(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO VIII. Teatro di Sofocle. » pp. 104-133
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO VIII. Teatro di Sofocle. » pp. 104-133

CAPO VIII.

Teatro di Sofocle.

Ma la soverchia semplicità delle favole di Eschilo non sempre animata da quella interessante vivacità che può renderla accetta, qualche reliquia di rozzezza nella decorazione, e la scarsezza di moto, additavano a Sofocle una corona tragica non ancora toccata. E per conseguirla attese a formarsi uno stile grave e sublime e maestoso e spoglio della durezza e gonfiezza del predecessore, e a tirare l’attenzione dell’uditorio più col movimento e colla vivacità e coll’economia naturale della favola che con la magnificenza delle decorazioni. E perchè gli parve necessaria all’esecuzione del suo disegno un’altra specie di attori, volle separar dal Coro una terza classe di cantori e ballerini per aggregarle ai semplici declamatoria. Ed acciocche tutto contribuisse all’illusione indispensabile per disporre gli animi alle commozioni che si vogliono eccitare, fe dipingere la scena, secondochè afferma Aristotile nella Poetica, probabilmente per mettere alla vista il luogo dell’azionea. Ebbe ancora l’accortezza di scerre argomenti adattati al talento e alla disposizione de’ suoi attori, giacchè egli per mancanza di voce non potè rappresentare, come facevano gli altri poeti, i quali per lo più recitavano nelle proprie favole. Sino alle cose più picciole distese Sofocle le sue osservazioni per far risplendere l’abilità di ciascuno; e perchè si vedessero in teatro brillare i piedi de’ ballerini, fe calzar loro certi calzari bianchi. Scrisse centodiciassette o centotrenta ed anche più tragedie, delle quali venti furono coronate; ma non ne sono a noi pervenute che sette, cioè Ajace, le Trachinie, Antigone, Elettra, Edipo re, Filottete, Edipo Coloneo, le quali dovunque fioriscono gli ottimi studii, divengono esemplari de’ più peregrini ingegni. Lo stile di Sofocle è talmente sublime, magnifico e degno della tragedia, che per caratterizzare la maestosa gravità di tal componimento, dopo Virgilio suol darsi al coturno l’aggiunto di Sofocleo. Nella di lui vita che Giovanni Lalamenti tradusse dal greco, dicesi che Sofocle esprime la venustà e la maestà Omerica. Cicerone per dire che taluno meditava qualche cosa sublime, dice, an pangis aliquid Sophocleum? Tale è poi l’aggiustatezza e la verisimilitudine che trionfa ne’ piani delle sue savole, che senza contrasto vien preferito a tutti i tragici per l’economia dell’azione.

