(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI « LIBRO VI. Storia drammatica del secolo XVII. — CAPO IV. Opera Musicale. » pp. 314-344
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI « LIBRO VI. Storia drammatica del secolo XVII. — CAPO IV. Opera Musicale. » pp. 314-344

CAPO IV.

Opera Musicale.

Quando con ardir felice il Rinuccini accoppiava al dramma una musica continuata, e chiamava l’attenzione dell’Europa con uno spettacolo, che tutte raccoglieva le sparse delizie che parlano efficacemente a’ sensi  quando, dico, nacque l’Opera, l’Italia trovavasi ricca di opere immortali di pittura, scultura ed architettura. Essa gloriavasi allora de’ talenti, e delle invenzioni di varii celebri pittori e machinisti, che seguirono Girolamo Genga, e il matematico e architetto Baltassarre Peruzzi. Possedeva illustri pittori di quadratura, come Ferdinando da Bibiena, Angelo Michele Colonna comasco scolare del Dentoni, Agostino Mitelli bolognese, il cavalier d’Arpino architetto e pittore insigne. Non vedeva fuori del suo recinto nè Noverri, nè Vestris, nè Hilverding, anzi inviava i suoi ballerini oltramonti, e i Francesi stessi scendevano dalle Alpi per apprendere la danza a. I suoi Peri, Corsi, Monteverde, Soriano, Giovannelli erano allora quel che oggi sono Piccinni, Gluck, Sacchini, Cimarosa, Guglielmi, Paisielli. Or qual meraviglia che uno spettacolo, in cui poteva trionfare l’eccellenza di tanti valorosi artefici, venisse nelle prime città Italiane a gara accolto e coltivato?

Non furono delle ultime a goderne Venezia, Bologna, Roma, Torino, Napoli. Claudio Monteverde che aveva posta in musica l’Arianna del Rinuccini divenuto maestro della cappella di San Marco introdusse tra’ Veneziani il novello spettacolo armonico  e vi fu con tal magnificenza e pompa decorato, che ne volò la fama, non che per l’Italia, oltramonti. Cominciò da prima a coltivarsi il dramma musicale nelle case private de’ gentiluomini, indi passò su’ teatri. L’Andromeda di Benedetto Ferrari reggiano celebre sonatore di tiorba vi si cantò nel 1637. Vi comparve anche il Pastore d’Anfriso  ed innoltrandosi il secolo la Divisione del Mondo, dramma del parmigiano Giulio Cesare Corradi che altri ancor ne compose, vi si rappresentò con tanta splendidezza, che la città si riempì d’un numero prodigioso di forestieri. Si ripetè in Bologna sin da’ primi anni del secolo L’Euridice del Rinuccini. La di lui Arianna si rappresentò pure in Roma, dove da un Porporato si compose l’Adonia lodato dal Crescimbeni. Più tardi poi nella medesima città si ammirarono le maravigliose invenzioni onde nobilitava la scena musicale il cavalier Pippo Acciajolia. Torino si contraddistinse nel 1628 per la sontuosa rappresentazione del Vascello della felicità, e dell’Arione. Prima che Napoli e Sicilia avessero un’opera tutta cantata, ebbero una festa teatrale composta di danza, di musica, e di macchine eseguita nel 1639 sotto il vicerè Ferrante Afan de Ribera nella sala del real palazzo di Napoli, nel passar che vi fece l’infanta Maria sorella di Filippo IV, che andava in Ungheria a trovare il re Ferdinando suo sposo. Vi si eseguirono quattro balli differenti  il primo della Fama con sei cigni, il secondo delle Muse con Apollo, il terzo di nani e ciclopi, il quarto di varie deità  e vi comparve la Notte su di un carro di stelle tirato da quattro cavalli, e si cangiò più volte la scena rappresentando successivamente un tempio, il Parnasso, la fucina di Vulcano e i Campi Elisi. Quali però si fussero i versi che animarono tali invenzioni, da noi s’ignora a. Tra primi melodrammi rappresentati in Napoli e ripetuti altrove si contano la Deidamia del messinese Scipione Errico che si replicò in Venezia nel 1644, ed il Pomo di Venere del napolitano Antonio Basso rappresentata in Napoli nel 1645, ed il Ciro di Giulio Cesare Sorrentino pur napolitano stampato e recitato in Venezia ed altrove tante volte. Si segnalarono per la magnificenza ne’ musicali spettacoli i sovrani di Mantova e di Modena stipendiando esorbitantemente cantanti dell’uno e dell’altro sesso.

