(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV « PROLUSIONE ALLE LEZIONI DI POESIA RAPPRESENTATIVA DEL PROFESSORE PIETRO NAPOLI-SIGNORELLI. » pp. 203-226
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV « PROLUSIONE ALLE LEZIONI DI POESIA RAPPRESENTATIVA DEL PROFESSORE PIETRO NAPOLI-SIGNORELLI. » pp. 203-226

PROLUSIONE ALLE LEZIONI DI POESIA RAPPRESENTATIVA DEL PROFESSORE PIETRO NAPOLI-SIGNORELLI.

La Gloria di colui che tutto muove, che riempie lo spazio immenso di Soli infiniti, intorno a’ quali altrettanti sistemi d’astri erranti con eterne invariabili leggi percorrono le loro orbite; è quella stessa che in sì picciol globo, com’è la nostra Terra, spiegò la sua potenza e si diffuse tanto nell’interna struttura organizzandone gli elementi, le fibre e gli strati, e rinserrando nell’ampio suo seno arcane sorgenti di fonti, di fiumi, di gemme, di metalli, di sali, di solfi, di piriti, quanto nell’aspetto esteriore di un maestoso disordine di rottami, i quali, agli occhi del profano, sembrano ruine, e pur sono armonici risultati di artificio creatore.

Questa Prima Cagione del tutto che abbellì la superficie del nostro pianeta col vago variamente colorito ammanto di tutto il regno vegetabile, la popolò d’innumerabili esseri animati, quali d’ingenti forze dotati come i leoni, quali in mille guise proficui come tanti armenti, pesci e volatili, quali di vaghe e care spoglie abbigliati, come le martore, gli armellini, le zebre e le americane tigri, quali per dolci concenti commendabili come usignuoli, canarii, uccelli-mosche e colibrì, quali notabili per sagace istinto come le api, i destrieri, i cani, le scimie, gli elefanti, ed i castori operai insieme ed architetti de’ loro borghi.

In tanta varietà del regno animale scorgesi l’Uomo, essere spoglio d’ogni natural difesa, sprovveduto di scaglie, di squame, di cuojo, d’irsuta pelle e di crostaceo tegumento, non armato di branche, di artigli, di zanne, di becco, di corna, di proboscide, nudo di più me da librarsi in alto e scansar gli urti e le offese.

Fermando gli squardi su quest’essere debole e meschino, gettato nello stato primitivo anteriore alle società famigliari, non che alle civili, ravviseremo in esso le pietre di Deucalione e d’Anfione, le piante animate e le fiere ammansite dalla lira d’Orfeo, gli armati surti da’ solchi di Cadmo, e le dure roveri di Virgilio: e lo vedremo in seguito progenitore di spietati ladroni, di Procrusti, di Licaoni, di Litiersi, di Cacchi, di Gerioni, di Antifati cannibali, d’immani Polifemi e di Patagoni cresciuti innanzi senno nelle proprie immondezze.

