(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « DISCORSO STORICO-CRITICO. — ARTICOLO XII. Confronto Apologetico della Opera Italiana, e della Commedia Spagnuola. » pp. 149-181
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(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « DISCORSO STORICO-CRITICO. — ARTICOLO XII. Confronto Apologetico della Opera Italiana, e della Commedia Spagnuola. » pp. 149-181

ARTICOLO XII.
Confronto Apologetico della Opera Italiana, e della Commedia Spagnuola.

Il Sig. D. Saverio (dalla p. 258. alla 274.) si consuma il cervello per provare, che l’Opera Italiana sia così difettosa, come la Commedia Spagnuola. Credo però che egli vada fuor di cammino. E’ da avvertirsi in prima, che, confessando i difetti della Commedia Spagnuola, il nazional Teatro minaccia ruina, non essendo da altro genere rappresentativo sostenuto. Là dove gl’Italiani hanno Tragedie, Commedie, Pastorali, oltre alle rappresentazioni in Musica, e se queste ultime dovessero, come oltremodo difettose, bandirsi dalle scene Italiche, vi rimarrebbero altri spettacoli scenici ancora più perfetti. Sicchè in questo esame avventura più il Teatro Spagnuolo, che l’Italiano. Si vuol notare in secondo luogo essere molto strana la comparazione di Opera, e Commedia, generi diversi, che non si debbono misurare colla stessa squadra. La Commedia, secondo Orazio, più di qualunque altro genere Drammatico, è sottoposta alla esattezza richiesta dalla verisimilitudine, essendo ognuno capace di scorgerne il traviamento:

Creditur, ex medio quia res arcessit, habere
Sudoris minimum; sed habet Comœdia tanto
Plus oneris, quanto veniæ minus 1.

All’opposto l’Opera, se vogliamo servirci dell’espressione dell’eruditissimo Sig. Ab. Le Batteux, est le divin de l’Epopée mis, en spectacle, e ognun vede qual più vasto paese può essa scorrere senza errore. Inferno, Elisi, Olimpo, Numi, Incantatrici, Eroi, Esseri allegorici, sono materia ad essa accordata. E’ vero, che gli Spagnuoli si hanno fatto lecito d’introdurre queste medesime cose nella Commedia, che eccessivamente adopera apparizioni, stregherie, demonj, trasformazioni, machine, in modo che tante non se ne trovano, non che in Bojardo, e Ariosto, in tutti gli Amadis, i Meschini, i Tristani, i Fioravanti, e simili ciance cavalleresche, che stravolsero il capo a Don Chisciotte. Ma è chiaro che l’Europa culta ride al vedere tali cose sulla scena Comica, ma non se ne maraviglia nelle rappresentazioni Musicali, per la ragione che le stima proprie di questo genere. Queste brevissime semplici repliche mostrano la inutilità dell’aringa del Lampillas, il quale, sebbene dotato di gran talento, quì più che altrove si palesa non totalmente innoltrato nella Poesia confondendo le specie. Ma contuttociò anderò seguendolo passo passo.

Il Sig. Apologista primieramente dice così (p. 258.): “Vediamo come il Signorelli si sforza di ribattere le ragioni, con cui alcuni tacciano di sommamente inverisimile il moderno canto introdottosi nel Teatro dell’Opera Italiana”. Bel bello, Amico, che voi smucciate alla porta di casa. Non credo che per malizia vogliate infrascarla, cambiando i termini della quistione, o accomodandola a vostro modo; ma però voi dite ch’io vò ribattere coloro, che tacciano d’inverisimile il moderno canto dell’Opera, ed io per verun conto non dico ciò. Quel moderno aggiunto al canto è un ritaglio di materia, e di colore differente dal primo panno per rattoppare il buco, e scansare la forza dell’altrui ragionamento; riponetelo adunque nel vostro armario donde il traeste. Sebbene abbiate trascritta in parte l’osservazione del Signorelli, pare tuttavia che non l’abbiate ben letta. Ecco quello che io dico: I Criticastri Oltramontani censurano l’Opera, che manda a morire gli Eroi cantando. Adunque questi Criticastri non censurano il Canto come si trova introdotto modernamente, ma il Canto assoluto in teatro. Più nettamente si dice nella Storia de’ Teatri poco appresso, che questi Periodici Pedantini decidono, che il canto rende inverisimili le Favole Drammatiche. Or dove si favella quì di Canto moderno, o antico? Caro Sign. Abate, quest’arte di eludere gli argomenti contrarj variando i termini calzava bene ne’ Circoli Scolastici, dove gli urti, la furia, il trasporto, e talora le pugna, e i ceffoni, non permettevano di attendere alle parole più essenziali della controversia; ma nella scrittura le proposizioni, i termini sussistono, vengono sempre sotto gli occhi, per quanto un Apologista si sforzi di sopprimerli, e per quanto s’ingegni di mostrar la propria agilità, e destrezza in far degli scambietti. Quando si fosse trattato della qualità della Musica, avrebbe potuto distinguersi tra antica, e moderna; e allora coll’erudito M. Sulzer, con varj Italiani illustri, e con tutti gli avveduti Critici dell’Europa, il Signorelli affermerà, che la Musica Moderna non rare volte tradisce nell’Opera la verità.

Si tratta dunque in questo luogo di Canto, che assolutamente rende inverisimili i Drammi. I saggi Critici, dite voi, non pretendono questo. Ed io mel so, Sig. Lampillas; e però dissi, che sono Criticastri, Pedantini, o Pedantacci, compilatori di scritti periodici, saputelli, che leggono pettinandosi, quelli che riprovano ogni sorte di canto in teatro, e non già Critici Saggi. Perchè dunque non masticate le parole dell’avversario? forse perchè vi piace di cadere in ripetizioni nojose? o forse per avere un pretesto di moltiplicare i Volumetti del vostro fruttifero Saggio?