Bisogna però confessare che la cura maggiore non si pose nell’elezione de’ poeti. I deputati de’ principi, e più gl’impressarii particolari, badarono a provvedersi di ottimi dipintori di prospettiva, di pratichi macchinisti, di voci squisite, e de’ migliori sonatori e maestri di musica. La bella poesia che sola può somministrare alla musica il vero linguaggio delle passioni, cominciò ben presto ad occupare l’ultimo luogo.

Non è già che ne’ primi tempi dell’opera mancassero in Italia buoni poeti, ma il genere stesso era tuttavia nell’infanzia. Il Chiabrera che nella lirica poesia aveva gloriosamente calcato uu sentiero novello, scrivendo qualche componimento musicale, non si avvisò di seguire l’opera de’ Greci. Non mancavagli l’opportunità di spiegare anche in tal genere i poetici suoi talenti avendolo il granduca di Toscana Ferdinando I prescelto ad inventare i componimenti musicali per le feste delle nozze della principessa Maria. In tale occasione compose il Rapimento di Cefalo piccolo melodramma di cinque atti. Tanta pompa di metri lirici, tante macchine, tanti cori, ci mostrano l’opera nascente al tempo del Rinuccini, benchè da questo Fiorentino rimanesse il Savonese superato per interesse e per affetto. In Firenze si rappresentò ancora alla presenza di Cosimo II sotto il nome di Vegghia l’altro suo dramma intitolato Amore sbandito pubblicato in Genova nel 1622   ma si vuole avvertire che il tanto decantato Chiabrera non si decantò mai in Italia nè pel Rapimento di Cefalo nè per tal Vegghia.

Un componimento scenico per la musica composta pel dì natalizio di Maria Farnese duchessa di Modena diviso in tre atti leggesi nelle poesie di Fulvio Testi. Espero recita il prologo e v’intervengono i personaggi allegorici la Notte, la Religione, la Gloria .Il primo ballo vien formato da i Crepuscoli seguaci di Espero, il secondo dalle Ninfe marine, ed il terzo da un coro di Amazzoni che intrecciano una danza guerriera. Altra breve festa fatta a Sassuolo nel dì natalizio di Francesco da Este duca di Modena scrisse il medesimo poeta, in cui cantavano varie deità. Precede i recitativi di Cerere il coro seguente 

Di rai più belli
    Cinto i capelli
    Il Dio di Delo
    Ride nel cielo.
    A’ bei splendori
    Di nuovi fiori
    Tutte superbe
    Ridono l’erbe.
Del caldo austro ai fiati gravi
    Ardan pur le arene Maure 
    Quì tranquille, quì soavi
    Susurrando ridan l’aure ecc.

Termina la festa con un altro coro che pur contiene tre strofe anacreontiche. Or quando anche non vi fossero state ariette anacreontiche sin dal XV secolo, come altrove dimostrammo, basterebbero queste del Testi a provare che il Cicognini non fu il primo ad introdurle ne’ drammi  perchè le poesie del Testi cominciarono ad imprimersi sin dal 1613, e terminarono nel 1645 in vita dell’autore  ed in conseguenza prima della rappresentazione del Giasone. Vuolsi però osservare che le accennate feste del Testi sono snervate, senza azione e tessute di parti che possono sopprimersi senza che il componimento ne perisca, la qual cosa è la più sicura prova dell’imperfezione di un dramma.

Giulio Rospigliosi cardinale e poi pontefice col nome di Clemente IX si esercitò nell’opera sotto Urbano VIII. I suoi drammi di argomento cristiano recitati in Roma con applauso s’intitolano, la Comica del cielo, la Vita umana, la Sofronia, la Datira, oltre ad altri due di soggetto morale intitolati Dal male il bene, e Chi soffre spera. Essi insieme con s. Eustachio tragedia rimasero inediti, e se ne serbano copie manoscritte da alcuni signori Romani.