Provvida nonpertanto la Natura lo fornì di tali secreti efficaci espedienti, che nella propria essenza e nelle circostanze della sua esistenza egli rinvenne i mezzi d’escire dallo stato ferino e selvaggio e di respingere e tener lontano ogni assalitore. Quindi lo veggiamo forte e potente per affrontare, distruggere o soggiogar gli animali e sagace per conservare e proteggere le famiglie e per raccorle in villaggi elementi di città d’imperi e di nazioni grandi. Lo veggiamo agiato non solo e fornito di quanto bisogna alla sua sussistenza, ma disdegnoso de’ primi cibi non compri, dell’erbe su cui giaceasi ne’ tugurj, delle lanose pelli onde copriva la sua nudità, passare alle delizie più ricercate della gola, alle soffici oziose piume, alla delicatezza delle sete, de’ veli, de’ bissi, alla pompa degli aironi, degli ori, delle perle, dei diamanti di Golconda, in somma al fasto Persiano e Mogollo, e alla mollezza Sibaritica e Tarentina. Ma veggiamo ancora che egli, deposta ogni ferocia, ogni baldanza, ogni vanità ed effemminatezza, perviene alla rettitudine degli Aristidi e de’ Fabrici, alla probità de’ Socrati, de’ Senocrati, e de’ Catoni, alla meditazione de’ Platoni, degli Anassagori, degli Archimedi. E fatto di mano in mano ognora di se maggiore veggiamo ch’egli osa non solo di elevarsi fisicamente entro esile e leggier globo areostatico per le vie de’ venti co’ Mongolfieri e co’ Lunardi, ma che travalica calcolando oltre la terrestre atmosfera, spazia per l’immensità dell’universo, spia e rinviene co’ Galilei, con gli Ugenj, co’ Ticoni, con gli Erschel nuovi pianeti, ravvisa e distingue altre stelle un tempo confuse e impercettibili nel chiarore della detta Via Lattea, rivela de’ corpi celesti i volumi, le densità, le velocità, le distanze, le leggi, misura e previene il ritorno se l’immense ellissi delle comete; in una parola osserva e legge ne’ cieli co’ Cassini, co’ Manfredi, coi La-Lande, coi Toaldi e con gli Oriani, e si solleva quasi al di sopra della sua natura coi. Newton, coi Leibnitz, coi Kepleri, con gli Euleri, coi La-Grange, coi Mascheroni, e coi Fontana. L’uomo adunque già sì debole, sì goffo, sì misero, seppe trovare nelle proprie forze fisiche e intellettuali quanto fecegli mestiere a penetrar nell’arcano magistero del Mondo naturale ed a crearsi egli stesso tutto il Mondo civile.

E di quali mezzi l’Uomo si valse per imprese così grandi? e quali ordigni lo spinsero tant’oltre? 1 Fisica costituzione agile e flessibile, 2 Mente curiosa calcolatrice, 3 Bisogni che lo stringeano; più nettamente, Corpo attivo, Ragione investigatrice, Bisogni eccitativi.

Ora sfolgorando la specie umana di tanta e sì luminosa coltura, sembrava che l’Uomo, dopo di avere per gl’indicati mezzi trovate tante arti di necessità, di comodo e di lusso, dovesse riposar tranquillamente sulle raccolte palme. Ma lo spirito indagatore irrequieto che lo predomina, scorrendo rapido e curioso per tanti oggetti sensibili che lo circondano, fa germogliare in lui con incredibile fecondità nuovi desiderj, gli presenta nuovi bisogni da soddisfare, e gliene addita le guise.

La necessità gli avea insegnato a costruirsi delle case, e la ragione speculatrice, e che era giunta a formarsi giuste idee del bello e del gusto, gl’inspirò la brama di nobilitarle coll’eleganza e colla simmetria, ed il bisogno divenne lusso; e nacque da ciò la bell’arte esercitata dagli Agatarchi e da’ Numisii, insegnata da’ Vitruvii, da’ Trissini, da’ Palladii e vie più perfezionata da’ Buonarroti.

Il piacere che deriva dalla presenza delle persone care, rendè sensibile ad una fanciulla l’imminente dipartita del suo vago: e per voglia di conservarne i tratti andò contornando sulla parete il profilo del di lui volto che vi si distingueva in forza dell’opposta luce; e l’uomo approfittandosi del caso giunse ad inventare l’altra bell’arte di dare alla superficie piana l’apparente rilievo di corpo, per la quale corse all’immortalità Apelle, Timante, Parrasio e Zeusi, e Raffaele d’Urbino, Correggio, Tiziano, ed Annibale Caracci. Voleasi senza l’illusione seducente d’ ombre e di lumi ritrarre l’effigie de’ corpi ed imitar la natura con materie solide onde renderne al tatto sensibili le parti; e con ferri acconci all’uopo diessi l’uomo a scheggiar maestrevolmente legni, marmi e metalli, onde surse l’altra bell’arte per cui oggi pur vivono e vivranno i Fidii, i Mironi, i Lisippi, emulati più tardi con tanta gloria dal Fansaga, dal Corradini e dal Canova.

