(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VIII « STORIA CRITICA DE’ TEATRI ANTICHI E MODERNI. TOMO VIII. LIBRO VIII. Teatri d’oltramonti nel secolo XVIII. — CAPO I. Teatro Francese Tragico. » pp. 4-111
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VIII « STORIA CRITICA DE’ TEATRI ANTICHI E MODERNI. TOMO VIII. LIBRO VIII. Teatri d’oltramonti nel secolo XVIII. — CAPO I. Teatro Francese Tragico. » pp. 4-111

CAPO I.

Teatro Francese Tragico.

Decadendo l’arte di Sofocle in Italia, e perdendosene le tracce nelle Spagne per l’intemperanza della scuola Lopense, mentre Cornelio e Racine l’innalzavano in Francia assai dappresso al punto della perfezione, una folla di loro imitatori nel seguirli sempre senza raggiungergli ne ripetevano i difetti più che le bellezze negli ultimi lustri del secolo XVII, e ne’ primi del XVIII. Racine singolarmente che avea scoperto il miglior camino, e prodotto l’Atalia, il capo d’opera della tragedia francese, senza avvilirla colla galanteria, avea cominciata una Ifigenia in Tauride, nel cui piano non entravano amori. Ma egli lasciò le occupazioni teatrali prima di depurar del tutto la tragedia, e la scena francese, dopo di lui si riempì della morale dell’opera di Quinault a. Alcibiade (aggiunge il citato autore), Amestri, un Agnonide, il feroce Arminio, Amasi, un principe persiano nell’Atenaide, prendono il tuono effemminato de’ romanzi di madamigella Scudery, che dipingeva i borghiggiani di Parigi sotto il nome degli eroi dell’antichità. L’epoca de’ Virgilii, de’ Raffaelli, de’ Tassi, de’ Metastasii, de’ Pergolesi, suole esser seguita da una numerosa oscura prole della nojosa mediocrità. Ma la natura ha bisogno di riposo dopo di aver prodotto un ingegno raro.

In tal periodo non pertanto qualche buon talento mostrò d’intendere l’arte della tragedia senza appressarsi ai modelli grandi. Giovanni Campistron nato nel 1656, e morto nel 1723 scrisse diverse tragedie che non cedono per regolarità a quelle di Racine. Esse furono anche bene accolte nella rappresentazione a riserba di Virginia e di Pompea, le quali caddero; il suo Andronico ed il Tiridate restarono al teatro. Ma la lettura riposata è la pietra di paragone de’ drammi, ed essi non passano alla posterità quando mancano di vigore nello stile, di proprietà ed eleganza nella lingua, di armonia nella versificazione, e d’interesse nell’azione; ora in quelli del Campistron si desidera forza, energia, calore ed eleganza.

Diedero allora qualche passo nella poesia tragica La-Fosse, Riouperoux, e la Grange Chancel. Antonio La Fosse detto d’Aubigny nato in Parigi nel 1653, e morto a’ 2 di novembre del 1708, corse la tragica carriera, poichè Campistron avea rinunciato al teatro. La Fosse ne ravvivò il languore, e pieno com’era della lettura degli antichi Greci e Latini, nel 1696 se rappresentare ed imprimere la prima sua tragedia Polissena applaudita e ripetuta, e non per tanto censurata benchè con poco fondamento. Egli contava allora quarantatre anni della sua età. Nel Teseo manifestò ugual sublimità di pensieri, vivacità ne’ caratteri, giudizio nello scioglimento, nobiltà e purezza nello stile, armonia nella versificazione, benchè gli costasse fatiga. Nel Manlio Capitolino formato sulla Venezia salvata di Otwai col trasportare fra gli antichi Romani il fatto recente della congiura del Bedmar contro Venezia, diede un saggio più vigoroso e più deciso de’ tragici suoi talenti, e svegliò nel pubblico, e ne’ posteri viva brama che egli avesse potuto o calzar più per tempo il coturno, o prolongar più la vita.

Riouperoux compose Ipermestra tragedia regolare senza trarre tutto il vantaggio che presenta tale argomento.

La Grange Chancel nato nel 1678, e morto nel 1758 scrisse varie tragedie in istile debole e trascurato, e con viluppo romanzesco. Nel suo Amasi regna una molle galanteria sconvenevole all’argomento della Merope da lui appropriato a’ personaggi della storia dell’Egitto. Si recitò nel 1701. Il Voltaire riconosce nell’Amasi più arte ed interesse, che nella Merope di Jean la Chapelle recitata nel 1683, e non meno deturpato da un amore non tragico. La Chapelle compose anche una Cleopatra non migliore della sua Merope.

A simile mollezza universale seminata nelle tragedie francesi volendo rimediare il Longepierre compose una Elettra tutta sul gusto della greca tragedia, semplice, senza episodii, senza sfigurarne il tragico soggetto con un freddo intrigo amoroso. Ciò però finì di corrompere il tragico teatro francese. Longepierre non lavorava con diligenza i suoi versi, non si elevava con lo stile, non conosceva bene il teatro francese, e la sua tragedia annojò e cadde. I Francesi si confermarono nella credenza di esser passata la moda della greca semplicità, attribuendo al gusto di essa l’effetto della particolar debolezza del Longepierre.

Tale era lo stato della tragedia in Francia, quando cominciarono a fiorire La-Motte, Crebillon, e Voltaire, ne’ quali ravvisiamo caratteristiche diverse, merito disuguale, e difetti contrarii.

Antonio Hudard La-Motte nato nel 1672, e morto nel 1731 era veramente uomo d’ingegno, erudito, e non indegno di ricordarsi con lode; sebbene, al dir del Palissot, egli volle contraffare Omero, Anacreonte, Virgilio, La-Fontaine e Quinault, come la scimia contraffà l’uomo, e sostitui al naturale e al dilicato e al grazioso l’arte ed il bello-spirito, ed il parlar gergone. Nelle quattro sue tragedie i Macabei, Romolo, Edipo, Inès de Castro poco felicemente verseggiate e difettose nella linguaa, gl’imparziali riconoscono merito ed interesse.

Osservasi ne’ Macabei locuzione corrispondente al soggetto, sublime talora, ricca di nobili sentimenti, e lontana dalla generale affettazione di stile da’ Francesi adottata nelle tragedie. Le passioni son dipinte con vivacità; ma l’azione sembra difettosa. In fatti l’eccidio de’ Macabei che avviene nell’atto I, eccita tanta commozione che fa comparir languido il rimanente. Salmonea modello certamente di virtù eroica, è personaggio ozioso sino all’atto V. La condotta della favola merita riprensione per certi racconti intempestivi, per qualche soliloquio puramente narrativo, e per la poca corrispondenza del tempo della rappresentazione con quello degli evenimenti.

Lo stile nel Romolo si risente più che nella precedente del difetto generale delle tragedie francesi, cioè vi si scorge maggior copia delle stesse espressioni poetiche solite ad usarsi da’ Francesi, e più lontane dalla natura. Non può riprendersi che Romolo venga dipinto come innammorato a differenza de’ suoi soldati che altro non cercano se non che una donna; ma al Conte di Calepio sembra incredibile il di lui amore, perchè nato tra’ continui disprezzi di Ersilia. Più fondatamente potrebbe riprendersene la maniera di amare. Tante lagrime, tanta sofferenza, tante angosce sembrano convenire più ad un innamorato francese del tempo che si scriveva l’Artamene, che ad un Romolo eroe guerriero fervido feroce. Non è poi verisimile che Tazio vegga di lontano scintillare i pugnali nel volersi trucidar Romolo, troppo spazio dovendo correre trallo sfoderarsi i ferri e trafiggerlo. Ersilia che nell’atto III dice da parte di avere scritto il biglietto, manifesta mancanza d’arte nel poeta, ed oltre a ciò con poca verisimiglianza e ragione i versi ch’ella profferisce si sentono benissimo dagli spettatori, e non da Romolo.

Nel 1726 La Motte volle produrre un Edipo a, per avventura non contento di quelle tragedie che su di questo personaggio scrissero Corneille e Voltaire. In effetto La Motte purga tale argomento tanto dell’episodio degli amori di Teseo e Dirce, alieni dall’avventura di Edipo, introdotto con mal consiglio dal padre del teatro francese, quanto di quello non meno eterogeneo della galanteria di Filottete che con rincrescimento si legge nell’Edipo del Voltaire. La Motte provvidamente corregge pur anco la favola greca dell’inverisimile ignoranza di Edipo intorno alle circostanze della morte di Lajo. Egli però ne tolse ogni utilità col rendere Edipo pienamente innocente nell’ammazzamento del re di Tebe. Dividendo poi la riconoscenza rende meno meravigliosa la rivoluzione, ed incorre nel difetto del Voltaire. Nè anche si riconosce come vantaggioso alla favola il miglioramento de’ caratteri di Eteocle e Polinice contro l’idea lasciatane dagli antichi. Qual pro da un cangiamento che mena il poeta a lottare colle opinioni radicate negli animi di chi ascolta, e per conseguenza a rendere poco importante, perchè non credibile, la loro generosità verso del padre? Sarebbe lecito introdurre Achille dandogli i costumi di Tersite, ovvero Ascanio o Astianatte che combattesse con Diomede o Ajace?

La più applaudita delle quattro sue tragedie fu senza dubbio l’Inès de Castro mai sempre bene accolta dal pubblico; nè è da dubitarsi dell’asserzione dell’autore che niuna tragedia dopo il Cid siesi rappresentata in Francia con più felice successo, avendosene un testimonio glorioso nell’approvazione che ne diede m. de Fontenelle nel 1732 quando si volle imprimere, j’en ai jugè comme le public . Non saprei dire se La Motte nel comporla avesse avuto presente qualche modello in tale argomento. So però che oltre al poema di Camoens si maneggiò in Lisbona dal Ferreira, ed in Castiglia dal Bermudez e da Mexia de la Cerda, benchè al cospetto della Inès francese spariscano tutte le altre. Lo stile della Ines generalmente è migliore di quello del Romolo; ma essa non ha nè la versificazione nè l’eleganza nè la poesia nè l’abbondanza nè la grandezza nè la delicatezza de’ sentimenti di Giovanni Racine. Esposta questa tragedia alle critiche talvolta giuste spesso maligne de’ semidotti e de’ follicularii invidiosi, ha non pertanto sempre trionfato su i teatri per le situazioni interessanti ben prese e ben collocate di sì patetico argomento. Oltre a ciò che sugeri all’autore la nota sventura d’Inès, egli ne ha renduta vie più lagrimevole la morte, facendo che ottenuta da Alfonso compunto la sospirata grazia ella si trovi impensatamente avvelenata. I plagiarii di professione copieranno questo colpo teatrale del veleno che impedisce il frutto dell’impetrato perdono; ma se non sanno preventivamente commuovere con situazioni e quadri vivaci, che cosa in fine essi si troveranno fralle mani? L’arida spoglia di un serpente che rinnovandosi la depone e si allontana, Riconosce il Calepio in questa favola pregi assai superiori alle imperfezioni che vi si notano; ma non lascia di osservarvi certa mancanza di unità d’interesse, che La Motte nelle sue prose ostentava. Contra il tragico artificio (dice ancora il dotto critico) le belle doti di Costanza distraggono alquanto dall’attenzione che debbesi a quelle d’Inès, Pure potrebbe ciò mirarsi con più equità, e dire che una donna come Costanza rende più compassionevole Inès che non ha neppure ragione di lagnarsi di lei per la virtù che possiede. Riprende altresì di sconvenevolezza ciò che dice la reina nella scena quarta dell’atto I, cioè che all’arrivo di don Pietro in corte gli occhi di lui distratti altro non vi cercavano che Inès; sembrandogli ciò poco verisimile in un marito da più anni possessore dell’oggetto amato. Ma questa censura avrà ben poco peso per chi rifletta che don Pietro è un marito per ipotesi del poeta tuttavia fervido amante, il quale gode fra mille pericoli e sospetti il possesso dell’amata, ciò che dee mantenere sempre viva la sua fiamma.

Il signor di Crebillon nato in Digione l’anno 1674 e morto in Parigi nel 1762, è il primo tragico francese che in questo secolo possa degnamente nominarsi dopo Pietro Corneille e Racine. La sua maniera si distingue da quella dell’uno e dell’altro. Crebillon non eleva gli animi quanto Corneille, non gl’intenerisce quanto Racine; ma gli spaventa con certo terrore tragico assai più vero e con un forte colorito tutto suo. Lontano dalla grandezza del primo non meno che dalla delicatezza ed eleganza armoniosa del secondo, egli non cade però nè nell’enfatico di quello, nè nell’elegiaco di questo. La sua immaginazione piena di forza, di calore e di energia, ma talora troppo nera, lo scorge non di rado nell’aspro e nell’inelegante ed in certe costruzioni oscure, per non dirle barbare col Voltaire. Imita spesso i Greci, e se ne appropria molte bellezze; ma le sue favole assai più complicate delle più ravviluppate delle greche, rendono talora difficile il rinvenirvi l’unità di azione; potrebbero ancora notarvisi varie allegorie, apostrofi, perifrasi poco proprie della scena e della passione. In compenso i suoi caratteri mi sembrano pennelleggiati con molta vivacità. Soprattutto è mirabile e veramente tragico quello di Radamisto nella tragedia che ne porta il nome: il suo Pirro è più grande ancora del Pirro della storia. Grande feroce malvagio ambizioso e politico profondo si manifesta maestrevolmente il suo Catilina, benchè non a torto da Federigo II re di Prussia in una lettera scritta al Voltaire nel febbrajo del 1749 venga tutta la tragedia ripresa per trovarvisi sfigurata la Repubblica Romana ed il carattere di Catone e di Cicerone. Atreo, Tieste, Farasmane, Palamede sono dipinti con molto vigore.

