(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro I. — Capo VII. Teatro Latino. » pp. 109-171
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(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro I. — Capo VII. Teatro Latino. » pp. 109-171

Capo VII
Teatro Latino.

Colminsi pur senza risparmio de più sinceri encomj le immortali fatiche de’ Muratori, de’ Maffei, de’ Gori, de’ Guarnacci, e di altri nostri valent’uomini che hanno recentemente sparsa tanta e sì viva luce nelle tenebrosa antichità etrusche. Meritava le cure de’ nostri più dotti scrittori una nazione che tante ne ha precedute e dominate in Italia prima de’ romani e de’ galli; che sembra aver fiorito prima dell’istessa grecia; e che colla sua lingua, riti, arti, e costumi ha avuta tanta parte nell’origine e nella coltura dell’antica Roma. Per dominio l’Etruria si estendeva di molto oltre la Toscana presente; perocché i tirreni, secondo Polibio58, abitavano tutte le terre poste tra l’Appennino e ’l mare Adriatico, e possedevano i Campi Flegrei ch’erano tra Capua, e Nola, e l’istessa Capua, anticamente chiamata Volturno, fu città etrusca59. Per coltura inventò e fece fiorir negli estesi suoi domini tante arti di comodo e di lusso. Gl’inni sacri conservatici in varie tavole etrusche, i dialoghi satirici fescennini, i colori de’ vasi, gli anfiteatri, la statua di Giove Capitolino fatta in Roma sotto Tarquinio Prisco, il fanciullo di bronzo presentato da monsignor Carrara al pontefice Clemente XIV, e tanti altri monumenti di fresco dissotterrati, manifestano la perizia degli Etruschi nella poesia, pittura, architettura, e scultura. Quanto a fede e ricreazioni pubbliche, essi usarono le corse de’ cavalli, i giuochi gladiatori, e gli spettacoli teatrali. Gli antichi fanno menzione delle tragedie e della ludica degli etruschi, e ci dicono che le donne ancora rappresentavano ne’ loro teatri60. Etrusco é l’istesso vocabolo ister, da’ romani detto histrio, che disegnava l’attore scenico, e che si é perpetuato in Europa. Volunnio, secondo Varrone, scrisse alcune tragedie in lingua etrusca. Che poi sieno state composte avanti che l’Etruria fosse soggettata a’ romani, siccome pre pretenderebbe dare a credere il Dempstero nel libro III cap. 35 dell’Etruria Regale, é cosa incerta che non apparisce dal passo di Varrone; e l’avveduto e sagace abbate Tiraboschi oppone saviamente, che ancor sotto il dominio romano potevano gli Etruschi poetare nella loro lingua materna.

Roma in certo modo potrebbe chiamarsi una produzione etrusca. Il circuito delle sue mura, descritto all’usanza religiosa dell’Etruria da un solco fatto coll’aratro tirato da un toro e una vacca61; il pomerio a imitazione degli etruschi aggiunto da Romolo alla sua città62; tanti riti, divinità, regolamenti politici e spettacoli da essa adottati, dimostrano che fin dalla sua origine Roma presa l’Etruria per esemplare. Ma tutto ne imitò di mano in mano, a misura che andava prendendo forma; e gli spettacoli destinati al ristoro della società dopo la fatica, furono un bisogno conosciuto dalla nuova città più tardi di quello di assicurare la propria sussistenza contro gli attentati domestici e stranieri colla religione, colla polizia, e colle armi. Perciò quando l’Etruria sfoggiava con tante arti, e spettacoli voluttuosi, e quando la Grecia produceva in copia filosofi, poeti, e oratori egregii, e risplendeva pe’ suoi teatri, Roma innalzava il Campidoglio, edificava tempi, strade, acquidotti, prendeva dall’aratro i dittatori, agguerriva la gioventù, batteva i fidenati e i veii, scacciava i galli, trionfava de’ sanniti, preparava i materiali per fabbricar le catene all’Etruria, alla Grecia, e quasi alla metà del nostro emisfero63.

L’unico spettacolo circense frequentato per lungo tempo in Roma erano le feste consuali instituite da Romolo dopo il ratto delle Sabine. Ma nel consolato di C. Sulpizio Petico e C. Licinio Stolone Roma afflitta dalla peste, sospesa ogni bellica operazione, per liberarli da sì fiero nemico domestico, contra di cui ogni umano argomento riusciva inefficace, pretesa placar lo sdegno celeste con un nuovo culto religiosa, e compose alcuni inni. Questo sacro omaggio poetico passò appresso in costumanza, e la gioventù che lo cantava, incominciò a poco a poco ad animarlo scherzando con atteggiamenti molto rozzi e scomposti, e lo convertì in ricreazione. Ecco la materia informe che nasce in ogni terreno senza che si prenda da altri popoli, nella quale per lungo tempo rimangono le antiche vestigia ruris essa rassomiglia a i primi inni ditirambici e a’ cori rustici de’ greci, e ai diverbi fescennini de’ villani etruschi.

Ma i greci e gli etruschi seppero da essa senza soccorso straniero farli strada alla drammatica, e i romani per riuscirvi ebbero bisogno dell’Etruria, della Campania, e della Grecia.

Il rapporto manifesto della riferita poesia romana gesticolata coll’arte ludicra etrusca fece pensare d’invitar a Roma uno degli attori di quella nazione, il quale colla sua nuova, graziosa, e piacevole agilità riuscì molto grato a’ romani.

Ma la ludicra così introdotta in Roma insensibilmente si perdé e confusa nelle satire fescennine, le quali continuarono a coltivarsi dopo esser della loro troppa acrimonia e maldicenza personale corrette e menate dalla legge al solo oggetto d’instruire e dilettare.

Contava Roma circa cinquecento e tredici anni dalla sua fondazione, e presto a cento ventiquattro anni dalla venuta degl’istrioni etruschi, quando nel consolato di C. Claudio Centone, figliuol di Appio Cieco, e di M. Sempronio Tuditano (cinquantadue anni in circa dopo la morte di Menandro) cominciò a fiorire Livio Andronico, nativo della Magna Grecia. Fu egli il primo che osservando i greci, si avvisò di sostituire alla poesia satirica la rappresentativa, e, secondo Donato, compose tragedie, e commedie. La nobiltà dello spettacolo il rese accetto; e certo ei merita gran lode come inventore fra latini di quel genere di poesia; ma i pochi frammenti che di lui ci rimangono, giustificano il poco favorevole giudizio portatone da Cicerone, il quale attesta, che le favole liviane non meritavano di esser lette la seconda volta64. Egli medesimo n’era l’attore; e divenuto roco a forza di ripetere troppo spesso alcune cosa per compiacere al popolo, impetrò di rappresentar le sue favole tacitamente col gesto e atteggiamento, mentre che un servo al suon della tibia le cantava65. Visse almeno fino all’anno di Roma 546.

GneoNevio, poeta campano, o sia nativo della Campania, il quale militò nella prima guerra punica, e morì all’anno di Roma 549 nel consolato di P. Sempronio Tuditano e di M. Cornelio Cetego, e secondo Varrone, anche più tardi, montò sul teatro sei anni appresso di Livio Andronico, e a tal segno fiorì nella poesia comica, che gli antichi romani lo posponevano solo a Cecilio Stazio e ad Accio Plauto, e di molto lo preferivano a Terenzio. Compose eziandio alcune tragedie66. Cicerone esaltava la di lui eleganza; e Nevio stesso non ignorava il proprio merito per quel che apparisce dal nobile ed elegante, quanto vanaglorioso Epitasio composto da’ lui medesimo, che Aulo Gellio ci ha conservato. Questo poeta col tradurre e imitare i greci, ne trasse lo spirito satirico della commedia antica. Ma la costituzione della repubblica romana era diversa dalla democrazia ateniese. Quantunque per la legge del dittator Publilio Filone la repubblica fosse stata dichiarata libera popolare, il popolo romano esercitava la somma potestà legislatrice quando ne’ comizi tributi, quando ne’ centuriati, e quando per bocca dell’intero senato. Or in un governo di tal natura i capi della repubblica erano ognor potenti e degni di rispetto, e un privato censore non impunemente si sarebbe arrogato il diritto di riprenderli. Come dunque avrebbero osato i comici di oltraggiarli in teatro? E pure Nevio pieno della greca lettura adoperò con molta libertà e maldicenza l’armi della satira personale verso di essi, e fu perciò fatto incarcerare da triumviri, e solo per favore de’ tribuni della plebe a stento ricuperò la libertà, dopo di aver dato pruove di essersi corretto della mordacità intempestiva col comporre nella prigione in istile più sensato due commedie intitolare l’Ariolo e il Leonte, colle quali ritrattò le ingiurie e i motteggi da lui per l’addietro scoccati contra i principali della città67. Nevio non solo fu contemporaneo di Livio Andronico, ma di Q. Ennio, e per qualche anno ancora, di Accio Plauto.

Quinto Ennio, l’amico di Scipione Africano il maggiore, e di Scipione Nasica, e di altri ragguardevoli cavalieri romani, nacque l’anno di Roma 514. in Rudia nel Capo d’Otranto68e morì in età d’anni settanta, essendo consoli Cepione e Filippo. Fu, secondo Svetonio ed Eusebio, uno de’ primi poeti latini. Egli solea dire, che avea tre cuori, perché possedea perfettamente tre lingue, la greca, l’osca, e la latina. Poté dunque, come fece, arricchir quest’ultima col soccorso delle altre; e in fatti i latini ebbero in lui solo l’epico, il tragico, e ’l comico di que’ tempi. Si vuole ch’Ennio e Livio Andronico giovassero assai ad istruire i Romani negli ameni studj, leggendo loro e interpretando i migliori Autori greci69. Egli fu ancora il primo che nelle azioni teatrali osò di togliersi dagli argomenti greci, e di prender dalla storia romana soggetti tragici, come fece in una tragedia intitolata Scipione 70. Contemporaneo degli antinominati e di Plauto, sopravvisse a tutti, ed indi morto nell’anno di Roma 584, fu onorato con una statua di marmo posta nel sarcofago gentilizio degli scipioni.