Si distinse nell’opera intorno al 1628 Andrea Salvadori fiorentino, i cui melodrammi Santa Ursola, Flora, Medora ed altri si fecero rappresentare con magnificenza da’ granduchi di Toscana. Alla buona riuscita di essi contribuì singolarmente la dolcissima voce e la maestria di cantare di Vittorio da Spoleto attore maraviglioso, quo nemo neque nostra neque patrum memoria toto orbe terrarum praestantior est auditus a  e pure in quel tempo si ammirarono per la voce e per l’arte di modularla il Campagnuola, l’Angelucci, il Gregorio,

Con lode particolare coltivò l’opera Ottavio Tronsarelli pur fiorentino morto nel 1641. Riscosse molti encomii il di lui dramma intitolato Catena di Adone composto espressamente per una contesa insorta fra due cavalieri di gran riguardo Giovanni Giorgio Aldobrandini e Giovanni Domenico Lupi, per due famose cantatrici, ad oggetto di decidersi qual delle due fosse la più eccellente per soavità di voce e per arte di cantare. Chiamavasi l’una Checca della Laguna, perchè abitava in quella parte della città che conteneva alcune acque stagnanti a modo di laguna. Era l’altra Margherita Costa pel canto e pel suo vergognoso traffico famosa. Davasi nel melodramma ad entrambe parte eguale perchè potessero a competenza mostrare senza svantaggio il proprio valore. Ma la prudente consorte del principe Aldobrandini non ne permise l’esecuzione  e l’opera fu rappresentata da eunuchi a nel palagio del marchese Evandro Conti a’ Monti, e secondo il racconto del Baglioni toccò all’insigne pittore ed architetto regnicolo il cavalier d’Arpino ad ordinarne e a dipingerne le scene.

Ma questi eunuchi sostituiti alle cantatrici nel dramma del Tronsarelli ci chiamano alla memoria un osservazione fatta sulla nostra Storia de’ Teatri del 1777 dall’erudito estensore di quel tempo delle Romane Efemeridi letterarie. Egli desiderava che vi si fosse mentovata l’ inumana usanza, malgrado delle leggi introdotta, di mutilare i giovanetti cantori, investigando in qual tempo fossero stati ammessi sulle scene . Per soddisfare in parte a tal curiosità nell’ampliar quest’opera sin dal 1780 cercammo di supplire colle illazioni che soggiugneremo, al difetto di decisivo monumento.

Chi non sa quanto antica sia questa barbarie, ed in quanti paesi per diversi fini tutti abjetti e vili adoperata? Sin tra gli Assiri, se crediamo ad Ammiano Marcellino, Semiramide introdusse nella sua reggia l’uso di mutilare i cortigiani, allorchè ella regnava sotto il nome e gli abiti del suo figliuolo, per confondere la propria voce femminile colle altre effemminate per arte. Secondo Gioseffo ebreo Nabucco ne diede il primo esempio facendo smaschiare gli schiavi Ebrei. Claudiano contra Eutropio pretese che i Parti, per raffinamento di lascivia, cominciassero a praticarlo per conservare più lungo tempo la gioventù de’ loro cinedi. Alcuni usurpatori dell’altrui regno per mezzo della castrazione vollero togliere a’ popoli la speranza di successione ne’ legittimi signori detronizzati e lasciati in vita. Presso gli Egizii, secondo Diodoro Siciliano, essa fu pena dell’adulterio. I Persiani, secondo Pietro della Valle, se ne valsero per castigo delle deflorazioni. Gli Affricani poveri la convertirono in un ramo di commercio abominevole divenuto necessario per la matta gelosia de’ serragli orientali. Gli Eunuchi fra’ Romani furono servi addetti alla cura de’ letti, come accenna Apulejo, e per tal uso venivano per vanità e per lusso ricercati fin anco dalle meretrici, a quel che leggesi in Terenzio, da cui un eunuco è chiamato monstrum hominis . Alessandro Severo, secondo Elio Lampridio, dava agli eunuchi il titolo di terza specie umana , e gli escluse affatto dal suo servigio , confinandoli ai bagni delle femmine  di che è da vedersi Lorenzo Pignorio de Servis et eorum apud veteres ministeriis a. Per una descrizione di Petronio citata da Girolamo Mercuriale de Arte Gymnastica libro II, cap. 5 , troviamo ancora i servi spadoni occupati a segnare i falli de’ giocatori di palle. Chi ignora poi quanto poco fossero gli eunuchi favoriti da’ legislatori? Soggiaceva alla pena della legge Cornelia chi avesse castrato un uomo b. Domiziano, al dir di Stazio c, e Nerva, secondo Dione, vietarono espressamente la castrazione. Adriano con un suo rescritto condannò alla morte chi si lasciasse castrare, chi l’ordinasse, ed il norcino che l’eseguisse. Pena di morte posevi ancora Costantino d. Léone Augusto in niun luogo permise a’ Romani quest’atrocità, ed ai barbari solo in qualche parte a.