Ciò che nell’Elettra riguarda la vendetta di Agamennone è trattato gravemente e con gran forza; ma quanto impertinenti son poi in tale argomento l’amor di Oreste, e quello di Elettra! Contrario è l’amor di Elettra all’idea del di lei carattere tramandatoci dagli antichi; intempestivo e senza connessione è quello di Oreste per la figliuola di Egisto.

Non per tanto l’Elettra e la Semiramide si reputarono dal medesimo re di Prussia tragedie de toute beautè al pari del Radamisto. A noi, oltre a ciò che dell’Elettra abbiamo detto, non sembra la Semiramide una delle migliori tragedie del Crebillon. Belo in essa è un traditore senza discolpa enunciato come virtuoso. Egli non sapendo se Ninia viva, macchina la rovina della propria sorella, cui, mancando il di lei figliuolo, apparterrebbe il trono. Questa Semiramide poi mal rappresenta la maschile attività e il valore attribuito dalla storia alla famosa conquistatrice reina degli Assiri. A vista della manifesta ribellione de’ suoi ella dimostrasi così inetta che non sa prendere verun partito per la propria salvezza.

Nel Serse si desidera ancora più decoro e più uguaglianza ne’ caratteri. Serse par che avvilisca il padre ed il monarca nell’adoperarsi in pro di un figliuolo favorito per sedurre la principessa innamorata dell’altro da lui non amato. Artaserse nella stessa favola è un carattere incerto, e più d’uno lo reputerà stolto o maligno nel giudicar suo fratello. Stolto o maligno parimente (contro l’intenzione dell’autore) sembra lo stesso Consiglio di Persia che condanna Dario alla morte senza punto sospettar di Artabano, il quale per mille indizii, risulta reo dell’ammazzamento di Serse al pari di Dario. Queste osservazioni non debbono gran fatto diminuire la meritata riputazione di ottimo tragico acquistata dal robusto Crebillon, che pure, come accenna il Voltaire, si vide tal volta in procinto di morir di famea. Possono però additarci la difficoltà di giugnere alla perfezione nella tragica poesia. L’ultima sua tragedia fu il Triumvirato che ha varii pregi, ma che si rende singolarmente degna di ammirazione per essere stata scritta trovandosi l’autore in età di anni ottantuno.

L’altro insigne tragico di cui può vantarsi la Francia nel nostro secolo, è il celebre Francesco Maria Arouet di Voltaire, la cui gloria niuno de’ suoi contemporanei sinora ha pareggiata, non che adombrata. Debbe a lui il coturno non solo varie favole degne di mentovarsi al pari del Cinna, dell’Atalia e del Radamisto, ma una poetica piena di gusto e di giudizio, talora superiore a molte sue favole stesse, sparsa nelle sue opere moltiplici e nell’edizione che fece del teatro del Corneille.

La prima direzione letteraria avuta da’ gesuiti Tournemine, Le Jay e Porèe, l’amistà dell’altro dottissimo gesuita Pietro Brumoy, gl’inspirarono l’amore della bella letteratura greca e romana; le opere del Crebillon e gli applausi che ne riscoteva, gli diedero i primi impulsi ad entrar nella tragica carrieraa.Non ancora avea letto l’Edipo di P. Cornelio a, contando appena ne 1718 anni 19 della sua etàb, quando scrisse e pubblicò il suo Edipo. Il pubblico l’accolse con applauso, e si recitò 45 volte di seguito, rappresentando il personaggio di Edipo il giovane Du Frene che poi divenne assai celebre attore, e quello di Giocasta la valorosa attrice Desmarès. Non ci curiamo di ripetere nojosamente o quanto l’autore scrisse in più lettere nel 1719 criticando l’Edipo di Sofocle, quello del Cornelio ed il proprio, o ciò che in una edizione del suo Edipo del 1729 scrisse contro La Motte. Ci basti dire che Voltaire conservò molte bellezze della greca tragedia, che non seppe scansarne alcune durezze nella condotta della favola, e che l’amoroso episodio di Teseo e Dirce da lui stesso riconosciuto per inutile e freddo nell’Edipo del Cornelio, non bastò a fargli evitare l’antica galanteria di Filottete colla vecchia Giocasta.

La Marianna pubblicata nel 1723 ebbe alla prima un successo poco felice. Il famoso Michele Baron già vecchio che sostenne il carattere di Erode, Adriana Le Couvreur insigne attrice che rappresentò quello di Marianna, le due persone che compresero tutta l’energia di una vivace rappresentazione naturale, e che insegnarono la prima volta in Francia l’arte di declamare senza la solita istrionica affettazione, non bastarono a farne soffrire sino alla fine la rappresentazione. L’uditorio ravvisò non so che di ridicolo nel veleno presentato a Marianna in una coppa. Nel seguente anno l’autore cangiò questo genere di morte in quello onde Ludovico Dolce in Italia fece morire questa reina, e la tragedia si rappresentò quaranta volte. Giambatista Rousseau fece allora anch’egli una Marianna, che fu l’origine della lunga contesa che ebbe con lui il Voltaire. La Marianna Volteriana non è senza difetti. Qualche durezza nella condotta dell’azione mostra nell’autore un’ arte ancora non perfezionata. La dichiarazione di amore fatta da Varo nella scena quarta dell’atto II con tanta poca grazia e fuor di tempo, cioè mentre la reina è in procinto di tutta abbandonarsi alla di lui fede, fa torto al carattere enunciato dell’uno e dell’altra. Innamora non per tanto ed interessa il magnanimo carattere di Marianna. La quarta scena dell’atto IV tra Erode e Marianna mostra egregiamente il bel contrasto degli affetti di uno sposo pieno di sospetti e di crudeltà, ma sensibilissimo ed innamorato, e di una consorte virtuosa che non si smentisce mai. La nobile patetica preghiera che gli fa Marianna, prenez soin de mes fils ec, è maestrevolmente espressa. Viva e teatrale è parimente la scena seconda dell’atto V, in cui ella posta nel maggior rischio della sua vita sdegna di seguir Varo che vuol salvarla.

Giunio Bruto rappresentata la prima volta in Parigi nel 1730 fu composta in Londra, e dedicata a milord Bolingbrooke. Gl’Inglesi e gl’Italiani la tradussero e rappresentarono; ma in Francia non ebbe sulle scene successo felice. L’azione vorrebbe esser meglio accreditata in qualche circostanza, e si desidera spazio più verisimile agli eventi. Nella scena terza dell’atto V Bruto manda i Padri Coscritti e Valerio in Senato; ma nel corto intervallo, in cui si recitano 14 versi, il Senato si è radunato, ha giudicati i ribelli, sono essi andati al supplicio, Tullia si è uccisa, Bruto è stato dichiarato giudice del figliuolo. L’incontro che ne segue sommamente tragico del colpevole Tito con Bruto, compie ogni aspettativa, vedendosi nella quinta scena dipinta egregiamente l’umiliazione di Tito, e la severità di Bruto combattuta dalla paterna tenerezza. Tito confessa l’istante che l’ha perduto seguito da’ rimorsi vendicatori, e cerca la morte, ma prostrato a’ suoi piedi gli domanda un amplesso. Ditemi , aggiugne, ditemi almeno: mio figlio, Bruto non ti odìa; basterà questa parola a rendermi la gloria e la virtù; si dirà che Tito morendo ebbe un vostro sguardo per mezzo de’ suoi rimorsi, che voi l’amate ancora, che alla tomba egli portò la vostra stima. Questa preghiera lacera il cuore di Bruto: oh Roma , egli esclama, oh patria! indi lo condanna e l’abbraccia. Ne traduco per saggio gli ultimi versi:

Procolo, che a morir menisi il figlio.
Sorgi, misero oggetto
Di tenerezza e orror, caro sostegno
Sperato invan di questa età cadente,
Sorgi, abbraccia tuo padre : ei ti condanna,
Ma se Bruto non era, ei ti salvava.
Oimè! del pianto che in sì larga vena,
Sgorga dagli occhi miei, ti bagno il volto.
Va, non t’indebolir: porta al supplizio
Tu quel maschio valor che in me non trovo.
Più Romano di me mostrati a Roma.
Roma di te si vendichi, e ti ammiri.

Le poetiche di tutti i possibili Marmontel, i discorsi, le lettere, le infelici cartucce critiche meditate da’ pedanti nella loro povertà, non vagliono unite in un fascio quattro soli versi di questa scena.

Giva cosi il Voltaire avvicinandosi al Cornelio, al Racine, al Crebillon, mostrando però ne’ tratti del suo pennello una maniera a se particolare. Non gli manca alle occorrenze nè il sublime del creatore del teatro francese, nè la seducente tenerezza del dì lui elegante competitore, nè il maschio vigore tragico dell’autor dell’Atreo e del Radamisto. Ma egli si fa distinguere per l’umanità, pel patetico, per la libertà che regna nelle sue tragedie. Quel tetro e forte che hanno saputo dare alle tragiche passioni il Crebillon e il Voltaire , disse il chiarissimo Giovanni Andres. Io discordo da questo erudito spagnuolo. Il tetro e il forte non è il carattere dell’autore dell’Alzira, della Merope e della Zaira. Crebillon battè un sentiero ben differente da quello del Voltaire, il quale meglio si diffini da se stesso. C’est l’auteur (di se diceva nel discorso premesso all’Alzira) de quelques pièces qui nous ont fait verser des larmes, et de quelques ouvrages, dans les quels, malgrè leur defauts, vous aimez cet esprit d’humanitè, de justice, de libertè qui y regne. Ma che mancherebbe all’opera eccellente sopra ogni letteratura, se i fatti ed i giudizii ne fossero sempre sicuri? Tornando al Voltaire si osserva ancora che egli colla dipintura de’ costumi e de’ riti religiosi delle straniere nazioni ha saputo animare e render nuovi i soliti contrasti delle passioni, e questa novità l’ha preservato quasi sempre (sia ciò detto con pace de’ pedanti che asseriscono il contrario) dalla taccia imputata a’ suoi compatriotti di travestire tutti i personaggi alla francese. In fatti i Tartari e i Cinesi dell’Orfano della Cina, gli Arabi Musulmani e gl’idolatri del Fanatismo, i Romani del Bruto e del Giulio Cesare, i Greci dell’Oreste, si distinguono assai bene fra loro e da’ Parigini. Finalmente i suoi difetti medesimi sono diversi da quelli de’ lodati tragici. Non va nell’ampolloso del Corneille, non nell’elegiaco del Racine, non nell’aspro ed inelegante del Crebillon; ma cade nel brillante e nell’epico fuor di proposito.

La Morte di Cesare in tre atti divisa spogliata di ogni intrigo amoroso e piena di arditezze e di trasporti per la libertà, fu composta dopo il 1730 e prima del 1735 quando s’impresse. Shakespear ed il duca di Buckingam in Londra, l’abate Antonio Conti in Venezia, aveano maneggiato il medesimo argomento senza rassomigliarsi, ma ugualmente senza snervarlo con amori come era avvenuto in Francia nel principio del secolo. Voltaire colà lo ricondusse alla natural dignità in parte seguendo ed in parte correggendo il tragico inglese, ma facendo Bruto ancor più feroce. Inimitabili sono le due scene di Bruto con Cesare, cioè la quinta dell’atto II, in cui Cesare gli palesa di essere di lui padre, e la quarta del III, in cui Bruto supplica il padre a lasciar di regnare. Egli ha migliorato anche l’artificio della parlata di Antonio, facendo portare per ultimo colpo il corpo di Cesare in iscena, che il Shakespear con arte minore fa dimorare sempre alla vista del popolo Romano.

Zaira uscita alla luce nel 1732 fu scritta interamente in ventidue giorni, ed in un solo se ne concepì e dispose il piano. È la sola tragedia tenera composta dal Voltaire, in cui (egli dice) bisognò accomodarsi a’ costumi correnti e cominciar tardi a parlar di amore. Ma quest’amore troppo sventurato contrasta mirabilmente coll’onore e colla religione e colla patria in Zaira, e ne costituisce una persona tragica che lacera i cuori sensibili. Per l’oggetto morale che si cerca in ogni favola, sarebbe in questa la correzione delle passioni eccessive per mezzo dell’infelicità che le accompagna. Ma il Conte di Calepio critico non volgare oppone non senza apparenza di ragione, che essendo Zaira uccisa appunto quando abbracciando la religione de’ suoi maggiori è disposta a rinunziare alla felicità che attendeva dalle sue nozze, sembra che la di lei morte non possa concepirsi come castìgo della sua passione. Intanto questo quadro felice interessa, commuove, ottiene tutto l’effetto che si prefige la tragedia. Non basterebbe adunque rispondere alla proposta censura che non sarebbe questa la prima volta che si facciano giuste opposizioni a’ componimenti giustamente applauditi? Nondimeno la lettura riposata della tragedia toglie alla critica tutta la forza. Zaira è disposta a professare la religione Cristiana; ma non ha soggiogata la sua passione, non ha rinunziato ad ogni speranza. Il suo amore persiste in tutto il vigore. Io mi volgo piangendo a Dio (dice Zaira) ma, o Fatima, ben tosto

                 les traits de ce que j’aime
Se montrent dans mon ame entre le ciel et moi.