Dubitaste forse, che possa esservi uno Scrittore così strano, che censuri assolutamente il canto teatrale? Io posso disingannarvi. Ve ne ha, Signor Lampillas, ve ne ha, nè sono pochi, nè scioli da cassè questi, che io pur chiamo Criticastri; anzi sono tenuti in sommo pregio da voi appunto, che solete spedire patenti di eruditissimi a coloro, che dicono quel che voi volete. Accenniamone qualcheduno per isgannarvi. Venga prima di ogni altro alla rassegna l’incomparabile vostro M. de Marmontel. Egli dice1, che gl’Italiani all’austerità de’ soggetti storici hanno intrapreso “d’allier le Chant, le plus fabuleux de tous les langages. C’est là le vice de l’Opera, que les Italiens se sont fait”. Ecco dunque che l’insigne ammiratore di Lucano ammirato dal saggio Critico Lampillas, è il primo de’ Criticastri, che rifiutano il canto nell’Opera Italiana, e vogliono conservarlo nella Francese per ragioni, che si vedranno da me altrove combattute. Il secondo Scrittore, che censurò Metastasio per aver composte le bellissime sue Opere per esser cantate, fu l’erudito Sig. D. Giuseppe Clavijo Autore di un’ Opera Periodica intitolata El Pensador. Il terzo è un mio defunto amico D. Nicolàs de Moratin, il quale, quantunque non sia stato un Criticastro, ma un buon coltivatore delle amene Lettere, pure si accordò col prelodato Sig. Clavijo, e desiderava, che Metastasio correggesse quel da lui creduto difetto. Il quarto è l’Autore del Libro intitolato La Mimographe, seguito da una numerosa schiera di Gazzettieri, e di semidotti Scrittori, e non Scrittori, i quali ripetono lo stesso; ed appresso ve ne additerò un altro, che voi non credereste mai, il quale da se stesso si va a mettere tralla folla de’ Criticastri. Vi sono dunque oltramonti tali Criticastri, che riprendono assolutamente il canto dell’Opera Italiana. Perchè dunque l’Apologista si mette a negarlo prima d’istruirsi de’ fatti? per far poi la fantastica opposizione colla giunta della parola Moderno.

Ma già viene il Signor Lampillas colla mano armata di acute folgori, cioè de’ passi di alquanti eruditissimi Italiani, i quali, a suo credere, riprendono ancora il canto nell’Opera. Ho paura però ch’egli travedendo abbia presi per folgori tremende i razzi da feste, e che non abbia letti bene que’ passi che adduce; perchè que’ grand’uomini ch’egli cita, so che riprendono la qualità del canto, e non il canto scenico per se stesso. E come potevano un Muratori, un Maffei, un Crescimbeni, un Martelli, un Gravina, uomini forniti della più riposta erudizione antica, dichiararsi contro il canto teatrale, sapendo che Atene e Roma, le maestre dell’Universo colto, l’aveano usato costantemente, producendo con esso su’ cuori quegli effetti, che non ci fanno sperare i moderni? Non ignoravano questi valent’uomini, che sebbene non era il canto scenico Greco, e Latino simile a quello delle nostre Opere, era tuttavia un canto accompagnato dagli stromenti diverso ne’ Recitativi (diciamo così), e ne’ Cori, in quelli entrando il Diatonico, e in questi l’Enarmonico. Sapevano que’ dotti Italiani, che l’istesso parlar naturale, non che l’aringare, per essere un canto, un’ armonia oscura 1, fa uopo imitarsi in teatro secondo i caratteri delle passioni, e perchè queste col loro impeto sogliono trasportare sovente fuor di tono i Recitanti, gli Antichi assennatamente gli soccorsero cogli stromenti. Erano que’ nostri Eruditi, a differenza de’ Criticastri transalpini, informati, che non solo gli Attori Scenici, ma fin anco i celebri Oratori soleano valersi di tal mezzo per contenersi, o rimettersi ne’ tuoni moderati. Sì, eruditissimo Signor Abate, essi sapevano, che Plutarco nel Trattato Del frenar la collera mentova questa pratica tenuta da C. Gracco. Questo famoso Oratore in aringando avea presso di se uno Schiavo con un flauto chiamato Tonorion, per mezzo di cui si rimetteva nel giusto tono, se mai la veemenza del dire l’avesse fatto troppo alzare, o abbassare. Quo illum aut remissum excitaret, aut a contentione revocaret 1. E Quintiliano2 accenna lo stesso: Cui concionanti consistens post cum Musicis fistula, quam tonorion vocant, modos, quibus deberet intendi, ministrabat. E voi vorreste, che valent’uomini che dalla loro più fresca età doveano sapere siffatte cose, avessero ripreso il canto nell’Opera a guisa de’ meschini Criticastri? Essi rigettano l’eccesso, l’abuso, la qualità impropria del canto che oggi si è impossessato del teatro: canto per se stesso eccellente, artificioso, delicato, canto accademico, dotto, forse superiore ad ogni altro, ma che rare volte anima a tempo la passione nel Dramma; che è quello che potrebbe tener sospesi, e divertiti gli Spettatori, sì che assistessero svegli in platea, e senza giuocare ne’ palchetti.

Ed infatti che mai dice il Muratori da voi allegato in primo luogo? Che muove a riso il vedere, che gli Attori Musicali “prendono a contraffare gravi persone, le quali trattano materie di Stato, ordiscono tradimenti, assalti, guerre, vanno alla morte, o piangono qualche gran disavventura, e pure cantano dolcemente, gorgheggiano, e con somma pace sciolgono un lunghissimo e soave trillo”. Or dunque il Muratori riprende quì il Canto, o il tal Canto? La Musica espressiva nata per imitare il vero, o il cantar dolce in quelle perturbazioni, il gorgheggio, il soave lunghissimo trillo? E’ l’abuso, l’eccesso, l’improprietà del Canto, che riprova il Muratori, ed io con essolui.

In secondo luogo cavate fuori il Marchese Maffei. Egli mostrò in prima di temere, che nel Canto si smarriscano i costumi, i modi dell’età e delle passioni. Ma qual Canto ebbe egli in mira? quello che è, o quello che fu, e che può tornare ad essere? Egli il dichiara con iscagliarsi contra l’insoffribile prolissità delle Arie. E aggiugne nel passo da Voi citato “finchè questa maniera di Musica si riterrà, non sarà mai possibile far in modo, che non sia un’arte storpiata in grazia di un’ altra”. L’oggetto dunque delle querele del Maffei, e di ogni Saggio Critico è la insoffribile prolissità delle Arie, è questa maniera di Musica, e non già la Musica.

Ci presentate per terzo l’erudito Crescimbeni. E che dic’egli? Primieramente che l’Opera ha esterminata la buona Comica, e Tragica. Ma che male ciò sarebbe, sempreche l’Opera fosse buona in tutte le sue parti, ed equivalesse alla buona Commedia, e alla buona Tragedia? Questo vorrebbe significare, che alla buona Comica, e Tragica si sarebbe accoppiato il vantaggio della buona Musica onnipotente sulle passioni. Soggiugne quell’Erudito: “Il legame di que’ piccioli metri appellati volgarmente Ariette . . . . tolsero affatto a’ componimenti la forza degli affetti”. Egli vorrà dire che le Ariette improprie, riposate, inanimate, che portano in conseguenza il Cantabile degli Attori evirati, sono le cose, che gli fanno detestare la Musica teatrale; altrimenti egli adoprerebbe il linguaggio de’ Criticastri.

