazione precaria, di sospensione, che le cangia infine in pure declamazioni suggerite dalla paura di soggiacere, ed infonde brio e vigore negli emuli che se ne accorgono.

L’avverto intanto di passaggio che nella p. 195. parmi che citi fuor di proposito alcune parole del Gravina. Dite che “l’affettata imitazione rese fredde e nojose le migliori Tragedie, e troppo dissolute le Commedie più celebrate, e che i più bravi ingegni inviluppati nella superstiziosa osservanza de’ precetti Aristotelici non ebbero coraggio di scuotere il giogo imposto dagli sterili interpreti di Aristotile”. E da ciò che ne avvenne secondo il Gravina? Dice forse, che questa fu la cagione della deformità del Teatro del seguente secolo (che di questo parla il Gravina, e non già del XVI. come voi credeste)? Al contrario questo Scrittore afferma che il Teatro si deturpò del tutto quando si cadde nel vizio opposto. Gl’ingegni non si disbrigarono da quei lacci per rimanersi soggetti alle sobrie leggi della Verisimiglianza, le quali sono indispensabili per chi non è stravagante; ma passarono agli eccessi1. “Non potendo” (sono le parole da Voi addotte con qualche mutilazione) “i Poeti osservare gl’indiscreti e puerili precetti ad Aristotile attribuiti, hanno anche spezzato ogni legame di natural ragione, uscendo affatto dalla verisimilitudine, decoro, e proprietà, come spesso avviene che gli uomini rompendo il freno di eccedente rigore, trascorrono fuori della norma comune ad una immoderata licenza”. Quì dunque si attribuisce alla immoderata licenza la principale deformità del Teatro. Or questo non è tutto l’opposto di quanto Voi asserite, e pretendete fortificar con questo passo? Io quì vedo un manifesto decreto di condennazione positiva della licenza immoderata della scuola Lopense e Calderonica, la quale, traviando dalla norma comune, e da’ precetti indispensabili, permise a’ Poeti l’abbandonarsi alla propria intemperanza.

Altra difficoltà occorremi prima di lasciare le Commedie del Cinquecento. Non parmi, Signor Abate, che abbiate ragione di lagnarvi del Signorelli (Lamp. p. 197.) perchè, cercando l’origine delle arditezze della Commedia Italiana ravvisate anche dall’erudito Brumoy, accenna, che gli Autori di essa furono persone nobile condecorate, e perciò satireggiavano con franchezza. Or chi si offende con osservar questo fatto?

Ben si può lagnare del Signor Lampillas l’Italia e ’l Signorelli, che alla parola Frati, soggiugne per capriccio, cioè Ecclesiastici, e Vescovi. I Frati in nostra lingua comprendono l’idea di Ecclesiastici, ma non già quella di Vescovi; nè Vescovi (se pure tutti i Frati per Voi non sono Vescovi) parmi che trovinsi introdotti ch’io sappia nelle Commedie Italiane del Cinquecento. Dove ne ho veduti e ne veggo in copia alla giornata, è nel Teatro di Madrid. Nè soltanto in qualità di uomini di consiglio, probi, intieri, com’è il Vescovo introdotto dal Bermudez nella Nise lastimosa, ma sovente co i neri caratteri d’impostori Cortigiani, sordidi venditori del favore, soldati, ribelli, nemici della Patria, come Don Opa. Ed ivi ancora si sono veduti Frati, Eremiti, Parrochi, ed altri Ecclesiastici, per nulla dire della Commedia intitolata Il Falso Nunzio di Portogallo, dove, oltre a un impostore falsario che con firme imitate si fa credere Nunzio e Cardinale della Chiesa Cattolica, e pianta l’Inquisizione in quel Regno, fulminando scomuniche, minacciando il Sovrano &c., si veggono ancora intervenire altri Prelati ed Ecclesiastici, che bassamente corteggiano l’impostore per vili mondani interessi e ambiziosi riguardi cortigianeschi. Ma in Italia, Signor mio? Nel Cinquecento? Nelle Commedie comparire Prelati, o Vescovi, o Cardinali? Se non ne avesse disotterrata alcuna il Quadrio, io non so donde abbiate potuto estrarre sì bella notizia! Se pure non è stata una cautela apologetica, appresa nel dettato della scaltrezza volgare, chiama ladro al contrario prima che ti ci chiami. Certamente nè Ariosto invano da Voi preso di mira, essendo per le vostre saette invulnerabile, nè Machiavelli, nè Bibbiena, nè intorno a dugento settanta Poeti Comici di nome in più di sei a settecento Commedie pensarono a profanare e presentare sulla Scena Comica Monsignori ed Eminentissimi, come avviene nelle Commedie Spagnuole.