Ella non cerca che Orosmane. La medesima passione si manifesta in tutta la sua forza nell’atto V. Chiamata dal fratello col biglietto, Zaira cerca ancor pretesti, e Fatima vuole irritarla contro dell’amante. Che mi ha egli fatto? ella ripiglia, e lo giustifica. Ecco intanto il suo disegno. Vado ad ubbidire, vado a trovar Nerestano:

Mais dès que de Solyme il aura pu partir,
J’apprens à mon amant le secret de ma vie.

L’amore dunque in lei non è mai vinto, si oppone con ugual forza alla religione, ed il di lei castigo può ammaestrare. In fatti lo stato del cuore di Zaira vien dipinto nelle parole di Nerestano e di Fatima nell’ultima scena. Ella offendeva il nostro Dio, dice il primo,

Et ce Dieu la punit d’avoir brûlè pour toi.

Ella (dice Fatima insultando Orosmane) si lusingava che Iddio forse vi avrebbe riuniti! Oimè! a questo punto ella ingannava se stessa!

Tu balançais son Dieu dans son coeur allarmè.

Tutto ciò non mostra l’eccesso dell’invincibile sua passione? E contro questo eccesso non si espone utilmente l’infelice fine di Zaira? Le altre opposizioni di negligenze, di poca verisimiglianza, d’inesattezze fatte a sì bella tragedia in Francia, meritano indulgenza per li pregi che vi si ammirano, pel magnanimo carattere di Orosmane, per quel di Zaira sensibile e virtuoso, per l’altro di Nerestano generoso e nobile, per la dolce ed umana filosofia che vi serpeggia. Io non conosco altro dramma francese che più felicemente ne’ tre ultimi atti vada al suo fine senza deviare e progressivamente aumentando l’interesse senza bisogno di veruno episodio e ricco delle sole tragiche situazioni che presenta l’argomento. Essa vantar può eziandio il merito di essere stata la prima a mostrare sulle scene francesi i fatti della nazione. Shakespear ha preparata la materia della Zaira colla tragedia di Othello, che l’Inglese ricavò dagli Ecatomiti del Giraldi Cintio. Un eccesso di amore forma l’azione dell’una e dell’altra; la gelosia ne costituisce il nodo, ed un equivoco appresta ad entrambe lo scioglimento. Othello s’inganna con un fazzoletto, Orosmane con una lettera; l’uno e l’altro ammazza la sposa e poi si uccide. La Zaira piacque anche in Inghilterra quando vi si rappresentò tradotta da Hille. L’attrice Viber di anni diciotto sostenne con mirabile e colà non usitata naturalezza il carattere di Zaira; quello di Orosmane fu rappresentato da un gentiluomo e non da un attore di professione. In Italia tradotta da Gasparo Gozzi si è recitata con applauso. Tradotta dopo il 1772, in Madrid ed in Aranjuez si recitò con universale ammirazione dalla celebre attrice Andaluzza Maria Vermejo.

Riscuoteva da circa due lustri gli applausi concordi della più colta Europa la Merope del marchese Scipione Maffei, quando Voltaire s’invogliò di tesserne una francese degna di parteciparne la gloria. Nel 1736 egli l’avea già composta, ma si trattenne alcuni anni di pubblicarla, o per non farla comparire mentre si applaudiva l’Amasi di m. La-Grange, in cui sotto nomi differenti si trattava il medesimo soggetto, o per attendere che si rallentasse il trasporto che si aveva per la Merope del Maffei. Comunque ciò sia egli si valse del migliore della tragedia italiana, ma cercò di accomodarla meglio al gusto francese togliendole l’aria di greca semplicità e naturalezza che vi serbò l’autore italiano. Senza dubbio Voltaire ha talvolta sostenuti i caratteri con più dignità: ha dati sentimenti più gravi a’ personaggi: le bellezze de’ passi sono grandi e frequenti in tutta la tragedia: ha preparata benissimo la venuta di Egisto, prevenendo l’uditorio a suo favore: ha giustificato come tratto di politica il pensiero di Polifonte di fortificare la sua usurpazione col matrimonio di Merope: ha variata l’invenzione nell’atto IV, e mantenuti in maggior commozione gli affetti, dipingendo Merope in angustia tale che è costretta dal timore a scoprire al tiranno ella stessa il proprio figlio. Ma la sana critica non lascia di desiderare nel bel componimento francese qualche altra perfezione. Voltaire non ha totalmente scansate nè le scene poco interessanti delle persone subalterne, nè i modi narrativi ne’ monologhi, come sono quelli di Narba e d’Ismenia nell’atto III, nè il parlar da parte usato nel calore del maggior pericolo, come fa lo stesso Narba, ed altri ancora. Nell’interessante scena quarta del medesimo atto III di Merope che crede vendicare in Egisto la morte del proprio figlio, sorge alcun dubbio nell’uditorio mal persuaso. Tu hai all’infelice mio figlio rapita quest’armatura, dice Merope. Questa? è mia, le dice Egisto. Merope tutta commossa meritamente ripiglia: Comment? que dis-tu? Ed Egisto coll’ingenuità che lo caratterizza, je vous jure , le dice,

Par vous, par ce cher fils, par vos divins aïeux,
Que mon pere en mes mains mis ce don prècieux.

Merope sempre più sconcertata,

Qui? ton pere? en Elide? En quel trouble il me jette!
Son nom? parle, rêpons.

Se egli avesse detto che suo padre si chiamava Narba, siccome ella sperava di sentire, avrebbe in lui riconosciuto il suo Egisto. Ma egli dice che suo padre si chiama Policlete, e la reina torna a veder ben lontane le sue speranze; e ciò sarebbe giusto. Ella però senza altro esame si abbandona alle prime furie, lo chiama mostro, perfido, lo fa trascinare presso la tomba di Cresfonte, e gli si avventa per ferirlo. Ciò è senza ragione. La di lui candidezza che tutto confessa, dee almeno toglierle la sicurezza che esige la vendetta; tanto più che non si tratta solo di trucidare un innocente in vece di un reo, ma il figlio stesso in vece dell’uccisore del figlio. Se l’armatura apparteneva all’ucciso, l’ucciso è mio figlio (dir dovea Merope a se stessa): se all’uccisore, io trovo in lui mio figlio. Il nome che non combina, non basta a metterla nello stato di certezza della morte del figlio, potendovi essere diversi possibili pe’ quali l’armatura può essere, come è di Egisto, e colui che si chiama di lui padre, aver preso un nome ignoto alla regina, come è in fatti. L’uditorio dunque non può godere di sì interessante situazione, nè esser commosso quanto nel teatro greco e nella Merope del Maffei per affrettar col desiderio la venuta del vecchio che impedisca l’esecrando sacrificio di un figlio per mano della stessa madre che pensa a vendicarlo. In tal tragedia non è solo questa madre che ragiona male, ragionando assai peggio Polifonte. Usurpatore scaltrito che col matrimonio di Merope procura di mettere un velo agli occhi de’ popoli, non si smentisce apertamente e si dimostra inetto e stupido nel voler ch’ella passi nel tempio insieme col figlio, per costringerla alle abborrite nozze, facendola temere per la di lui vita? Egli dice:

Voila mon fils, madame, où voila ma victime.

Egisto non ambiguamente ha manifestato il suo odio verso di lui. Barbaro, tiranno , l’ha chiamato nella scena seconda dell’atto IV. Va, gli ha detto, quando ha saputo di esser figlio di Merope,

Va, je me crois son fils, mes preuves sont ses larmes,
Mes sentimens, mon coeur par la gloire animè,
Mon bras qui t’eût puni, s’il n’etait desarmè.

Un carattere così eroico, franco, temerario agli occhi suoi, non dovea far tutto temere al sospettoso Polifonte? Stravagante e senza utilità pel tiranno mi sembra la seconda scena dell’atto V, in cui egli vien fuori unicamente per dire all’ardito eroe: vieni a piè dell’altare

Me jurer à genoux un hommage èternel.

Egisto risponde da discendente di Alcide, rendimi il ferro, e ti risponderò, e conoscerai,

Qui de nous deux, perfide, est l’èsclave où le maître.

Ma Polifonte dovea dopo ciò persistere nel matto suo disegno? dovea conchiudere, t’aspetto all’altare,

Viens recevoir la mort, où jurer d’obèir?

Egisto anderà al tempio, ma come? incatenato, o libero? Non incatenato, altrimente non avrebbe potuto, come indi avviene, avventarsi al tiranno. Ma sé libero, Polifonte non dovea temere di un giovane sì intraprendente che senza armi ancora l’ha insultato? Incatenato poi o libero non dovea egli temere ancora che la di lui presenza commovesse un popolo così affezionato alla famiglia di Cresfonte? Alcuna di tali riflessioni non isfuggì al più volte lodato Calepio, e mal grado della di lui parzialità per la Merope Volteriana, non potè lasciar di dire che nel miglior punto della passione rimane una fantasima, una chimera . Ciò dovettero vedere eziandio i Parigini allorchè si rappresentò, giacchè sappiamo dalla critica che ne usci subito, che l’atto V punto non piacque. Se queste riflessioni imparziali parranno ben fondate, veggano certi eleganti ma ciechi panegiristi de’ drammatici francesi qual vantaggio essi rechino alle belle arti e alla gioventù col coprir di fiori i loro difetti.

L’epoca della pubblicazione e rappresentazione del Fanatismo o Maometto è dopo il 1740, benchè in una edizione del 1743 si dice composta fin dal 1736 e mandata allora al principe reale poi re di Prussia Federigo II. Tanto su questa tragedia disse lo stesso autore nelle sue prose or parlando al nominato sovrano or sotto il nome di altri più volte sino al 1743; e tanto con varia critica ne favellarono i giornalisti di Francia, e con maestria l’abate Melchiorre Cesarotti ed altri eruditi esteri ed italiani; che certi sedicenti profondi pensatori (i quali non pertanto galleggiano come cortecce di sughero in ogni materia), quando non vogliano ripetere al loro solito senza citare, non saprei che cosa potranno dir su di essa, come millantano, in vantaggio dell’arte drammatica. Noi seguendo il nostro costume quello ne diremo che possa darne la più adeguata idea, non pensando servilmente con gli altrui pensieri, nè vendendogli per nostri quando ci sembrino giusti.

Il Maometto tralle tragedie è quello che fu tralle commedie il Tartuffo, cioè un capo d’opera ammirato per sentimento dagl’imparziali e screditato e proibito per cabala degl’impostori, per gelosia di mestiere e per naturale malignità de’ follicularii. Voltaire che in simili opere spendeva talora pochi giorni, si occupò a perfezionare il Fanatismo intorno a sei anni. Egli riuscì a farne un’ opera eccellente da tenere forse il primato tralle sue tragedie, colla copia delle idee nuove ed ardite, colla pompa dello stile, colle immagini nobili e tratte sempre dal soggetto, colle situazioni meravigliose che portano il terrore tragico al più alto punto, coll’interesse sostenuto che aumenta di scena in iscena, coll’unione in un quadro grande ottimamente combinata di caratteri robusti animati colla forza del pennello di Polidoro e colla copia spiritosa del Tintoretto. Egli è vero che nella condotta dell’azione si desidera qualche volta più verisimiglianza: che non sempre apparisce dove passino alcune scene: che l’unità del luogo non vi si osserva: che l’azione procede con certa lentezza nell’atto II: che i personaggi talora entrano in iscena non per necessità, come dovrebbero, ma per comodo del poeta. Ma molte scene inimitabili invitano i più schivi a leggere e ad ascoltare il Maometto. Tali sembrano con ispezialità le seguenti. La quarta dell’atto I di Zopiro ed Omar in cui si disviluppano i caratteri e si prepara egregiamente la venuta di Maometto; la quinta dell’atto II sommamente maestrevole onde riceve le ultime fine pennellate il di lui ritratto, facendo che egli abboccandosi col suo gran nemico deponga la maschera e manifesti i grandi suoi disegni, e lo chiami a parte dell’impero mostrandogli la necessità che non gli permette altro partito; quelle dell’atto IV di Zopiro con Seide e Palmira, e singolarmente la quinta della riconoscenza, la quale se non è nuova, almeno avviene in una situazione ben patetica e non usitata; e finalmente l’interessante terribile scioglimento che rende sempre più detestabile il carattere del ben dipinto impostore.