L’uomo avea bisogno di comunicar co’ suoi simili i proprj concetti per mezzo delle lingue, e senza presidio alcuno di tinte e di altre materie reali, e corse col pensiero a un artificio più ingegnoso, e inventò la grande arte di svolger la serie delle proprie idee colle sole parole ma in sì fatta guisa e con tale aggiustatezza ed eleganza connesse, che giugnesse a dominar su gli animi ed a commuoverne o racchettarne gli affetti; ed è questa l’arte imperiosa, onde tuonava Demostene nella Grecia, Tullio nel Lazio, e Parini nella Cisalpina. Avea l’uomo pastore intento alla custodia del suo gregge il bisogno di occuparsi tutto solo e talora di conversar co’ suoi simili per ozio e per diletto; ed egli s’industriò d’incatenar le parole con certa misura e certa legge, e ne nacquero i versi. I quali nel pronunciarsi con certa cantilena e con espressivo atteggiamento diedero la vita anche alla pronunziazione, che è la prima musica della natura, e poi alla musica stessa artificiale; da che l’uomo solingo posto in mezzo alla silenziosa amenità della campagna sentesi sensibilmente invitato e rapito a mandar fuori di se i versi e a modular la propria voce per incantar dolcemente i sensi di chi l’ascolta; prendendone l’esempio dal concorde suono del grato mormorar de’ ruscelli, del susurrar dell’aure leggiere, del frascheggiar de’ teneri frondosi virgulti, e del lieve aleggiare e del gorgheggiar soave de’ canori augelletti.

Ma que’ versi profferiti o cantati altro alla fin fine non sono se non suono vano di parole incatenate e misurate, che sin dall’infanzia delle società si coltivarono anche da’ materiali Lapponi, da’ Negri, Indiani, Messicani, Irochesi, Caraibi ed Uroni. L’uomo però inoltrato nella coltura tendente sempre mai irresistibilmente alla perfezione de’ proprj ritrovati, mal poteva limitarsi a quella semplice studiata filza di parole esprimenti rozze idee pastorizie, comunali, famigliari. La Grecia che dal picciolo recinto del suo angusto territorio seppe dettar leggi d’umanità, di coltura e di dottrina a’ popoli più remoti, trafficando e rendendo altrui con usura i semi delle arti e delle scienze ricevute da Egizj, Caldei e Fenici, e da essa accresciute di numero, di estensione e d’intensità; la Grecia, dico, bisognosa di una bell’arte più confacente al dilicato e fine suo gusto, poteva arrestarsi all’invenzione de’ nudi versi? Essa v’infuse un’anima, un’energia, un calore, un fuoco sovrumano, che rapisce, che scuote, che agita, che aggira, che violenta, che strappa dall’intimo de’ cuori un profluvio di elettriche scintille per indi versarvi con utile e diletto la virtù e la sapienza. Essa inventò l’alma Poesia, la più sublime, la più prodigiosa, la più incantatrice delle belle arti che dal gran Padre Omero e da Esiodo si trasmise ai Pindari, agli Alcei, ai Stesicori, ai Callimachi, agli Anacreonti, e che passò nel Lazio ai Maroni, agli Orazii, agli Ovidii, ai Catulli, e quindi nella moderna Italia ai Danti, ai Petrarchi, agli Ariosti, ai Torquati ed ai Monti.

Quest’arte celeste questo sforzo portentoso dell’umano ingegno, impaziente d’ogni confine porta la contemplazione per tutta la natura, e facendo tesoro degli oggetti verì gli ordina nella fantasia, gli colora, gli adorna, gl’illeggiadrisce, e trasportando con viva imitazione l’evidenza del vero nella bellezza del finto, ne congegna l’armoniosa catena di vive immagini che mulcendo l’udito penetra negli arcani avvolgimenti del cuore umano, ed ammaestra dilettando. Con questo divino lavoro i primi savii Lino, Museo, Orfeo trassero gli uomini dagli spechi solinghi alle città, gli additarono un Ente supremo autore del tutto, gli appresero a venerarlo, ad amarlo e temerlo, ed ammantarono l’antica teologia con poetiche spoglie. E dell’esempio approfittandosi i legislatori, i Carondi, i Zaleuci, colle medesime spoglie dettarono le loro leggi. Con tale abbigliamento le memorie degli eroi e le grandi imprese si conservarono nelle loro colonne dagli Egiziani, e fra Germani, Celti, Goti, e Peruviani; nè ricusarono queste care spoglie i filosofi, gli Empedocli, i Teognidi, gli Arati, i Lucrezii nell’insegnar le fisiche, l’astronomia, e la filosofia de’ costumi. E così le antiche nazioni da prima altro savio non ebbero che il solo Poeta, il quale era nel tempo stesso teologo, istorico, legislatore, fisico, astronomo, e filosofo morale.