II.

Non posso, caro Signor D. Saverio, menarvi buona quella sbraciata della p. 211. contro l’Italia nel XVII. secolo, nel quale supponete le nostre Scene occupate dalle più sconce arlecchinate a cagione di cinquanta scheletri di favole tessute a soggetto pubblicate dal Commediante Flaminio Scala nel 1611. Altro che cinquanta furono i canovacci Istrionici di quel tempo, in cui gran parte delle Maschere ridicole s’inventarono! Ma da questi prendete idea delle Poesia Drammatica Italiana? Un altro Autore vi contraddice, affermando essere ingiusta cosa “pretendere di trovare il gusto universale d’Italia nelle ciancie e freddure d’Arlecchino e Brighella”. Or quale de’ due mostra più senno e meno parzialità? Voi, o quest’Autore in queste due asserzioni opposte? Egli intanto e Voi componete una medesima persona1. Accordatevi con voi stesso.

Il Teatro arlecchinesco difficilmente mancherà del tutto all’Italia, e difficilmente mancheranno alla Spagna, non dico i buffoneschi Sainetti e Tramezzi che terminano a bastonate, e los Titeres, e gl’insipidissimi Pantomini fatti da los Volatines in tempo di Quaresima, ma le Commedie di Magie, di trasformazioni, di pazze apparenze Cinesi in aria, in terra, e nell’inferno, che si vedono ogni anno in quattro o cinque Commedie su Pietro Abailardo, in altre quattro su Marta Romorantina, in cui il Diavolo amoreggia e fa da primèr Galàn, in due del Mago D. Juande Espina, nel Negro mas prodigioso, e nell’Aurora en Copacavana di Calderòn, da cui è nata un’ altra favola mostruosa (ancora più di quella del Colombo scritta da non so chi in Italia motteggiata dall’Apologista), che si recitò due anni sono. Il Brighella e l’Arlecchino Italiano, e queste ridicolissime stranezze Spagnuole, sono uno sfogo necessario alla plebaglia e alle femmine, che vogliono ridere sgangheratamente delle Maschere Italiane, e de’ Graziosi e delle Graziose, e de los Vejetes Spagnuoli posti fra Diavoli, o trasformati in mille guise sulla scena, o che precipitano sotterra, o che vanno per aria a volo; e convien tollerarle. Credete voi che queste insipide sciocchezze de’ Graziosi Spagnuoli siano meno sconcie delle Arlecchinate? Credete che chiamare il Buffone della Commedia Arlecchino o Traccagnino, Calabaza o Camueso ne renda più o meno nobile il carattere? Nè le buffonate del primo, nè le mimiche scipitezze del secondo si debbono portare in trionfo da chi ha fior di senno, non essendo queste le ricchezze della Poesia Scenica delle due Nazioni. Or perchè, Signor Abate, con produrre le Arlecchinate costringete quei che combattete a mettervi sotto gli occhi i Graziosi? Sarà forse perchè avete una confusa idea delle scene Italiche di quel tempo?

Dal principio del secolo sino al 40. in circa composero gl’Italiani più di trenta Tragedie degne di leggersi, alcune delle quali sono entrate nella Raccolta cominciata dal Maffei, e si sono sostenute con applauso in Teatro. Vi furono almeno cento Commedie degl’Intronati di Siena (anche questi Accademici, e non Commedianti, sapete, Signor Lampillas?) del Porta, del Guarini, del Bonarelli, del Malavolti, di Brignole Sale, del Castelletti &c., le quali non cedono alle altre Erudite del Cinquecento. Vi furono alcune Pastorali pregevoli, tra le quali spiccano quelle del Chiabrera, del Bracciolini, e del Bonarelli. Appresso la Musica occupò tutti i Teatri, e le Accademie teatrali non videro più desiderate le loro Tragedie, Pastorali, e Commedie, e si slacciarono il coturno ed il socco. Non tacquero i Teatri degli Strioni, che doveano cercar del pane, e seguirono colle loro favole dell’Arlecchino chiamate Dell’Arte, perdendo sempre più il concorso, tra perchè l’Arlecchino giva invecchiando, tra perchè l’Opera riempiva tutti i voti, benchè la Poesia vi andasse degenerando. Questo tempo durò sino alla fine del secolo.