Coloro che hanno veduto nel Maometto mille difetti mentre i Parigini si affollavano ad ascoltarlo, ed in seguito veniva dagli altri popoli pregiato, imputarono ad errore l’introdurre un personaggio sì scellerato qual è l’Arabo profeta impostore. Essi non hanno discordato dall’abate Giovanni Andres che per suo particolare avviso vorrebbe banditi dal teatro moderno i traditori, gli empii, i furbi solenni ec. La scena che richiede somma varietà, correrebbe rischio di rimaner presto senza spettatori riducendosi a que’ pochi argomenti atti a maneggiarsi senza bisogno di frammischiarvi scellerati che contribuiscono ad esercitar l’eroismo e la virtù in mille guise e a dar fomento all’energia delle passioni ed in conseguenza a mantenervi la vivacità che ne sostiene l’interesse. L’esempio dell’antichità più venerata, e de’ Francesi ne’ loro giorni più belli, e del rimanente dell’Europa che se ne vale, risparmia alla gioventù quest’altra inutile catena dell’ingegno che produrrebbe una nuova sorgente di sterilità. E quanto all’Arabo impostore essendo accreditato dalla storia stessa che tale l’ha a noi tramandato, e migliorato dall’arte del pittore, non può che inspirare per lui tutto l’orrore agli occhi dello spettatore per farlo detestare, e servire all’oggetto tragico.

Parve soprattutto una pericolosa e scandalosa rappresentazione a taluni quella di simile scellerato felice e trionfante a spese della virtù disgraziata. Lo stesso autore pensò di soddisfare a questa censura, mostrando che la passione amorosa gareggia in Maometto colla sua ambizione, e che la perdita di Palmira ed i rimorsi che in lui si svegliano alla vista del di lei sangue, danno a vedere al popolo lo spettacolo di un uomo potentissimo e non pertanto infelicissimo. Noi osiamo aggiungere qualche cosa alla stessa difesa del Voltaire. Perchè si cerca che lo scelerato rimanga punito sulla scena? Certamente per ricavarsene un frutto morale da far detestare il vizio ed amar la virtù. Ma l’autore del Maometto si prefige d’inspirare tutto l’abborrimento pel fanatismo, il quale abusa della religione e toglie l’orrore a’ più atroci delitti in pregiudizio della virtù. Il frutto morale dunque di questa tragedia è manifesto essere di prevenire gl’incauti contro l’illusione della superstizione; e per conseguenza la di lei rappresentazione lungi dell’essere scandalosa e pericolosa, diviene istruttiva ed utile alla società, malgrado della prosperità di uno scellerato.

L’Alzira una delle migliori tragedie del Voltaire composta e rappresentata dopo del Maometto era stata dedicata alla celebre marchesa du Chatelet autrice delle Istituzioni di Fisica secondo la filosofia di Leibnitz, e della traduzione de’ Principii del Newton, la quale terminò di vivere in agosto del 1749. In sì bel contrasto de’ costumi Americani ed Europei l’autore si prefisse il più bel fine a cui siesi elevata la tragedia, cioè mostrare quanto la forza della virtù della religione Cristiana che consiste nel perdonare ed amare l’inimico, sovrasti a tutte le virtù del gentilesimo. Quest’eroismo Cristiano trionfa nel perdono che dà il moribondo Gusmano all’idolatra che l’ha ferito a morte. Questo disegno non può abbastanza lodarsi; ma il Conte di Calepio stima che Voltaire non ebbe questo disegno prima di comporla, giacchè ne prese il titolo da Alzira e non da Gusmano. A me però punto non sembra che il titolo di Alzira cangi la veduta segnalata dall’autore. Alzira è l’anima e la sorgente dell’azione eroica di Gusmano; Alzira ama vivamente e mette in contrasto ed attività l’amore di Zamoro e di Gusmano; Alzira senza volerlo muove Zamora a danni del suo rivale; Alzira dà il più vivace colore ed il carattere di sublimità all’eroismo Cristiano di Gusmano, perchè s’egli non l’amasse sì altamente, il concederla al rivale sarebbe un’ azione non molto straordinaria; Alzira dunque porta giustamente il titolo di questa favola, e mostra che il disegno dell’autore fu bene di rilevare al possibile l’eroismo Cristiano e renderlo trionfante agli occhi dello spettatore.

Sempre ne’ piani delle favole del Voltaire si desidera che ne sieno le circostanze più verisimilmente accreditate; sempre si vorrebbe che l’autore si occultasse meglio ne’ sentimenti de’ personaggi; ma sempre in compenso vi trionfano l’umanità, l’orrore al vizio, l’amore della virtù. Alzira, Zamoro, Gusmano ed Alvaro sono personaggi che non si rassomigliano ne’ costumi, nelle debolezze e nella grandezza d’animo; ma sono ugualmente dipinti colla tragica espressione di Raffaello e col vivace colorito di Tiziano. Quella meravigliosa opposizione di sentimenti che anima le più semplici favole, spicca soprattutto negli affetti di Zamoro e di Alzira. Quel contrasto di gioja e di dolore che passa nell’animo di Alzira al ritorno di Zamoro creduto morto, rende eccellente la scena quarta dell’atto III:

Alz.

O jours! o doux momens d’horreur empoisonnès!
Cher et fatal objet de douleur et de joie.
Ah Zamore, en quel tems faut il que je te voie!

Zam.

Tu gemis, et me vois!

Le cristiane espressioni piene di nobiltà e grandezza del moribondo Gusmano meriterebbero di essere quì trascritte, ma ci contenteremo di un sol frammento rapportandolo colla bellissima traduzione dell’elegantissimo p. m. Giuseppe Maria Pagnini. Ravvisa, dice Gusmano a Zamoro,

De’ Numi che adoriam la differenza;
I tuoi han comandata a te la strage
E la vendetta, il mio, poichè il tuo braccio
Vibrommi il colpo micidial, m’impone.
Ch’io ti compianga e ti perdoni.

Alv.

Ah figlio,
La tua virtude al tuo coraggio è pari!

Alz.

Qual cangiamento, eterno Dio! qual nuovo
Sorprendente linguaggio!

Zam.

E che vorresti
Forzar me stesso al pentimento?

Gus.

Io voglio
Anche di più : forzar ti vò ad amarmi.
Alzira insino ad or non è vissuta
Che sventurata per le mie fierezze,
Pel maritaggio mio. La moribonda
Mia man fralle tue braccia or la ripone.
Vivete senza odiarmi.

La Semiramide rappresentata nel 1748 non ismentisce la forza e la maestà dello stile di Voltaire, e le situazioni tragiche vi si veggono animate dalla pompa della decorazione. Tutta l’azione però è fondata sull’apparizione dell’ombra del re Nino intento a vendicarsi di Semiramide per mano di Ninia suo figliuolo che ignoto a se stesso vive sotto il nome di Arsace. Questa macchina prediletta del teatro spagnuolo e dell’inglese, mi sembra nella tragedia francese meno artificiosaa dell’ombra di Dario ne’ Persi di Eschilo. Il poeta greco la rende interessante per la Persia e per la Grecia; per la Persia coll’insinuare per bene del pubblico sentimenti di pace al suo successore, e per la Grecia col mettere con bell’arte le lodi de’ Greci in bocca dello stesso suo nemico. Ma l’ombra di Nino non ha altro oggetto che la vendetta di un delitto occulto, utile oggetto veramente all’istruzione dello spettatore, ma inferiore a fronte dell’interesse politico della tragedia nazionale di Eschilo. Soffre poi l’ombra di Nino molte e rilevanti opposizioni. In prima un’ ombra che apparisce nel più chiaro giorno alla presenza de’ principi, de’ satrapi, de’ maghi e de’ guerrieri della nazione, riesce così poco credibile al nostro tempo, che lascia un gran voto nell’animo dello spettatore e non produce l’effetto tragico. In secondo luogo manca di certa nota di terribile che simili apparizioni ricevono dalla solitudine e dalle tenebre che l’accreditano presso il volgo, e contribuiscono a far nascere o ad aumentare i rimorsi de’ colpevoli di grandi delitti. Oltre a ciò essa distrugge le speranze de’ penitenti, vale a dire di quasi tutti gli uomini; perchè una vendetta atroce che si avvera dopo tanti pentimenti, scoraggia senza riscatto tutti coloro che hanno perduta l’innocenza; e nell’Olimpia dice acconciamente l’istesso Voltaire,

Helas! tous les humains ont besoin de clemence.
Dieu fit du repentir la vertu des mortels.

Osserviamo parimente che simil piano si propone una solenne atrocità. Gli dei che vogliono vendicar la morte di Nino, ne ordinano l’espiazione con un parricidio? Il Gran Sacerdote enunciato come santo, intero, virtuoso, anima Ninia a passare il seno di una madre? Si dice, è vero,

Au sacrificateur on cache la victime,

Ma intanto Ninia sa che la madre è la rea. Nino l’accusa e vuol vendetta ed invita il figlio alla sua tomba; or questi dee saper qual sarà la vittima. Ma se Ninia può ignorarlo, non l’ignora il Gran Sacerdote, ed approva il parricidio come un’ azione lodevole e dal cielo desiderata, e dice dopo il fatto,

Le ciel est satisfait; la vengeance est comblèe.

Che empio Sacerdote! Qual è maggiore scelleraggine, fare avvelenare un marito, o condurre un figlio a trucidare sua madre? Si dirà che si vuole impedire un incesto; ma Semiramide non conosce Arsace per suo figlio, ed Arsace è virtuoso ed innamorato di un’ altra, or non bastava di far loro sapere l’arcano? Il poeta si è perduto nel suo piano, e dà la più atroce idea della divinità. In oltre tutte le situazioni tragiche non hanno un solido fondamento. Qual sicurezza ha Ninia del delitto della madre? La lettera di Nino moribondo a Fradate non dice altro se non che: io muojo avvelenato, e soggiugne ma criminelle èpouse senza addurne nè indizio nè prova. Lascio poi che manca nelle circostanze dell’azione cert’arte che l’accrediti. Meglio combinata col mausoleo si vorrebbe nella scena sesta dell’atto III la sala dell’assemblea nazionale. Soprattutto dovrebbe mostrarsi evidente la necessità che obbliga Semiramide ad entrare nel mausoleo. Non ha ella altri mezzi più certi e più efficaci per liberare il figlio e punire Assur? L’evento tragico che ne segue, per non essere ben fondato, non persuade, e non produce pienamente l’effetto che si cerca. Lo sforzo dell’ingegno consiste nel ben concatenare i pensieri co’ fatti in guisa che gli eventi sembrino fatali e facciano pensare allo spettatore, che posto egli in quella situazione si appiglierebbe all’istesso partito, e soggiacerebbe a quel medesimo infortunio. E per ultimo si noti che Assur dice a Ninia al comparire Semiramide spirante,

Règarde ce tombeau, contemple ton ouvrage.

Ma come ha colui saputo ciò che si è passato dentro del mausoleo? come sa egli che la reina muore per mano di Ninia?

Voltaire che avea ricavate le precedenti favole dal Dolce, dal Shakespear, dal Conti, dal Maffei, pensò all’argomento della Semiramide o per la celebre tragedia del Manfredi, o almeno per l’Astrato di Quinault, o per la Semiramide del Metastasio o del Crebillon, che egli in una epistola a mad. di Pompadur chiamò suo maestro . Quest’ultimo scrittore col Triumvirato, coll’Elettra, coll’Atreo apprestò ancora la materia alla di lui Roma salvata recitata nel 1752, all’Oreste, ed a’ Pelopidi. Trasse anche Voltaire gli Sciti dall’Arminio indi intitolato i Figli de Cheruschi. Venne da una novella spagnuola la sua Zulime, i cui due ultimi atti deludono le speranze che sorgono da i precedenti. L’Orfano della China rappresentata nel 1755 non è la stessa azione dell’Eroe Cinese del Metastasio; ma a quest’opera si rassomiglia per l’eroico carattere di Zamti. L’Olimpia in cui trovansi scene molto interessanti, venne dalla Cassandra del sig. La Calprenede.

Scrisse anche l’autore dell’Erriade i Guebri, Erifile il cui piano gli costò moltissimo senza interessare abbastanza sulla scena, Ericia ossia là Vestale, Artemira disapprovata dal medesimo autore, Adelaide, ed il Duca di Foix tragedie mediocri di fatti nazionali; e Tancredi intrigo condotto con poco verisimili reticenze, ed in cui una parola di più scioglierebbe gli equivoci, e torrebbe Tancredi di augustia. Poteva in questa essere una cautela, benchè inutile, il tacere che fa Amenaide il nome di Tancredi nel biglietto che la rende colpevole; ma la dichiarazione interrotta dallo svenimento, indi dal ringraziamento che Tancredi non vuole ascoltare, lascia il lettore poco soddisfatto. Argiro troppo poco si sforza di sapere con distinzione l’apparente delitto della figlia; ella mal si difende; i giudici non mostrano la convizione del delitto. La concione di Orbassan della prima scena pieno di nobile indignazione al vedere la Sicilia in preda all’avarizia, alla ferocia e alla rapacità degli Arabi, de’ Greci, de’ Francesi e de’ Germani, ha certo che di grande:

Grecs, Arabes, Français, Germains, tout nous dèvore;
Et nos champs malheureux par leur fèconditè,
Appellent l’avarice et la rapacitè
Des brigands du midi, du nord et de l’aurore.