Siegue per quarto un passo del Martelli, anco pensando il Signor Abate, che egli riprenda il Canto come Canto, e non come canto malescelto. Ma che il Martelli non parlasse del Canto assoluto, è manifesto, oltre dall’essere a lui notissimo che i Greci l’adoperavano propriamente, dall’avere nello stesso Dialogo dall’Apologista citato commendate varie Opere musicali di buoni Ingegni, e alcune composizioni di Musica, come quella della Regina di Polonia sulla Poesia del Capece. Lasciamo però simili argomenti, e ripetiamo le parole del passo addotto nel Saggio. “Le cose più eccellenti (dice il Martelli) vengono storpiate dagli smaschiati Cantori, e dalle nostre che per vergogna del secolo osiam chiamare Virtuose”. Egli dunque parla di quella Musica, che serve e si soggetta alle chiamate Virtuose, e ai Cantori smaschiati. Ma nè gli uni, nè le altre entrarono nel Teatro Greco, o nell’Italiano moderno, quando incominciò l’Opera. Adunque il Martelli strepita contro gli eccessi moderni, che io mai non ho difesi, e non già contro il Canto. Il Signor Lampillas vorrebbe accontare il Martelli a i Criticastri; ma oh di quanto egli dista da loro, e da quei svaporati cervellini, che io diceva, i quali si fanno lecito inveire contro il Canto teatrale! Egli è uno de’ più saggi Critici, a’ quali increscono gli abusi del Canto.

Anche il Quadrio, il vostro baccalare, Signor Lampillas, adducete tra gl’Italiani che riprendono il Canto nell’Opera. E non per tanto quello che egli dice, non è quello che voi vorreste, che dicesse. “Il Dramma Musicale (asserisce) è un lavoro bizzarro di Poesia e di Musica, dove il Poeta e il Musico scambievolmente l’uno schiavo dell’altro si logorano il capo per fare una cattiva Opera”. Questo vuol dire, che riguarda agli abusi presenti, e non al Canto come Canto: perchè Musico e Poeta in Grecia componevano un solo individuo, e per conseguenza non poteva essere l’uno schiavo dell’altro (se pure qualche operazione di aritmetica apologetica non convertisse l’uno in Due), e solo ne’ Teatri moderni Musico e Poeta sono due persone distinte. Adunque nè anche dal Quadrio è biasimato il Canto teatrale, ma la servile moderna dipendenza del Musico e del Poeta, che inceppa ambi gli Artisti. Cita poi questo Scrittore e Dacier, e Sant Evremont; ma Voi, quando non altro, dalla Storia de’ Teatri avreste potuto osservare quelche di essi, e singolarmente del Dacier senza nominarli scrisse sensatamente il Filosofo M. Diderot. Il Quadrio cita ancora il Crescimbeni e il Maffei, le cui parole abbiamo già discusse. Cita egli in fine anche il Gravina. Ma questo nostro gran Critico che cosa riprova nell’Opera? I trilli i passaggi, o gorgheggi, co i quali la Musica “a’ dì nostri, in cambio di esprimere sentimenti e passioni umane, e imitar le nostre azioni e costumi, somiglia e imita. . . la lecora o il canario” 1. Adunque, o mio Signor Apologista, i nostri grand’uomini non si accomunano cogl’imperiti Criticastri Oltramontani in biasimare il Canto teatrale, quando disapprovano l’odierna mala scelta di esso Canto; ma per essere gravissimi Letterati e capaci di giudicar dritto in materia di Poesia e Teatro, quello biasimano nel Canto scenico, che ne biasima il Signorelli. Ma che bado io a dimostrare quello, che senza accorgersene stà confessando il medesimo Apologista? Non dice egli, che i Saggi Critici non pretendono riprendere il Canto scenico introdotto con senno e proprietà? E sono Saggi Critici i nomati valent’uomini? Se lo sono, certamente non pensano come i Criticastri, e se pensano come costoro, que’ gravissimi Letterati per magia apologetica si saranno trasformati in altrettanti Criticastri. Caro Signor D. Saverio, in tutta la vostra diceria contro l’Opera Italiana si vede che vacillate, ora appressandovi a chi vitupera assolutamente il Canto, ora a chi ne riprende l’abuso.

Da ciò potete inferire, come lo Spirito di Nazionalità vi ha offuscata la vista, per la qual cosa avete perduta la traccia del vero, e vi siete attaccato alle ombre. Quindi addiviene, che tutte le conseguenze fabbricate su’ fondamenti arenosi, barattando lo stato della quistione, come accade del pallino ne’ bussolotti, e interpretando male i nostri Scrittori, terminano nel precipizio ove sprofondò l’antiquato Blitri.

La Tragedia Greca si cantava, e non si cantava, dice il Martelli, cioè non era un Canto deciso, come il Moderno, nè un parlar naturale, ma una cosa che partecipava dell’uno e dell’altro. Fu questo ancora sentimento del prelodato Muratori. Molti secoli indietro l’avea pur detto Quintiliano parlando del decus Comicum da osservarsi da’ Comedi, i quali, tuttochè soggetti a i modi, a i toni delle Tibie di più specie giusta la natura della Favola, pure, com’egli si esprime, non procul a natura recedunt 1. L’ha pur detto più di un Francese, e specialmente l’erudito M. Duclos: “Io credo (egli dice2), che potrebbe prendersi un partito di mezzo tra coloro che riguardano la Declamazione degli Antichi come un Canto somigliante all’Opera Moderna, e coloro che stimano che fosse del medesimo genere di quella del nostro Teatro”. E il dissero altri moltissimi; e tutti quelli il diranno che intendono ragione. Ma che volete Voi, Signor D. Lampillas, da ciò dedurre? “Invano dunque pretende il Signorelli difendere i moderni Melodrammi coll’esempio dell’antica Tragedia” (p. 268.). E perchè invano? Perchè l’antico e il moderno Canto scenico non sono in ogni parte simili come due gocciole d’acqua? Ecco da ciò che voi presumete qual conseguenza ne scende: Che l’antico Canto degli Episodj, per essere meno figurato di quello de’ Cori, non era Canto. E quale Scrittore non si vergognerebbe di affermare cotal milensaggine? Osereste asserire, essere di natura differente un Uomo e un Fanciullino, perchè disuguali di statura? Sarà meno Voce umana il Tenore del Basso per la diversità delle chiavi? Non è ugualmente Canto quello de’ nostri Recitativi e quello delle Arie, quello di un’ Aria cantabile, e quella di un Minuetto? Due pesche disuguali di mole non appartengono alla medesima specie? due rette, due cerchi, due quadrati, due ellissi ineguali saranno di natura distinta? Perchè il diametro di Mercurio p. e. è 2460. miglie, e quello di Giove di 81155. sarà il primo meno dell’altro del genere de’ Pianeti, o corpi erranti? Vi pare, acuto Signor Apologista, illazione sobria dedurre dalla modificazione del Canto, la totale deficienza? Provando contro una parte si conchiude sensatamente contro del tutto? E che modo di ragionare è il vostro? Bisogna che abbiate molto bassa idea di coloro che vi hanno a leggere, o che amiate di perdere il tempo, e di farlo perdere: che è peggio.