E’ questo un sommario sincero della Storia scenica del passato secolo. Il Maffei pregiò, come dovea, le mentovate Tragedie, Pastorali, e Commedie, ma gridò contro gli Strioni; fe l’istesso il Quadrio, l’istesso il Goldoni da Voi citato, e l’istesso faranno tutti gli assennati. Or perchè Voi sopprimete il lodevole, se non l’ignorate? E’ questa la Poesia, o i canovacci del Commediante Scala? Stimate forse che fossero pochi i buoni Drammi? Le Tragedie furono tante che di molto superano le Spagnuole de’ due secoli messe insieme (s’intende però senza contare le Mille del Malara), e le Commedie e Pastorali di merito passano il centinajo. Sono pochi Drammi per un secolo, e per l’Italia, ma non pochi per un tempo di decadenza.

Ma veniamo a un’ altra accusa data contro del Signorelli (p. 212.). Vi lagnate perchè ho detto che le irregolarità delle Commedie Spagnuole e la poca somiglianza che aveano cogli originali della natura le fecero andare in disuso, e ricondussere la desolazione nel Teatro de’ Commedianti. Sì, caro Signor D. Saverio, quelle Commedie andarono in disuso, perchè n’era manifesta la irregolarità, e perchè que’ caratteri di Duellisti, e Matasiete, che in Ispagna un secolo primo non parvero alieni dalla verisimiglianza, parvero ben tali in Italia dopo un secolo, e il popolo più non se ne dilettava. Il Fatto dimostra il poco frutto che ne ricavavano i Commedianti, perchè di bel nuovo si trovarono abbandonati. Or quì il Signor Lampillas che de’ fatti fa poco conto, e si attiene alle amate sue congetture, dice così: “E vorrà il Signorelli darci ad intendere, che in quei tempi fosse sì delicato il gusto degl’Italiani avvezzi alle più ridicole arlecchinate, che dovessero schifare le nostre Commedie per la mancanza di regolarità?” Dirò, Signor Lampillas. Quando si tratta di manifesta buffoneria, tutto passa, e il Popolo accorda all’Arlecchino e al vostro Polilla o Calabaza ogni stravaganza, e ride; anzi i Savj stessi appianano il sopraciglio, e Agesilao cavalca co’ figliuoli sulla canna, e Atene si compiace de’ Pupi de’ Ciarlatani. Quando poi si vuol dare al Popolo per favola ben condotta e artificiosa la più spropositata fanfaluca, allora, invece di ridere, volta le spalle al Teatro. Ecco perchè si soffrono le balordaggini de’ Graziosi e dell’Arlecchino, che trovò luogo anche in Francia, e poi ne’ Drammi d’importanza si cerca ogni esattezza e regolarità.

Ma ciò lasciando, avete Voi riflettuto bene a quelle vostre parole, a que’ tempi gl’Italiani avvezzi alle arlecchinate non potevano aver gusto delicato? Quando così parlate degl’Italiani del secolo scorso, sembra che abbiate la fantasia riscaldata, e ingombra tutta di Cafri, Utentotti, Eschimali, e Topinambù. Dite a quei tempi! E di quali tempi credete di parlare? Quelli furono i tempi gloriosi per l’Italia della cacciata di Aristotile dal trono con tutte le qualità occulte, le forme sostanziali e accidentali della materia, la leggerezza dell’Aria, la regione del fuoco, la solidità de’ Cieli, l’avversione invincibile al Voto, l’eternità del Mondo, gli Enti di ragione, le distinzioni e i misteri tutti delle Scuole Arabe. Furono quelli i tempi felici della luce Fisica, Matematica, Astronomica. A quei tempi il Torricelli facilitava il misurare la gravità dell’Atmosfera inventando il Barometro. Il Porta morto nel 1615. avea già, secondo il Wolfio1, inventato il Telescopio sì necessario alle celesti scoperte, o ne avea almeno preparata la compiuta invenzione colle lenti concave. L’Ottica nelle mani del medesimo insigne Filosofo Napoletano acquistava molto terreno colla Camera Ottica che a lui si attribuisce, e colla Camera Oscura che tantò illustrò la teoria della Luce, perfezionata indi dal divino Newton. Furono quelli i tempi, ne’ quali il Galilei scopriva le macchie solari, i cinque Satelliti intorno a Saturno, e le di lui fasi a cagione dell’Anello, e diveniva per tante scoperte nella Statica e Idrostatica l’Archimede della Toscana. A quei tempi il celebre Giannalfonso Borrelli illustrava parimente la Statica e la Meccanica: il Viviani meglio del Siciliano Maurolico indovinava l’ultimo Libro di Apollonio De Maximis, & de Minimis: si segnavano Meridiane nelle Città più chiare: il Casini piantava l’Astronomia nella Francia. E voi con tanta innocenza vi fate uscir di bocca a quei tempi, quasi parlaste della infanzia di qualche società di Pastori e Cacciatori? E ditemi, nell’archivio apologetico quali sono i tempi più luminosi? Fra quelli che non sono Apologisti sono i tempi delle Scienze; e in questi tanti valentuomini, gloriosi ornamenti delle Accademie, Napoletana de’ Segreti, Fiorentina del Cimento, Romana de’ Lincei &c., diffusero per tutta la Nazione, per mezzo de’ loro individui, il vero lume della Ragione, e delle Esperienze, donde proviene il pensar dritto ed il gusto. Ed in tai tempi il rischiarato Signor Lampillas stima che gl’Italiani non potessero giudicare della manifesta mostruosità delle Commedie Lopensi e Calderoniche! Ci volea per sì grand’opera un gusto singolarmente delicato? E non bastava il solo senso comune de’ volgari?