Nobile e proprio de’ tempi della cavalleria è pure il bell’orgoglio di Amenaide nella scena quinta dell’atto IV: lui me croire coupable!… il devoit me connoître . Ma sopra ogni altra cosa l’ultima scena è delicatamente toccata co’ più patetici colori nella morte dell’eroe.

Sabatier des Castres nel libro de’ Tre secoli decide che Alzira, Maometto, Merope e Zaira non sono comparabili con Cinna, con gli Orazii, con Poliuto e con Rodoguna. Questa decisione magistrale punto non ci trattiene dall’affermare che tralle migliori del Corneille e del Racine possono senza svantaggio veruno comparire queste cinque Volteriane, Alzira, Maometto, Zaira, la Morte di Cesare, Bruto. Dopo di queste meritano il titolo di buone Merope, Marianna, Roma salvata, Oreste, l’Orfano Cinese, Edipo, Semiramide, Tancredi, Olimpia. Tutte le altre costituiscono a’ nostri sguardi una terza classe di tragedie meno perfette e vigorose, sebbene vi si veggano varii tratti eccellenti del maestrevole suo pennello. Noi non abbiamo dissimulati alcuni difetti delle migliori sue favole, affinchè la gioventù non creda di trarre da si ricca miniera mai sempre oro puro; ma tralasciamo di spaziarci sulle altre più abbondanti di difetti che di bellezze. Il sagace osservatore manifesta con diletto le bellezze, lasciando alla critica comunale l’enumerazione de’ difetti. Anche i fanciulli sanno notare la mano con sei dita in una figura di Raffaello; ma il tragico del suo pennello, l’espressione inimitabile, la maestosa semplicità, la correzione del disegno, la verità del colorito, la vaghezza del chiaroscuro, non si sentono da chi non conosce l’arte. «Tutti coloro (diceva l’istesso Voltaire) che si vogliono far giudici degli autori, sogliono su di essi scrivere volumi; io vorrei piuttosto due pagine sole che ce ne additassero le bellezze.»

Poche altre tragedie di questo secolo sono da riporsi tralle bene accolte in teatro, e pochissime tralle applaudite con giustizia. Voltaire sostenne l’onore di Melpomene sulla Senna, a dispetto del cicaleccio de’ famelici impudenti gazzettieri pronti a sparger menzogne e tratti maligni sulle opere acclamate di coloro che non sono nel numero de’ loro benefattori. Una folla di bastardi Volteriani scimieschi apportarono su quelle scene la decadenza, ed il gusto inglese ne accelerò la ruina, coprendole di mostruosità, di orrori, di ombre, di sepoleri e di claustrali disperati, che in vece di toccare il cuore spaventano e fanno inorridire.

Non mancarono negli anni seguenti alcuni che cercarono di battere alla meglio il dritto sentiero. Guymond de la Touche nato nel 1729 in Chateu-Roux nel Berrì e morto nel 1760 in Parigi, compose una Ifigenia in Tauride, nella quale immaginò a suo modo lo scioglimento. Fu molto bene accolta in teatro, e vi rimase per varie situazioni interessanti, e singolarmente per l’atto III in cui si maneggia con energia la contesa di Pilade ed Oreste, e pel IV in cui segue la riconoscenza di Oreste ed Ifigenia. Non ostante l’autor giovane non ancora avea acquistata l’arte di pulir lo stile e di tornir meglio i suoi versi; ond’è che nella lettura che se ne fece, gli si notò la durezza della versificazione e la scorrezione dello stile. Da prima, a quanto ne dicono i nazionali, avea egli dato un figlio al re Toante facendolo innamorato d’Ifigenia. Ma il signor Collè dotato di gusto migliore gli avvertì che tali amori raffreddavano argomento sì tragico. Sentì La Touche la giustezza della critica, ed in otto giorni soppresse quel personaggio ozioso e quell’amor freddo.

Il maestro della Poetica Francese il sig. di Marmontel morto di ottanta anni ritirato a Gallion l’anno ottavo della Repubblica Francese, si provò più volte a calzare il coturno. Nel Dionigi sua prima tragedia, secondo l’espressione di Palissot, non tutti ravvisarono in lui la mancanza di gusto, e que’ difetti che gli furono poscia rimproverati, e singolarmente la versificazione dura ed ampollosa, le massime sparse a piena mano e senza scelta, le frequenti declamazioni sostituite alla passione. Nel suo Aristomene comparvero tali difetti più manifestamente; Cleopatra si tenne per inferiore alle precedenti; e gli Eraclidi molto più. Così quest’enciclopedista, al contrario di ogni altro, perdeva coll’esercizio; e forse disingannato al fine abbandonò un genere a’ suoi talenti inaccessibile.

Le Miere parigino, il quale secondo il citato Palissot, è a Marmontel quel che Campistron è a Racine, ha prodotto: Idomeneo, Tereo, la Vedova del Malabar, Guglielmo Tell, Artaserse, Ipermestra e Barnevel, tragedie non meno dure e secche di quello che fu la Pucelle di Chapelain. Vedasene un saggio ne’ seguenti versi tratti dal Guglielmo Tell:

Hâte-toi, fais marcher sous diverse conduite
Vers tes divers châteaux notre intrepide èlite,
Tandis qu’avec Waërner moi j’irai sur le Lac…
Je pars, j’erre en ces rocs, où par tout se hèrisse ec.

Saurin cominciò la carriera tragica coll’Amenofi e con Bianca e Guiscardo, le quali rimasero presto di menticate, per essere scritte in istile duro, inesatto, prosaico. Nel suo Spartaco verseggiato nella stessa guisa si osserva alcun tratto robusto, benchè tutti i personaggi introdotti trovinsi al solo Spartaco sacrificati.

Uno de i discepoli Volteriani m. La Harpe cominciò i suoi lavori tragici col Warwick tirando la sua favola dalla storia di questo generale che collocò sul trono britannico Edoardo donde il volle poscia discacciare. Fu egli l’eroe del partito de’ Yorck opposto ai Lancastri. Edoardo ricusò di prendere in moglie una principessa di Francia per cui l’istesso Warwick avea negoziato, e preferì Elisabetta Voodwil, Warwick fu posposto a’ di lei parenti ed amici a’ quali si profusero tutti gli onori e le dignità, di che cercando egli di vendicarsi perì nella battaglia di Barnet. Questi fatti istorichi non ebbero luogo nella tragedia. La sorgente della vendetta meditata da Warwick in questa si rifonde alla competenza nata per una donna amata ugualmente dal re e dal generale, il quale riduce agli estremi il suo rivale, ma penetrato di dolore dal di lui pericolo pentito dimentica che Eduardo è suo rivale, e si sovviene che è suo re. Quest’eroismo si applaudì in teatro, ma si criticò dagli eruditi cui parve che un carattere dipinto per quattro atti come amante vendicativo e geloso e come guerriero furibondo che non respira che vendetta, si cangia repentinamente nel V e diventa eroico e virtuoso. L’autore ebbro del buon successo del primo suo saggio tragico volle ergersi a legislatore del teatro e dare ad intendere che la sua tragedia dovesse tenersi per modello d’arte e di gusto. Discordarono dall’autore gl’intelligenti a dispetto di una lettera ch’egli scrisse al suo maestro Voltaire, in cui amaramente satireggia i difetti allor di moda sulle scene francesi, e profonde un torrente di encomii sul suo protettore. L’arbitro della letteratura francese allora universalmente idolatrato ben conobbe quanto lontano si trovasse La Harpe da’ veri talenti tragici, e quanta fosse la sua arroganza prematura, e la smania magistrale che enunciava da lontano l’autore di tanti volumi precettivi di letteratura e di altre produzioni tragiche mal riuscite e di una traduzione infelice della Gerusalemme del gran Torquato. Voltaire molto finamente in una risposta di poche linee che gli scrisse, accennò con acutezza alcune indiscrete asserzioni del suo allievo pieno di boria, fingendo di approvarle; e senza avventurare qualche inutile lezione che avrebbe senza correggerlo irritato il giovane baldanzoso, lo punì crudelmente , come accennò un gazzettiere, opprimendolo con perfide lodi capaci di condurre il di lui amor proprio a renderlo ridicolo .

Gli applausi riscossi col Warwick diedero a’ fautori di La Harpe grandi speranze. Ma l’istesso Palissot che mostrò all’apparenza di esserne uno, convenne che il rimanente delle sue produzioni drammatiche non corrispose ai voti de’ suoi amici. Pharamond, Timoleon, Gustave, Melanie religiosa disperata, videro appena la luce e disparvero. Non furono più felici nè Coriolano, in cui di più si notano gli accidenti accumolati in un dì senza verisimiglianza, nè Filottete publicata nel 1786 imitata dalla tragedia di Sofocle, quasi volendo rivenire dalle passate stranezze sulle orme de’ Greci, i quali pur si pretende da’ belli-spiriti di essere usciti di moda.

Colardeau altro giovane morto dopo i due suoi saggi tragici Astarbe e Calisto, fu preceduto dalle sue tragedie. Savigny compose la Morte di Socrate che è piuttosto un panegirico di quell’Ateniese che una tragedia. Scrisse anche Irza superiore alle tragedie di Colardeau; ma se ne riprende la versificazione poco armonica e l’ineguaglianza e la turgidezza dello stile. Ducis diede in francese l’Hamlet, Giulietta e Romeo, ed il Re Lear trascritte dal teatro del Shakespear. Sulla tracce di Ma Harpe alcuni altri si rivolsero alla Grecia; e Rochefort produsse una Elettra diversa da quella del Crebillon e dall’Oreste del Voltaire, seguendo Sofocle; Du Puis tradusse il teatro tutto di questo gran tragico; e Prevost quello di Euripide. In ambidue questi scrittori si desiderano i grandi originali greci. Lascio di favellare nè punto nè poco del Nadal, Le Blanc, Pavin ed altri ad essi somiglianti obbliati dalla propria nazione.

Qualche favola tragica meno negletta pubblicarono Madamigella Du Bocage, Ma Place, la Noue, Poinsinet de Sivry, Pompignan e Piron. Du Bocage scrisse le Amazoni che si trova nelle di lei opere impresse in Parigi nel 1788, se non si vede sulle scene. Ma Place trasportò in francese varie favole inglesi e compose Jeanne d’Angleterre, e Adele de’ Ponthieu. La sola sua Venezia salvata riuscì assai nel rapprensentarsi e rimase al teatro. Il commediante Ma Noue morto nel 1761 scrisse Maometto II che rimase al teatro. Voltaire gl’indrizzò un madrigale in occasione del suo Fanatismo. Poinsinet nato in Parigi nel 1735 tradusse varii poeti Greci, e specialmente Aristofane senza averne conservato il calore ed il sale, di che convengono anche i giornalisti francesi. Questo scrittore erudito ha dato anche al teatro Briseida rappresentata con applauso, racchiudendo in essa il piano dell’Iliade, in cui si valse di alcuni ornamenti Omerici. Pubblicò altresì un Ajace inferiore alle precedenti. Palissot ne commenda lo studio d’imitare la nobile semplicità di Giovanni Racine.

Il marchese Le Franc de Pompignan nato in Montalbano nel 1709 si esercitò in più di un genere poetico, ed oltre alla traduzione del Prometeo di Eschilo, compose una Didone, tirando le situazioni principali dalla Didone del Metastasio. Il Voltaire nella satira le Pauvre Diable lo motteggiò, dicendo della di lui Didone,

Le quel jadis a brodè quelque phrase
Sur la Didon qui fut de Metastase.

Scrisse parimente una Zoraide che l’istesso Voltaire non lasciò di mettere in ridicolo. Non a torto però Palissot lodava la versificazione di questo scrittore, cui il signor di Ferney non accordò la sua protezione.

Alessio Piron nato in Digione nel 1689 e morto in Parigi nel gennajo del 1755 fralle altre specie drammatiche coltivò la tragedia, e diede al teatro il Callistene nel 1730 tragedia di semplice viluppo che punto non riuscì sulle scene, e non vi tornò a comparire. Più complicato fu il suo Gustavo Wasa composto nel 1733 che ebbe venti rappresentazioni successive e rimasto al teatro vi si ripete sempre con pari successo. Fernando Cortes si rappresentò nel 1744 senza applauso. Il credito dunque che godè Piron di uno de’ tragici francesi degno di rammemorarsi con onore, vennegli dal Gustavo censurato da alcuni critici di poco conto e difeso dal proprio autore con forza e con buon evento. Tra’ pregi che in esso si notano, è la nobiltà e la virtù che regna in quasi tutti i personaggi, non eccettuandosi il tiranno Cristierno col suo confidente. Ogni atto presenta un punto importante dell’azione; le situazioni sono patetiche senza languidezza e senza esagerazione; lo stile è appassionato naturale e molte volte energico; gli accidenti dall’intervallo dell’atto IV per tutto il V sembrano troppo accumolati riguardo al tempo della rappresentazione; ma a giustificarne la verisìmiglianza non mancano esempi nella storia, e molto meno dee contrastarsi al poeta la facoltà di fingerne, purchè ne faccia risultare il diletto dell’uditorio ed il trionfo della virtù, come appunto avviene nel Gustavo.