Nò, Signor mio, non invano pretende il Signorelli valersi dell’esempio dell’antica Musica teatrale per mostrare, che il Canto non è inverisimile ne’ Drammi. Se io pretendessi difendere gli abusi del nostro Canto, non mi varrebbe l’antico esempio, e direste bene. Ma quell’esempio autorizza il Canto teatrale assoluto, qualunque si fosse il Greco, e voi per conseguenza ragionate assai male, ed io fondatamente con quell’esempio imporrò silenzio a’ dozzinali ragionatori, e a’ Criticastri Oltramontani.

Intanto benchè nol diciate nel Saggio, prevedo, che farete fra voi stesso alla Opera Italiana la seguente opposizione: = E bene, se la Musica moderna viene da tanti dottissimi Italiani, e dallo stesso Signorelli riprovata nella maniera, che oggi si trova introdotta, l’Opera dunque di oggidì è diffettosa al pari della Commedia Spagnuola =. Avvertite però, che anche quì conchiudereste male. I difetti della Musica, Signor mio, non si distendono sulla Poesia Melodrammatica. Nella fine del secolo XVI. allorchè nacque l’Opera in Musica, cercò di seguire le orme de’ Greci, esprimendo la verità ne’ Recitativi, e i tuoni naturali delle passioni, nè vi erano Ariette che le raffreddassero, e interrompessero la rapidità dell’azione. Così la maneggiò il giudizioso Jacopo Peri, e il Monteverde, e il Giovannelli, e altri Professori nel principio del secolo scorso. Così la introdusse in Francia il celebre Fiorentino Lulli, il quale facea declamare le scene alla Champmelè, ed afferrandone i tuoni espressivi componeva la sua Musica. Venne il Poeta Cicognini, e usò con frequenza le strofe di versi corti chiamate Ariette, delle quali accennai l’abuso nella mia Storia. Vi si accomodarono i Musici Cantori, e i Compositori: quelli potevano in esse sfoggiare coll’agilità della voce senza curarsi della verità richiesta dal Dramma; questi risparmiavano la maggior parte del travaglio, che loro costato avrebbe l’animare con giuste espressioni musicali i recitativi a seconda degli affetti, e di questi Recitativi disbrigandosi in una notte o due, e dando alle parti subalterne, per dir così, a cantare un minuetto, o una barcarola di poca fatica, riserbavano le delicatezze della loro arte per una mezza dozzina di Arie principali da fare spiccare il portamento della voce nel Cantabile del Tenore, del primo Soprano, e della prima Donna. Non era veramente allora la Poesia più saggia della Musica, e si accomodò a tal sistema. Venne indi il Moniglia, il Capece, il Lemene, il Manfredi, e la Poesia fe qualche passo verso il buon sentiero, e questi trassero l’Opera dal maraviglioso della Mitologia a’ fatti storici Eroici. Stampiglia, Salvi, e sopratutto il dottissimo Apostolo Zeno, oltre al recare anch’essi sul Teatro Musicale azioni di personaggi proprj della Tragedia, si studiarono di apportarvi decorazioni più naturali, e situazioni più tragichè. Compiè l’Opera il celebre Pietro Metastasio, riducendosi sempre più alla verità e maestà tragica, ed animando le situazioni patetiche colla magia dello stile, e colla dipintura al vivo delle passioni. Meritavano tali progressi più espressiva, più vera Musica. Ma fra’ compositori Musici suoi contemporanei era in voga un genere di Musica artificioso, delicato all’estremo, ma che non bene secondava il calore e le mire del gran Poeta. Essi credettero, che il comporre pel Teatro fosse lo stesso, che scrivere per le Chiese, per le Accademie, per le Camere private, e tutta la cura posero a soddisfare i più celebri Cantori, i Bernacchi, i Nicolini, i Farinelli, i Cafarelli, gli Egizielli, i Manzoli, i quali attendevano ad accreditarsi per Musici squisiti colle più fine difficoltose arditezze felicemente superate colla loro voce. Il gran nome, che questi famosi Cigni acquistarono per l’Europa, l’applauso generale che riscuotevano, arrestò verisimilmente il gran Poeta Cesareo dal tentare maggiori novità; e l’Opera non raccolse l’intero frutto di vedersi per la di lui mano condotta alla Greca verità. Non è già che non iscappassero fuori tratto tratto certi lampi di vera Musica teatrale in molti felici squarci di Recitativi obbligati di più di un Maestro, ma singolarmente del divino Jommelli, ed in certa difficilissima facilità del Vinci, dello Scarlati, del Leo, i quali con quattro note seppero spesso giugnere al cuore. Un’ Aria di passione, come quella dell’Olimpiade, Se cerca, se dice l’Amico dov’è, più di una fiata si espresse mirabilmente, è senza le solite inverisimili repliche delle stesse parole, le quali altro oggetto non hanno, che la chiamata da’ Maestri Musici Circolazione di tuoni del motivo eletto. Molti pezzi di Musica del famoso Gluck comprovano ancora, che havvi oggi più di un genio, che con poco saprebbe convertire l’Opera all’antica verità mista alla delicatezza moderna, serbando per i Cori una Musica più Lirica, figurata, Cromatica, e dando a’ Recitativi l’espressione opportuna in qualunque sito di essi si elevi la passione, e non aspettando il colpo dell’Aria che troppo tranquilla e parlante intepidisce l’azione, e fa trascurare i pezzi più appassionati de’ Recitativi. Ciò dimostra, che la Musica teatrale è incaminata alla perfezione, e potrebbe facilmente cangiar sistema; ma ci vorrebbe un altro Metastasio, il quale arditamente recidesse le radici a certi abusi, a cui il Poeta Cesareo, per le circostanze de’ tempi, non potè tutto in un colpo ovviare. Il Signor Lampillas non ignorerà, che prima che un nuovo genere abbia, come dice nella Poetica Aristotile, la sua natura, vi vogliono molte e molte osservazioni successive; e colui, cui tocca infine giugnere al punto fortunato, forma epoca in suo genere, e ne fissa il gusto.