Gl’Italiani, dite, erano avvezzi alle più sconcie arlecchinate. Ah Signor Lampillas, discorrete per carità una volta, e non adoperate il linguaggio de’ volgari. E volete Voi dare ad intendere a’ vostri compatrioti, che se gl’Italiani fossero stati sì avvezzi alle arlecchinate, e se ne fossero tanto compiaciuti, avrebbero abbandonato il Teatro e l’Arlecchino nelle vostre Commedie sostituito al Grazioso? E se gl’Italiani per indole fossero così proclivi alle arlecchinate, avrebbero tante erudite Accademie atteso a far risorgere la Scenica Poesia, e a comporre per tutto il secolo XVI., e per gran parte del XVII. più centinaja di buone Tragedie e Commedie? E a chi le avrebbero rappresentate? Intanto esse si rappresentarono per tutta l’Italia, si applaudirono, si replicarono, s’impressero, si reimpressero, si studiarono. Chi si delizia nell’Arlecchino, come voi sognate, studia siffatti Drammi? studia i Greci e i Latini?

Nò, egregio Signor Lampillas, lasciate il favellare de’ volgari, riprendete quello de’ Saggi, tra’ quali con gran ragione io vi conto. L’ardore per le Scienze occupò a quei tempi talmente gl’ingegni Italiani, che neglessero questo piacevole esercizio della Poesia Scenica. Le arlecchinate rimasero, come le vostre Commedie Magiche, per pascolo de’ volgari, e delle donne, e di que’ forestieri, che nudi delle giuste notizie letterarie viaggiano, o dimorano in Italia. In oltre se voi non siete da buon senno dichiarato pertinace nemico della verità istorica, dovete confessare, che la Musica a quei tempi s’impadronì degli animi Italiani, e l’Arlecchino parve freddo alla maggior parte, e rimase presso che interamente abbandonato. La Storia, amico, vi assale per ogni banda. Oh che gran nemico per gli Apologisti è la Storia!

Mi riconvenite ancora perchè dissi che in Italia alla prima piacquero i componimenti Spagnuoli, benchè purgati da’ difetti principali. E’ verissimo, Signor D. Saverio, avvenne così appunto; ma Voi che altro non volete vedere fra noi, se non il Teatro Istrionico, tornate a dire, che gl’Istrioni anzi le sfigurarono. Ed io in ciò convengo con Voi; gl’Istrioni le sfigurarono, come per ignoranza sfigurano quanto tocccano. Ma avvertite che gli Scrittori le purgarono de’ difetti principali; e chi fa una Storia della Poesia Drammatica, non corre dietro, come il vostro Agostino de Roxas, al mestiere, alla vita, e a’ fatti de’ negletti Istrioni. Svolgete un poco qualche Libro di Storia letteraria, e Voi troverete che vi furono in Italia tuttavia moltissime Accademie di Lettere amene, nelle quali, benchè in istile alterato dal mal gusto, che allora infettava soprammodo anche la Penisola di Spagna, si scrissero Commedie, e talvolta se ne tradussero dal Teatro Spagnuolo, cercando spogliarle da’ difetti di unità. I componimenti del Canonico Celano, del Tauro, del Pisani, sono di questa natura. Essi per vizio radicale si allontanano, non che dalla semplicità, da un viluppo ragionevole; sono carichi a dismisura di accidenti romanzeschi, fondati sù bizzarrie, duelli, nascondigli &c., ma non pertanto più non vi si trovano i personaggi fanciulli e caduchi, da un atto all’altro, nè si corre in un’ ora tutto l’Oceano, passando dalla Penisola all’America, e dall’America alla Penisola.