Chi avrebbe mai a que’ tempi potuto immaginare che l’uomo non contento delle omeriche ricchezze inventerebbe in seguito qualche genere poetico più utile e più dilettevole alle società? Chi detto avrebbe che le favole e le grandiose immagini del gran Cieco di Smirne fecondando la greca immaginazione, darebbero nascimento ad una poesia più universale, più artificiosa e più coltivata dovunque fiorisce la coltura? E pure ciò appunto avvenne. Le poesie nomiche indirizzate ad Apollo, gl’inni ditirambici fatti per Bacco, le persone che sì sovente Omero introduce a favellare in sua vece, e la curiosità sempre attiva ed investigatrice dell’umana mente; tutte queste cose, dico, cospirarono col greco talento favoleggiator fecondo, espressivo, energico, ed al festevole motteggiar proclive, e da esse la grand’arte pullulò, con cui l’uomo prese a dipigner se stesso facendo i suoi simili alternativamente confabulare.

È questa l’arte drammatica, i cui semi primitivi rinvengonsi in ogni clima barbaro o colto, quell’arte che mette in azione la morale, e che, come lo scandaglio e la stella polare a’ naviganti, è la fida scorta e la retta norma che ci scorge ad iscoprire il grado di coltura ove giunte sieno le nazioni. Imperocchè trovansi, egli è vero, dal Volga al Nilo, e dal giallo fiume Cinese all’Orenoco, i semi di sì bell’arte, cioè imitazione, versi, musica, saltazione, travestimenti, e spettacolo: non mancano (è vero ancora) i Tespi, i Cherili, i Pratini, i Carcini, non che nella Grecia e nell’Etruria e nell’antica Sicilia, ne’ Giavani, ne’ Cinesi, ne’ Giapponesi, ne’ Tunchinesi, ne’ Messicani e ne’ Tlascalteti. Ma non si trovano se non tra’ Greci, Eschili che danno forma, metodo, energia e magniloquenzia alla Tragedia; Sofocli che col proprio nome caratterizzano la gravità e sublimità del coturno; Euripidi che s’internano ne’ cuori, e vi scoprono le ascose molle de’ gran delitti, e vi studiano le sorgenti della compassione e del terrore per purgarlo delle passioni eccessive ed infondervi la virtù e la giustizia. Trovansi sì bene ne’ barbari climi fra g l’Indiani, fra gli Arabi, fra gli Otaiti, in Ulietea, in Ciapa, nel Messico, i buffoni imbrattati di feccia il volto e in varie guise stranamente mascherati, per eccitar certo goffo grossolano riso ne’ volgari. Ma nella Grecia soltanto brillano luminosamente gli Aristofani che con allegoriche imitazioni presentando i più frivoli oggetti, le rane, le vespe, gli uccelli, le nuvole, saettano con acuti motteggi la bruttezza de’ prepotenti e cacciangli in fuga, versando nelle loro favole un tesoro di sana politica, di pura morale e di dilicata poesia. Colà la natura e l’arte produssero gli Alessidi che, abbandonate le dipinture degl’individui, seppero pungere costumi, e vizj generali e far la guerra agli abusi de’ ceti interi, e delle scuole Pitagoriche. Colà solo spiccano gli Apollodori, i Difili, i Filemoni, e Menandro la delizia de’ filosofi, ed il modello inarrivabile de’ Cecilii e de’ Terenzii.

