(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro III — Capo I. Teatro Italiano nel Secolo XVII. » pp. 268-275
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(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro III — Capo I. Teatro Italiano nel Secolo XVII. » pp. 268-275

Capo I.
Teatro Italiano nel Secolo XVII.

Colti nel precedente secolo i più sublimi allori nell’erudizione e nell’eloquenza oratoria e poetica, soleva l’Italia ancor più alte le mire nel XVII, e volgesi curiosa a contemplar il vago e mirabil edificio della natura. Giambatista la Porta, Marco Aurelio Severino, Fabio Colonna, Ferrante Imperato, Giovanni Fabbro, Luca Valerio, Mario Guiducci, Giovanni Terenzio, Cintio Clemente, l’immortal Galileo Galilei figlio prediletto d’Urania, il gran Borelli, il Cavalieri, il Torricelli, il Viviani, Antonio Oliva, Carlo Rinaldini, Niccolò Stenone, Paolo e Candido del Buono, Carlo Dati, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti, Tommaso Cornelio, Lionardo di Capua, Sebastiano Bartoli, il Cassini, il Malpighi, il Castelli, il Montanari, il Guglielmini, il Manfredi, Giacinto Gimma, e gli altri illustri membri dell’Accademia de’ Segreti, de’ Lincei 175, del Cimento 176, degl’Investiganti 177, degl’Inquieti 178, de’ Fisiocritici 179, della Società scientifica Rossanese 180 ec., in vece d’inventar parole e di far sistemi181, presero ad esaminar una per una le parti t di quest’ammirando edificio, e colla face dell’esperienza diradarono in gran parte le tenebre, che ne coprivano il magisterio. A sì magnanima, importante e utile impresa intenta l’Italia consacra il fiore de’ talenti agli studi severi della natura, e si scema il numero de’ buoni coltivatori dell’amena letteratura.

Nel cominciare participava il secolo più dello spirito del passato? e molti eruditi si fecero gloria di coltivar la drammatica. La Tomiri dell’Ingegnieri, il Giorgio, e l’Ulisse del Porta, l’Evandro e Arpalice, e la Pentesilea del Bracciolini, il Solimano del Bonarelli, l’Erminia del Chiabrera, l’Ermenegildo del Pallavicini, l’Aristodemo del Dottori, furono tragedie giudiziose, pubblicate quasi tutte dentro i primi vent’anni. Esse non cedono alle passate in arte nobiltà, e versificazione; e solo in taluna lo stile va prendendo un portamento lirico é un poco d’affettazione di quello di Seneca. Quanto alle commedie si leggeranno sempre con piacere quelle d’Ottavio d’Isa, degli accademici di Siena, del Malavolti, dell’Altani, la Schiava, l’Ortensio, e i Due Vecchi di don Filippo Gaetano duca di Sermoneta, e l’Idropica del Guarini, gli Scambi  del Bulgarini, il Geloso non Geloso di Brignole Sale, la Fiera commedia urbana del giovine Buonarroti, la quale può dirsi uno spettacolo di cinque commedie concatenate in venticinque atti, che si recitarono in Firenze in cinque giorni nel 1618, e la Tancia, semplice; ma graziosa commedia rusticale del medesimo, e la Rosa di Giulio Cesare Cortese, favola boschereccia, in cui si veggono le passioni delineate con somma verità, e delicatezza.

Ma s’innoltra il secolo, prepondera lo spirito geometrico e filosofico, rimangono in balia de’ talenti mediocri l’eloquenza e la poesia, se ne adultera il gusto, e scintillano ben rare le buone produzioni. In quello periodo presero tutta la voga i drammi musicali e gli spettacoli istrionici.