Nell’Ajace detto flagellifero dalla sferza colla quale quest’eroe furioso percoteva il bestiame da lui creduto Ulisse e gli altri capi del campo Greco, tra molte bellezze generali e varii pregi della favola e de’ caratteri, si ammirino con ispezialità le tre seguenti bellissime scene: la situazione patetica di Ajace rivenuto dal suo furore col figliuolo Eurisace e colla sua sposa Tecmessa; la pittura naturalissima della disperazione di Ajace che si ammazza; ed il tragico quadro che presenta la troppo tarda venuta di Teucro ed il dolore di Tecmessa e del Coro allo spettacolo di Ajace ucciso. Oh quanto è vaga la natura ritratta da un gran pennello! Ma oh quanto si scarseggia di gran pennelli che sappiano mettere in opera i bei colori della natura agli antichi famigliari! Or perchè mai trascurarono di osservare simili scene ricche di bellezze inimitabili il Robortelli, il Nisieli ed altri nostri critici, per nulla dire de’ transalpini falsi belli-spiriti La-Mothe, d’Argens, Perrault, in vece di perdersi a censurarne ogni minimo neo nello sceneggiamento, e ogni leggera espressione che loro paresse bassa e grossolana, per non avere abbastanza riflettuto alla natura eroica di que’ tempi lontani che i tragici intesero di ritrarre? Il garrire degli eroi tanto da’ critici ripreso, era proprio de’ primi tempi della Greca nazione. I concetti sono figli de’ costumi, e le stesse passioni generali dell’uomo si modificano esteriormente sul genio delle razze e famiglie diverse. Ognuno può osservare nelle aringhe de’ Greci oratori con quali forti ingiurie l’uno contro l’altro essi si scagliassero nel Pritaneo a’ tempi di Filippo, di Alessandro ed anche di Cassandro. Or quello che i Greci profferivano ne’ tempi della loro maggior coltura, nè già nel solo teatro, ma dove gravemente decidevasi del destino della patria, ci dee far risalire sino al tempo eroico di Achille e di Ajace, e guarirci dal pregiudizio di giudicare dal decoro osservato ne’ moderni tempi di quello che convenisse a’ tragici Greci nel copiare Teseo ed Agamennone. Del rimanente nell’Ajace io non vedo nella contesa di Menelao e poi di Agamennone con Teucro e spezialmente in quella di Ulisse, tante villanie obbrobriose quante nel Paragone della Poesia Tragica ne rimprovera a Sofocle il conte Pietro di Calepio critico per altro assai saggio. In tutta la scena di Menelao e di Teucro trovo soltanto che quegli riprende nell’altro la soverchia baldanza, e questi di rimbalzo lo taccia di stoltezza; or dove sono gli obbrobrii esagerati? Più forte è la scena con Agamennone. Questi come re de’ re irritato per la resistenza di Teucro gli rinfaccia l’aver egli, che pur non è che un figlio di una cattiva, σὲ… τόν ὲκ της αιχμαλώτιδος, osato ricalcitrare agli ordini de’ supremi capitani. Lo chiama indi servo e barbaro di stirpe . Teucro mostra di esser nato di Telamone e di una regina, e si meraviglia come a lui favelli a quel modo Agamennone nipote del barbaro e Frigio Pelope, figlio di Atreo famoso per la scellerata cena e di Cressa colta con uno straniero. Dopo ciò arriva Ulisse, e cerca di placare Agamennone; nè in questa ultima scena trovansi punto le villanie decantate. Perchè dunque attribuire agli antichi i difetti che non hanno, oltre a quelli che hanno per essere stati i primi nell’arte? Perchè inventare nuovi errori? Non basta scoprire quelli che son veramente tali? Noi ultimi venuti possiamo dire nelle nostre poesie, barbaro, stolto, insano, vile, tralcio illegittimo di tronco oscuro ec. ec., nè Corneille, Crebillon, Voltaire, Metastasio, Zeno, vengono tacciati (nè debbono esserlo) come villani e plebei, ed il Calepio vuol riprendere severamente queste medesime cose in Sofocle a?

Si rappresenta nelle Trachinie la morte di Ercole avvenuta per lo dono funesto di Dejanira, nella quale con tutta verità e delicatezza si vede delineato il carattere di una moglie tenera e gelosa. Nell’atto quarto Ilo viene a riserire alla madre l’effetto del regalo fatale della veste inviata al padre nell’atto terzo. Ma Ilo l’ha egli stesso veduto nel promontorio Ceneo, ed è venuto a narrarlo in Trachinia. È mai naturale che egli avesse due volte valicato in tempo sì corto uno stretto di sessanta miglia italiane interposte da Ceneo a Trachinia? D’ altronde il giudizioso Sofocle avrebbe esposto agli occhi de’ Greci una inverisimilitudine sì manifesta, se il fatto non fosse sembrato comportabile per qualche circostanza allora nota ed oggi involta nel l’oscurità di tanti secoli, o se avesse creduto far cosa contraria al pensare de’ suoi compatriotti? Sommamente patetico in quest’atto è il silenzio del l’ingannata Dejanira alle accuse del siglio addolorato, silenzio eloquente artifizioso che sempre in Sofocle precede le disperazioni e i suicidii. Nel l’atto quinto trovasi quello squarcio maraviglioso che latinamente con eleganza tuttà sua tradusse Cicerone e che adorna il secondo libro delle Quistioni Tuscolane:

O multa dictu gravia, perpessu aspera etc.

del quale Ovidio nel nono delle Metamorfosi fece una bellissima imitazione. Tragica e degna del gran Sofocle è pure l’ultima scena.