Contuttociò, per quanto gli eunuchi venissero perseguitati dalle leggi, avviliti negli esercizii più immondi, spregiati nelle società, scherniti dagli scrittori amici dell’umanità b, non mai si giunse ad estirpare quest’abuso inumano, ch’empie la terra di mostri imbelli schifosi detestabili. Gli eunuchi si sono perpetuati, e ad onta della ragione e del buon senno non solo nella China, nella Turchia e nella Persia, dall’abjezione della schiavitù più umiliante passano a’ posti ragguardevoli  non solo nella decadenza dell’Impero molti di essi divennero consoli e generali, come i Narseti, i Rufini, gli Eutropii: ma noi, noi stessi gli ascoltiamo gorgheggiare nelle chiese, e rappresentar da Alessandro e da Cesare ne’ nostri teatri.

Contenti gli antichi delle voci naturali de’ loro attori ancor nelle parti femminili, non mai pensarono a valersi degli eunuchi sulle loro scene. I Ginesi soli par che avessero avuti musici castrati  ma sebbene di essi, come narrammo nel tomo I, si servissero ne’ musicali trattenimenti dati nelle stanze delle imperatrici, non gli adoperarono mai nelle recite teatrali. Ne’ tempi mezzani nè anche in Europa si ammisero nelle grandi feste musicali, ne’ tornei, ne’ caroselli. Nè tra’ giullari e ministrieri che cantavano per le case de’ signori, nè tra’ buffoni che in qualunque modo, secondo Albertin Mussato, cantarono su’ teatri d’Italia, si vide mescolata cotal genia.

Potrebbe affermarsi sulla storia che tra’ Greci cominciasse la castrazione ad usarsi per mestier musicale, trovandosi tra essi introdotta intorno al secolo XII. Ciò rilevasi da un passo di Teodoro Balsamone già da noi citato, il quale visse in quel secolo: olim cantorum ordo non eunuchis, ut hodie fit, constituebatur, sed ex iis qui non erant ejusmodi a. Eranvi dunque in Grecia nel XII secolo musici castrati  ma dal non trovarsene poscia fatta menzione può argomentarsi che fosse cessata si bella usanza di assottigliar la voce per l’ordine de’ cantori.

Le Nazioni settentrionali aliene da questo obbrobrio in ogni tempo, nel venire a dominare ne’ paesi occidentali del Romano Impero, non poterono comunicar loro ciò che esse detestavano o felicemente ignoravano.