Vi appoggiate poi al Signor Goldoni per provare, che gl’Istrioni sconciarono le Commedie Spagnuole. Conviene ripetervi che quì non si tratta degl’Istrioni, e che dovete leggere gli Scrittori, se volete ragionar fondatamente. E non vi accorgete come il vostro sistema di valervi di un passo di taluno vi mena o a stiracchiarlo per ridurlo a vostro verso, o a cavarne conseguenze non vere? Ecco: Voi sostenete coll’autorità del Goldoni, che gl’Istrioni malmenarono le Commedie Spagnuole, e poi conchiudete universalmente così (p. 214.): “Veda, Signor Don Pietro, se gl’Italiani purgarono le nostre Commedie”. Vale a dire, che in un branco d’Istrioni si contiene la Nazione Italiana? E che volete che io veda, accuratissimo Signor Apologista? Altro io non vedo in tutti i sei Volumetti del Saggio Apologetico, se non che da premesse particolari dedotte conseguenze universali. Così in più di un luogo combattendo p. e. contro il Tiraboschi, da un’ asserzione particolare del Signor Bettinelli, o di qualche altro, Voi conchiudete contro tutti gl’Italiani. Il Vives p. e. in una Lettera ad Erasmo si ride della puerilità di certo amico suo, che l’esortava a leggere per due anni interi le Opere di Cicerone, furore che prese gli animi di molti, e subito il Signor Lampillas conchiude che il Vives biasimava il gusto di Latinità degl’Italiani, facendo uso della solita aritmetica apologetica, per cui quel certo amico, quell’Uno si converte in Tutti.

III.

Tra gli altri meriti contratti dal Vega, dal Calderòn, e da’ loro seguaci col moderno Teatro novera il Signor Lampillas (p. 196.) l’onestà che v’introdussero: “La nuova Commedia bandì dal Teatro i bagordi de’ giovani colle meretrici, e agl’infami personaggi delle ruffiane e mezzani sostituì persone civili e nobili: in maniera che se non comparve la detta Commedia in sembianza di una veneranda Matrona, dovette almeno stimarsi qual gentil Dama in confronto di una sfacciata meretrice”. Gran merito, se fosse vero! Essa tolse le ruffiane e i mezzani, ma loro sostituì i Graziosi e le Graziose, che, senza portar quel nome, esercitano lo stesso mestiere, e sel rinfacciano scambievolmente1. Non comparvero in Teatro le meretrici nel proprio nome, e nelle loro divise: ma trionfarono in esso las Naranjeras, las Avellaneras (venditrici di aranci, di nocciuole) las Majas (donne sfacciate, insolenti, e per lo più da partito) los Majos de potencia (bertoni di tali donne, e di ordinario loro ruffiani), i condennati a’ presidj, i zingani e le zingane, i Mariti sacrificati alla leggerezza e a’ capricci delle loro Mogli di tal natura, le quali sulle scene dimenandosi a un di presso nella guisa delle antiche Gaditane accennate da Marziale, con malizioso sorriso, e non mascherate parole, se ne millantano. Si abolì dunque il nome, e si conservò la cosa. Le Commedie non ammisero più le Serafine Valenziane, e simili donnacce, ma fecero di peggio. Le Dame, le fanciulle onorate, per lo più introducono i loro amanti in casa, gli occultano all’arrivo di un Padre o di un Fratello ne’ proprj appartamenti, vanno esse stesse alle Case, o Locande dove quelli dimorano medianto il soccorso de los Mantos, fuggono con esso loro di notte dalle paterne case &c. Nella Dama Melindrosa (posta tralle eccellenti Commedie del Vega dal Signor Lampillas forse senza averla letta) si vede Celia Dama principale che fugge dalla propria Casa con Felisardo suo amante, e si rimane (contro la verisimiglianza ancora) nell’istesso Madrid, dove pure stà suo Padre, fingendosi schiava Mora e servendo in una Casa. E intanto sulla Scena a vista dello spettatore più e più volte abbraccia e bacia l’amante. Nella Giornata II.,

“Fel:

“Pues aquì nadie nosvè,
“bien me puedes abrazar.

“Cel:

“Siempre te has de anticipar
“à mis deseos.”

Qual cosa così viene poi riferita dal Grazioso:

“Lo que es la paz de Francia fuenotable,
“Como suelen tal vez mansas palomas
“Embaynarse los picos uno en otro,
“Y decirse requiebros en el cuello.”

Forza è che dica lo spettatore ciò vedendo, se ciò accade in luogo praticato dagli altri della Casa, che avverrà in parte più secreta! E così si bandisce la oscenità dalle Scene? E questa è la matronal decenza esaltata dall’Apologista?