Antigone conosciuta per moltissime traduzioni si aggira sugli onori della sepoltura che erano tanto a cuore del l’antichitàa prestati da Antigone al fratello Polinice mal grado del vigoroso divieto di Creonte. E notabile nel l’atto secondo la scena delle due sorelle Antigone ed Ismene, che disprezzando a competenza la morte accusano se stesse di aver trasgredita la legge. Questo contrasto tenero e generoso imito il gran Torquato nell’episodio di Olindo e Sofronia, e l’immortale Pietro Metastasio lo ravvivò con tutto il patetico di una passione grande e lo rendette più interessante nel Demofoonte, quando Timante e Dircea si disputano a gara la reità principale della seduzione nel vietato imeneo. Antigone n’è sepolta viva, Emone figliuolo del re che ama questa principessa, si ammazza, ed Furidice di lui madre che ne intende il racconto, istupidita dal dolore parte senza parlare, e si uccide come Dejanira. Questa patetica tragedia rappresentata con sommo applauso ben trentadue volte, fe decorare l’autore colla prefettura di Samo. Dove si conosce il pregio del l’arte, si premiano i talenti. In Groenlandia rimarrebbero inonorati e confusi tralla plebe, se vi capitassero, gli Archimedi, i Borrelli, i Galilei, i Newton a.

L’Elettra contiene lo stesso argomento delle Coefore di Eschilo maneggiato con esattezza maggiore. L’intermezzo, ossia canto del Coro del l’atto secondo, è congiunto alle querele di Elettra. La riconoscenza molto tenera fassì con più verisimilitudine di quello che avviene nelle tragedia del predecessore, per mezzo di un anello di Agamennone. Il dolore di Elettra in tutta l’azione si trova espresso a meraviglia, ed il di lei carattere ottimamente scolpito spicca con ispezialità nella scena con Crisotemi sua sorella. La moderazione di questa serve d’artifizioso contrasto col trasporto di Elettra. La scena di Elettra che piange Oreste tenendo l’urna delle di lui ceneri, si rappresentò una volta da Polo che sostenevane la parte, con tal vivacità e verità, secondo Aulo Gellio, che trasse dal l’uditor o copiose lagrime. Tutto concorre a rendere questa tragedia eccellente; un’ azione grande, terribile, patetica, ben condotta, unita, che tende con verisimiglianza al suo fine: caratteri veri e degnamente sostenuti, e senza distrazione di altre circostanze meno interessanti: passioni forti proprie del grande oggetto: locuzione sublime in tutte le sue parti. Con tutti questi pregi parrà forse, nè senza fondamento, troppo orribil cosa a’ moderni quel vedere due figli tramare ed eseguire l’ammazzamento di una madre tuttochè colpevole. Chi oggi non fremerebbe alle parole di Elettra che incoragisce Oreste a ferise, a replicare i colpi, παισον διπλῆν? La fatalità, l’oracolo discolpava il poeta presso i Greci; ma avrebbe Sofocle indebolito il terrore tragico, se avesse rilevato meglio il contrasto delle voci della natura colla necessità di obedire ad Apollo, che dovea fuor di dubbio in tal caso lacerare il cuore di Oreste? Eschilo nello stesso argomento gliene avea ben dato un bel l’esempio. Potrebbe osservarsi ancora che Sofocle rimane pure ad Eschilo inferiore, allorchè diminuisce l’attenzione del l’uditorio col far seguire la morte di Clitennestra prima di quella di Egisto, sembrando che se ne renda meno importante e men doloroso lo scioglimento.