Claudio Monteverde, il quale avea posta in musica l’Arianna del Rinuccini, divenuto maestro di cappella di San Marco, portò in Venezia questo spettacolo novello, dove fu sì bene accolto e sì pomposamente decorato. Tra Melodrammi che si fecero poi maggiormente ammirare ne’ teatri veneziani, fu quello intitolato la Divisione del Mondo, nel quale le decorazioni magnifiche e pompose chiamarono l’attenzione universale. L’opera così nobilitata per incantare i sensi, da Venezia di mano in mano si sparse di per tutto, e si rese celebre per la magnificenza delle decorazioni, per la delicatezza delle voci, per l’armonia de’ concerti, e per le belle composizioni del Monteverde, del Soriano’, del Giovannelli, ed altri chiari maestri di musica di quel tempo. Allora si cercarono, é vero, poeti che componessero drammi musicali; ma non parve la cosa più essenziale dello spettacolo, ch’essi fossero eccellenti. Bastava agl’impresari di provvedersi di un buon macchinista, di castroni e di cantatrici dotate di voci delicate, e di un maestro di cappella rinomato. La bella poesia che somministra alla buona musica il vero linguaggio delle passioni, col quale parlasi nel medesimo tempo al cuore e allo spirito, occupava l’ultimo luogo fra tante cose destinate unicamente a solleticare i sensi; e la fina rappresentazione che da essa ancor dipende, fin d’allora fu un oggetto o non veduto o disprezzato dagl’istrioni musici; Qual differenza, non dee immaginarti che si troverebbe da chi potesse paragonarle, tra la musica e la rappresentazione dell’opera moderna, in cui la verità é sì negletta dagli eutropi teatrali, e della tragedia ateniese, nella quale, secondo che ben si esprime ateneo, trasportato da un divino entusiasmo rappresentava e cantava l’istesso Euripide! Quindi é che si scrisse da’ poeti oscuri un prodigioso numero d’opere eroiche e comiche, le quali appena comparse sulle scene, rapidamente si perdettero nel nulla. Si possono a stento eccettuar da questi gran folla sommersa nell’obblio quelle del Moniglia, del Lemene, del Capece ed altre poche. Merita però attenzione particolare il Giasone del Cicognini (pubblicato nel 1649) «il quale, come osserva il signor cavalier Planelli, cominciò a interrompere il grave recitativo con quelle anacreontiche stanze che si chiamano arie». Nocque egli con tal novità, o giovò al melodramma? Giovò pel vantaggio che se ne può ritrarre nocque per l’abuso che n’é stato fatto. Così i maestri musici si avvezzarono a trascurar il tutto per trarre partito unicamente da quelle strofe, nelle quali spessissimo (per una o due volte che vi si trovi fondato il punto interessante della passione) l’azione prende una spezie di riposo, e l’affetto é rimpiazzato da un sentimento espresso con eleganza intempestiva.

Dall’altra parte gl’istrioni recitanti, per mezzo delle soprannomate maschere aveano tirato ne’ pubblici teatri tutta la plebe e le donne d’Italia. Ma ripetevano ogni dì alla medesima udienza le medesime arlecchinate, le quali, perduto il merito della novità, cominciarono a ristuccare; e perciò al primo furore delle rappresentazioni musicali si videro pressoché intieramente abbandonati. Opposero allora decorazioni a decorazioni, e musica a musica, e si sostennero alquanto con farsacce magiche piene di apparenze, voli, e trasformazioni, e con alcuni intermezzi musicali, passeggieri ripari a’ loro continui bisogni. Un altro momentaneo soccorso trassero dalle favole spagnuole piene d’avvenimenti notturni, di duelli, ratti, nascondigli, e raggiri, facendole tradurre e rassettare al loro dono. Altre sul lor modello ne composero gl’italiani in quel periodo di decadenza. Ma l’irregolarità di tali favole, e la poca somiglianza che aveano cogli originali della natura e co i componimenti giudiziosi del secolo passato, le fecero presto andare in disuso, e ricondussero la desolazione nel teatro de’ commedianti. Durar non poteva in verun conto simile stato di violenza per l’indole Italiana; e in fatti la disapprovazione de’ savi, e l’allontanamento della gente ben nata dal teatro, riconduce gli spettacoli pel buon sentiero, e cagionò la felice rivoluzione del secolo susseguente.