M. Accio Plauto, nativo di Sarfina nell’Umbria, fu anteposto da romani che vissero prima dell’aureo secolo di Augusto, a tutti i comici latini, eccettuato Cecilio; e per quanto apparisce da vari squarci vigorosi delle sue commedie, egli era dotato di un ingegno molto simile a quello di Aristofane; ma avendo riguardo alla natura del governo, sotto di cui vivea, e sorse al castigo di Nevio, si contenne ne i limiti d’una prudente moderazione. Lasciata dunque da porte la satira personale, presa per modelli le piacevoli commedie del siciliano Epicanto, e ripieno del di lui fuoco e sale, atteso unicamente a far ridere con grazia, disegno che manifesto in vari luoghi, e specialmente nel prologo del Pseudolo:

Ubi lepos, joci, risus, vinum, ebrietas, decent
Gratia, decor, hilaritas, atque delectatio.
Qui quaerit alia his, malum videtur quaerere.

Talvolta Plauto, come Aristofane, indirizza la parola agli spettatori, e in qualche commedia non serba con esattezza l’unità; ma d’ordinario le sue favole son regolari, vagamente semplici, ingegnose, vivaci, e scritte interamente sul sistema della commedia nuova. Egli tradusse e imitò molte volte gli ultimi comici greci, e fece l’Asinaria dall’Onagro di Demofilo, la Casina dalla Clerumenoe di Difilo soprannominato κωμικωτατος, la Carola da un’altra del medesimo, il Mercante dall’Emporo di Filemone, il Trinummo dal Tesauro dell’istesso, il Penulo dal Carchedonio di un altro. Vivace, piacevole, faceto versa a piena mano ad ogni passo sali e lepidezze capaci di fecondar l’immaginazione di chi voglia coltivare un genere di commedia inferiore alla nobile. Si é detto però, né senza ragione, che molti de’ suoi scherzi, come troppo istrionici e qualche volta indecenti, benché piacessero assai ne’ tempi della repubblica, furono riprovati nell’età del buon gusto quando vivea Orazio e Mecenate. Contuttociò egli seppe, sempre che gli piacque, scherzare e dipinger con grazia senza cadere nelle troppo sceniche buffonerie. É vaga la dipintura de’ novellieri ridicoli, che trovasi nel Trinummo:

Nihil est profecto stultius…
Quam urbani assidui cives, quos scurras vocant
Qui omnia se simulant scire, nec quicquam sciunt.
Quod quisquam in animo habet, aut habiturus est, sciunt:
Quod in aurem rex regina dixit, id sciunt:
Quae neque futura, neque facta sunt, tamen ii sciunt.
Falson’, an vero laudent, culpent quem velint,
Non flocci faciunt, dum illud quod lubeat, sciant etc.

Si dimostra poetico ed elegante, senza uscir dal genere comico, quando de’ ricchi dice nel Penulo:

Verum ita sunt isti nostri divites:
Si quid benefacias, levior pluma est gratia:
Si quid peccatum ’st, plumbeas iras gerunt.

Sovente si dimostra filosofo senza la gonfiezza e l’affettazione a lui imputata da madama Dacier, come, p. e., nel prologo dell’Anfitrione:

… Injusta ab justis impetrare non decet;
Justa autem ab injustis petere, insipientia ‘st;
Quippe illi iniqui jus ignorant, neque tenent.

E poco dopo:

Virtute ambire oportet, non favitoribus,

E nell’atto II:

Ita Diis placitum, voluptati ut maeror comes consequatur.

E ne’ Cattivi:

Dii nos quasi pilas habent.

A’ tempi di Aulo Gellio correvano col nome di Flauto circa centotrenta commedie; ma egli stesso avverte71 che molte falsamente, gli venivano attribuite; e aggiugne che un certo Lelio, cui egli chiama eruditissimo uomo, diceva, venticinque sole esser di Plauto, le altre esser di altri antichi poeti, ma ritoccate e ripulite da Plauto, il quale perciò di esse ancora erasi creduto autore. Di tutte queste commedie venti sole ci sono rimaste. Il teatro latino perdé questo gran comico nel consolato di L. Porzio Licinio e di P. Claudio l’anno di Roma 569 e quindici anni prima della morte di Ennio, siccome pruova il dottissimo Tiraboschi72.

Né presti furono, né grandi i progressi del teatro latino. Roma guerriera, favoriva poco le arti che potevano ammollire il valore, e la drammatica fu negletta. Se essa ne tollerò lo spettacolo senza amarlo gran fatto, non permise che vi si mettessero sedili, affinché il popolo astretto a goderlo in piedi, anche nel divertimento mostrasse virilità e robustezza73. Cresciuta poi la sua potenza, le ricchezze apportatrici dell’ozio e del riposo rendevano più necessarie le arti di pace. Allora gli spettacoli scenici furono riguardati più favorevolmente, e si cercò l’agio degli spettatori difendendoli dal sole colle tende, si assegnò in teatro pel senato un luogo distinto dalla plebe, si rimunerarono e protessero i poeti.

Quando l’onor le alimenta, le arti prendono il volo e si elevano fino all’altezza che può comportare un Clima. Ciò avvenne al teatro latino circa la seconda guerra punica, allorché la lingua si trovava nel colmo dello splendore piena, come ella é, di gravità e maestà, servì felicemente que che impresero con coraggio a coltivar la poesia tragica. Fiorirono in essa spezialmente Marco Pacuvio, Lucio Accio, o sia Azzio, Caio Tizio, e secondo alcuni, ancora il Seffano Satirico Caio Lucilio, zio materno del gran Pompeo. Pacuvio, nato in Brindisi da una sorella di Quinto Ennio, e stitmato da’ contemporanei, conservò la riputazione di Dotto anche nel secolo d’Augusto; e Varrone lo preferì a tutti i drammatici per l’ubertà della lingua; Questo tragico, il quale fu ancor pittore, e una cui dipintura fu molto celebre nel tempio di Ercole nel foro Boario74, si fece parimente un epitasio che non cede a quel di Nevio in purezza ed eleganza, e lo supera in modestia75. Essendo già vecchio Pacuvio76 scrisse le varie tragedie Lucio Accio che passò per un tragico assai sublime77 Caio Tizio, secondo Cicerone, oratore arguto e pieno di sale attico senza saper il greco, riuscì nelle tragedie poco grave a cagione delle arguzie a lui famigliari, sconvenevoli al Coturno. Il famoso Caio Lucilio, che sotto Scipione Africano militò nella guerra Numantina, scrisse tragedie, secondo che asserisce a Francesco Patrizio nella sua Poetica; e si conserva ancora qualche frammento d’una di lui commedia intitolata Nummularia. Ma egli si rese soprattutto celebre per aver il primo tratta di scena, la satira greca, e recatala alla forma latina, in cui coraggiosamente, e senza riguardo alcuno, avventò sanguinose sferzate verso i romani, e fra gli altri motteggiò e punse i drammatici suoi contemporanei78.

Ebbero in tal tempo gran nome nella comica poesia Cecilio, Terenzio, Afranio, Turpilio, Attilio, Trabea, Luscio, Titino, Aquilio, Ostilio, Pomponio il Bolognese, Dorsenno, e molti altri, de’ quali, oltre le sei commedie di Terenzio, ci rimangono vari frammenti. Tutti, gli antichi convennero in celebrar Cecilio Stazio conte il primo e ’l più eccellente di tutti i comici latini per la felicità della scelta e per l’ottima disposizione degli argomenti; il che rende; sensibile la perdita della di lui favole. Cicerone fa menzione del Sinefebo, e Aulo Gellio del Plozio, commedie di Menandro imitate da Cecilio. Godette egli d’una riputazione sì grande e sì bene stabilita, che quando Terenzio presentò agli edili l’Andria, gli fu imposto di leggerla prima a Cecilio79. Si fa come il novello autore mal in arnese arrivò in tempo che Cecilio giaceva per cenare, e da principio fu fatto sedere in una panca presso al letto; ma dopo alquanti: versi Cecilio stupefatto e rapito dall’eleganza e proprietà dello stile, l’invitò a cenar con lui, e appresso si scorse tutta la Commedia con somma continuata ammirazione del vecchio poeta. Ma poteva mancar d’incantar un consumato e dotto conoscitore quella venustà di stile che di poi sorprese in teatro ogni più volgare spettatore? quell’eleganza che dopo tanti secoli conserva l’istessa forza imperiosa fu gli animi de’ posteri più lontani dalle latine contrade80? quella proprietà e purezza di locuzione, approvata e imitata, non che da altri, da un Tullio e da un Orazio? quel giudizio, quell’arte, quelle sentenze tratte dal seno della più profonda filosofìa e rendute proprie del teatro comico? quella stupenda maniera di farsi originale col tradurre e imitare? quella vezzosa urbanità nel motteggiare, quella delicatezza e matronal decenza che trionfa nelle dipinture ch’egli fa de’ costumi? Ammiri la gioventù fin dalla prima scena dell’Andria il modo di raccontar delicatamente con grazia, con eleganza, con passione e con immagini vivaci e pittoresche:

……………… Funus interim
Procedit: sequimur: ad sepulchrum venimus,
In ignem posita est. fletur. Interea haec soror,
Quam dixi, ad flammam accessit imprudentiùs
Satis cum periculo. Ibi tum exanimatus Pamphilus
Bene dissimulatum amorem et celatum indicat.
Accurrit: mediam mulierem complectitur;
Mea Glycerium, inquit, quid agis? cur te is perditum?
Tum illa, ut consuetum facile amorem cerneres,
Rejecit se in eum flens quam familiariter.

Si apprenda il vero linguaggio della passione dall’inimitabile principio dell’Eunuco:

Quid igitur faciam? nom eam? ne nunc quidem,
Cum arcessor ultro? an potius ita me comparem,
Non perpeti meretricum contumelias?
Exclusit, revocat; redeam? non, si me obsecret.

Perde l’orgoglio la pedanteria studiando nell’Heautontimorumenos, o sia nel Tormentator di se stesso, con quanto giudizio questo schiavo cartaginese inseguì l’arte di conoscere i caratteri, e con quanta vaghezza di colorito dipinga una giovanetta che d’altro non é sollecita che del suo lavoro:

Hic sciri potuit, aut nusquam alibi, Clinio,
Quo studio vitam suam, te absente, exegerit,
Ubi de improviso est interventum, mulieri.
Nam ea res dedit tum existimandi copiam,
Quotidianae vitae consuetudinem;
Quae cujusque ingenium ut fit, declarat maxumé.
Texentem telam studiosé ipsam offendimus,
Mediocriter vestitam veste lugubri,
Ejus anus causa, opinor, quae erat mortua,
Sine auro tum ornatam, ita uti quae ornantur sibi,
Nulla mala re esse expolitam muliebri:
Capillus passus, prolixus, circum caput
Rejectus negligenter. Pax!