L’Edipo re, o tiranno, come dice l’originalea, è la disperazione di tutti i tragici ed il modello principale di tutte l’età. Nulla di più tragico ha partorito la Grecia. Tutta la stupidità o il capriccio di certi pregiudicati incurabili moderni appena basta per ingannar se stessi sul merito di questo capo d’opera, e per supporre la tragedia ancora avvolta nelle fasce infantili nel tempo che si producevano simili componimenti che nulla hanno di mediocre. Torresti tu (diceva col solito discernimento Longino a) di esser piuttosto Bacchilide che Pindaro , e nella tragedia Jone Chio che Sofocle?… É chi sarà quegli che avendo fior di senno, messe tutte insieme le opere di Jone, al solo dramma del l’Edipo ardisca contrapporle? Certo niuno b. Si apre sì bel componimento con uno spettacolo curioso e compassionevole. Vedesi in una gran piazza il real palagio di Edipo: alla porta di esso si osserva un altare, innanzi al quale si prostra un coro di vecchi e di fanciulli: si rileva dalle parole che in lontananza dovea vedersi il popolo afflitto radunato intorno ai due tempi di Pallade e al l’altare di Apollo. Nè ciò era troppo ne’ teatri Greci, la cui grandezza non può ravvisarsi in niuno de’ moderni, benchè alquanti assai vasti se ne contino. Dopo un contrasto di Edipo e Creonte, Giocasta nel l’atto terzo cercando di consolare il consorte con iscreditare le predizioni racconta come andò a voto un’ oracolo di Apollo, il quale presagiva che un di lei figlio dovea essere l’uccisore del padre; imperciocchè essendo stato il bambino esposto sul monte Citero, il padre cadde per altra mano, avendolo ucciso alcuni ladroni in un trivio. Questo trivio ricordato e descritto con esattezza presta al l’azione un calore e un movimento inaspettato rammentando al re la morte da lui data a un vecchio in un luogo simile, e a misura che vansi i fatti rischiarando la favola diviene interessante. Vuolsi osservare come qui Giocasta si studia di torre ogni credito agli oracoli; e nel l’atto quarto Edipo al l’udir che Polibo suo creduto padre è morto in Corinto ne deduce per conseguenza l’inutilità di consultare l’oracolo di Apollo. Ma frattanto nel rimanente della tragedia si dimostra appunto la falsità del raziocinio di que’ due spiriti-forti, e si accreditano col fatto le divine risposte, stabilendosi l’infallibilità di Apollo e l’insuperabile forza del fato, quella forza che è il gran perno su cui si aggira il tragico teatro Greco. Che riconoscenza poi mirabilmente condotta per tutte le circostanze nel l’atto quarto, e di qual veramente tragica catastrofe produttrice! Aristotile quel gran conoscitore n’era incantato con troppa ragione. Giocasta cui le parole del messaggiero non lasciano più dubbio alcuno del l’essere di Edipo, in se stessa riconcentrata e piena del proprio dolore dovette apparire agli spettatori Ateniesi intelligenti e sensibili un oggetto sommamente compassionevole. Ella giusta la maniera di Sofocle esprime col silenzio l’intensità della sua pena ed il funesto disegno che indi a poco eseguisce. E quì si vede il patetico eloquente silenzio partorir tutto l’effetto teatrale invano cercato dai declamatori e ragionatori moderni. Edipo sicuro di essere egli quel figlio colpevole additato dal l’oracolo, chiude con passione ed energia tutte le sue sventure in queste brevi querele:

Terribile destino, ecco una volta
Tutti svelati i tuoi decreti! Io nato
Son di cui non dovea: ho un letto offeso
Cui d’innalzar anco un pensier fugace
Era scelleratezza: il giorno ho tolto
A chi mi diè la vita. O Sol fia questa
L’ultima volta che i tuoi raggi io miria