Ma questa succinta storia musicale prova alcuna cosa a favore del Signor Lampillas? Prova, che la non curanza de’ Maestri, e de’ Cantori nel bene esprimere, e la loro soave dolcissima melodia, quando meno dovrebbe aver luogo nel Dramma, sieno difetti della Poesia1? Prova, che tali improprietà musiche, contro di cui si schiamazza, rassomiglino alle incoerenze, a’ delirj della maggior parte de’ Drammatici Spagnuoli de’ due trascorsi secoli? Distinguiamo, Sig. D. Saverio, la Musica dalla Poesia. Nulla ha di comune la Poesia Scenica Spagnuola colla Musica Drammatica Italiana. Poesia con Poesia, Amico, se volete comparar sanamente. Ora quando mettete la Poesia dell’Opera accanto alla Poesia della vostra Commedia, voi troverete, che niuno de’ difetti di questa trovisi in quella. Forse che l’Opera mostra i personaggi giovani, e vecchi in una medesima favola? gli mena da un Regno all’altro, anzi dal Vecchio al Nuovo Continente? usa forse di quei perenni rimedj de’ manti, de’ nascondigli, delle case che si compenetrano? introduce i Buffoni, come fanno gli Arlecchini Spagnuoli, a trattar famigliarmente con Principesse e Regine, a intervenire in qualità di servidori tra’ Grandi, Ambasciadori, e Principi, a ragionare, buffoneggiando coi Sovrani occupati in gravi affari? adopera quella locuzione ora bassa, ora gonfia, ora tragica, ora comica, e per lo più stravagante? Questi grossolani difetti punto non conosce la Poesia musicale, a cui voi gratuitamente tanti ne attribuite. Scorrete, non dico le ammirabili Opere del Zeno, e del Metastasio, non quelle del Manfredi, e dello Stampiglia, ma quelle imperfette del secolo passato, e Voi in queste troverete, sì, certa languidezza lirica, certi amori nojosi, uno stile lezioso, snervato, Damerini galanti invece di Eroi, ma non mai quegli spropositi grossolani di luogo, di tempo, di azione &c. (se pure il Quadrio non vi somministrasse qualche scenica zacchera vecchia dimenticata MS. nello scrittojo di qualche novizio). L’Opera adunque rinuncia alla maggior parte de’ suoi privilegj per non infrangere le regole, non gia del Maestro Aristotele, che pure le attinse nella pratica de’ buoni Poeti antichi, ma della eterna Ragion Poetica, che risulta dal verosimile ben inteso. In fatti niuno de’ Francesi ha mai sognato attribuire alla Opera Italiana le mostruosità, che voi fantasticate, nè quelle riconosciute da’ più dotti Critici Spagnuoli nel loro Teatro. Anzi i più chiari ragionatori della Senna confessano, che “le Tragedie-Opere Italiane vagliono più delle Francesi: che Metastasio è sicuramente un Poeta superiore a’ loro Poeti Lirici (cioè Musicali) senza eccettuarne Quinault: che gl’Italiani danno alle loro Opere più unità de’ Francesi: che le parole sono più proprie per la Musica, e la Musica per le parole” &c.1.

E già siamo pervenuti a tiro della più terribile batterìa Lampigliana contro la Opera, e la Storia de’ Teatri. Voglio dire a quella parte, dove l’Apologista spiega la forza della sua Filosofia, e vuol mostrare poco soda la ragione da me addotta delle supposizioni ammesse in Teatro, come verisimili per una tacita convenzione tra’ rappresentatori, e l’Uditorio.

Per mostrarsi non forestiere ne’ giusti principj di ragionare, così discorre l’Apologista (p. 269.): “Nelle rappresentazioni teatrali non si pretende di presentare i veri oggetti, ma di rappresentarli; nè si vuole che tutti gli oggetti rappresentati siano veri, vuolsi bensì però che siano verisimili . . . . . Non possiamo avanti per ora.” Il Signorelli ha forse nel suo Libro contraddetto a tal dottrina? ha detto, che debbansi presentare sulla Scena oggetti veri? Tutto all’opposto: Egli nella stessa nota impugnata dal Signor Lampillas si scaglia con vigore contro certi Filosofi alla moda, che cercano il solo Vero nella Poesia. Egli sostiene in tutte le sue Scritture l’opinione del Poeta Filosofo Orazio, cioè che

Ficta voluptatis causa sint proxima veris,

Sentimento espresso con altri termini da un giudizioso Inglese, cioè che il Vero Poetico sia il Verisimile. Ed Aristotele parlando del Credibile e del verisimile della Favola, dice che vi ha un Vero che in Poesia è inverisimile e incredibile; e il Castelvetro, e tutti gli altri spositori convengono a dir lo stesso; e l’ha ripetuto nell’Arte Poetica M. Despréaux,

“Le Vrai peut quelque fois n’être pas vrai semblable.”

E il Signorelli appunto nel luogo combattuto nelle prime parole affermò contro i ragionatori d’oltramonti, che “il diletto che partoriscono le faccende poetiche, proviene dalla dolce alleanza del Vero colla Finzione”, allegando l’eruditissimo Calabrese Gravina, che avea detto, che ogni imitazione poetica consiste nel trasporto della verità nella finzione. Ora quell’Oltramontano, che non si stima forestiere ne’ giusti principj di ragionare, potea risparmiarsi una ripetizione infruttuosa e intempestiva. Seguitiamo adesso ad imperlare il nostro scritto col resto delle parole dell’Apologista. “Ora niuna tacita convenzione fra’ rappresentatori e l’Uditorio può fare, che sia perfetta rappresentazione del vero oggetto quella, che ci dà una idea Disconforme dal vero; nè che sia verisimile ciò, che al vero non rassomiglia”. E qual è, Signor Lampillas, questa idea, che voi chiamate Disconforme dal vero? Il Canto scenico forse ve la risveglia? Dunque voi (sia ciò detto di passaggio) quì vi conformate co’ Criticastri, che escludono dalla Opera il Canto? Siete adunque ancor voi

“Uno di quei, che la gran Torre accese;”