Ma non è questo solo lo scandalo contagioso delle Commedie di quel tempo ignorato dall’innocente Signor Lampillas. Simili sfacciataggini, fughe, ratti, trascorsi vengono abbelliti coll’aspetto della virtù (come bene osserva Don Blas de Nasarre), e non corretti e ripresi, come avveniva nelle favole antiche, che mostravano le meretrici quali erano, cioè spregevoli, detestabili. “El artificio” (dice il citato Bibliotecario parlando di Calderon) “y afeite con que hermosea los vicios, es capaz sin duda de corromper los corazones de la juventud”. Soggiugne: “Le Donne al principio sono tutte nobili, mostrano una fierezza che in vece di amore infonde spavento, ma da poi da questo estremo passano, per mezzo della gelosia, all’altro opposto, e rappresentano al Popolo passioni violente, sfrenate, vergognose, insegnando alle Donne oneste, e alle incaute fanciulle il cammino della perdizione, e la maniera di alimentare amori impuri, e d’ingannare i Padri, di subornare i Servi . . . . discolpandosi colla passione amorosa che viene dipinta onesta e decente, che è la vera peste della gioventù”. Or che vi pare, Signor D. Saverio di questa vostra gentil Dama poco meno che veneranda Matrona? E’ divenuta più onesta cangiando spoglie? Adunque con ragion veduta Giovanni Ceverio de Vera Canariese prima Militare, e poi Sacerdote sotto Clemente VIII., e morto in Lisbona con fama di santità nel 1600., scrisse un Dialogo contra las Comedias que oy se usan por España impresso in Malaga cinque anni dopo della sua morte1. E il P.F. Juan de la Concepcion approvando la dissertazione del Nasarre, non meno fondatamente diceva: “Sosterrò sempre che le Commedie che oggi si rappresentano (a riserba di alcuna raristima) sono abominevoli per l’intendimento. La verisimilitudine n’è bandita: la decenza negletta. Nelle Commedie Istoriche i fatti sono adulterati: in quelle d’invenzione si pensa solo a ingarbugliare: l’ingegno non conosce altro entusiasmo, che il cammino insegnato dagli Attori. E con tutti questi soccorsi si producono certi mostri, certi parti informi immaturi, che chiarissimamente manifestano, che se la Commedia esser debbe specchio della vita, senza dubbio le vite presenti sono estremamente deformi a volerne giudicare da quello che si rappresenta nello specchio”. Il Signor Abate Lampillas pel suo tenor di vita, per l’istituto, e per gli studj severi che avrà coltivati, si sarà ben poco mirato in questo specchio, in cui la sua gentil Dama non fa la migliore, nè la più decente figura. Ed invero havvi Commedia tale fra’ migliori Autori, che fa stupire i ben costumati. Che carattere detestabile è quello mai di Don Felix de Toledo esposto in Teatro da Calderon! Un rompicollo perseguitato dalla Giustizia, incapace di amistà, senza rispetto di Leggi, nè di Religione, non solo ammesso da Leonora nella propria Casa, ma da lei cercato fino nella Locanda, come farebbe una donnicciuola di mondo. Che buono esempio può dare al Teatro la Commedia di Moreto, Na puede ser guardar una muger? O l’altra di Calderòn El Galàn sin Dama? O el Ofensor de si mismo de Monroy? Avea dunque ragione il fu D. Nicolàs de Moratin, quando scrivea che il teatro nazionale, “Es la escuela de la maldad, el espejo de la lascivia, el retrato de la desemboltura, la academia del desuello, el exemplar de la inobediencia, insultos, traversuras, y picardias”. Queste sono le dipinture che fanno gli stessi eruditi nazionali della decenza della gentil Dama del Signor Lampillas, di sì onesta Dulcinea apologetica.

Almeno questa indecenza fosse compensata dall’artificio, e dalle comiche bellezze, come si vede in Aristofane. Ma i savj stessi della Nazione non rifinano di declamare contro di essa Commedia, conoscendone gli errori, e di consigliare una riforma. Antonio Lopez si lamenta delle irregolarità delle favole del Vega, e de’ suoi coetanei1: strepita contro il Comico in esse confuso col Tragico, per cui in una medesima occasione si piange, e si ride: si burla dell’ineguaglianza della locuzione nel tempo stesso nobile, e plebea &c. Perciò gridava Cervantes1,

“Adios, Theatros publicos honrados
“por la ignorancia que ensalzada veo
“en cien mil disparates recitados.”