Ma quanto è tragico e spaventevole nel l’atto quinto il racconto della morte di Giocasta e del l’acciecamento di Edipo! Che spettacolo Edipo accecato! In quest’atto si trova il bel passo ammirato e citato da Longino che il Giustiniani ha così tradotto nella sua vivace elegante versione del l’Edipo:

O nozze, o nozze
Voi me quì generaste, e generate
Poscia, o sceleratezza! ritornaste
Nel ventre de la madre il seme istesso
Concependo di lui parti nefandi.
Fratelli, padre e figli produceste
D’ un sangue istesso, e d’un istesso ventre
E nuore e mogli e madri, in un mischiando
Tutto ciò che più turpe e più nefando
Tra’ mortali si stima.

In questi versi si vede egregiamente espresso quell’ἀίμʹ εμφύλιον, sanguinem cognatum , che il dottissimo Brumoy desiderava nella per altro elegante traduzione di questo passo fatta da Niccolò Boileau. Lacera finalmente tutti i cuori che non ignorano la potenza della sensibilità, la preghiera di Edipo ridotto in sì misero stato per abbracciar le figliuole, e quando brancolando va loro incontro chiamandosi ora di loro fratello ora padre,

Figlie, ove sete, o figlie?
Stendete pur le braccia al l’infelice
Vostro… fratello. Non fuggite, o care,
Queste man che dagli occhi a vostro padre
Trasser la luce,

e quando le abbraccia, e non sa separarsene; tutte situazioni appassionate ottimamente dipinte. Il Coro conchiude la tragedia colla sentenza di Solone. Tutti i Cori del l’Edipo esprimono al vivo la sublimità dello stile di Sofocle, e si veggono mirabilmente accomodati alle particolarità del l’azione, nella qual cosa Sofocle riescì più di ogni altro tragico, Qualche altro frammento di quello del l’atto primo della versione elegante del lodato Giustiniani mostrerà alla gioventù studiosa l’arte di Sofocle ne’ canti de’ cori. Invocato Giove, Minerva, Diana ed Apollo, si passa alla descrizione de’ mali di Tebe in tal guisa:

Giace dal morbo afflitto il popol tutto,
Ne so donde io m’impetri
O soccorso o consiglio,
Già de li frutti suoi ricca e cortese
La terra or nulla rende,
Nè resister possendo
Cadon da morte oppresse
Le femmine dolenti
Ne l’angosce del parto,
Come spessa d’augel veloce torma
Fende l’aria volando.
Tal da li corpi un sopra l’altro estinti
In largo e folto stuolo,
Più che il foco leggere
Fuggon l’alme di Stige ai tristi liti.
Ma l’infinita turba abbandonata
Da la pietade altrui
A cruda morte giunta,
Priva de l’altrui pianto,
Sopra il nudo terren giace insepolta
E le tenere spose
E le madri canute
L’una de l’altra a canto
Piangon supplici e meste i lorò mali ec.

Non poteva Sofocle esser da miglior penna trasportato in italiano. Simili traduzioni animate, fedeli, armoniose de’ nostri cinquecentisti fanno vedere quanto essi intendevano oltre il vano suono delle parole, e come ben sapevano recare con eleganza lo spirito poetico nella natia favella. Non so adunque come il calabro avvocato Mattei affermi nella mentovata dissertazione (alla pagina 210) che i nostri antichi traevano da quelle miniere (de’ tragici Greci) solo il piombo, e lasciavano l’oro . E ne sono sempre più maravigliato in leggendo poco dopo (nella pagina 218) che dalla Greca tragedia aveano i Francesi e gl’Italiani con felice successo preso ed unito insieme tutto il bello . Di grazia, sig. Mattei, intendiamoci bene, gl’Italiani hanno da’ Greci preso con felice successo tutto il bello , o hanno tratto dalle loro miniere tutto il piombo e lasciato l’oro ?