e quell’aggiunto Moderno, che vi apponeste, fu un pretesto per valervi de’ passi degli Eruditi Italiani senza molta sconcezza, benchè internamente eravate persuaso dell’opinione degl’imperiti Criticastri. Non vi prevenni, che altri ancora, oltre i da me nominati, erano di quel bel sentimento? Rispondiamo ora alla vostra osservazione filosofica con una asserzione comprovata dalla storia delle nazioni, che però per voi sarà un paradosso. Sappiate, che di tutte le accennate Supposizioni il Canto è il meno inverisimile, il meno ripugnante alla umana natura. Sovvenitevi, che il parlar naturale stesso è un Canto oscuro; che recitando versi, e aringando ancora, secondo Cicerone, si sente una specie di canto. La Poesia nacque gemella colla Musica. Con un canto cominciarono i versi a uscire dalle umane bocche. Gli stessi Selvaggi verseggiarono cantando. Non parve il canto nè anche a’ Riti Religiosi una inverisimilitudine. La Legislazione stessa se ne prevalse, per meglio imprimere i suoi dettati negli animi, e nella memoria de’ popoli; e in un affare di tanta serietà non si reputò il Canto Disconforme dal vero. Versi non vi furono fra’ Greci ne’ più felici tempi, che ricusassero l’accompagnamento del Canto. Allora il Poeta non era, come al presente, un semplice verseggiatore. Egli univa in se le qualità di Filosofo, di Poeta, e di Musico; e la separazione di tali ufficj ha cagionata la debolezza di ciascuno. “Conoscendo” (dice il Gravina1) “i primi autori della Vita Civile, che la soavità del Canto rapiva dolcemente i cuori umani . . . . racchiusero gl’insegnamenti in verso, cioè in discorso armonioso, e l’armonia del verso accoppiarono con l’armonia ed ordinazione della voce, che Musica appellarono”. E perchè l’avrebbero allontanata dal Teatro, dove principalmente doveano eccitarsi le passioni per insinuare al Popolo i precetti salutari della Morale? Forse che le inflessioni della voce non nascono dalle commozioni degli affetti? E la Musica che sappia ben copiarle, sarà perciò Disconforme dal vero? Essa non sarà l’istesso vero (il che nè anche voi vorreste, e volendolo cadereste in una manifesta antinomia), ma sarà benissimo al vero somigliante e conforme. Se voi dunque vorrete mostrarvi un poco più Filosofo, vedrete, che il Canto regolato a norma della verità sarà una pretta imitazione del natural parlare accresciuta dall’Ottica teatrale di qualche tuono più vivace. E quale delle supposizioni necessarie nella Scenica si può meglio del Canto in certo modo occultare all’Uditorio, quando fosse usato con savia moderazione, e portato a quel punto di verità, che i Saggi richiedono? Fede ne facciano non pochi Recitativi cogli stromenti obbligati, ne’ quali si ammira un bellissimo canto senza esser manifesto, assai più naturale della declamazione Francese, non che della Spagnuola. In essi recitativi l’Attore o l’Attrice interrompe le parole come sospesa dalla novità de’ pensieri che le sopravvengono, o dalla varietà delle passioni, o dall’orrore del proprio stato, o dalla confusione, e intanto la Musica secondandola ricerca le vie del cuore dello Spettatore. Simile a questi recitativi fu il Pigmalione del Filosofo, Poeta, e Musico Ginevrino Rousseau, in cui con esito felicissimo adoperò una Musica tutta espressiva senza il moderno canto figurato. Se dunque il Canto entrerà nell’Opera con simile artificio, rapirà certamente soprammodo i cuori, e non parrà a chi ben ragiona alieno, o, secondo il termine apologetico, Disconforme dal vero.

E ditemi un poco, Signor D. Saverio, rassomiglia forse al vero più quel parlare in versi, specialmente nelle Commedie? Voi intanto trionfate per essere tutte le vostre favole scritte in versi, e con più manifesta inverisimilitudine, con una mescolanza di Ottave, Sonetti, Terzine, Decime, Quintiglie, Glosse, e di qualunque altra specie di metri. E’ più conforme al vero il Secreto a voces di Calderón, in cui il Galán e la Dama mostrano sapere, che essi parlano in versi? E più verisimile del Canto la declamazione Spagnuola ripresa da varj eruditi nazionali, e particolarmente dal Montiano, in cui i Commedianti urlano, si scompongono, gesticolano, e amoreggiano talvolta come i gatti miagolando, o parlano a’ Re come pedagoghi? E’ più del Canto verisimile lo studio, che pongono questi Attori in sentar bien el verso, vale a dire in troncare il concetto in grazia della versificazione, e in cantar male senza Musica, di che non v’è cosa più nojosa? Erano più del Canto verisimili las Cortinas, che circa dodici anni fa componevano tutto l’apparato Scenico Spagnuolo, dalle quali entravano ed uscivano sovente personaggi, che l’azione richiedeva, che non si vedessero? E’ più del Canto verisimile, che gli Attori rappresentando caratteri di Africani o Americani, od Europei parlino un linguaggio comune?

Ora di tutte queste cose, a lui ben chiare, perchè lo spettatore benignamente perdona a’ rappresentatori? Vi può essere altra ragione di quella specie di tacita convenzione contrastata, per la quale passa per verisimile la falsità ch’egli vi ravvisa, in grazia del diletto, che attende dal rimanente? Se queste osservazioni, o mio Signor D. Saverio, non fecero in voi impressione nel 1777. quando s’impresse la Storia de’ Teatri, come non vi scossero nel 1779. quando uscì il bellissimo Poema didascalico della Musica del Signor D. Tommaso Iriarte? Egli in buoni versi Castigliani seppe metterle in vago aspetto; e voi le dissimulate, e di sì leggiadro Poema non citate se non un solo verso?

Ripetete poi (p. 269.) che non sarebbe illusione, se si presentassero i veri oggetti: al che si è di sopra replicato, che il Signorelli non mai ha ciò sognato di pretendere, o asserire. Ma prima affermate con franchezza, che “la Drammatica non ha bisogno dell’indulgenza dell’Uditorio per partorire l’illusione desiderata”. Veramente la Drammatica cerca per tutte le vie quel verisimile che tira l’attenzione, sì, che poco rimanga da supplire all’Uditorio. La Poesia lo prende per norma. L’Apparato Scenico viene prescritto da Aristotele nella Poetica, affinchè concorra allo stesso fine colla possibile proprietà. Eschilo l’ebbe sommamente a cuore, e cangiò gli alberi e l’ombre de’ Carri Tespiani, e il tavolato di Platina, in un teatro decente, e in una scena opportuna all’ azione. L’imitazione de’ personaggi storici, o favolosi fu un altro pensiero di Eschilo. Le Maschere furono di tal modo al di fuori configurate, che potessero con la maggior proprietà e decenza rappresentare, non che la vecchiaja e la gioventù ed il sesso, fin anco i costumi delle persone. Aristofane proverbiava que’ Tragici, che con poca proprietà vestivano i personaggi. Sofocle aggiunse sempre nuova proprietà alla rappresentazione. E tante pene perchè? per non tradire l’oggetto della Drammatica d’insinuar col finto bene imitato le verità morali nel Popolo. A questo scopo contribuirono i nostri celebri Pittori di quadratura i Bibbiena, i Natali, i Joli, i Baldi, che colla Prospettiva s’industriarono di dare alla superficie una profondità apparente. A ciò il più volte lodato Conte di Aranda, attuale Ambasciadore del Cattolico Monarca presso il Cristianissimo, tolse al Teatro Spagnuolo le bandine proprie de’ Pupi, e vi sostituì diverse Mutazioni di Scene, pregevoli lavori di abili Pittori Spagnuoli di Prospettiva. Se la Drammatica non ha bisogno, che di se stessa per partorire l’illusione, a che tante cure e tante spese? Poi perchè mai spogliata di queste apparenze col recitar sedendo i nudi versi, non produce quel felice inganno? Dovea venire l’Apologista per fare di sì nuove invidiabili scoperte. Egli schiverà l’assalto con dire: = Io non asserisco, che di tali cose non abbia bisogno, ma bensì dell’indulgenza dello spettatore =. E ditemi dunque un poco, caro Signore: Tali cose sono, o non sono necessarie? Se dite, che non sono necessarie, siete smentito da’ fatti antichi e moderni, dalle cure di Eschilo, e dalle insinuazioni di Aristotele, e poi dalle disposizioni del Conte di Aranda. Se confesserete, che sono necessarie, prima dunque che esse si ritrovassero, e s’introducessero sulla Scena, la Drammatica avea bisogno dell’altrui indulgenza per fare effetto. Dunque la proposizione del Signor Lampillas è fantastica, è falsa. = Ma io non dico (non è improbabile, che egli tenti lo scampo per quest’altra viottola) che essa Drammatica non avea bisogno dell’indulgenza prima di trovarsi tal proprietà dell’Apparato, ma che al presente non ne abbisogni =. Ditemi, Signor Apologista, potete essere sicuro, che oggi tutta la proprietà necessaria alla Drammatica sia ridotta al punto di perfezione richiesto? Avete bene studiati que’ due Libri del Goldoni, Mondo e Teatro? Avete su tali cose sì profondamente meditato, che già vedete chiaro, che essa ha quanto le occorre, e che per tutti i secoli d’altro non abbisognerà? Io ho paura che nè in Italia, nè in Ispagna sareste creduto, ancorchè il pretendeste. Io vi vorrei un poco allato di alcuno, che abbia tali materie bene esaminate, quando si rappresentasse il migliore Dramma colla maggiore proprietà. Egli vi anderebbe dicendo quanto altro manchi a quella rappresentazione per produrre una illusione compiuta. Oh Signor Lampillas! Troppo rimane ancora da lavorare per fornir la Drammatica di tutto l’opportuno soccorso, che l’è necessario! E quando pure i moderni Roscj e Neottolemi in compagnia de’ migliori Critici di buon gusto vi avranno ben riflettuto, non perverranno a conseguirlo per le difficoltà sopraccennate del verso, dell’Attore, del linguaggio, e di cento altre minuzie, che smentiscono la rappresentazione. A questo non si riparerà mai, nè anche coll’acuta vostra pensata Apologetica del vero fisico, delle vere ricchezze di Cleopatra, della vera Regia di Cartago, ed altre cose, che con tanta grazia affastellate; anzi vi dico, che con questa verità distruggereste dell’intutto la stessa Poesia, non che l’illusione. Meditate, pensatevi su un poco meglio, e troverete, che l’ultimo punto della scenica verità è desiderabile, ma non isperabile. Altro rimedio non vi è fuori della indulgenza dello spettatore, il quale col fatto convenga in non cercare un impossibile, cioè una cosa, che non può andare altramente di quello, che và. E che diverrebbe del Teatro Spagnuolo al mancare questa indulgenza, o tacita convenzione? Come avrebbe pazienza l’Uditorio a una rappresentazione per tante ragioni inverisimile? Esiste dunque per necessità nel Teatro questa tacita convenzione male impugnata; e la Drammatica ancora ne abbisogna, ad onta di quanto sinora si è travagliato per conferire all’illusione; e ridotta, se possibile fosse, a più manifesta imitazione del vero, e ad una approssimazione ad esso più immediata, vieppiù la produrrebbe.