E quì chieder potrebbesi in prima, onde avvenga che la poesia drammatica si trovi diffusa e accettata quasi dapertutto; e poi, perchè mai tanto più essa inoltrisi verso la perfezione, quanto più cresce nelle nazioni la coltura? L’una e l’altra cosa, s’io dritto estimo, è ben chiara. Essa si conosce e si spande per tutto, perchè deriva immediatamente dalla natura del l’uomo, il quale avvezzo ad osservare quei della sua specie, attissimo ad imitarli, e disposto a riprendere in altri le ridicolezze e gli eccessi, da’ quali si chi de lontano, gode della somiglianza de’ ritratti che se ne forma, e si compiace di farsene un giuoco. Fiorisce poi la poesia drammatica e si perfeziona nelle nazioni più colte e fiorenti, perchè per giugnere all’eccellenza bisogna che il poeta intenda perfettamente i diritti e i doveri dell’uomo e del cittadino, che sappia studiarne i costumi e vederne e rilevarne le sconcezze, e che possegga l’arte di ritrarle al naturale per ottenerne la correzione, presentando agl’infermi, come cantò Lucrezio e Tasso, un nappo d’amara ma salutar pozione, asperso negli orli di dolci soavi licori, onde ingannati bevano e ricevano vita e salute. Ora tutto ciò non potendo conseguirsi senza la chiaroveggente filosofia, è manifesto che la prestanza della poesia teatrale non può sperarsi prima che la nazione non si trovi incamminata alla coltura, da che alla luce della filosofia possono inseguirsi alla pesta i tanto complicati vizj dell’uomo colto e del lusso, i quali sì ben nascondonsi sotto ingannevoli apparenze, ed apprestano al poeta drammatico copiosa materia multiforme e delicata che sfugge al tatto che non è troppo fino.

Non debbe dunque recarci stupore che la Grecia sì dotta maestra, ed apportatrice di luce, tanta cura riponesse a far fiorire il suo teatro: che i filosofi più celebri si occupassero, o, come Epicarmo, a comporre favole sceniche, o, come Aristotile, a dettarne i precetti: che i grandi allievi de’ Pitagori, come Eschillo, degli Anassagori, come Euripide, de’ Teofrasti, come Menandro, vi contendessero per lo corone drammatiche: che Socrate volesse in pubblico mostrarsi l’amico e l’ammiratore del gran tragico di Salamina: che la Grecia intera si pregiasse d’intervenire solennemente ne’ Certami Olimpici, d’intendere i suoi poeti drammatici, e decidere del loro merito. Comprese quella nazione pensatrice e di gusto sì fine, che la Scenica Poesia portata all’eccellenza è la scuola de’ costumi; che niun genere meglio e più rapidamente si comunica agli stranieri e meglio contribuisca alla gloria nazionale; che i poeti epici e lirici trattengono i pochi e i dotti, ma che i drammatici son fatti per tutti; che il legislatore può adoperarli per le proprie vedute; che la sapienza morale non disviluppa con successo felice i suoi precetti, se non quando è messa in azione sulla scena. In fatti essa gl’insinua per l’udito, la drammatica gli presenta alla vista: essa ammonisce gravità, questa giocondamente nasconde il precettore e manifesta l’uomo che favella all’uomo in aria affabile e popolare: la morale tende a convincere l’intendimento, la drammatica illustra l’intendimento stesso cominciando dal commuovere il cuore: ha quella per angusto campo una scuola, questa un ampio teatro, dove assiste tutta la nazione, dove s’insegna in pubblico e sotto gli occhi del Governo, s’insegna nell’atto stesso che si offre allo spettatore un piacevole ristoro dopo i diurni domestici lavori. La ragione umana che inventò e perfezionò in Grecia un’arte sì bella, sì utile e sì necessaria alla gloria e all’educazione de’ popoli, quanto vide profondamente nella natura dell’uomo!