Egli è un altro capo d’opera del l’antichità Filottete, le cui saette fatali conducono in Lenno Ulisse e Neottolemo, perchè richiedevansi indispensabilmente alla caduta di Troja. Filottete è il più compiuto esemplare della inimitabile semplicità della tragedia antica, e della costante regolarità ed aggiustatezza di Sofocle nel l’economia del l’azione. Tutto in tal favola è grande e sino al fine sostenuto da un interesse ben condotto; tutto tende con energia al suo scopo. Dipinto a maraviglia è il carattere di Neottolemo. I moderni non vedrebbero con piacere sulle scene Filottete zoppicante e disteso nel l’atto II colle convulsioni: ma egli si mostrava in questo stato senza sconcezza sul teatro della dotta Atene. E ciò ne dimostra che certo sublime idropico e romanzesco, e che io chiamo di convenzione teatrale, perderebbe affatto il credito anche sulle moderne scene a fronte delle patetiche situazioni naturali, purchè vi fossero introdotte con garbo da un ingegno sagace che sapesse renderle, sulle vestigia di Sofocle, tragiche e grandi. Può osservarsi in questa favola che i Cori del primo e del terzo atto sembrano più parlanti del secondo, il che trovandosi ancora in altre può valer di pruova che non sempre terminavano gli atti con un canto corale e sommamente lontano dalla declamazione del rimanente. Il coro del quarto è accoppiato ai lamenti di Filottete, i quali pajono una spezie di recitativo moderno obbligato, o vogliam dire accompagnato dagli stromenti. La prima scena del l’atto quinto è molto vivace pel vago contrasto della virtù di Neottolemo colla politica di Ulisse. Piacemi che il soprallodato conte Pietro da Calepio osservi che sia figura lirica l’apostrofe di Filottete al proprio arco ed al fragore del mare che sentiva stando nel l’antro di Lenno. Ma sì lieve neo, se vogliasi tale, non meritava di esser tanto esagerato in una tragedia che gli presenteva molte bellezze da esercitare il gusto e l’erudizione di chiunque e da ammaestrare la gioventù. La tragedia termina per macchina col l’apparizione di Ercole, pel cui comando Filottete accompagna Neottolemo a Trojaa.

L’Edipo Coloneo, o sia a Colona patria di Sofocle, contiene la venuta di Edipo cieco in Atene, fuggendo la persecuzione di Creonte re di Tebe. Egli si ritira colle figlie nel tempio delle Venerabili Dive, cioè delle Furie, la cui memoria di tanto orrore colmava i Greci, che non ardivano quasi mai mentovarle col loro vero nome, e per antifrasi le appellavano Eumenidi, cioè benevole, benigne da εὑμενέώ, benevolus sum. Il coro istruisce Edipo delle cerimonie praticate ne’ sacrifizii che facevansi al l’Eumenidi, affinchè questo forestiere e le di lui figlie rifuggite al loro tempio non incorressero in qualche errore nel venerarle. Or perchè quest’opportuno episodio parve tanto fuor di luogo e ozioso a Pietro da Calepio? Edipo avendo implorata la protezione di Teseo, secondo l’oracolo, va a morire in un luogo a tutti ignoto. Fra questa tragedia e le Supplici di Eschilo scorgesi qualche conformità riguardo al piano. Sofocle decrepito poco prima di morire fu da Jofante suo figliuolo chiamato in giudizio e accusato di fatuità; ed il poeta, per convincere i giudici della falsità del l’accusa, presentò e lesse loro l’Edipo Coloneo da lui scritto in età tanto avanzata; ed essendone stato ammirato rimase egli assoluto, e l’accusatore stesso dichiarato insanoa. Questo gran tragico, secondo Luciano nel catalogo de’ Macrobii, morì strangolato con un grano di uva di anni novantacinque. Egli fu decorato, come si è detto, colla prefettura di Samo e col l’onorevole grado di Arconte della Repubblica. Militò pure da capitano in compagnia di Pericle nella guerra che fecero gli Ateniesi contro quelli di Samo nel terzo o quarto anno del l’olimpiade LXXXIV.