Quegli effetti, che voi con bella rettorica enumerazione di parti inserite nelle p. 270. e 271. Voi non gli attribuite alla tacita convenzione, di cui tutti portiamo ne’ Teatri una dose proporzionata a’ Paesi; ma gli attribuite alla viva naturale rappresentazione. Ma come non vi accorgete, che portate in prova quello, che si controverte? che questa viva naturale rappresentazione è appunto in questione? che è contraddetta dal parlare in versi, dal linguaggio comune a tutti, dalla conoscenza degli attori; e che per conseguenza lo spettatore non la troverebbe sì viva e naturale, se non considerasse, che a quella cosa non dee badare? Se non m’inganno, io ve ’l farò toccar colle vostre mani. Andate a un Teatro, domandate al più abjetto del volgo, dove vada? Vado, risponderà ridendo, alla Commedia (cioè ad una cosa che sa di esser finta): vado a vedere Los Aspides de Cleopatra, quegli aspidi di cartone fatti da un mio compagno, i quali uccideranno la bella Egiziana; e seguiterà a ridere. Va egli dunque prevenuto del falso. Con tutto ciò siegue la rappresentazione, ed egli s’interessa alla di lei morte, e ne sospira. Egli ha forse cangiato sentimento? Ha creduto da poi a quegli aspidi fatti dal suo compagno? a quella finta morte, a quella Regina, che morta ancora, nell’esser condotta dentro da’ servi, si ajuta co’ proprj piedi? Nò, egli sa tutto, tutto egli intende, ma vi conviene, e così prevenuto più non pensa alle falsità, ma al fatto e all’espressioni, come se le udisse uscire dalla bocca moribonda di quella infelice bellezza. Or vi pare questa sì viva, sì naturale rappresentazione da partorire da se la illusione? Piano (dirà l’Apologista), che se l’Attrice sarà abile, non si ajuterà co’ suoi piedi. Benissimo, ma come rimediate agli aspidi di Cartone del suo compagno? come alla sicurezza che egli ha, che colei non muore, e che non è Cleopatra, ma La Huertas, o Mariguita del Rosario, o la Carreras, che la rappresenta? Signor Lampillas mio, all’evidenza mal si contrasta. E voi potete scorgere, che non avete alla coda cattivi bracchi.

Passa l’Apolostista a soccorrersi con un argomento tolto dal simile, di cui per altro non v’è il più malsicuro per le infinite circostanze, che diversificano gli oggetti. Egli dice: Chi pensarebbe alla conosciuta falsità della tela dipinta al vedere i quadri di Raffaello e di Tiziano, ed al provare gli effetti che fanno nell’animo suo quelle immagini? Io non dubito, Signor Abate, che a un bisogno voi parlereste sì bene di Pittura, come fate di Poesia Rappresentativa. Pure a me sembra, che in questo esempio state in termini troppo generali, ed armeggiate alla larga. Voi dovevate approssimar meglio la Drammatica e la Pittura per trarne alcun succo. E per conseguirlo non vi fermate alla sola tela dipinta, cercate se la Pittura sia soggetta a qualche inconveniente indispensabile. Voi troverete, quando meno il pensavate, la necessità della tacita convensione sin anco nella Pittura.