Forse gli Arabi soggiogata la Spagna ed acquistatane la naturalità, ed oppressa la Sicilia ed alcune terre della Puglia e delle Calabrie, colla voce de’ loro laidi eunuchi Affricani ne poterono risvegliar l’idea. Certo è che la Spagna e l’Italia hanno avuto sopra le nazioni moderne il vergognoso primato di rinnovare l’usanza di smaschiare la gioventù, e di addestrarla così malconcia ad esercitare il canto, e par che abbiano l’abbominevole privilegio di continuarlo. Io ho unita la Spagna all’Italia per la rinnovazione di questa usanza infame. Alcuni declamatori però traspiantati in Italia quando dalla Spagna si discacciò la Società Gesuitica, vennero ad inveire contro L’Italia per sì vituperosa consuetudine, e con filosofica saviezza si guardarono di accennare neppure a mezza bocea che la Spagna ugualmente partecipi di questa vergogna. Fu ciò in essi mala fede o ignoranza? Io nel fior degli anni miei ascoltai cantare per le chiese di Napoli el tiple (il soprano) Pepito castrato Spagnuolo, prima che mi recassi in Ispagna  e poi il rividi, ed ascoltai in Madrid per più anni in compagnia di Narciso, di Pellegrino ed altri più oscuri castrati tutti Spagnuoli. La real Cappella di quella corte (al cui servizio era addetto il nominato Pepito e Narciso allorchè io colà dimorava) è servita da numeroso coro di castratini educati espressamente in un collegio per cantaro in essa le divine laudi. Nella real chiesa dell’Incarnazione pure di Madrid tra’ sacerdoti che vi uffiziano, si veggono (almeno vi si vedevano nel lungo mio soggiorno di diciotto anni colà) molti vecchi ecclesiastici smaschiati. Ciò è storia nota in Europa  ed il celebre Giorgio Luigi le Clerc conte di Buffon riconobbe in Ispagna non meno che in Italia lo stesso mal tollerato abuso. Or perchè l’Arteaga ed altri apologisti suoi confratelli dissimularono che la Spagna ha coll’Italia commune siffatta taccia? All’occhio della filosofia moderna è forse detestabile sol quando è italiano un cantante evirato? E come poterono cotali declamatori credere che tutti ignorassero che sin dal XVI secolo, tanto abbondassero gli eunuchi nella penisola di Spagna, quando una bolla di Sisto. V ci convince che non erano pochi, e che arrogavansi il diritto di contrarre matrimonii colle donne, siccome i veri uomini fannoa? L’Italia poi che, al dir dell’erudito Maffei, e nel bene e nel male suole andare innanzi ai concorrenti e soprastare, addottrinò così bene nel canto i suoi castrati, e tanti n’ebbe che potè fornire all’Europa tutta molte voci soprane conservate in quest’infelici con tanto oltraggio della natura.

Ma qual fu l’epoca vera in cui codesti moderni non guerrieri Narseti, in vece di occuparsi ne’ ministeri de’ serragli e de’ giardini orientali, si rivolsero nell’una e nell’altra Esperia ad esercitar la musica? Non apparisce. Sì nota solo dagl’intelligenti che i teologi moralisti del XVI secolo non muovono la questione, se lecito sia castrare per formare un musico  nè pare che ciò prendesse ad investigarsi prima del secolo XVII. Adunque non molto prima di tali ricerche dovettero esser numerosi i musici castrati.

Cerchiamo almeno con qualche argomento negativo di farci la strada ad indagare il tempo in cui salirono sulle scene. Il mentovato modanese Orazio Vecchi nel voler far cantare l’Anfiparnaso si sarebbe ridotto a valersi del Brighella, del Dottore, del Pantalone, se a suo tempo si fossero usate in teatro le voci artificiali de’ castrati? E se il fiorentino Rinuccini gli avesse ne’ suoi melodrammi adoperati, il Vecchi gli avrebbe ricusati? L’ultimo dramma del Rinuccini s’impresse nel 1608  nè da più diligenti scrittori che del tentativo da lui fatto insieme col Peri, col Corsi e col Caccini hanno favellato, si accenna che si valessero di eunuchi  cosa che certamente non avrebbero omessa a cagione della novità. Possiamo dunque con molta probabilità affermare che almeno sino a i primi dieci anni del secolo XVII i teatri italiani non risonarono delle note di siffatti cigni infelici che mercano a si gran prezzo l’inutile acutezza della voce. Sappiamo poi che il lodato Tronsarelli finì di vivere nel 1641, e che la Catena di Adone si cantò qualche anno prima, giacchè egli ebbe agio di raccorne le censure e replicarvi, scagionandosi della mancanza d’invenzione imputatagli, siccome narra L’Eritreo. Ma questo letterato parlandoci di eunuchi sostituiti alle cantatrici nel dramma riferito non mostra che gli spettatori se ne fossero maravigliati, nè scrive di essersi proposto quel cambio come novità. Da ciò si deduce che molti anni prima del 1640 (in cui scrisse Pietro della Valle che erano essi assai comuni sulle scene italiche) gli eunuchi si erano introdotti ne’ nostri melodrammi, Ora riducendo discretamente questi molti anni a soli dodici o quindici, noi risaliremo intorno al 1625, E così se per ora non possiam dire precisamente l’anno del primo melodramma recitato dagli eunuchi, avremo almeno stabilito che l’epoca della loro introduzione sulla scena si chiuda certamente nello spazio che corre dall’anno 1610 al 1625.