E questi spropositi furono da esso esaminati nel Don Chisciotte, e con ispezialità riprese l’introdurre nella medesima favola un personaggio prima giovane, e poi vecchio, e il condurre gli Attori quando in Africa, quando in Europa2. Perciò fremeva Cascales nelle sue Tavole Poetiche contro tali mostri teatrali. Perciò Don Manuel de Villegas si ride delle Donne guerriere con sì sazievole frequenza poste sullà scena Spagnuola,

“Guisa como quisieres la maraña
“y transforma en guerreros las donzellas,
“que tu seràs el Comico de España.”

Perciò l’erudito Luzan nella sua Poetica novera le irregolarità delle Commedie di Calderòn, e gli errori che commette in Istoria, Mitologia, e Geografia; osservando che nella Commedia Los tres afectos de amor ragiona di polvere, e moschetti, nella Sibila del Oriente colloca il Danubio in Asia, nella Devocion de la Misa mette Leon fra i popoli Asturiani &c. Perciò il Bibliotecario Nasarre tanto si distese negli spropositi di Lope e Calderòn. Perciò di quanto si scrisse dal tempo di Lope, e di Virues pel Teatro disse l’erudito Montiano nel I. Discorso, che i Drammi Spagnuoli non son Commedie, “por las pesadumbres, agravios, desagravios, desmentimientos, desafios, cuchilladas, y muertes”, nè sono Tragedie “por la graciosidad y baxeza de las personas, desaliento de las sentencias, eleccion vulgar en las expressiones, y fines siempre alegres”. Mi resta ancora un buon numero di savj nazionali, veri amatori della Patria, i quali riprovano quelchè l’Apologista prende a difendere; ma non vò stancare i miei Leggitori. Dico solo, che il Sign. Lampillas può osservare, che nella Storia de’ Teatri non si è detto, se non una minima parte de’ difetti additati da questi Nazionali, ed al contrario si sono rilevati i pregi particolari del Vega, del Calderòn, del Solis, del Moreto, del Roxas, di La-Hoz &c., scegliendo tralle loro favole quelle che meritano la pubblica stima, e tutto ciò non è bastato all’Apologista a non aggregarmi co’ forestieri Anti-Spagnuoli? Passiamo a dir qualche cosa intorno alla fecondità di Lope tanto esaltata dal Signor Lampillas.

Non vi sarà chi nieghi alla Nazione Spagnuola una fecondità prodigiosa; ma potrà dirsi riguardo al Teatro, che il non curare gli avvisi della Ragione, e i saggi legami delle buone regole, l’abbia fatto correre più leggermente. Boilean diceva1:

“Un rimeur sans péril de là des Pyrenees
“Sur la Scene en un jour enferme des annees. . .
“Mais nous que la raison à ses regles engage,
“Nous voulons qu’avec art l’action se ménage.”

Or queste regole rubano molto tempo al verseggiare. Per la qual cosa, mio Signor Lampillas, non piacemi (benchè ciò nè me, nè l’Italia tocchi poco, nè punto), che tanta pompa facciate dell’abbondanza di Lope, e della felicità di schiccherare in uno o due giorni una Commedia. Questo anzi fu il suo maggior male. Egli sacrificò all’utile l’orrevole. “Como escribia2 para ganar dinero . . . . necesitaba escribir mucho, y siendole imposible escribir mucho y bien, tapaba la boca à su propio concimiento”. Credete forse che per la brevità del tempo che si spende nel comporre, si trovi maggiore indulgenza? Nulla fa il tempo in prò di un Poema, gridano tutti gl’intelligenti. Voi già saprete come Orazio3 dava la berta a quel Crispino, che lo disfidava a vedere a prova qual de’ due facesse più versi in un tempo prefisso; saprete che nell’Epistola a’ Pisoni consigliava,

. . . . . Carmen reprehendite, quod non
Multa dies & multa litura coercuit.

Saprete, che il sopraccitato Boilean suo fedel seguace prescrisse ancora,

“Travaillez à loisir, quelque ordre qui vous presse,
“Et ne vous piquez point d’une folle vitesse.”