La vasta erudizione, di cui vi suppongo adornato, non vi farà ignorare, che nel XV. secolo la Pittura, tutto che nelle mani del Masolini, del Masacci, e del Ghirlandai, avesse fatti alquanti progressi e nelle fogge degli abbigliamenti, e nel disegno; tuttavolta deturpava le invenzioni, di tali Artisti una moda meschina d’introdurre nelle antiche Istorie personaggi moderni vestiti alla Fiorenna. Questo anacronismo pittorico manifesto all’osservatore a poco, a poco gli si rendè famigliare, sì che in mirando le Opere di quegli abili Artefici, tacitamente conveniva a non più censurare l’anacronismo per non resistere alla moda, e per non perdere il piacere di vagheggiarne le bellezze. Giva adunque a guardarla colla prevenzione di perdonare a que’ Professori l’abuso introdotto. Oh voi, Signor Napoli, la prendete ben da lontano. No, Signor Lampillas, calo di un salto quasi un secolo, e vengo all’esempio del divino Raffaello. Credete voi, che questo prodigio della moderna Pittura andasse libero da tali inconvenienti? I Pittori, Amico mio, lavorano per beni fisici e morali, per la gloria e per le ricchezze. Un Priore, un’ Abbadessa, un Negoziante, un Cavaliere dabbene, cerca un quadro, e destina le figure, che debbono entrarvi, ed allora voi vedrete San Francesco, San Domenico, Sant’Ignazio introdotto in una Storia del Testamento Vecchio. Qual Pittura più degna di quel Principe de’ Pittori della Trasfigurazione sul Taborre? Intanto non lungi dal Redentore vi si veggono due Diaconi S. Stefano, e S. Lorenzo, o due Francescani, come altri vuole, ivi collocati a richiesta di una Comunità di Francescani. Lo spettatore che intende, tacitamente assentisce a quell’anacronismo, discolpandolo alla meglio, per pascere l’avido sguardo di quel quadro incomparabile, senza idea alcuna, che disturbi il suo piacere. Lo stesso avviene nell’altra non meno preziosa Pittura del medesimo sommo Pittore, il quadro detto la Madonna del pesce fatto per i Domenicani di S. Tommaso di Aquino di Napoli, che ora trovasi nell’Escoriale. Non fu certamente pensiero dell’Apelle Italiano accoppiare con Tobia e l’Arcangelo Raffaele, e il Bambino Gesù, e la Vergine, un San Geronimo vestito da Cardinale. Quest’altro anacronismo venne fuor di dubbio da chi commise tal Pittura. E se lo spettatore vuol godere delle infinite perfezioni, che rendono questo gran quadro singolare1, fa uopo che in se stesso convenga in discolpare il Pittore di quell’accozzamento di persone non contemporanee di San Geronimo Cardinale, e di Tobia il giovane, e della Vergine. A queste opere inarrivabili del Pittore di Urbino ne aggiungo un’ altra di uno non meno divino Artefice, cioè del fonte della Grazia pittoresca, Antonio Allegri detto il Correggio. Il Quadro di cui intendo parlare forse il più bello di questo eccellente Autore, stava prima nella Chiesa di S. Antonio Abate, ed oggi, a perpetua maraviglia di chi l’osserva, l’ho veduto collocato nella famosa Accademia di Parma. Non v’è bellezza di chiaroscuro, di grazia, di colorito, e di composizione che non vi si ammiri. Intanto vi si veggono congiunti varj Santi fioriti in tempi diversi, la Vergine, il Bambino, un Angelo, San Geronimo, la Maddalena. Bisogna adunque che l’osservatore non fermi il pensiero su gli anacronismi manifesti, i quali tacitamente conviene di tollerare, e ritragga tutto il diletto da quel cumolo di pittoriche bellezze. E che dice ora il mio Signor D. Saverio? la tacita convenzione trallo spettatore, e l’Artefice non entra ancora nella Pittura? Se non la vedeste nell’esempio addotto alla vostra maniera, la vedete ora ne’ fatti da me esposti? O forse chiudete gli occhi per non vederla1?

Dopo tante belle ragioni passate finalmente a discorrere, e sentenziare in questa forma (p. 272.): “Ecco quanto addiviene nella rappresentazione teatrale; dove questa sia perfetta, produrrà il sospirato effetto dell’illusione senza veruna convenzione: dove sia un ammasso d’inverisimili, non vi sarà convenzione, che basti a produrla”.

Parmi, che da queste due parti della vostra proposizione potrebbe ricavarsi una coppia di argomenti. Sia questo il primo. Dove la rappresentazione è perfetta (dite voi), l’illusione si produce senza convenzioni. Ma la Commedia Spagnuola, per confenso de’ nazionali e stranieri, e vostro, è imperfetta e abbonda d’inverisimili, e pure si ascolta con interesse. Dunque anche una imperfetta rappresentazione produce la illusione. Ma per la condizione premessa la rappresentazione vuole esser perfetta per produrla. Dunque, posto che la Spagna ascolta con attenzione la sua Commedia sregolata, raffigurandola per tale, è segno evidente, che supplisce alla imperfezione della rappresentazione con una tacita indulgenza. Dunque fa mestieri in Teatro la convenzione che voi negate. All’altro. Dove (voi dite) la rappresentazione è un ammasso d’inverisimili, non vi sarà convenzione, che basti a produrre l’illusione. Ma in Ispagna la Commedia inverisimile si vede, che la produce. Dunque anche una rappresentazione inverisimile può produrla. Voi però affermate, che sendo tale non dee, nè può produrla. Dunque la partorisce un altro principio, che se non istà nello spettacolo, forza è che trovisi nello Spettatore, il quale voglia con benignità chiudere gli occhi per ricavarne il suo piacere.

Ma sentite ora un’ altra corda. = Dove la rappresentazione (parole vostre) sarà perfetta, produrrà l’illusione =. Ciò si nega, di ciò appunto si questiona: che se non mostrate il modo di superare gl’inconvenienti in parte dal Signor Iriarte, e da me sopraccennati, la rappresentazione dee sempre essere imperfetta, e rimarrà sempre all’Uditorio qualche cosa da supplire per passare il tempo senza noja. = Dove essa (vostre parole ancora) è un ammasso d’inverisimili, non sarà convenzione, che basti a produrla =. Ciò parimente è asserito con troppa fretta. Le rappresentazioni Cinesi sono un ammasso d’inverisimili; e pure in quel Popolo non selvaggio producono l’illusione necessaria per quell’Uditorio. I Drammi di Shakespear, e di Otwai nella filosofante colta Nazione Inglese, ad onta delle mostruosità, fanno le delizie del Popolo Britanno. Gl’inverisimili ammassati nelle Commedie Spagnuole da quasi tre secoli hanno prodotta tutta l’illusione sufficiente per chi le ascolta, ed oggi giorno la producono. Non è dunque la perfezione, che non può darsi in tutte le parti della rappresentazione: ma quella tacita Convenzione, la quale ne’ Cinesi e negli altri Popoli nominati si distende a moltissimi capi; laddove ne’ Greci, ne’ Francesi, e negl’Italiani è ristretta a un numero assai minore. L’Opera stessa Italiana, e Francese, benchè ammetta il Canto, sperando nella compiacenza dell’Uditorio, ha però rinunziato a quell’ammasso d’inverisimili, ravvisati ne’ Drammi Cinesi, e in quelli di Shakespear, e di Lope. E così abbigliato il nostro Melodramma, malgrado di un sistema, che può migliorarsi, ha fatto la delizia dell’Europa. Or che sarebbe, se i passi dati verso la perfezione dal Romano Cesareo Poeta s’innoltrassero un poco più, e la Musica gli seguisse sulle orme de’ Greci per la verità, e su quelle de’ Moderni per la delicatezza?