In questo periodo adunque l’opera italiana contrasse coll’umanità il demerito di aver tolto ogni orrore alla castrazione, facendo assaporare e premiando esorbitantemente l’artificiale squisitezza delle voci. Ma chi sa quando l’Italia si purgherà di tal macchia colla gloria di bandir dalle sue scene la nojosa uniformità recatavi dagl’invincibili pregiudizii di tali attori che per tanto tempo ne ha scemato il diletto? Ciò avverrà appunto quando scosso il volontario stupore gli uomini giungano a comprendere che oltre a i Tenori con tanto diletto ascoltati, le dolcissime naturali voci delle femmine fanno in iscena, senza che si violenti la natura, quanto mai sanno eseguire le non naturali de’ castrati. Noi nel nostro secolo XVIII ne abbiamo avuti luminosi esempli nella Cuzzoni, nella Tesi, nella Faustina, nell’Astroa, nella Mingotti, nella Gabrieli, nella Toti, nella Bandi, nella Correa Spagnuola. Soprattutto quale concepibile superiorità non avea Angelica Bilington sopra il castrato Mattucci sul nostro teatro di San Carlo, tutto che questi avesse una voce eccellente?

E forse di tali esimie voci femminili mancarono nell’età passata? Sin dal principio del secolo si ammirarono singolarmente la romana Caterina Martinella morta in Mantova nel 1608, la Caccini, le Lulle Giulia e Vittoria, la Moretti, L’Adriana ecc. Oltre alle prelodate Checca della Laguna e Margherita Costa, Erirreo ne nomina un’altra come una delle più eccellenti de’ tempi suoi, cioè Leonora Baroni figlia della nominata bella Adriana di Mantovaa. Non incresca al lettore di udire con qual trasporto favelli di questa Leonora un intelligente di musica che l’avea più volte ascoltata.” Ella è fornita d’ingegno e di ottimo gusto, capace di discernere la buona dalla cattiva musica, intendendola benissimo ed avendo anche composto alcuna cosa, ond’è che canta con fondamento e sicurezza. Esprime anche e pronunzia perfettamente. Non si pregia di esser bella, ma senza essere civetta sà piacere. Canta con pudore ma franco, con modestia ma nobile e con grazia e dolcezza. La voce di lei è soprana distesa, giusta, sonora, armoniosa. Ha l’arte di addolcirla e rinforzarla senza stento, senza far visacci, boccacce, storcimenti ”… » I suoi slanci e sospiri non son punto lascivi: gli sguardi nulla hanno di impudico: il gestire proprio di una donzella onesta. Passando da un tono all’altro fa talvolta sentire le divisioni de’ generi enarmonico e cromatico con tal destrezza e leggiadria che incanta tutti ”a. Che se tanto può attendersi dallo studio delle donne, quali vantaggi maggiori ne presentano le voci de’ castrati, perchè non abbiano a sbandirsi dalle scene italiche? Sarebbe tempo che l’arte e la natura oltraggiate rivendicassero i loro dritti. Un filosofo Italiano per amor dell’umanità impiegò le sue meditazioni per salvar dalla morte gli uomini rei  or non sarebbe ancor meglio impiegata la voce de’ veri dotti a muovere la potenza e la pietà de’ principi spagnuoli ed italiani per salvar tante vittime innocenti dalla spietata ingordigia che consiglia e perpetua sì barbara ed umiliante mutilazionea ?