Intorno al 1777 o 1778 si produsse con applauso sulle scene francesi Zuma tragedia del sig. Le Fevre, la quale vi si è veduta ricomparire sempre con diletto, e si rappresentò di nuovo nel 1793. È una dipintura de’ constumi selvaggi e spagnuoli in contrasto. La rassomiglianza che per questa parte ha con l’Alzira, non ha nociuto al buon succsso di Zuma. Le situazioni patetiche che vi regnano, l’interesse che produce, la pompa dello spettacolo e dello stile (benchè questo talvolta eccede e cade nell’enfatico) ed il personaggio di Zuma rappresentato in detto anno con molta energia da Madamigella Raucourt, tutto ciò fa che questa tragedia seguiti a ripetersi.

Prima di far parola de’ tragici componimenti prodotti sulle scene della Francia nel formarsi la Repubblica Francese, convien parlare di un altro tragico nato in Parigi, cioè del signor di Belloy morto nel 1775. Benchè privo egli si dimostri di certe qualità che enunciano l’uomo di gusto e d’ingegno, come altresì di ogni conoscenza dell’eroismo e del patetico vero, di naturalezza ed eleganza di stile e di armonia di versificazione; con tutto ciò il di lui Assedio di Calais, e Gabriela di Vergy ebbero una riuscita invidiabile sul teatro, ed i loro difetti non si manifestarono tutti se non nella lettura. Lo spettatore fu indulgentissimo verso questi argomenti domestici, ne’ quali a tutto andare si piaggia la nazione. L’adulatore non manca mai di colpire coll’adulato di buona fede. Ma perchè egli si arroga la gloria di essere stato il primo a recar sulla scena i fatti nazionali? E perchè i suoi compatriotti glie l’accordarono? Di grazia che altro rappresentano i Cinesi da tanti secoli? Che rappresentarono i Greci se non gli evenimenti della propria storia? Che i Latini stessi nella tragedia Scipione di Ennio, nelle Ottavie di Mecenate e di Seneca? Che gl’Italiani ne’ Piccinini, negli Ezzelini, negli Ugolini? Che gl’Inglesi e gli Spagnuoli in quasi tutte le loro favole? Tra’ medesimi Francesi fu egli forse il primo a calcar questo sentiero? Voltaire non l’avea preceduto colla Zaira, col Tancredi, col Duca di Foix, con Adelaide di Guesclin? Questo prurito di primeggiare in un modo o in un altro, quanti non abbaccina? Belloy talmente si appropriò questo vanto che nella prefazione al suo Gastone e Bajardo se ne pavoneggia sino all’estrema noja.

Ma che diremo di quest’altra tragedia parimente di argomento nazionale scritta in istile duro stentato e carico di puerilità? Che Belloy aveva nelle prime favole esauriti i suoi tesori, e che non seppe idear quest’altra senza ripetersi? Sarebbe pure il minor male. Egli cade in essa in assurdi manifesti, non vi guarda verisimiglianza, vi accumola alla rinfusa eventi pieni d’incoerenza, tradisce la storia, oltraggia e calunnia le nazioni straniere, e disonora in certo modo la propria colle impudenti sue menzogne. Gli eroi stessi suoi paesani diventano sotto la di lui penna dispregevoli e piccioli. L’Orazio Coclite della Francia, il famoso Bajardo detto il cavaliere senza paura e senza taccia, sì grande nella storia, nella tragedia apparisce vano millantatore meschino. Che relazione hanno poi colla congiura de’ Francesi gli amori non tragici di Gastone e di Bajardo e di Altamoro verso una Bresciana? Influiscono forse all’azione, o servono solo a renderla pesante e ad arrestarne la rapidezza? Chi può veder senza nausea un uffiziale come Bajardo mandare un biglietto di disfida al suo generale, ed accettarla costui preferendo un litigio privato alla causa del sovrano? Chi leggerà senza ridere la tagliacantonata del Bajardo del Belloy che vuole spaventar Gastone,

Si vous sçaviez le sort de mon prèmier rival!

o la graziosa antitesi di Gastone che abbraccia il rivale e sfodera la spada,

Embrassez un ami …. combattez un rival.

Non si comporta eroicamente Bajardo umiliato chiamando con tanto fasto ed apparecchio i Francesi ad ammirarlo? Egli dice in prosa rimata,

Contemplez de Bajard l’abaissement auguste,
Voyez comme il rempli le devoir noble et juste
Que l’honneur vèritable impose à la valeur,
Et comment un Heros se punit d’une erreur.

Che meschinità! Bajardo chiama augusta la propria umiliazione? Bajardo dà a se stesso il titolo di eroe? Si vede che l’anima di Belloy era ben poco eroica, se prestava tali bassezze a’ personaggi che voleva dipingere come eroi. Non è meno inconsideratamente delineato il carattere del Duca di Urbino enunciato come virtuoso, ma che intanto fin dall’atto I non ignora i tradimenti orditi da Altamoro e Avogadro, e pur gli dissimula, e nell’atto V, parlandogliene Bajardo, egli falsamente risponde di aver sempre sdegnato di comprenderne i segreti. È virtù questa falsità? L’autore che aspirava alla gloria di tragico, avea ben false idee dell’eroismo e della virtù. Ma se egli travide nel dipingere gli eroi ed i virtuosi, non si mostrò più abile in far operare due bassi traditori determinati. Essi vogliono proditoriamente dar la morte a Gastone e a Bajardo; ma intanto uomini sì scellerati non sanno prevalersi delle occasioni trovandosi a quelli dappresso e senza testimoni. V’ è giudizio in tale condotta? Essi attendono l’esito di una mina, di cui si parla sin dall’atto I, da scoppiare nel V. Infallibile, al lor credere, è la riuscita di questa mina; or perchè non attenderne l’evento sicuro? perchè disporre senza bisogno che uno di essi truciderà Bajardo e l’altro Gastone? Questa mina poi fu veramente una scelleratezza meditata da Avogadro? In niun conto. L’ho tolta (dice Belloy) da altre congiure. Perchè dunque mentisce dicendo di aver presi i fatti dalla storia nazionale? Dica piuttosto di prendergli dal fondo de’ suoi ghiribizzi e dallo spirito di menzogna che lo predomina. Un disertore Francese poi che piove dal cielo nell’atto V, scopre la congiura; ed a chi s’indirizza? forse a’ generali Francesi? Non già; ma ad Eufemia figlia del principale congiurato. V’ha in ciò punto di senso comune? Che si dirà poi di quella specie di contradanza che fanno nell’atto IV Gastone, Avogadro ed Eufemia? È una situazione maneggiata con gravità tragica o almeno con intelligenza e pratica della scenaa?

Abbiamo accennate queste poche cose senza curarci del rimanente deriso dal citato giornalista, il quale ne additò anche molte espressioni false, gigantesche e puerili. È piacevole p. e. questa di Bajardo ferito che vuol tornare alla pugna, e dice a’ soldati: Mort je puis vous guider , morto ancora posso condurvi; e quest’altra, in cui scoppiata la mina, si dice di Avogadro e del Disertore morti entrambi nel sotterraneo.

L’un et l’autre à la fois loin du palais en poudre
On vu leur corps èpars emportes par la foudre.

Saprà il Belloy in qual maniera due uomini videro i loro corpi stessi sparsi e trasportati dal fulmine . Rapportiamoci dunque su gli altri di lui difetti nè piccioli nè pochi come poeta a ciò che ne dissero i Francesi stessi, e diamo qualche sguardo a’ di lui maligni errori come storico. La sua favola è posta in mezzo a due baluardi istorici, cioè a una prefazione e ad alcune note stampate nel fine. Nell’una e nelle altre egli pretende giustificare le nere calunnie da lui seminate contro del conte Luigi Avogadro di Brescia, del principe d’Altamura napoletano, del marchese di Pescara, del pontefice Giulio II e di tutta la nazione Italiana.

Il tragico storico (che nè storico nè tragico si manifesta) denigra la fama dell’Avogadro formandone un basso traditore, ed un mezzano della propria figliuola, e con documenti istorici che alla storia contraddicono, pretende avvalorare le sue maligne asserzioni. Avogadro secondo lui è un ribelle. Ma è ciò vero? Avogadro era bresciano suddito de’ Veneziani, perchè Brescia sin dal 1426 si era data alla Repubblica, per le oppressioni che soffriva sotto Filippo Visconti, a cui sempre ricorse invanoa. Ne tennero i Veneziani il governo sino al 1509b. Luigi XII pretensore del ducato di Milano muove a conquistarlo, riporta la vittoria di Ghiara d’Adda, e Brescia atterrita gli si rende. Entranvi i Francesi allora poco capaci di disciplina, e di cattivarsi la benevolenza de’ popoli, abusano del potere, insolentiscono, e diventano, come dice il Muratori, gravosi anche agli amici per la loro arroganza e insolenza massimamente verso le donne , e quasi tutti i cittadini che non potevano più soffrire, al dir del cardinal Bembo, desiderano tornare sotto il dominio della Repubblica. Il conte Luigi viene particolarmente oltraggiato nella persona di un figliuolo dal figliuolo di Gambara natogli di una Francese, implora la giustizia de’ nuovi padroni della città, non è ascoltato, i mali pubblici, e le private offese fanno che si rivolga alla Repubblica, e promette di aprire alle di lei truppe la porta delle Pile. Rientrano i Veneziani in Brescia. Or non si potrebbe con qualche fondamento ribattere la taccia di ribelle che gli s’imputa? Furono ribelli gli Spagnuoli che per sette secoli combatterono contro de’ Mori per iscuoterne il giogo? Ma sia pure Avogadro un ribelle, cioè un suddito oppresso che non ha la virtù della tolleranza, e che disperando di ottener giustizia dal nuovo signore, si ricovera sotto la protezione dell’antico. È però la stessa cosa essere in questa forma ribelle, che scellerato, ruffiano della figliuola, traditore di Bajardo e Gastone, e vile e basso ed assassino ? Questo Avogadro dipinto si neramente è figlio legittimo del Belloy, non della storia. Le scelleraggini, le infamie, gli assassinamenti, le frodi nacquero dal capo di codesto pseudotragico come Minerva da quello di Giove. Nè Avogadro fu un lâche che fuggì quando dovea morir combattendo. I Francesi negli andati secoli sono qualche volta fuggiti ancora. Non fuggirono con Carlo VIII abbandonando precipitosamente un regno? Non fuggì l’istesso Cavaliere senza paura dopo la giornata des Eperons sorpreso dagl’Inglesi, e poi non si rendè prigioniero? Non fuggirono i Francesi sopraffatti in Brescia, e si raccolsero nel castello? Non sempre la ritirata è viltà (lâchetè) mancanza di valore; ed Avogadro diede del suo coraggio non dubbie prove, entrando a viva forza intrepidamente per la porta mentovata. Or è giusto calunniare sul teatro! È questo il bell’esempio da proporsi a’ nazionali per tirar tragedie dalla storia patria?

Non fu Avogadro un traditore, un infame, un assassino, se voglia tenersi presente la storia, ma semplicemente un nemico de’ Francesi. Adunque la crudeltà che usò con lui Gaston de Foix, sembra inescusabile. Belloy calunniandolo attribuisce ad un immaginario suo tradimento la morte che gli fu data, se non per natural crudeltà, almeno per ragion di stato. «Tutto l’esercito (dicesi dell’esecuzione di Avogadro in una lettera istorica su di Gastonea ), chiedeva ad alta voce il supplizio di lui, e del figliuolo… Invano per fuggir l’ignominiosa morte èssi rappresentavano di esser nati sudditi de’ Veneziani….Si ascoltò la politica, e non la giustizia.» «Soprattutto (si aggiugne) veniva compianto il figliuolo, la cui giovanezza, le virtù, il valore ammirato da Gastone stesso, meritavano sorte migliore. Egli punto non era reo, avendo soltanto seguito la natura ed il suo dovere.» Si descrive in seguito con tratti compassionevoli la gara del padre e del figliuolo per morir prima, ed il dolore del popolo intenerito. «A questo spettacolo (dicesi in fine della lettera) il duca di Nemours che sentiva commuoversi, e credeva necessario il rigore, fe un segno, e le due teste caddero a’ piedi suoi. Fu ciò un’ ombra che si mischiò al lustro del trionfo; ma i Francesi non videro che il trionfo.» Se il Belloy per natura, e per istudio fosse stato disposto alla tragedia, non avrebbe cercato di approfittarsi di questo tratto istorico proprio del coturno narrato da un suo nazionale? Ma il Belloy intento a calunniare la nazione italiana si sdegna contro l’autore delle Vite degli uomini illustri, perchè volle rendere interessanti il traditore Avogadro e suo figlio . Egli poi si accinge a discutere il fatto con esattezza ; e l’esattezza consiste in osservare, che l’ esposto non si dica dallo storico della vita di Bajardo, dando tutto il peso di una pruova istorica ad un’ asserzione negativa. Osserva in seguito che Du-Bos varia dal primo racconto in qualche circostanza dicendo, che i due figli di Avogadro furono giustiziati alcuni giorni dopo ; ed anche di ciò vuol dubitare il Belloy per questa gran ragione che non sa d’où il emprunte ce recit . Ma se egli dubitava di quanto ignorava, di che non dovè egli dubitar vivendo? Du-Bos che ignorava molto meno di lui della storia, narrò ciò che si trova dagli storici riferito. Fu nel secondo giorno a ² il conte Luigi Avogadro, mentre in abito finto fuggia di città, riconosciuto, fermato e presentato a Gastone, che nella pubblica piazza il fe decapitare.. volendo vedere egli stesso il crudele spettacolo, e si compiacque poi di replicarlo ne’ due già presi figliuoli.