Contemplisi nella suocera il bel ritratto della buona moglie che leggiadrissimamente trionfa d’una cortigiana:

…… Atque ea res multo maxume
Disjunxit illum ab illa, postquam et ipse se,
Et illam, et hanc, quae domi erat, cognovit satis,
Ad exemplum ambarum mores earum aestimans.
Haec, ita uti liberali esse ingenio decet,
Pudens, modesta, incommoda atque injurias
Viri omneis ferre, et tegere contumelias,
Hic animus partim uxoris misericordia
Devictus, partim victus huju’ injuriis,
Paulatim elapsu ’st Bacchidi, atque huic transtulit
Amorem, postquam par ingenium nactus est.

Ma recare di sì nobile scrittore alcune bellezze sembra un modo di offender tutto il rimanente, che non é men bello e dilicato.

Questo comico, nato in Cartagine circa l’anno di Roma 560, morì, o per meglio dire, sparve nel principio della terza guerra punica; perocché d’anni trentacinque s’imbarcò per la Grecia, o per l’Asia, né più si vide. Chi vuole ch’ei morisse povero in Stinfalo d’Arcadia; chi afferma ch’egli naufragò di ritorno dalla Grecia, e perirono con lui cento e otto commedie greche che avea tradotte. Ma coloro che leggeranno con riflessione quelle sei, ch’é compose in Roma sì delicatamente, stenteranno a credere che avesse potuto scrivere commedie a centinaia, senza supporre che fosse vissuto fino all’ultima vecchiaia in grecia, e che non si fosse curato di tornare in Roma, ove le sue fatiche erano sì ben premiate ed onorate. E a qual altro oggetto avrebbe egli recate in lingua latina tante ricchezze greche?

Afranio compose pel teatro comico dopo Terenzio, e l’imitò, e lo tenne per incomparabile, affermando senza ombra d’invidia, e con giusto elogio:

Terentio non similem dices quempiam.

Cicerone esalta l’ingegno e l’eloquenza di Afranio81 e Quintiliano ancora lo commenda assai82 benché a ragione il riprenda pe’ disonesti amori recati da lui sulla scena. Svetonio fa menzione d’una di lui Commedia Togata, intitolata l’Incendio. Orazio ne dice, che Afranio veniva considerato come il comico che più si avvicinava a Menandro:

Dicitur Afrani toga convenisse Menandro,

Senza dubbio lo studio, che posero tali scrittori in imitare i greci, portò in Roma l’arte drammatica a un lustro notabile. Pur sembra ch’essi ad altra gloria non aspirassero che a quella di traduttori ingegnosi; e nella commedia specialmente Quintiliano confessava lo svantaggio de’ latini a fronte de’ greci83. Nota é pur la censura di Giulio Cesare fatta al delicato Terenzio per la mancanza di quella forza e vivacità comica ch’egli trovava in Menandro. Aulo Gellio anche dimostra, che Cecilio avea deteriorati nelle sue favole molti pasti originali di Menandro.

Intanto la scena romana spiegava tutto il lusso, il fasto, e la magnificenza conveniente a un popolo arricchito delle spoglie di tanto mondo. C. Pulcro l’abbellì colla varietà de’ colori; C. Antonio la coprì tutta d’argento, Petreio d’oro, Q. Catulo d’avorio; i Luculli la resero versatile; Gn. Pompeo, cui si attribuisce il primo teatro fisso edificato in Roma, colla frescura delle acque che fecevi serpeggiare, vi attemperò gli ardori estivi; e M. Scauro v’introdusse una sontuosità straordinaria ne’ vestiti e nelle decorazioni, e fé costruire il suo magnifico teatro, ricco di marmi e cristalli, in cui si contavano trecentosessanta colonne, capace di più d’ottantamila spettatori84.

Oltre a’ soprannomati poeti, nel rimanente del tempo della repubblica e sotto, i primi imperadori molti uomini cospicui coltivarono la poesia rappresentativa. Lasciando la banda il romore che correva in Roma, che nelle commedie tereziane avessero avuto parte Lelio e Scipione, Plutarco ci fa sapere che il dittator Cornelio Silla compose varie commedie satiriche. Il fondatore dell’imperio romano Giulio Cesare scrisse una tragedia col titolo di Edipo, oltre ad alcune altre che furono chiamare Giulie, della quali il di lui successore proibì di poi la pubblicazione85. Sotto Augusto, il quale pur anche incominciò un Aiace, Ovidio fece una Medea, Quinto Varo, o Vario compose una eccellentissima tragedia intitolata il Tieste, che alcuni sospettarono, fosse veramente opera di Cassio Parmigiano86, e Aristio Fusco scrisse commedie togate. Fu notabile sotto il medesimo Augusto il chiaro Caio Asinio Pollione, pe’ talenti tragici e per altri meriti letterari, per la presa di Salona in Dalmazia, per lo trionfo, e pel consolato, celebrato dai due maggiori ingegni, di cui si vanti la poesia latina, Virgilio ed Orazio. Pollione non solo coltivò la tragedia con mirabil felicità; ma senza curarsi di prender da Omero o dalle favole gli argomenti, con nobile intrepidezza espose sul teatro di Roma la civile querela di Cesare e Pompeo, e ’l giogo imposto dal vincitore a tutta la terra, fuorché al gran cuore di Catone87. Appresso troviamo in Tacito fatta menzione della Medea, del Tieste, e del Catone di Curiazio Materno, celebre poeta e giureconsulto; in Plinio secondo, delle favole togate di Virgilio Romano, e delle tragedie di Pomponio secondo del quale favella ancora Quintiliano; e in Giovenale dell’Agave di Stazio.

Di tante produzioni drammatiche, scritte presso a poco sotto i primi imperadori, non sono passate a noi se non le dieci tragedie attribuite a Seneca, le quali fuor di dubbio appartengono almeno a quattro scrittori. Danno i critici88 a Lucio Anneo Seneca il filosofo la Medea, l’Ippolito, e la Troade; a Marco Anneo Seneca il tragico l’Edipo, l’Ercole Furioso, l’Agamennone, il Tieste, e vi é chi gli attribuisce ancora l’Ercole Oeteo; a qualche sofista imitatore di Marco la Tebaide, benché Lipsio la vorrebbe rapportare al felice secolo di Augusto; e ad alcun novizio declamatore l’Ottavia.

Il primo che facesse vedere in Roma una Medea, fu Quinto Ennio, il quale trasportò in latino quella d’Euripide, e se ne conservano alquanti frammenti. Una di poi, siccome accennammo, ne compose Ovidio, della quale ne resta in Quintiliano un piccolo frammento. Ma la Medea che noi leggiamo, può gareggiare con quella d’Euripide; e ’l carattere del di lei autore si dimostra veramente sublime, tragico, e sentenzioso. Il piano semplice é lavorato sulla greca, ma in alcune parti alterato con qualche miglioramento. Tutto va senza intoppi al suo scopo, tutto é animato dalla passione, e pochissimi sono i passi, ne’ quali ha parte la mente e non il cuore. Il soliloquio di Medea, che forma l’atto I e serve d’introduzione, é molto vivace e robusto. Invocati gli dei che presiedono alle nozze funeste, come furono le sue, il caos, e le furie vendicatrici si determina a una vendetta orrenda:

Quodcumque vidit Phasis aut Pontus nefas,
Videbit Isthmos. Effera, ignota, horrida,
Tremenda caelo pariter ac terris mala
Mens intus agitat, vulnera et caedem et vagum
Funus per artus. Levia memoravi nimis;
Haec virgo feci; gravior exsurgat dolor;
Majora jam me scelera post partus decent.

All’epitalamio cantato dal coro per le nozze di Creusa e Giasone si vede il progresso dell’azione, e Medea dice cominciando l’atto II:

Occidimus, aures pepulit Hymenaeus meas.
Hoc facere Jason potuit?

Cresce il suo furore, numera i delitti passati da lei fatti per amore, ma soggiugne:

…………………… nullum scelus
Irata feci.

E’ sublime la risposta che dà alla nutrice, la quale le rappresenta la propria debolezza:

Nut. Abiere Colchi, conjugis nulla est fides,
     Nihilque superest opibus tantis tibi,
Med. Medea superest.

ed é seguita da un dialogo rapido ed enfatico:

Nut. Rex est timendus. Med. Rex meus fuerat pater.
Nut. Non metuis arma? Med. Sint licet terra edita.
Nut. Moriere. Med. Cupio. Nut. Profuge.
Med. Poenituit fugae;
     Medea fugiam? Nut. Mater es. Med. Cui sim vides.

Nella scena di Medea e Creonte scorgesi il medesimo artificio della Medea greca; ma in quella latina ella guarda certo nobile contegno in mezzo alle preghiere che tira tutta l’attenzione. Di più l’interesse par maggiore in questa, perché Seneca ingegnosamente suppone che Giasone é costretto a sposar Creusa per evitar la morte; da che Acasto figliuolo di Pelia minaccia di saccheggiar Corinto, se Creonte non rende i colpevoli al gastigo ch’egli lor prepara. Or Giasone si salva promettendo di sposar la figlia di Creonte, e Medea resta sola la vittima dello Stato, e costretta ad abbandonar Corinto, ottiene appena la dilazione d’un giorno. Nell’atto III é rimarchevole l’incontro di Giasone e Medea, scena piena di grandi bellezze. Essa principia dal render meno odiosa l’infedeltà di Giasone e in certo modo scusabile per trovarsi nella dura necessità di morire, o di tradir Medea:

…………………………… Si vellem fidem
Praestare meritis conjugis, letho fuit
Caput offerendum: si mori nolimus, fide
Misero carendum est. Non timor vincit virum,
Sed trepida pietas……
Nati patrem vicere……

L’indignazione, l’impeto, l’orgoglio, tutta in fine Medea si manifesta ad ogni tratto. Ella avvedendosi di Giasone, gli va incontro con amara ironia:

Fugimus, Jason, fugimus: hoc non est novum,
Mutare sedes.

ma dove andrà?

……… Phasim et Colchos petam,
Patriumque regnum?

e ciò é imitato da Euripide, allorché non senza robustezza e nobiltà, Giasone per ribattere i di lei riprmoveri, le domanda,

Jas. Objicere crimen quod potes tandem mihi?
Med. Quodcumque feci,

ella risponde con disdegno, enfasi, e calore; L’istesso sublime spicca nella risposta data all’altra domanda di Giasone,

Jas. Quid facere possim, eloquere. Med. Pro me vel scelus.