Saprete in oltre, che quest’impeto di Lope rassomiglia a quello degl’Improvvisatori, che sono innumerabili, soprattutto in Italia, e che la di loro voce finisce, come quella de’ Cigni, colla vita, nè passano mai da verseggiatori a Poeti. Assai velocemente scarabocchiò Lope la sua Gerusalemme; ma quale uscì dalle sue mani! E chi la legge degli stranieri e de’ nazionali! Ma è veramente per lo meglio, che non si legga. Riflettete poi, che questo è un puro effetto di esercizio, e di vivacità non difficile ad acquistarsi. Gli stessi Francesi, quando aveano un mal Teatro, ebbero un fecondo Hardy, il quale compose più di seicento Drammi, spendendo in ciascuno di essi tre o quattro giorni. Hann Sacs Calzolajo Alemanno ne messe giù molte centinaja ancora colla medesima precipitazione. E voi volete che un Lope, che per altro accompagnò in varie Poesie Liriche la grazia poetica colla prodigiosa celerità, partecipi dell’infelice vanto della prestezza nel comporre Commedie, che gli è comune cogli Hardy e cogli Hann Sacs? Non v’ha che de’ Terenzj, Signor Abate, i quali sanno scrivere solo sei Commedie da non perire giammai.

Io credo, che più che ogni altra cosa questo genio di precipitazione nel comporre facesse credere al nostro Dottor Goldoni di essere invasato dello spirito di Lope. Il Signor Lampillas va in estasi per le parole in cui egli si professa di genio simile al Vega. Io non mi fermerò gran fatto su di ciò. Sia così: s’egli il dice e il crede, l’Apologista fa bene a crederlo, e a ripeterlo. Non per tanto io son di avviso, che se il Goldoni prese di mira il sistema della Commedia di Lope, forse ciò fu nelle prime sue favole, che scrisse pel Teatro Istrionico allora assai corrotto, delle quali fa egli menzione, se non m’inganna la memoria, nella Prefazione citata dal Lampillas. Quivi in fatti traluce un genio proclive allo stravagante, all’esagerato, al romanzesco, che dovea allora essere accetto agl’Istrioni. Ma l’istesso Goldoni tacitamente riprovò queste sue prime fatiche; ed in tante Edizioni delle sue seconde Commedie l’amor proprio non l’ha mai spinto ad imprimere nè anche una sola delle prime; ciò che dimostra che n’ebbe onta, e pentimento, e si avvide della mal fida scorta, e del gusto del secolo cangiato in meglio. Egli dunque prese a studiare, non già il gusto del volgo, come fece Lope, ma il Mondo, cioè i costumi, i caratteri, e le passioni degli uomini (che questo vuol dir Mondo, Signor Lampillas, e non già, come voi credeste, il gusto volgare); ed anche il Teatro, cioè la pratica osservazione degli artificj comici che più sogliono risvegliare gli Spettatori (che questo vuol dir Teatro); ed a questi due Libri Mondo e Teatro, due cose distantissime dallo studio di Lope, accompagnò il Goldoni gl’insegnamenti d’Aristotile e di Orazio, ch’egli trasse dalle Riflessioni di Rapin da lui citate, e soprattutto la lettura di Moliere. Da questi studj nacque in lui l’amore per la Commedia di Carattere, che coltivò poi sempre scrivendo quel gran numero di componimenti Comici, che formano la raccolta del suo Teatro. Or questo Teatro, che mai ha di comune con quello di Lope? Se il Dottor Goldoni credesse ancora ciò che scrisse in quella Prefazione, io non esiterei a dirgli, ch’egli non ha capito sestesso, nè il genere Comico, che poscia ha maneggiato con felicità, egli ha ottenuto da Voltaire il titolo di Pittore. Nè crediate, Signor Lampillas, che l’avere egli detto, che non istudiava altri Libri fuorchè il Teatro e il Mondo, significasse, che ad imitazione di Lope egli conculcasse le regole ragionevoli; che questo sarebbe uno de’ vostri farfalloni madornali. Fin anco in quelle Commedie, in cui alla maniera Spagnuola egli accumola gli accidenti l’un sopra l’altro, come nell’Incognita, e forse in qualche altra, sin anco nel riscrivere il Convitato di Pietra, egli cerca racchiudere l’azione nello spazio concesso. Disingannatevi, Signor Abate, ne’ tanti Volumi delle Commedie Goldoniane, confrontando quelle d’Intrigo di Lope senza niuna regola con la Pamela, la Putta Onorata, la Buona Moglie, l’Avvocato Veneziano, il Cavaliere e la Dama, ed altre Commedie di Carattere del Goldoni, nelle quali esattamente copia la natura, e invece di Lope siegue Moliere. Disingannatevi nella Commedia da lui scritta in Francese Le Bourru Bienfaisant così applaudita in Francia. Disingannatevi leggendo la sua Commedia Il Teatro Comico, ove si ride degli antichi pregiudizj Istrionici, e mette in bocca del Capo di Compagnia tutte le regole conosciute tanto per comporre, quanto per rappresentare.