Volle poi il Belloy dare un complice ad Avogadro, e donde il prese? La storia gli avrebbe sugerito qualche Bresciano, se l’avesse saputaa; ma egli lo scelse tra’ Napoletani. A quale oggetto? Per non lasciare veruna specie di calunnia intentata. E da qual classe di Napoletani il tolse? Dalla più ragguardevole. L’assassino, l’infame, il poltrone Altemoro della tragedia si dice essere il Principe d’Altamura napoletano. Questo personaggio, dice il tragico meschino, e lo storico impostore, est de mon invention pour ce qui concerne le rang et les titres . È pur questo un bel modo di comporre tragedie nazionali sulla storia, valersi di un nome illustre per denigrarlo, e per vestirne un figlio infame del capo del Belloy! E che direbbero i suoi compatriotti se si mettesse sulla scena un ladrone infame col nome di qualche principe del real sangue di Franciab.

È inoltre precetto di poetica nelle tragedie nazionali il dir grosse villanie all’imperadore Massimiliano, a Ferdinando il Cattolico, al marchese di Pescara? E qual parte ebbe questo Scipione della storia moderna nelle furbesche trame uscite dal capo del Belloy? Di qual diritto’ poi questo picciolo scarabbocchiatore di carta osò nel suo garbuglio tragico trattare il pontefice Giulio II colla maggiore indegnità, come mostro come carnefice? Essendo amico della Francia avea quel pontefice desiderato che il famoso Bajardo accettasse, come era costume a que’ tempi, il comando delle sue truppe. Sia questo un fatto tres-vrai , come dice il Belloy. È però una cosa stessa col dipingere Giulio subornatore di Bajardo esortandolo a tradire il suo re, mentre egli era in arme contro la Francia? E ciò appunto gl’imputa il Belloy, facendò dire dal duca di Urbino al Bajardo

                 on peut sans effroi
Pour servir Rome et Jule, abbandoner son roi?

Qual fu poi in sostanza per rapporto a’ Francesi la reità di quel papa in quella guerra? Il proteggere la libertà Italiana. Temè in prima che le potesse nuocere la potenza e l’ambizione de’ Veneziani, e formò contro di loro la formidabil lega; vide poscia quanto più pericolosi nemici di tal libertà fossero gli stranieri, e se ne distaccò. Come principe e come politico chi può rimproverargli l’amore del proprio paese?

Ultimamente nella prefazione il Belloy imputa agl’Italiani generalmente «un raffinamento di perfidia e di crudeltà, che ci fa credere (aggiugne) oggi ancora che la vendetta sia più ingegnosa e più implacabile in Italia che altrove»? Quale impudenza! E chi più del Belloy ingegnoso in immaginar vendette atroci? E non è egli l’autore di Gabriela di Vergy? Non è francese il suo Fajele ed il più implacabile, il più vendicativo, il più inumano, che vince i Selvaggi e i Cannibali più accaniti e dà a mangiar per vendetta i cuori umani? E chi ha imbrattate le moderne scene francesi di maggiori atrocità? La candeur française (prosegue) ètait toujour trompèe, et dèdegnait souvent de punir. Il ciel conservi loro codesto candore e generosità naturale; ma la stomachevole vanità del Belloy ci obbliga a dire che i Francesi di que’ tempi non diedero molte pruove di candidezza ed umanità ne’ luoghi dove fecero la guerra e dove dimorarono. Poco in vero disdegnarono di punire nella presa di Brescia, se si attenda alla storia del cardinal Bembo e del citato Verdizzotti. Poco candidamente si condussero nell’isola di Sicilia, ond’è che diedero motivo a quel famoso Vespro conseguenza di una lunga tolleranza. Poco umanamente trattarono con gli abitanti di Castellaneto, spogliandoli e molestando le loro donne; e quando quel popolo si diede agli Spagnuoli, ed imprigionò que’ Francesi, qual fu l’implacabile vendetta Italiana? Gli tolsero le armi e gli diedero agli Spagnuoli, a condizione che gli rimandassero al campo francese. Ma lasciamo le istorie, le note e le prefazioni del Belloy, e conchiudiamo che delle sue tragedie l’Assedio di Calais, Gastone e Bajardo, Zemira, Don Pietro il crudele e Gabriela di Vergy, già più non rimangono che i nomi, mancando loro la nota del genio, l’armonia della versificazione, la correzione del linguaggio e la forza, la bellezza ed ogni altra dote dello stile.

Mentre la terribile procella tutto copriva di tenebre e d’orrore il cielo francese e seguiva il cangiamento della monarchia in democrazia, non mancarono di componimenti teatrali quelle agitate contrade, molti de’ quali si risentivano delle passioni esaltate e de’ sentimenti del tempo che correva. Quanto alla tragedia si coltivò da Chenier, Carion de Nizas, Arnault, Le Mercier, Lagouvèe, Mazoyer e qualche altro.

Il cittadino Chenier autore di varie tragedie, si è distinto negli ultimi anni del secolo XVIII singolarmente per Cajo Gracco e per Carlo IX. L’azione del Cajo Gracco è semplice ma languida, lo stile puro ed elegante, ma la versificazione non molto felice, il carattere del protagonista espresso con freddezza. Più celebrità ebbe Carlo IX in tempo della rivoluzione per certa analogia della strage di San-Bartolommeo con gli orrori e l’esecuzioni della repubblica che sorgeva in mezzo al sangue. L’orribil suono delle campane ad armi che accendeva i feroci petti nella mentovata esecranda strage del tempo della Lega sì ben descritta nell’Erriade, rinnovava la memoria dell’orrendo effetto che in quel tempo sovvertimento universale mise in fiamme la Francia. Quel suono continuava anche nell’intervallo dall’atto IV al V. Si ripetè questa tragedia nell’anno IX della libertà, e l’autore sin dalla prima ripetizione vi fece varii cangiamenti che accrescono la rapidità dell’azione e l’energia dello’ stile. Se si comparino le dipinture de’ caratteri nel poema epico del Voltaire, si trovano fuor di dubbio più forti e più vere di quelle che Chenier mette in azione. La morte di Coligni nell’Erriade assai più patetica eccita la compassione tragica che si desidera nella tragedia. L’incertezza per altro di Carlo IX sempre irrisoluto sino al punto che si avvicina il gran momento della strage deliberata, è assai ben delineata, e preserva dalla languidezza un soggetto per se stesso pieno di terrore ma che nella tragedia accenna ogni istante di cader nel languore veleno del teatro. Il cardinal di Lorena prende con Carlo IX il tuono di Maometto, ma Carlo non è posseduto dal fanatismo di Seide. Questo cardinale nel tempo della tremenda esecuzione si trovava in Roma, e Chenier, per un abuso della storia simile a quelli ne’ quali incorse il Belloy, lo mostra presente alla strage. Un giornalista francese chiamò questa libertà audacia stomachevole del poeta . La morale permette per istruire di relevare la malvagità, ma non di calunniare con falsità il malvagio.

Chenier riesce meglio in dipingere Coligny, il Cancelliere de l’Hôpital, ed Errico IV nascente. Lo stile di Chenier non profferisce bellezze luminose; merita però di esser applaudito per la purezza, per l’eleganza, e per varii tratti che mostrano lo studio da lui fatto ne’ buoni modelli; e lo meriterebbe ancor più se vi regnasse minor copia di declamazioni triviali. Alcuni pàssi diretti contro dal Romano Pontefice si accolsero con trasporto dall’uditorio. Tra gli attori che lo rappresentarono, si distinse Talma nella parte di Carlo IX, Monvel in alcuni squarci del Cancelliere, Battista nella parte diColigny, e La Fond che giva sorgendo, rappresentò con arte il carattere del Cardinale, benchè alieno da i talenti di quell’attore fatti per rappresentar felicemente le passioni tenere ed impetuose.

L’anno IX della repubblica si rappresentò ancora Teseo tragedia di Mazoyer giovane autore di felice riuscita, mal grado di alcuni difetti. Contiene il dominio che ebbe Medea in Atene sposando il re Egeo, e l’arrivo di Teseo erede del regno che Medea cerca di far morire. Il piano è ideato con giudizio; l’azione regolare condotta con arte, benchè non molto vivace; il carattere di Teseo è dipinto con nobiltà, quello di Medea con molto vigore, se non che ostenta soverchio gli eccessi da lei commessi. I primi quattro atti trattennero l’uditorio con piacere per varii passi pieni di forza e di estro, singolarmente per una felice descrizione dell’Eumenidi. Ma il V atto cui non rimane materia sufficiente, non contenendo che un lungo monologo di Medea, e Teseo che viene fuori a dire che ha vinto, mancò poco che non tirasse seco a terra tutta la tragedia. Lo stile è ineguale e trascurato sovente, e mostra la giovanezza dell’autore. Vi si notano nondimeno alcune scene degne di lode. Tali sono: quella di Medea che propone di avvelenar Teseo ad Egeo che ignora di esser suo figlio; l’artificio di Medea per giugnere al suo scopo rendendosi vie più padrona del cuore di Egeo; quella di Teseo, Pallante e Medea, in cui Teseo con acuta ironia le dice vous fûtes mère , rimproverandole la strage de’ proprii figli; quella di Teseo riconosciuto dal padre alla presenza del popolo e de’ sacerdoti. Madama Raucourt e Talma si distinsero nel rappresentar Medea e Teseo. Sul teatro de’ Troubadeurs di Parigi udii recitar di questa tragedia una parodia intitolata Taisez-vous.

Il cittadino Carion de Nizas compose a que’ dì una tragedia intitolata Montmorenci che si recitò nel mese Pratile nel Teatro della Repubblica. Ha il merito di essere un argomento nazionale scritto in istile convenevole. I Francesi osservarono dalla prima rappresentazione che sin da’ primi atti essa manca d’interesse e di azione. Vi si notano tre intrighi di amori, e di amori illegittimi posti in azione o almeno mentovati, de’ quali niuno chiama l’attenzione per esser subalterni e non tragici. Finchè io mi trattenni in Parigi l’autore avendo richiamato a se il suo componimento per ritoccarlo, più non curò di renderlo al teatro o di pubblicarlo per le stampe.

Lagouée prodotto aveva prima sull’istesso teatro della Repubblica Eteocle e Polinice che non si avvicina punto al Racine che lo precedette in trattar lo stesso argomento, ed ancor meno a Vittorio Alfieri.

Il sig. Arnault per quanto a me è noto, pubblicò tre tragedie negli ultimi due lustri del secolo XVIII recitate sul teatro della Repubblica. Oscar figlio di Ossian di cinque atti che si rappresentò l’anno quarto della repubblica, e si replicò sul cominciar del 1800; Cajo Mario a Minturno di tre atti recitata nel maggio del 1791, che più non si rivide; e Bianca e Montcassin di cinque atti rappresentata nel 1799. Quanto alla prima rende vie più manifesta la difficoltà di tornarsi a trattare i costumi di certi tempi mezzani e di certe popolazioni lontane dalla coltura de’ tempi a noi vicini ove non si rimuovano le idee ed immagini de’ tempi correnti. Cajo Mario in alcuni tratti mostra grandezza non aliena da quel Romano, ma non in tutto il componimento. Ci occuperemo un poco più di Bianca e Montcassin.

Atto I. L’autore suppone che Montcassin francese due volte abbia salvata la Repubblica, ond’è che il Senato si raduna per premiarlo dichiarandolo patrizio e senator veneto. Si propone nel tempo stesso una legge che stabilisce che qualunque senatore per imprudenza o per malizia abbia commercio con gli ambasciadori esteri, o si trovi nel recinto delle loro case, sia reo di morte. La legge è stabilita. Due de’ tre Inquisitori di stato nemici per interessi di famiglia, Contarini e Capello, per por fine alla loro nimistà, conchiudono che Capello prenderà in isposa Bianca unica prole di Contarini.

Atto II. La scena rappresenta un appartamento della casa di Contarini. Mentre Bianca si trattiene con Costanza sui i di lei amori con Montcassin, Contarini viene ad annunciare alla figlia di averle destinato uno sposo illustre, nè più soggiugne, per essere stato chiamato al Consiglio. Ella ne mostra piacere col padre, credendo che le abbia destinato Montcassin, niun altro al suo avviso potendo meritare il titolo d’illustre. Giugne Montcassin contento di essere ritornato a lei vicino. Viene Capello pieno di contento per avere inteso da Contarini che ella ha dato il consenso di prenderlo in isposo. Bianca resta a ciò turbata e addolorata, e Montcassin sbalordito. La confusione di Bianca attrista ugualmente i due amanti. Ella ricusa di dare una risposta precisa che si riserba di dare fra pochi istanti. Capello si ritira dicendo, pieno di rispetto, che l’attenderà. Montcassin con risposte pungenti trafigge Bianca, che gli dice che a torto egli di lei si lagna. Distruggi dunque (le dice) i miei sospetti. Io t’amo (risponde) ciò dee bastarti. Chi dunque (Montcassin) cagiona i nostri mali? L’amor mio, replica Bianca; quando mio padre è venuto a prevenirmi di avermi destinata al maggiore degli eroi di Venezia, ho creduto ch’egli con ciò ti avesse voluto indicare, ed ho dato di buon grado il mio consenso! Si dispera, si chiama imprudente, insensata; ed assicura Montcassin che si lagna della sua fortuna, che ella non sarà mai d’altri che di lui.