Si scusa l’infedele col timore de’ due Re, Hinc «Rex et illinc»; e Medea minaccevole lo rassicura,

…………………… Est et his major metus
Medea.

Giasone soggiugne,«Alta extimesco sceptra»; e Medea gli rinfaccia l’ambizione, «Ne cupias vide». Giasone vuol rompere il discorso ed ella freme, invoca Giove, implora i suoi fulmini sopra qualunque di loro due. Giasone tenta di moderarne le furie ad ogni costo, «Solamen pete»; ed ella chiede di poter seco condurre i figliuoli. Or qui il padre risolutamente si oppone, manifestando la somma tenerezza che ha per loro,

…………………… Spiritu citius queam
Carere, membris, luce.

Maravigliasi Medea del di lui trasporto amoroso, per li figli,

………… Sic gnatos amat!
Bene est; tenetur; vulneri patuit locus.

Questa bellezza, questa savia catena di pensieri, quest’origine dell’ultimo gran delitto di Medea, é pur fuggita ad Euripide. Le bellezze poetiche profuse nell’atto IV quando la nutrice numera i veleni raccolti, e gl’incantesimi soverchiamente particolareggiati con descrizioni mitologiche e geografiche, sembrano appartener poco al genere drammatico; ma per l’azione, onde venivano accompagnati, doveano esser molto popolari, e produrre allora sulla scena un vago effetto. Bella in Euripide é la narrazione dell’incendio e della morte del re e della figliuola, e serve a fare trionfar Medea per la ben riuscita vendetta; ma forse non men bellamente Seneca se ne’ disbriga in quattro o sei versi, scorrendo più rapidamente alla gran vendetta su i figliuoli per trafiggere il cuor del padre nella parte più delicata. La nutrice atterrita esorta Medea a fuggirsi:

Med. Egon’ ut recedam? Si profugissem prius,
      Ad hoc redirem,

risponde colla solita energia e ferocia, e si accende, si sforza per eseguir ciò che le resta: «Fas omne cedat… Incumbe in iras… Quidquid admissum est adhuc pietas vocetur… Prolusit dolor per ista noster… Nescio quid ferox decrevit animus intus… Ex pellice utinam liberos bostis meus aliquot haberet! Quidquid ex illotuum est, creusa peperit.» Tratti grandi gravemente espressi.

é pur maneggiata con vigore l’esitazione e ’l contrasto di Medea madre con Medea consorte oltraggiata:

…………… Liberi quondam mei,
Vos pro paternis sceleribus poenas date.
Cor pepulit horror, membra torpescunt gelu,
Pectusque tremuit; ira discessit loco,
Materque tota, conjuge expulsa, redit.
Egon’, ut meorum liberum ac prolis meae
Fundam cruorem?…
…………………… quod scelus miseri luent?
Scelus est Jason genitor, et majus scelus
Medea mater. Occidant: non sunt mei.
Pereant: mei sunt etc.

Ucciso un figlio, sopravviene Giasone, ed offre a Medea l’occasione di trucidar l’altro sotto gli occhi del padre,

………………… Deerat hoc unum mihi,
Specator ipse: nihil adhuc factum reor,
Quidquid sine isto fecimus sceleris, periit.

Nuovo interesse, situazione sommamente tragica, quadro orribile: Un figlio svenato, una madre in atto di trapassare il cuore all’altro, un padre trafitto alla vista del primo, e sbigottito dall’irreparabil morte imminente dell’altro. Egli prega, piange, smania, vuol morir per lo figlio e Medea disumanata risponde:

Hac quà recusas, quà doles, ferrum exigam.
In matre si quod pignus etiamnum latet,
Scrutabor ense viscera, et ferro extrabam.

Che idee! che tratti terribili! Risvegliano il fremito dell’umanità e giustificano il gusto di chi ne ammira la dipintura, detestando la realità. Pur troppo con ragion diceva Orazio del linguaggio Latino:

… Spirat tragicum satis, et feliciter audet.

Da alcuni questa Medea é anteposta alla Greca. Noi non osiamo giudicar sul patetico che in entrambe é sì vero che giugne al cuore: ma la condotta della Latina sembra più rapida e più regolare, e vi si eccita il terrore con pennellate si forti e vivaci, che farebbero nobile comparsa in qualunque tragedia di Eschilo e d’Euripide.

L’istessa mano della Medea senza dubbio colorì l’Ippolito, benché lo stile ne sia più ornato, e talvolta più del bisogno verboso, specialmente nell’atto I. Molte ciarle in assai bei versi contiene la scena d’Ippolito e della Nutrice dell’atto II., dove poeticamente espongonsi le lodi della vita semplice rusticale, e vi si ammiran varie belle imitazioni di Esiodo e di Ovidio. Il solo squarcio che convenga direttamente all’argomento, si chiude negli ultimi sei versi del ragionamento d’Ippolito, «sed dux malorum foemina etc.», e quel che veramente caratterizza l’Ippolito, é la risposta data con trasporto alla domanda della Nutrice:

Nut. Cur omnium fit culpa paucorum scelus?
Ip. Detestor omnes, horreo, fugio, execror:
     Sit ratio, sit natura, sit dirus furor
     Odisse placuit.

Eccellente é la scena della dichiarazione d’amore fatta da Fedra ad Ippolito; e Racine che l’ha presso che interamente copiata nella sua Fedra, ne ha resa meno vivace l’introduzione. L’Autor Latino inoltra lo stato compassionevole della Regina, e la fa cader tramortita nelle braccia d’Ippolito. Rinvenuta esita ancora, non sa risolversi a parlare, alfine s’incoraggia alle, parole d’Ippolito,

Committe curas auribus, Mater, meis;

e questo nome di Madre che pur la molesta, le somministra l’introduzione:

Matris superbum est nomen, et nimium potens;
Nostros humilius nom affectus decet,
Me vel sororem, Hyppolite, vel famulam voca,
Famulamque potius.
Mandata recipe sceptra; me famulam accipe,
Te imperia regere, me decet jussa exequi,
Muliebre non est regna tutari Patris.
Tu qui juventae flore primaevo viges,
Cives paterno fortis imperio rege,
Sinu receptam, supplicem, ac servam tege.
Miserere viduae.

quest’offerta dello Scettro, fatta da Fedra con tanto garbo, ha servito a M. Racine per formarne una scena intera. Ippolito promettendo semplicemente di proteggerla

Et te tuebor, esse ne viduam putes
Ac tibi parentis ipse supplebo locum,

avviva le speranze di Fedra che ne gongola, e si dichiara amante; ma egli o ripigliandola, o parlando ancora candidamente, le dice

Amore nempe Thesei casto furis.

Sì, risponde, di Teseo, ma giovanetto,

…… Thesei vultus amo
Illos priores, quos tulit quondam puer;
… genitor in te totus…
Tibi mutor uni…
Miserere amantis.

Bellissima é l’indignazione d’Ippolito: «Magne, Regnator Deum, Tam lentus audis scelera?… In me tona, me fige… Sum nocens, merui mori. Placui Novercae.» Commosse a questo segno le passioni, la scena marcia piena di moto, e vigore. E non men vivace é l’atto III, in cui Fedra accusa l’innocente Ippolito, e Teseo in di lui danno invoca il soccorso di Nettuno obbligato a compiere il di lui terzo desiderio. L’atto IV cavato interamente da Euripide contiene il magnifico elegante racconto del mostro marino e della disgraziata morte d’Ippolito. Vaga é la dipintura de’ cavalli inalberati:

Tum verò pavidia sonipedes mente exciti,
Imperia solvunt, seque luctantur jugo
Eripere, rectique in pedes jactant onus.

Teseo piange all’evento funesto:

Occidere volui noxium, amissum fleo.
… Malorum maximum hunc cumulum reor,
Si abominanda casus optata efficit.
Nun. Et si odia servas, cur madent fletu genae?
Th. Quod interemi, non quod amisi, fleo.

versi eccellenti, pensieri grandi, tragici, e sviluppati leggiadramente, a tempo, e con passione. Il dolore, i rimorsi, le furie della matrigna, la sua funesta risoluzione di seguire Ippolito, tutto é con vigore espresso. Contuttociò le bellezze della greca tragedia sorpassano di molto quelle dell’Ippolito latino, il quale non pertanto per varie pennellate maestre che vi si ammirano, ha contribuito non poco ad arricchire la Fedra del gran tragico francese.

Accompagna degnamente le precedenti la Troade che abbraccia parte dell’Ecuba, e parte delle Troiane d’Euripide, aggirandosi sulla divisione delle schiave Troiane tra’ vincitori, sul sacrificio di Polissena all’ombra di Achille, e sulla morte di Astianatte. I versi son molto vaghi, sublime la locuzione, e ben poche le antitesi, e le sentenze assettate che sogliono riprendersi in Seneca. Nobilmente si querela Ecuba de’ mali di Troia e della sua famiglia nell’atto I, mal grado di quel falso pensiero, «Priamus flamma indiget, ardente Troia». Tutti i cori delle tragedie latine, ancorché ben verseggiati, cedono di gran lunga a i greci per artificio, interesse, e passione ma questo primo della Troade, accoppiato ai lamenti di Ecuba, rassomiglia ad alcuni delle greche tragedie, e dovette riuscir molto comodo alla musica per gli diversi oggetti che le appresta. Nell’atto II la vivace contesa di Pirro e Agamennone presenta i caratteri del vecchio re e del giovane eroe coloriti con brio e verità; e spezialmente il discorso di Agamennone, «Juvenile vitium est regere non posse impetum», é mirabilmente grave, nobile, e sobrio, e ripieno di rare bellezze.

……………………… Magna momento obrui
Vincendo didici.
Tu me superbum, Priame, tu timidum facis.
……………………… Exactum satis
Poenarum et ultra est. Regia ut Virgo occidat,
Non patiar. In me culpa cunctorum redit.
…………………………………………………………………………
Qui non vetat peccare cum possit, jubet.

Il lettore giudizioso ammirerà tali bellezze senza fermarsi molto nel bisticcio,

O tumide, rerum dum secundarum status
Extollit animos, timide, cum increpuit metus.

Sul gusto greco, benché in aria romana, sono l’ingiurie dei due che altercano:

Ag. Hos Scyros animos? Pyr. Scelere quae fratrum caret etc.