Giacinto Andrea Ciccognini fiorentino mostrò tanta inclinazione alle cose teatrali, che, oltre allo studio che pose in inventare o tradurre varii drammi, non eravi compagnia comica ch’egli non conoscesse, nè attore abile di cui non cercasse l’amicizia. Arrivò a tal cecità che è fama di aver pensato una volta a dare un suo figliuolo in potere di Frittellino notissimo attore di que’ tempi perchè apprendesse da lui l’arte di rappresentarea. Coltivò ancora il dramma musicale, e ne compose uno assai allora applaudito nelle nozze di Michele Porretti principe di Venafro e di Anna Maria Cesi fatto rappresentare con magnificenza reale. Nel suo Giasone pubblicalo nel 1649 interruppe il recitativo con quelle stanze anacreontiche le quali diconsi arie usate ancor prima di lui dal Testi, dal Salvadori e dal Rinuccini, c prima di tutti dal Notturno nel XV secolo.

Ma una filza inutile di nomi di scrittori di opere in musica di tal secolo sarebbe una narrazione ugualmente nojosa per chi la legge e per chi la scrive. Essi furono assaissimi e quasi tutti al di sotto del mediocre, se si riguardi ai pregi richiesti nella poesia rappresentativa. Furono i loro drammi notabili per le sconvenevolezze, per le irregolarità, per le apparenze stravaganti simili a’ sogni degl’infermi, per un miscuglio di tragico e di comico e di eroi, numi e buffoni, per istile vizioso , in somma per tutto ciò che ottimamente vi osservò il prenominato abate Arteaga. Di maniera che allora non fu il dramma musicale italiano meno stravagante che le rappresentazioni spagnuole, inglesi ed allemanne. Solo è da notarsi che ne’ primi tempi l’opera tirava i suoi argomenti dalla mitologia, la quale agevolmente apprestava di grandi materiali per le decorazioni e per le macchine che maravigliosamente si eseguivano da insigni artefici. Si rivolse poi a ricavarli dalla storia, pigliando il miglior sentiero  ma pure la poesia vi avanzò poco, e lo spettacolo scemò di pregio per l’apparato. I primi ad esercitarvisi non ne acquistarono nome migliore. Appena possiamo eccettuar dalla loro calca, il dottor Giovanni Andrea Moniglia lettore in Pisa satireggiato da Benedetto Menzini sotto il nome di Curculione a Egli fu poeta nella corte di Toscana, e morì all’improvviso nel settembre del 1700. I di lui melodrammi ebbero allora gran voga, ed oggi appena si sa che si rappresentarono. Anche il Lemene cavaliere lodigiano poeta non dispregevole ad onta de’ difetti del suo tempo, compose melodrammi non cattivi. Ne compose anche il Capece, il Minato poeta della corte di Vienna, ed Andrea Perruccì siciliano autore della Stellidaura impressa nel 1678 e cantata nella sala de’ vicerè in Napoli e dell’Epaminonda impresso e cantato nel 1684. Laonde non ci tratterremo su tanti altri melodrammatici rammentati dal Mazzucchelli, dal Crescimbeni: e dal Quadrio, nè sull’Achille in Sciro del marchese Ippolito ferrarese rappresentato in Venezia nel 1663, nè sull’Attilio Regolo del veneziano Matteo Noris impresso nel 1693 in Firenze, i quali illustri nomi de’ tempi andati attendevano un ingegno assai più sublime per trionfar sulle scene musicali. Accenneremo solo di passaggio che Alessandro Guidi pavese dagli Arcadi convertito alla buona poesia, scrisse prima della sua conversione letteraria l’Amalasunta in Italia rappresentato in Parma nel 1681. Nè passeremo oltre senza aver fatto motto dell’opera buffa che si coltivò con qualche successo e forse con molto minore stravaganza anche per la poesia, come si vede nelle Pazzie per vendetta di Giuseppe Vallaro, nel Podestà di Coloniola, nelle Magie amorose del nominato Giulio Cesare Sorrentino vagamente decorato, e nel piacevole componimento allegorico di due parti la Verità raminga di Francesco Sbarra.