Atto III. Contarini viene a far premure alla figlia di non porre ulteriore indugio alla sua obedienza, potendosene a ragione offendere lo sposo. Bianca nettamente dice, che questa obedienza la fa tremare, e rivela di aver fatta un’ altra scelta. E chi è colui che hai tu scelto (dice Contarini)? Quello che arriva, dice Bianca, additando Montcassin che giugne. Contarini a lui rivolto gli dice: siete voi il seduttore di mia figlia? Montcassin: io l’ho sedotta! Contarini non siete amato? Montcassin: sono amato, ma amo,

Je suis seduit comme elle, et non pas seducteur,

Comunque sia, risponde Contarini, io non sono più l’arbitro del destino di mia figlia. La scena lunghissima alfine contiene che Contarini decisivamente gli fa sapere, che nulla sarà bastante a piegarlo, e Montcassin risponde: credete voi di costringere vostra figlia ad obedirvi finchè io esisterò? Vedo bene, ripiglia Contarini, che la vostra presenza può offendere l’autorità paterna; giurate di rispettar l’ingresso della mia casa fino a che Bianca non passi ad abitare in quella dello sposo. Montcassin ricusa. Contarini comanda che esca di sua casa. Montcassin minaccevole gli dice: Ah cet excès d’outrage

Comme à ta cruautè, met le comble à ma rage;

ho finito di supplicare; io tenterò tutto ciò che mi sugerirà un amor disperato, e parte. Capello viene a veder Contarini, ed a proporre le sue angustie ed i suoi dubbii. Contarini dice, io gli farò svanire; venite nel bel mezzo della notte nell’antica cappella del mio palazzo; riceverete coll’usata sacra cerimonia Bianca dalle mani di suo padre.

Atto IV. Il teatro cangia in una cappella particolare della casa di Contarini con altare, in cui una porta aperta nel mezzo lascia vedere una sala con finestre che danno sul palazzo dell’ambasciadore di Spagna.

In seguito della lunghissima scena dell’atto III della contesa poco tragica di Contarini, e Montcassin, si è questi risoluto a chiedere a Bianca con un bigliettino un momento di udienza secreta. Bianca glie l’accorda nel luogo indicato, stimandolo opportuno (in caso che il padre soparavvenisse) per l’evasione al palazzo vicino del ministro di Spagna. Egli viene; tutto è perduto, dice,

                                          le sort
Ne nous laisse à choisir que la fuite où la mort.

Un ratto proposto da un uomo decantato per eroe, per virtuoso annunzia una delle tragedie di Hardy. Bianca trema alla proposta scelta di morte o di fuga. Montcassin l’affretta a fuggirà. In questo punto (dice Bianca)? Montcassin, e che aspetti tu ad abbandonare una dimora indegna, dove il solo interesse è quello della nobiltà, dove la voce dell’orgoglio copre la voce del sangue, dove la tua fiamma è un delitto, e la mia un’ingiuria? Ecco il linguaggio de’ romanzi, in cui il solo amore è virtù, ed i virtuosi esortano le fanciulle ad abbandonare la casa paterna per seguire l’amante. Bianca per provarglielo vuol giurarle fede di sposa in faccia al Crocifisso eh e è nella Cappella, aggiungendo che domani anderà a trovarlo. E: demain? mais aujourd’hui que peut-il arriver à… Ah fuggite ( viene a dir Costanza ), il padre viene e la chiama. Montcassin fuggire? per dove? Costanza, per la casa è impossibile, vi sono troppi testimoni; ma non vi è altra via che il palazzo di Spagna. Bianca: ah in esso ti segue la morte! Montcassin: e quì l’obbrobrio ti copre bisogna dunque incontrarla, e parte. Contarini dice a Bianca, che viene lo sposo col sacerdote. Io non diverrò mai spergiura, dice Bianca. E Contarini le dice, che se persiste a disubbidire, la maledirà. Nel punto in cui Bianca è astretta a profferire le parole che l’uniscono a Capello, ella sviene nelle braccia del Prete, e di Capello. Arriva Pisani a dire, che un evento disgraziato chiama i tre Inquisitori al tribunale; Montcassin ha violata la legge terribile ai nobili che la trasgrediscono; egli passava le mura del palazzo di Bedmar. Tutti lasciano Bianca, che ritornando in se domanda del suo destino, ed intende che Montcassin è ne’ ferri, e portato al tribunale coperto di un mantello. Risolve di volere andarvi anch’essa, e divider seco il suo destino.

Atto V. Il teatro rappresenta il luogo dell’assemblea de’ tre Inquisitori. Vi sono per essi tre sedie nere su di uno strato nero ancora. Il Greffiere al di sotto di essi siede con una tavola davanti. L’accusato è in piedi. Un velo nero chiude il fondo del teatro. Pisani e Montcassin; quegli compiange l’accusato, e lo spera innocente. Montcassin domanda che voglia dire quell’apparato funesto? Quello del Consiglio de’ Tre, gli dice Pisani; quì pronuncia, e nel fondo punisce. Montcassin e Pisani si ritirano, e la scena rimane vota secondo il più recente metodo de’ moderni. Sottentrano Contarini e Capello. Questi dice al Collega, perchè mi riveli in questo punto che Montcassin è mio rivale? per cangiar forse il suo giudice in amante irritato? Il cuore di Capello è lacerato da doveri contrarii di giudice imparziale, e di amante sventurato. Contarini gli fa riflettere che l’accusato è condannato dalla legge, e che non dipende dall’arbitrio de’ giudici. Arriva il terzo inquisitore, e seggono. Pisani introduce il reo. Segue l’interrogatorio. Montcassin risponde ingenuamente. Domandato se ha discolpa veruna da allegare; risponde di non averne alcuna. Capello gli dice: grande interesse avrete avuto ad infrangere la legge. Montcassin risponde:

Le crime est evident, le reste est mon secret.

Conferma quanto è scritto nel processo verbale, e sottoscrive. È condotto dietro al fondo del teatro. Si giudica. Contarini pronunzia il suo voto di morte. Capello prima di giudicarlo reo vorrebbe che su i suoi progetti egli avesse somministrate pruove, vorrebbe una convizione piena del delitto. Loredano profferisce, che quando anche potesse discolparsi de’ suoi progetti, non sarebbe meno reo di aver contravvenuto alla legge. Egli vota di morte, ed invita Capello a votare. Contarini lo chiama a parte, e gli dice: io ben comprendo che se non foste suo rivale, punto non esitereste a punire quel trasgressore dopo la prova, e la confessione dell’attentato:

Ainsi pour étre grand vous cessez d’être juste.

Odono da Pisani la costanza del delinquente in non addurre discolpa veruna, e Capello si risolve a votar di morte. Si ordina l’esecuzione. Si annunzia che un testimone arriva; e questo testimone è Bianca velata. Si svela, e dice di venire per l’accusato. Dice, Son crime c’est l’amour, l’hymen fût son projet ;

Sa complice c’est moi.

Contarini la rimprovera. Capello vuole che prosegua. Bianca riferisce che Montcassin è venuto la notte nel palazzo da lei introdotto, e che ella giurò innanzi all’altare paterno di essere sua sposa. Sopraggiunto il padre egli si determinò a suggire pel muro della casa di Spagna. Gl’Inquisitori Loredano e Contarini per ciò non si rimuovono dalla sentenza data. Capello solo proibisce che si esegua. Si alza però il volo del fondo, e si vede Montcassin strangolato. Bianca si getta sul corpo dell’estinto, e sembra morta. Contarini tenta sollevarla.

Quest’argomento appartiene alla storia veneta. Si ha da essa che una gentil donna per nome Teresa nata nel 1601 fu moglie di un nobile de’ Contarini uomo zotico niente amabile ed immorale, ed amata da Antonio Foscarini dotato di bellezza, di cuor sensibile, di amabili costumi e di eloquenza incomparabile. Si amarono queste due persone; ma la necessità di andarla a vedere di notte passando per un muro del palazzo del Ministro di Spagna, cagionò l’ignominiosa morte del Foscarini, per la legge di cui nella tragedia francese si parla. Egli non potè allegare veruna discolpa, per non pregiudicare al decoro dell’amata, e creduto reo di stato fu dagl’Inquisitori condannato e mori strangolato. Questo fatto venne dal cavaliere Ipolito Pindemonte di Verona descritto in una novella in ottavarima da me pubblicata in Napoli insieme con un’ altra in prosa del cavalier Tommaso Gargallo di Siracusa.

Dimorando Arnault in Venezia trovò il caso degno del coturno, e ne formò la sua tragedia che dedicò a Napoleone Bonaparte membro dell’Istituto Nazionale di Parigi. Piacque all’autore di abbigliarlo a suo modo. Diede da prima all’azione un lieto fine, facendo che la donna da lui chiamata Bianca disperata offeriva la mano a Cappello a cui era stata destinata sposa a condizione che salvasse la vita all’amante, e che Capello salvandolo ne ricusasse generosamente la mano. Con ciò l’autore toglieva tutto l’effetto tragico alla lagrimevole istoria. Lo comprese Bonaparte sentendola leggere. Egli avea pianto alle circostanze di Bianca; je regrette mes larmes , egli disse al fine lieto inatteso; il mio dolore (aggiunse) è una emozione passeggiera, di cui quasi ho perduta la memoria al vedere gli amanti in piena felicità. L’autore si approfittò della giudiziosa avvertenza, e rendette alla favola il fine tragico, e così comparve sulle scene e per le stampe.

Ecco intanto ciò che rende la storia differente dalla tragedia. In prima il Foscarini veneto è trasformato in un Montcassin francese che si dice di aver salvata due volte Venezia. Ma è permesso in un fatto recentissimo falsificare la storia nel più essenziale, cioè nell’essere e nel carattere del protagonista? E qual vantaggio ne ricava il teatro? La tragedia suole alterare alcuna circostanza della storia, e con più frequenza quando l’evento risale alla remota antichità: ma ciò si concede per aumentar le molle della compassione e del terrore, ma non già per iscemarne l’energia. E ciò appunto avviene nella tragedia di Arnault. Allorchè il leggitore comincia ad intenerirsi, gli si presenta un francese militare forse in vece del veneto Foscarini nobil veneto avvocato insigne, e l’illusione che si sforza di occuparlo, ad ogni passo si allontana. In Venezia ciò senza dubbio avverrebbe, se si rappresentasse; e forse in Francia ancora non si riceverebbe con pieno applauso che un francese si credesse estremamente onorato per aver meritato un posto tra’ Nobili Veneziani. Montcassin dunque troverà per conseguire l’effetto tragico diversi ostacoli; e le lagrime di Bonaparte tutte si saranno versate per Bianca.

In secondo luogo osservo che l’azione nella tragedia ragionevolmente scema il pericolo dell’amante che in quella storia è inevitabile. In questa Foscarini va da una donna maritata furtivamente, e questo è un arcano tra i due, e passa sempre pel palazzo di Spagna. Se Foscarini volesse colla verità del fatto render nullo il delitto di stato prevenuto dalla legge, dovrebbe palesare la sua non lecita corrispondenza colla moglie del Contarini e coprirla d’infamia. Eccolo in un bivio tragico, ed eccolo ridotto per di lei decoro ad un silenzio che lo fa soggiacere alla pena di morte dovuta ad un reo di stato; e questo silenzio diventa nobile al pari di quello del Conte di Essex. Ben diversa è l’azione della tragedia di Arnault. Montcassin non può partecipare dell’importanza tragica del silenzio del Foscarini. Bianca non è moglie ma figlia nubile di Contarini, di cui egli frequenta la casa senza verun delitto. Contarini padre di Bianca ha saputo da lui stesso l’amore che nutre per la figliuola, e Capello promesso a lei in isposo ne ha sospetto. Montcassin in un sol momento è costretto dalla necessità a passare per la casa di Spagna; e non offenderebbe punto il decoro dell’amata, se per giustificarsi del delitto di stato confessasse che ama Bianca che vorrebbe sposare. Ciò niuna infamia a lei apporterebbe ed il pubblico saprebbe quello stesso che il padre non ignora. Il bivio dunque che rende glorioso e necessario il silenzio del Foscarini, non si può riconoscere nel Montcassin di Arnault. Quanto poi allo stile, i leggitori ben vedranno che l’autore sovrasta di gran lunga al Lemiere, al Belloy ed a’ loro simili, ma che non si avvicina punto ai Cornelii, ai Racini a i Volteri.

Appartiene parimenti a questo periodo la tragedia di Lemercier intitolata l’Agamennone. È tratta da quella di Vittorio Alfieri; ma quando se ne diparte e vi frammischia le proprie idee, cade in assurdi. Lo stile nulla presenta che tiri l’attenzione. L’autore ha composti varii altri componimenti teatrali ancor peggiori, de’ quali parleremo da quì a poco.