Ma la bellezza originale dell’eccellente atto III gareggia colle più teatrali patetiche situazioni del teatro greco. Astianatte rinserrato nella tomba di Ettore, e scoperto dall’astuto Ulisse, le materne agitazioni e preghiere, l’inflessibilità del greco, tutto in somma produce un movimento che tira tutta l’attenzione, e lacera i cuori sensibili. Il sogno di Andromaca é descritto con immagini patetiche, e senza superfluità:

……………… Subito nostros Hector ante oculos stetit,
Non qualis ultro bella in Argivos ferens,
Sed fessus ac dejectus, et fletu gravis.
Depelle somnos, inquit, et natum eripe,
O fida Conjux. Lateat: haec una est salus,
Omitte fletus. Troia quod cecidit, gemis?
Utinam iaceret tota!

La visione del consorte apporta con molta naturalezza la comparazione del padre col figlio somministrata da Virgilio, «Sic oculos, sic ille manus etc.»

……………… Hos vultus meus
Habebat Hector; talis incessu fuit,
Habituque talis: sic tulit fortes manus etc.

Cerca poi un luogo per involarlo alle richieste, e si determina al sepolcro del padre,

…………… Optime credam patri.
Sudor per artus frigidus totos cadit.
Omen tremisco misera feralis loci.
………………………………………………………………
Succede tumulo, Nate; Quid retro fugis?
…………… Agnosco indolem,
Pudet timere. Spiritus magnos fuge,
Animosque veteres: sume quos casus dedit;
En intuere turba quae simus super,
Tumulus, puer, captiva.

Chiuso il fanciullo, sopravviene Ulisse a chiederlo «Ubi natus est?» Andromeca risponde,

………… Ubi Hector? ubi cuncti Phryges?
Ubi Priamus? Unum quaeris, ego quaero omnia.

Finge poi di cedere forzata a confessare che Astianatte é morto, e conferma con giuramento equivoco, che luce caret, inter extinctos jacet . Crede per un istante Ulisse, indi dubita, e richiama (dice a se stesso) le proprie frodi, et totum Ulyssem:

Scrutare matrem. Moeret, illacrymat, gemit:
Et huc et illuc anxios gressus refert,
Missasque voces aure sollicita excipit.

(gran verità, gran naturalezza, e scena sommamente teatrale!) indi con molto conoscimento de’ caratteri delle passioni conchiude:

Magis haec timet, quam moeret;

e perché si manifesti affatto la madre, cerca d’atterrirla.

Tibi gratulandum est, misera, quod nato cares
Quem mors manebat saeva, praecipitem datum
E Turre, lapsis sola quae muris manet;

alla qual cosa Andromaca sbigottisce:

Reliquit animus, membra quatiuntur, labant,
Torpetque vinctus frigido sanguis gelu;

e Ulisse, che l’osserva attentamante, dice:

En tremuit. Hac hac parte quaerenda est mihi.
Matrem timor detexit. Iterabo metum;

e comanda a i suoi seguaci, che si cerchi Astianatte per tutto indi lo finge già trovato e preso alle spalle d’Andromaca:

Bene est, tenetur: perge, festina, attrache.
Quid respicis, trepidasque?

Dice appresso, che in cambio del di lei figlio morto, bisognerà spargere al mare le ceneri di Ettore, abbattendo la di lui tomba; nuovo terrore per l’infelice, mentre parlando palesa il figlio, e tacendo noi salva dalla morte, e soffre che si profanino, e dispergano l’amate reliquie del consorte. Vinta dunque si rivolge alle preghiere, confessando d’esser vivo Astianatte, «Miserere matris»; e Ulisse vincitore: «Exhibe gnatum, et roga». Ogni passo di questa scena mirabile é un quadro prezioso della natura ritratta maestrevolmente. Il fanciullo tratto dalla tomba, e consegnato a’ greci, grida «Miserere, mater»; e l’infelice Andromaca,

Quid meos retines sinus,
Manusque matris? cassa praesidia occupas,

ch’é cavato da Euripide. Ma la comparazione del greco di un augellino che si ricovera sotto l’ali della madre, chiusa in un verso, é assai più delicata e vaga di quella qui usata da Seneca, distesa in quattro versi e mezzo, d’un giovenco che si appressa alla madre, impaurito dal ruggito d’un lione. Cresce l’interesse e ’l lutto nell’atto IV, vedendosi condotta con inganno Polissena al sacrifizio e annunziandosi alle prigioniere i padroni che sono loro caduti in forte. Si narra nell’atto V l’intrepida morte di Polissena, e ’l precipizio d’Astianatte, al qual racconto Andromaca si ricorda delle crudeltà esercitate in Colco, degli sciti erranti, degl’Ircani, degli altari di Busiride, de’ cavalli di Diomede. Ma senza far torto a questa bellissima tragedia, diremo liberamente, che in ciò si vede il poeta che parla, mentre ogni uomo di gusto avrebbe voluto vedere anche qui quella medesima madre trafitta dipinta al vivo nell’atto III. Vari tratti di questa tragedia si veggono bellamente imitati dal Metastasio, come, per esempio, Seneca dice nell’atto II,

………………………… Si manes habent
Curas priores, nec perit flammis amor.

Metastasio nel Catone atto I, sc. VIII,

S’é vero, ch’oltre la tomba amin gli estinti

Seneca nell’atto III,

………… Levia perpessae sumus,
Si flenda patimur.

Metastasio nell’Artaserse atto II, sc. V,

Piccolo é il duol, quando permette il pianto.

Seneca nell’atto IV,

…………………… Perge, thalamos appara,
Quid taedis opus est? quidve solemni face?
Quid igne? thalamis Troia praelucet novis.

e Metastafio nella Didone att. III, sc. XIX,

Va pure, affretta il piede,
Che al talamo reale ardon le tede.

L’Autor dell’Edipo latino, sia per istile, sia per condotta d’azione dimostra esser diverso da quello delle tragedie precedenti. Sofocle ha sumministrata la materia di questa; ma la traccia dell’azione va peggiorando a misura, che si scosta dall’originale. L’apertura dello spettacolo, invece di essere una decorazione teatrale, e un quadro compassionevole, come in Sofocle, quivi é una cicalata, una declamazione di Edipo sui mali della peste ripetuti dal coro dell’atto I Sofocle con economia mirabile sviluppa per gradi i fatti passati per apportar acconciamente quel sì felice scioglimento, della sua favola; e Seneca accenna varie circostanze senza che l’azione avanzi, o se ne accresca l’interesse. Quel trivio con tanto senno riserbato da Sofocle per la bellissima scena di Giocasta con Edipo, viene, da Seneca, per così dire, fatto gettare in mare da Creonte nella I scena dell’atto II, senza mostrar Edipo di ricordarsi, che ancor egli avea ammazzato un uomo in simil luogo. Tiresia, che nella favola greca viene alla presenza del re chiamato ben due volte per ricordo, di Creonte, nella latina, si presenta, nonostante che la di lui venuta non sia stata preparata o attesa; sebbene al volgo romano superstizioso sarà riuscito grato e popolare lo spettacolo dell’auspicio. Ma ciò neppur ballando all’augure «alia , dice, tentanda est via. Ipse evocandus noctis aeternae plagis emissus Erebo, ut caedis auctorem indicet». E così si prepara per l’atto III un lunghissimo racconto dell’evocazione dell’ombre, e di Laio. La scena di Edipo e Giocasta in Sofocle tira l’attenzione del leggitore, mentre tutto ciò che Giocasta adduce per dileguare i timori del re, sventuratamente serve per aumentarli, e accender sempre più la di lui curiosità di abboccarsi col pallore; e all’opposito in Seneca nell’atto IV é magrissima e pressoché senza passione. Lo scioglimento poi con tanta arte maneggiato nella tragedia greca, qui si precipita senza giovarsi delle situazioni patetiche che apporta naturalmente di mano in mano collo svilupparsi. Le disperate riflessioni, i tratti terribili e compassionevoli, somministrati a Sofocle dalla deplorabile situazione e dall’acciecamento di Edipo, si trovano presso Seneca sommersi in una piena di espressioni studiate e stravaganti. Secondo il messo che lo riferisce, mai Edipo non fu più sofistico ragionatore che sul punto di volerli ammazzare:

………… Moreris? Hoc. Patri fat est.
Quid deinde matri? quid male in lucem editis
Gnatis? quid……
……………………… flebili patriae dabis?
Solvenda non est illa quae leges ratas
Natura in uno vertit Oedipode, novos
Commenta partus.

É quello forse il linguaggio de’ rimorsi e di un dolor disperato? Egli vuol morire, e vivere di bel nuovo, e tornare a morire, e rinascer sempre,

………………… Iterum vivere, atque iterum mori
Liceat renasci semper.

Non vuol esser tra’ morti, né star tra’ vivi,

………………… Quaeratur via
Qua nec sepultis mixtus, et vivis tamen.
Exemptus erres…
Fodiantur oculi.

e infatti gli occhi condannati a seguir le lagrime, impazienti appena si contengono nelle occhiaie, e finalmente

………………… Suam intenti manum
Ultro insequuntur; vulneri occurrunt suo.

se gli svelle dalle radici, e la mano non si sazia di lacerar fin anco le loro fedi, e temendo che vi abbia a restar qualche luce,

……………… Attolit caput,
Cavisque lustrans orbi bus caeli plagas,
Noctem experitur.

Ecco in quali vaneggiamenti conduce nel genere drammatico la frenesia di dir cose non volgari. Egli é però da confessarsi, che trovansi in tal tragedia sparsi qua e là vari bei versi e magnifici, e molte imitazioni di Sofocle, e tra’ passi degni di molta lode si é quello dell’atto IV, quando l’orrore s’impossessa di Edipo già noto a se stesso, «Dehisce tellus etc.»

Non molto riprensibile, declamatorio e ampolloso é lo stile dell’Agamennone, come quello dell’Edipo, e dell’Ercole Oeteo ch’é peggiore. E’ bene scolpita nell’atto II la situazione di Clitennestra presso a veder il marito,

Quocumque me ira, quò dolor, quò spes feret,
Huc ire pergam. Fluctibus dedam ratem.
Ubi animus errat, optimum est casum sequi;

il che leggiadramente fa dire a Massimo nell’Ezio il nostro Metastasio:

Il commettersi al caso
Nell’estremo periglio
E’ il consiglio miglior d’ogni consiglio.