Cisalpini fortunati e degni di esser tali, voi siete nelle più favorevoli circostanze. Liberi al pari de’ Greci, di essi al pari agognar potrete a far che abbarbichino nel vostro ferace suolo e mettano salde e profonde radici le belle arti che alla foggia delle Grazie tengonsi per mano e si sostengono a vicenda. L’eloquenza e la poesia, singolarmente drammatica, possono, è ben vero, secondochè la storia dimostra, allignare in ogni governo, purchè non sia corrotto; ma esse, come nel proprio elemento vivono, verdeggiano, fioriscono e fruttificano più che altrove nelle Repubbliche. Il vostro Governo composto de’ vostri migliori Concittadini volge tutte le sue mire a rendervi felici e tranquilli e scienziati e grandi artisti; secondatelo. Esso v’incoraggia e vi appresta i mezzi più opportuni perchè tocchiate l’apice della coltura d’ogni maniera. Occupato seriamente della pubblica istruzione, e ben persuaso dell’utilità, importanza ed eccellenza della Poesia Rappresentativa, ve ne apre quì una cattedra particolare che manca altrove. Voi avete altresì un Teatro Patriotico protetto e secondato dal medesimo saggio Governo, pregio anche peculiare della vostra città, che pur si desidera nel resto dell’Italia. In esso la più colta gioventù Cisalpina d’ entrambi i sessi concorre con alacrità di cuore ed aspira al bel vanto di pareggiar gli antichi Eschini e Satiri, gli Esopi e i Roscii, e di emulare i moderni Baron, Le Kain, e le Couvreur e le Clairon. Nobil disegno, gara generosa! Ma per riescirvi parvi che bastar possa il confinarsi al mestiero subalterno di ripetere incessantemente e tradurre i componimenti oltramontani? che basti il rappresentar per tradizione incerta, alterata e malfida senza studiar con giusti principi la bella e la vera declamazione? Il Teatro così coltivato mancherà sempre di spontaneità e di energia originale. È il poeta, è l’autore che col suo fuoco ispira l’anima nella sua favola; è quest’anima questo fuoco che dee passare agli attori e rendergli grandi ed originali; è Moliere che forma i Baron; è Voltaire che produce le Clairon. In Grecia tutti gli autori erano gli attori delle proprie favole. Cleone perseguitato negli Equiti fu contraffatto e rappresentato dal medesimo Aristofane; se non rappresentò Sofocle, ne fu cagione il difetto della sua voce. In Italia ne’ precedenti secoli fiorirono più Accademie, come quelle de’ Rozzi e degl’Intronati, consacrate singolarmente a comporre e rappresentar componimenti drammatici; e l’Omero Ferrarese solea recitare nella Corte Estense i prologhi delle sue commedie e diriggerne le rappresentazioni; nè vo’ parlar del Ruzzante, del Lombardi, del Riccoboni e d’Isabella Andreini, tutti scrittori ed attori di mestiere. Sul Tamigi attori erano ed autori Shakespear, Otwai, e Garrick, i quali vivono ancora tuttochè coperti dalla terra. In Francia, dove tanto si studia e fiorisce la declamazione, gli attori per la maggior parte sono autori essi stessi, come già furono Moliere, la Place, Dancourt, Baron, e come oggi sono Piccard, Duval, la Molè e tanti altri.

Adunque uniamo le nostre forze, sosteniamoci scambievolmente, e cerchiamo di far nascere nel Parnasso Cisalpino autori tragici e comici di prima fila ed attori esimii pieni di brio, di grazia, d’anima e d’intelligenza. Io colla mia debolezza mediterò, ridurrò a metodo le osservazioni della poesia teatrale e della pronunciazione; Voi mi animerete col l’assiduità ed attenzione, ed eseguirete a suo tempo componendo e rappresentando con mira di sorpassare le mie speranze ed i miei voti, e di erudirvi ne’ greci esemplari, per corrispondere coll’evento felice alle paterne provvide cure de’ grandi Cittadini che vi governano. Voi studierete eziandio il florido Teatro Francese: esso è ricco de’ capi d’opera di Corneille, Racine e Voltaire, di Moliere e di Regnard (benchè oggi sien seguiti ben da lontano e senza probabilità d’esser raggiunti); esso è vicino alla perfezione nella declamazione specialmente comica in forza delle doti inarrivabili della celebre Contat e del valoroso Molè. Vi serva di cote per aguzzare il vostro fervido ingegno, e per isciorne a nobil volo i vanni con favole originali, frangendo i lacci servili delle smunte, spa ute, fredde e macre traduzioni. Non siete Italiani? Ignorate che l’Italia in più felici giorni ammaestrò gli oltramontani nelle scienze e nelle belle arti? Ignorate che ne’ tempi bassi, quando essi gemevano solto il ferreo giogo del più umiliante dispotismo, essa diede loro fin anche il grand’ esempio di vendicarsi in libertà? Non avranno seguaci fra Cisalpini i Maffei, i Martelli, i Manfredi, i Varani e gli Alfieri, nè gli Ariosti, i Machiavelli, i Bentivogli e i Goldoni? Vi contenterete del solo preclaro autore dell’Aristodemo e del Cajo Gracco? Svegliatevi, accendetevi di nobile invidia, ed obbligate all’ammirazione i vostri concittadini, gli esteri e la posterità.