L’istesso poeta Italiano ne ha tratta ed espressa facilmente un’altra sentenza detta pure da Clitennestra,

Remeemus illuc, unde non decuit prius
Abire: sic nunc casta repetatur fides.
Nam sera nunquam est ad bonos mores via
Quem poenitet peccasse, pene est innocens.

E Fulvia dice pur nell’Ezio,

Non é mai troppo tardi onde si rieda
Per le vie di virtù. Torna innocente
Chi detesta l’error.

Magnifica nell’atto II é la dipintura della tempesta che scompiglia e dissipa l’armata greca; e ciò ch’é più lodevole, si é ch’essa cade in un luogo, dove, senza nuocere all’azione, prepara la venuta di Agamennone. Son nobili e tragiche l’espressioni di Cassandra,

Vicere nostra iam metus omnes mala etc.

La prima scena dell’atto IV, benché breve, presenta un rapido vivace dialogo di Agamennone allegro per vedersi nella patria, e di Cassandra che predice la prossima di lui morte senza esser creduta:

………………… Suscita sensus tuos;
Optatus ille portus aerumnis ad est.
Festus dies est. Cas. festus et Trojae fuit.
Ag. Veneremur Aras. Cas. Cecidit ante Aras Pater.
Ag. Jovem precemur pariter. Cas. Herceum Jovem?
Ag. Heic Troia non est. Cas. Ubi Helena est, Troiam puto.
Ag. Ne metue dominam famula. Cas. Libertas adest.
Ag. Secura vive. Cas. Mors mihi est securitas.
Ag. Nullum est periculum tibimet. Cas. At magnum tibi est.
Ag. Victor timere quid potest? Cas. Quod non timet.

I caratteri sono quali esser debbono, e le passioni non son tradite, benché non mostrino di esser animate con que’ colori della natura, che nella Troade e nella Medea annunziano l’uomo d’ingegno e di buon sanno. Il piano però non é disposto con tutto il giudizio necessario per tener sospeso ed attento lo Spettatore, e le Scene son poco artificiosamente concatenate. Soprattutto l’atto V manifesta la poca destrezza e pratica di teatro che avea l’autor latino; e fa sempre più desiderabile il bellissimo e sommamente tragico atto V del coronato Agamennone di Eschilo.

Il Tieste (titolo che trovasi pur anco ne’ frammenti d’Euripide) é una delle più terribili tragedie per l’atrocità dell’azione. L’autor latino che d’altro non va in traccia che di declamare prende a tale oggetto un dopo l’altro i punti principali dell’argomento senza tesserne un viluppo verisimile, ma artificioso a somiglianza di Sofocle, il quale con sì fatta industria fin dalle prime scene si concilia l’altrui attenzione, e senza imitar la delicatezza di Euripide, che nulla trascura per ben dipignere il cuore umano e riuscire a commuovere, perturbare, e disporre agli eventi orribili. Uno studio continuato di mostrar ingegno ad ogni parola, fa che l’autore si affanni per fuggir l’espressioni vere e naturali e per correr dietro a un sublime talvolta falso, spesso assettato, e sempre noioso per chi si avvede della fatica durata dall’autore a portar la testa alta e sostenersi sulle punte de’ piedi. Gli squarci più tragici vengono bruttati dal furore di presentar sempre pensieri maravigliosi. La strage de’ nipoti atrocemente eseguita da Atreo, é ben narrata in quelli versi,

…………… O nullo scelus
Credibile aevo, quodque posteritas neget!
Erepta vivis exta pectoribus tremunt,
Spirantque venae, corque ad huc pavidum salit.
At ille fibras tractact, ac fata inspicit,
Et ad huc calentes viscerum venas notat.
Postquam hostiae placuere, securus vacat
Iam fratris epulis etc.

Ma subito torna a comparire il vero carattere dello scrittore nelle seguenti false espressioni dal verso 768 al 775, il fuoco arde di mala voglia, le fiamme piangono, il fumo stesso esce malinconico e si piega in vece di ascender direttamente. Avvegnaché alcune sentenze sieno ottime, e non paiano affettate, pure la maggior parte di esse ha un’aria di aforismi, o di responsi d’oracolo. Poetiche sono molte comparazioni, ma sembrano assai improprie nel genere drammatico quando son lunghe e soverchio circonstanziate89. Tale é quella d’Atreo nell’atto III:

Sic cum feras vestigat, et longo sagax
Loro tenetur Umber etc.

allungata per ben sette versi; e l’altra dell’atto IV contenuta in cinque:

Jejuna sylvis qualis in Gangeticis
Inter juvencos tigris etc.

e ancor un’altra del medesimo atto, né molto lontana da questa, spiegata in altrettanti:

Sylva jubatus qualis Armenia leo etc.

Non mancavi però molti squarci di locuzione sobria, come questo dell’atto II:

Per regna trepiditi exul erravit mea:
Pars nulla nostri tuta ab insidiis vacat.
Corrupta conjux, Imperii quassa est fides,
Domus aegra, dubius sanguis: est certi nihil
Nisi frater hostis etc.

e la sentenza dell’atto III,

Habere regna casus est, virtus dare,

da Metastasio così imitata nell’Ezio atto I, scena IX,

……………… Se non possiedi,
Tu doni i regni, e ’l possederli é caso,
Il donarli é virtù.

e nella scena di Plistene e Tieste suo padre all’atto IV:

Occurret argos, populus occurret frequens,
Sed nempe et Atreus.
……………………………………………………………………
Nihil timendum video; fed timeo tamen.
Placet ire; pigris membra sub genibus labant,
Alioque, quam quo nitor, abductus feror.
……………………………………………………………………
Pater, potes regnare. Th. Cum possim mori.
Pl. Summa est potestas. Th. Nulla, si cupias nihil.
Pl. Gnatis relinques. Th. Non capit regnum duos

col rimanente aggiunto da Tieste un tempo scellerato, che nella tragedia comparisce pentito, e corretto dalle sventure, e bramoso della vita privata, riflessioni filosofiche tratte con molta cura da varie epistole di Seneca. L’elegante descrizione del bosco sacro, e del larario d’Atreo spira magnificenza, e dispone all’orrendo sacrificio de’ figliuoli di Tieste. A taluno parrà soverchio lunga; ma se in qualche parte é permesso al poeta drammatico di adornare ed esser pomposo, egli é in simil congiuntura, in cui l’orror del luogo ben dipinto contribuisce a preparare all’orror del fatto. Sublime é pure la risposta di Tieste nell’atto V, allorché Atreo insulta al di lui dolore:

………………… Gnatos ecquid agnoscis tuos?
Th. Agnosco fratrem.

L’argomento dell’Ercole Furioso é l’istesso di quello a Euripide, ma la condotta dell’azione é cangiata. Nel greco é più manifesta la duplicità della favola, e nel latino i due oggetti, cioé l’ammazzamento di Lico e ’l delirio di Ercole colle conseguenze, sembrano più uniti per lo prologo di Giunone che forma l’atto I. In ricompensa trionfa la tragedia Greca per la vivacità dell’azione, e per lo vero colorito delle passioni, dove che la favola latina sembra al paragone dilombata e senz’anima, e gli affetti sembrano maneggiati più per far pompa d’erudizione in una scuola di declamazione, che per ritrarre al vivo il cuore dell’uomo, e mostrarlo agli uomini da un teatro. La declamazione generale di Megara nell’atto II fa desiderar il patetico che si ammira in Euripide, quando tutta la famiglia di Ercole spogliata del regno rifugge all’ara di Giove per evitar la morte. Il carattere di Megara si allontana dal gusto greco, e prende l’aspetto di certo eroismo più propio de’ costumi romani, il quale a poco a poco si é stabilito ne’ teatri moderni, e ne forma il sublime:

Patrem abstulisti, regna, germanos, larem
Patrium. Quid ultra est? una res superest mihi,
Odium tui,

emulato dal Metastasio,

……………… Sola m’avanza,
(E ’l miglior mi restò) la mia costanza.

Cogere, dice il tiranno; ed Ella:

………………… Cogi qui potest nescit mori.
Ly. Effare, thalamis quod novis potius parem
Regale munus? Me. Aut tuam mortem, aut meam.

Venuto Ercole, il poeta fa ch’egli intenda lo stato del regno, e voli a trucidar il tiranno; ma mentre la sua famiglia dovrebbe mostrarsi sollecita dell’esito dell’impresa, Anfitrione si diverte ad ascoltar da Teseo l’avvenimento di Cerbero tratto fuori dell’Inferno, e a domandar, se in quelle regioni «si trovino terre feraci in vino e in frumento». Per altro tal racconto contiene varie bellezze, che a miglior tempo si farebbero ammirare. Tale é la nobile descrizione del Giove infernale:

……………… Dira maiestas Deo,
Frons torva, fratrumquae tamen speciem gerat,
Sed fulminantis. Magna pars regni trucis
Est ipse dominus, cuius aspectum timet
Quidquid timetur.

Tale é pure la vaga immagine di Cerbero smarrito nel vedersi alla luce:

……………… Vidit ut clarum aethera,
Et pura nitidi spatia conspexit poli,
Oborta nox est, lumina in terram dedit,
Compressit oculos, et diem invisum expulit,
Aciemque retro flexit, atque omni petiit
Cervice terram, tum sub Herculea caput
Abscondit umbra.

Meritevoli di lode sono ancora le preghiere di Ercole nell’atto IV. Anfitrione infirma al figlio d’implorar da Giove il termine delle sue fatiche, ed egli risponde:

……………… Ipse concipiam preces
Jove, meque dignas. Stet suo caelum loco,
Tellusque et Ӕther. Astra inoffensos agant
Ӕterna cursus. Alta pax gentes alat.
Ferrum omne teneat ruris innocui labor,
Ensesque lateant etc.

Voti nobili, degni d’un cuor magnanimo, d’un cuor che cercava la gloria nel procurar la pace alla terra, non già nel desolarla. Non é da tralasciarsi la bella espressione di Giunone nell’atto I.

……………… Monstra iam desunt mihi;
Minorque labor est Herculi iussa exequi,
Quam mihi iubere,

ch’é una vaga imitazione di ciò che Ovidio con eleganza avea fatto dire ad Ercole nel IX. delle Metamorfosi,

…… Defessa iubendo.
Saeva Jovis conjux, ego sum indefessus agendo.

Trovansi pure in tal tragedia alcune altre sentenze non riprensibili:

Ars prima regni est posse te invidiam pati,

che in italiano fu detto da Metastasio nell’Ezio:

La prima arte del regno
E’ il soffrir l’odio altrui.
Pacem reduci velle victori expedit,
Visto necesse est.

che da Metastasio fu imitato nell’Adriano:

………………… Alfin la pace
E’ necessaria al vinto,
Utile al vincitor.

I sette Capi all’Assedio di Tebe di Eschilo, e le Fenisse di Euripide contengono lo stello argomento della Tebaide latina che ci é pervenuta mutilata. Essa cede di molto alle due tragedie greche per locuzione e per condotta. Nel lunghissimo, atto I benché pur tronco, presenta una verbosa declamazione di Edipo colla figliuola di 300 versi a un di presso, de’ quali più di 275 esprimono la disperazione e la dolorosa rimembranza delle sventure di Edipo, e li aggirano in tutt’altro che nell’argomento della Tebaide; di maniera che sembra piuttosto prepararsi l’azione dell’Edipo ramingo in Colono trattata da Sofocle, che la guerra de’ di lui figliuoli. Or questo debbe con somma cura fuggirsi da’ poeti, perché lo spettatore che ha motivo d’ingannarsi sul di loro disegno, allorché si dispone a un oggetto, e ne vede poi maneggiato un altro, se ne vendica col disprezzo. Nel frammento del atto II Edipo comparisce un mentecatto, perché pregato a interporre la sua autorità fra i due fratelli, egli al contrario fulmina varie maledizioni contra di loro,

………………… Non satis est adhuc
Civile bellum, frater in fratrem ruat;
Nec hoc sat est etc.

ma perché? qual motivo avea Edipo d’abbandonarli al lor furore? I greci con più senno han fatto derivar tali maledizioni dal disprezzo, dall’ingratitudine de’ figliuoli verso di lui, come può vedersi nell’Edipo Coloneo. Nell’altro frammento dell’atto III si vede il falso gusto dell’autore, che non sa internarsi nell’interesse de personaggi; dappoiché alla notizia della battaglia imminente Antigona prega la madre ad affrettarsi per impedirla:

Scelus in propinquo est; occupa, mater, preces;

ed in effetto ella é accinta a precipitarsi in mezzo alle squadre, come indi dice il messo:

Sagitta qualis Parthica velox manu
Excussa fertur, qualis insano ratis
Premente vento rapitur, aut qualis cadit
Delapsa caelo stella.

gran velocità! ma pure avanti di correre in tal guisa ella é arrestata dall’urgente necessità, di che? di declamar, sette versi per desiderare «un turbine che la trasporti per aria, l’ali d’una sfinge, quelle d’un uccellaccio Stinfalide, capaci d’ecclissare il Sole, o quelle d’un’arpia». Giusto Lipsio riferisce questa tragedia al secolo d’Augusto; ma le sottigliezze, i lampi d’ingegno ricercati con istudio, l’oricalco messo in opera invece dell’oro di quell’età, annunziano anzi l’indole del secolo in cui si corruppe l’eloquenza, e si prese per entusiasmo vigoroso la foga d’un energumeno. Dall’altra parte non solo non é come diceva il P. Brumoy la più stravagante di tutte (perché qual più stravagante dell’Ercole Oeteo, e pur l’istesso dotto critico l’attribuiva all’autor dell’Agamennone), ma parimente vi si ammirano non pochi tratti veramente sublimi, e di più una vivacità di colorito nelle passioni, che non é si facile di rinvenirsi altrove. Dice la tenera Antigona al padre:

Pars summa patris optimi e regno mea est
Pater ipse.
………………… Prohibeas, genitor, licét,
Regam abnuentem, dirigam invitum gradum.
In plana tendis? vado. Praerupta expetis?
Non obsto sed praecedo. Quo vis utere
Duce me: duobus omnis eligitur via.
Perire sine me non potes, mecum potes.

Le mostruose nozze con Giocasta son ben espresse dal medesimo Edipo:

Avi gener, patrisque rivalis sui,
Frater suorum liberum, et fratrum parens;
Uno avia partu liberos peperit viro,
Ac sibi nepotes;

il che si trova nobilmente imitato dal Metastasio nel Demofoonte:

Le chiome in fronte
Mi sento sollevar. Suocero e padre
M’é dunque il Re! figlio e nipote Olinto!
Dircea moglie e germana! Ah, qual funesta
Confusion d’opposti nomi é questa!

«Quem, genitor, fugit», dice Antigona:

Oed. Me fugio, fugio conscium scelerum omnium
Pectus, manumque hanc fugio, et hoc caelum,
et deos etc.,

e ciò fu pure dall’istesso poeta cesareo imitato, e forse con più energia:

Dem. Ma da chi fuggi? Tim. Io fuggo
    Dagli uomini, da numi,
    Da voi tutti, e da me.

Vi é moto, affetto, e robustezza senza veruna stravaganza in questo squarcio:

Ant. Perge, o parens………
   Compesce tela, fratribus ferrum excute.
Jo. Ibo ibo, et armis obvium opponam caput.
   Stabo inter arma. Petere. qui fratrem volet,
   Petat ante matrem. Tela qui fuerit pius
   Rogante ponet matre, qui non est pius
   Incipiat a me etc.

E ne’ frammenti dell’atto IV sono pregevoli i seguenti versi:

…………… Sancta si pietas placet,
Donata matrem pace, si placuit scelus,
Maius paratum est; media se opponit parens.
Proinde beltum tollite, aut belli moram.
…………………………………………………………………
…………… Misera, quem amplectar prius?
In utramque partem ducor affectu pari.
Hic abfuit. Sed pacta si fratrum valent,
Nunc alter aberit. Ergo non unquam duos,
Nisi sic videbo?
…………………………………………………………………
…………… Dum pacem peto,
Audite inermes: ille te, tu illum times
Ego utrumque, sed pro utroque.
…………………………………………………………………
…………… Melius exilium est tibi,
Quam reditus iste. Crimine alieno exulas,
Tuo redibis.

Dice Polinice,

…………… Sceleris et fraudis suae
   Poenas nefandas frater ut nullas ferat?
Jo. Ne metue; poenas et quidem solvet graves:
   Regnabit. Pol. Haec ne est poena? Jo. Si dubitas, Avo,
   Patrique crede.

Ed alquanti altri passi sobri, maschi, e patetici potrebbero trascegliersene.

 

La nobile semplicità delle Trachinie di Sofocle non si rinviene nel piano e nella condotta dell’Ercole Oeteo che ne deriva, il cui atto I ci mostra Ercole, che si trattiene a ciarlare nel promontorio Ceneo in Eubea, e ’l rimanente si rappresenta in Trachina. Uno spirito declamatorio senza verun freno ne contamina tutti i punti tragici che si ammirano nella tragedia greca. Il plautino Pirgopolinice che con un pugno spezza una coscia a un elefante, é un’ombra a fronte d’Alcide che dice a Giove che si rincori, «secure regna», mentre il suo braccio «ha già fracassato quanto Giove avrebbe dovuto fulminare». Egli domanda il cielo, poiché già la terra,

…… timet concipere, nec monstra invenit.
Ferae negantur. Hercules monstri loco
Jam coepit esse.

Che se poi non avesse finora fatto abbastanza per meritarlo, egli congiungerà Peloro all’Italia, «cacciando in fuga i mari che si frappongono, egli muterà tutto l’Orbe, darà nuovo corso all’Isiro e al Tanai ec.» Il carattere di Dejanira sì bello e naturale presso Sofocle, diviene grossolano nella tragedia latina, e stanca il lettore nell’atto II con mille discorsi che saviamente potevano ommettersi. Quanto é eloquente poi il silenzio di lei nel greco, allorché ha risoluto di andarsi ad uccidere, tanto é poco atta a commuovere la noiosa declamazione, le antitesi, le sentenze, le ribellioni della Dejanira latina. Non pertanto in quello lunghissimo componimento di circa duemila versi fra tanti concetti assettati e strani, trovansene alcuni giusti, ben espressi, e spogliati d’ogni gonfiezza. Tali sono

Nunquam et ille miser, cui facile est mori.
……………………………………………………………………
Felices sequeris mors, miseros fugis,

imitato dal Metastasio nell’Artaserse.

Perché tarda é mai la morte
Quando é termine al martir.
A chi vive in lieta forte
E’ sollecito il morir.
Nut. A morne clari fugit Alcidae tibi?
De. Non fugit, altrix: remanet et penitus sedet
    Fixus medullis, crede: sed magnus dolor
   Iratus amor est.
   …………………………………………
   O si pateant pectora ditum,
   Quanto intus sublimis agit
   Fortuna metus,

pur leggiadramente imitato dal nostro poeta drammatico:

Se a ciascun l’interno affanno
Si vedesse in fronte scritto,
Quanti mai che invidia fanno,
Desterebbero pietà.
………………………………………………
……………… Tot feras vici horridas,
Reges, Tyrannos; non tamen vultus meos
In Astra torsi, Semper haec nobis mgnus
Votum spopondit. Nulla propter me sacro
Micuere Caelo fulmina. Hic aliquid dies
Optare jussit. Primus audierit preces,
Idemque summus, Unicum fulmen peto.
……………………………………………………………
Effare…………
………… Vultu quonam tulerit Alcides necem?
Ph. Quo nemo vitam.

La snervata Ottavia sembra produzione d’un rettorico novizio che mai non conobbe teatro, né si curò di osservar l’artificio de’ greci poeti. Comincia la prima scena con una declamazione o elegia generale di Ottavia, la quale esce e si ritira senza perché. Le succede una nutrice che si querela delle vicende che accadono nelle regie. Ottavia senza cagione ancora comparisce di nuovo a lamentarsi della fortuna; la Nutrice ascolta la di lei voce, e apostrofando la propria vecchiaia,

Cessas thalamis inferre gradus.
Tarda senectus?

le va incontro, e congiuntesi, cominciano le nenie a due. Apre l’atto II Seneca, che pur viene, non si sa perché, e si mette a moralizzare sulle diverse età del mondo, ravvisando nella sua i vizi di ciascuna:

Collecta vitia per tot aetates diu
In nos redundant.

Ma ciò serve punto a far avanzar l’azione? Al contrario fin qui essa non può dirsi incominciata. Sopraggiugne Nerone, insorge una disputa generica tra ’l maestro e ’l discepolo, sostiene ciascuno la propria tesi con fermezza, si scaglia da ambe le parti un cumulo di sentenze, proposte e risposte ex abrupto, e dopo una lunghissima tiritera di più di cento versi, si manifesta l’intento di Nerone di ripudiar Ottavia e sposar Poppea, ch’é l’azione meschina della tragedia, su di cui si favella appena in poco più di trenta versi. Ma diceva benissimo Boileau:

Le sujet n’est jamais assez tôt expliqué.

Scappa nell’atto III dall’inferno l’ombra di Agrippina per preceder alle nozze di Poppea colla fiaccola accesa in Acheronte, declama a sua posta, indi avvedutasi forse ella stessa della sua noiosa cicalata, giudiziosamente si determina partire,

Quid tegere cesso Tartaro vultus meos?

Chiude l’atto Ottavia rimandata alla casa paterna. e ’l coro la compiagne. Nell’atto IV un’altra nutrice accompagna Poppea, intende i di lei timori originati da un fogno funesto, e sembra che vadano a cominciare una nuova tragedia. Il coro loda la bellezza di Poppea, e un messo annunzia il tumulto del popolo pel ripudio di Ottavia. Narrali nel V, come il tumulto é già sedato, Nerone comanda, che Ottavia sia relegata nell’isola Pandataria oggi Ventotiene; e in fatti viene ella fuori condotta da soldati per imbarcarsi. Che languidezza, che gelo, che noia! Qual differenza da quelli dialoghi scolareschi senz’arte, senza interesse, senza moto, senza contrasti e situazioni tragiche, dalla sublime terribile Medea!

Il teatro latino ebbe tragedie, favole italiche, commedie, mimi, e pantomimi.

Le tragedie erano o palliate, che imitavano i costumi de’ greci, a’ quali apparteneva il pallio; o pretestate che rappresentavano il costume de’ romani che usavano la pretesta.

Le favole italiche, di cui parla Donato nella prefazione alle commedie di Terenzio, erano azioni giocoso di personaggi pretestati, le quali doveano rassomigliare alle greche ilarodie, Per altro nome tali favole si chiamavano rintoniche da Rintone, poeta tarentino, che le inventò.

La commedia latina fu copiata dalla nuova de’ greci, e non ebbe coro di sorta alcuna. La Caterva introdotta nella Cistellaria di Plauto, e il Grex che si trova nell’Asinaria, ne’ Cattivi, nella Casina, nell’Epidico, e nella Bacchide del medesimo, non sono altra cosa che il corpo, o coro intero degli attori, il quale con pochi versi prende commiato dal popolo. Terenzio neppure di tal gregge fece uso; ond’é che né anche da ciò poté derivare il farfallone di quel letterato francese, il quale, per quanto rapporta madama Dacier, estatico lodava i cori delle commedie di Terenzio90. Se si attende all’attività dell’azione, la commedia latina si dividea in stataria e motoria; se si mira alla natura de’ costumi imitati, essa era greca, o sia palliata, e romana, o sia togata, e questa si suddividea in togata propriamente detta, in tabernaria, e atellana. La togata propria era seria, e corrisponderebbe alla nostra commedia nobile; e talvolta arrivava ad esser pretestata a cagione de’ personaggi cospicui che solea ammettere. La tabernaria frammischiava l’eccellenza alla bassezza, e prendeva il nome da taberna, luogo frequentato da persone d’ogni ceto. L’atellana era una commedia bassa, ma piacevole e lontana da qualunque oscenità, la quale preso l’origine e ’l nome da Atella situata in un luogo, oggi detto Sant’Arpino (in latino Sanctus Elpidius), villaggio a due miglia distante da Aversa in terra di lavoro, donde furono chiamati, i primi attori atellani. Questo spettacolo campano salfo e grazioso, quanto decente e degno dell’italica severità di que’ tempi91, piacque di tal forte, che la gioventù romana volle riserbarsi il diritto privativo di rappresentarlo ad esclusione de’ comici di professione, i quali erano schiavi e perciò disprezzati. Gli attori atellani erano cittadini romani, e ne conservavano i diritti, perché non lanciavano di servir nelle legioni, e non erano rimossi dalle loro tribù92. Di più quando gl’istrioni veri rappresentavano male, a un cenno del popolo dovean soggiacere a smascherarsi, e soffrirne a volto nudo le fìschiate. Ma gli atellani rispettati dal popolo, come ingenui, si esenzionarono da tale oltraggio, per lo qual privilegio chiamaronsi propriamente personati 93, come quelli che giammai deponevano la maschera. Non era dunque l’esercizio di rappresentare, quello che disonorava gli attori in Roma, ma sì bene la loro condizione di schiavi, accoppiata alla vita dissoluta che menavano, là dove gli atellani liberi e morigerati godevano la stima della società e le prerogative di cittadini; benché gl’istrioni schiavi ancora, quando viveano onestamente e spiccavano per abilità, erano onorati dell’amistà de’ migliori uomini di Roma, come avvenne al famoso Esopo e al dotto Rosaio amicissimo di Cicerone. Uno degli scrittori atellanari fu Pomponio Bolognese, il quale intitolò una sua commedia Pitone Gorgonio e Scaligero su Varrone pretende, che questo nome equivaglia a Manduco.

I mimi latini erano picciole favole buffonesche, che da prima si usavano per intermezzo, e appresso furono uno spettacolo a parte, avendo acquistato molto credito per l’eccellenza di alcuni poeti che ne scrissero, e molta voga per la buffoneria che gli animava, e per la sfacciataggine delle mime. Queste erano a tal segno sfrontate, che al comando del popolo si nudavano, e facevano spettacolo del lor corpo; ma in ciò eran mai più sfacciate quelle schiave in eseguirlo, o il popolo in comandarlo? Assisteva M. Catone ai giuochi florali fatti dall’edile Messio; e ’l popolo si vergognò di domandar che le mime deponessero le vesti, rispettando la presenza di quel virtuoso cittadino; ma egli avvertitone uscì del teatro, usando della prudenza che non avea avuta in andarvi, e ’l popolo l’accompagnò con plausi strepitosi, e richiamò sulla scena l’antico costume94. A tempo di Giulio Cesare fiorirono due celebri scrittori e attori di favole mimiche Decimo Laberio dell’ordine equestre, di cui Macrobio e Aulo Gellio ci han conservati vari frammenti; e Publio Siro, le cui sentenze eleganti a noi pervenute sono altamente commendate da’ critici.

I pantomimi fioriti in Roma poterono derivare dalla tacita gesticolazione di Livio Andronico, o dalle antiche danze orientali e greche già riferite; e non se ne può ragionevolmente attribuir la prima invenzione a Battilo e Pilade due famosi istrioni-ballerini del tempo di Augusto. Quelli al più diedero un gusto più moderno all’antica arte pantomimica. Battilo dalla prisca danza comica formò l’italica, la quale per la sua troppa oscenità diede motivo e i tratti satirici di Giovenale95. Pilade spiccò ne’ balli tragici, e secondo Suida e Ateneo, compose anche un libro in tal materia. Egli ebbe un discepolo chiamato Ila, il quale rappresentando coi gesti una tragedia, nel voler esprimere queste parole, il grande Agamennone, sollevò la persona. Pilade lo riprese, dicendo che il suo gesto significava alto e non grande. Volle allora il popolo, che sottentrasse il maestro a rappresentar l’istessa cosa, ed egli obbedì; e giunto a quelle parole, si compose in atto grave colla mano alla fronte in guisa d’uomo che medita cose grandi, e caratterizzò meglio la persona d’Agamennone96. Tale era l’accuratezza degli abili pantomimi antichi. Questo medesimo Ila sommamente licenzioso ad instanza del pretore fu da Augusto nella propria casa fatto bastonar pubblicamente97. Da Battilo e Pilade si formarono le due famose scuole, o, partiti chiamati i Battili, e i Piladi,98 i quali’ si disprezzavano reciprocamente e si facevano ogni male. Battilo favorito da Mecenate giunse a far bandir da Roma e dall’Italia Paride suo emulo. Svetonio però ci dice, che questi fu esigliato per aver mostrato a dito dalla scena uno degli spettatori che lo beffeggiava. Egli ebbe poi tanti protettori che fu richiamato. Quelli partiti produssero sanguinose fazioni nella dominatrice del mondo; e Nerone che se ne compiaceva, assisteva nel teatro di nascosto per goderne, e come vedeva attaccata la mischia, soleva anch’egli gittar pietre contro a quelli del partito contrario, e una volta ruppe il capo a un pretore; e in qual’altra guerra avrebbe fatte le sue prove quest’imperador istrione? Finì in Roma la gloria della poesia drammatica, quando v’incominciò a regnar la moda delle buffonerie e oscenità de’ mimi e pantomimi, spettacoli più propri a divertire un popolo che andava degenerando99.

Ma le nostre querele e quelle di tanti scrittori contra de’ pantomimi, cadono sulla loro arte, o sulla loro scostumatezza? L’arte al fine non é altro che una vivace rappresentazione parte così importante per animar la poesia drammatica. Or se i pantomimi giunsero a rappresentar con tal verità o delicatezza che non soccorsi dalla locuzione, tutta esprimevano una tragedia o una commedia, come si può senza nota di leggerezza asserire, che l’arte pantomimica «à la honte de la raison humaine fit les délices des Grecs et des Romains», secondoché declama M. Castilhon? I talenti possono mai far vergogna alla ragione, se i costumi son puri? La tragedia di Medea, espressa tutta mirabilmente per gesti da Mnestere, poteva far vergogna alla ragione, perché la vita del pantomimo era libertina, o perché le matrone romane s’innamoravano di tali istrioni-ballerini, o perché essi prendevano dominio fu gl’imperadori, e influivano negli affari del governo? Ma gli errori di tal sofista francese sui pantomimi e altre cose teatrali e non teatrali, sono molti e grandi. Chi mai, se non costui, senza prove, fondendo dati ed idee, e passando d’un salto leggiero sulle terribili vicende dell’Europa, le quali, può dirsi, la fusero, e rimpastarono di nuovo, chi, dico, avrebbe scritto colla di lui franchezza, che le fazioni per gli pantomimi si sono perpetuate per mille e dugento anni, fino a produrre, che cosa? i partiti de’ guelfi e de’ ghibellini? é vero che Roma e Costantinopoli arsero per le fazioni de’ verdi e de’ turchini nel circo e ne’ teatri; ma é vero ancora, che i pantomimi hanno influito negl’interessi de’ guelfi e de’ ghibellini quanto la discordia di Eteocle e Polinice.