(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VIII « LIBRO VIII. Teatri settentrionali del XVIII secolo. — CAPO I. Teatro Inglese. » pp. 232-294
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VIII « LIBRO VIII. Teatri settentrionali del XVIII secolo. — CAPO I. Teatro Inglese. » pp. 232-294

CAPO I.

Teatro Inglese.

I.

Tragedia reale.

L’entusiasmo per la libertà, l’orgoglio e la malinconia britannica, l’energia delle passioni e della lingua, ed il gusto pel suicidio influiscono notabilmente nella tragedia inglese, e tanta forza e vivacità le prestano, che al di lei confronto sembra che la francese languisca alla guisa di un dilicato color di rosa accanto ad una porpora vivace. E se la regolarità, il buon gusto, la verisimiglianza, l’interesse e l’unità di disegno, pregi che si ammirano spesso nella francese, si congiungessero sul Tamigi alla robustezza e all’attività del britanico coturno, oggi che ha questo deposte le antiche buffonerie che lo deturpavano, sarebbe forse a suo favore decisa la lite di preferenza. Ma gli affetti universali dell’uomo trovandosi variamente in ogni nazione modificati, dovrà la drammatica sempre, in quanto al gusto, soggettarsi a certe regole relative e particolari dipendenti dal tempo, dal costume e dal clima ove non si offenda la verità e la natura.

Il celebre Adisson morto d’anni quarantasette nel 1719, il cui ingegno, senno e sapere l’elevarono fra’ suoi alla carica di segretario di stato, e gli diedero nella repubblica letteraria il nome di poeta de’ savii, aprì agl’Inglesi il sentiero della buona tragedia l’anno 1713 col suo Catone. Non avendo osato il sig. Hullin di tradurla interamente in versi francesi, dopo di averne fatto un saggio sulla prima scena, il sig. Boyer l’anno stesso ne fece in Londra una traduzione pur francese in prosa. I Gesuiti di s. Omero la trasportarono in latino, e la fecero rappresentare da’ loro scolari. Anton Maria Salvini la tradusse dall’originale in toscano idioma, e gli Accademici Compatiti di Livorno la recitarono nel carnovale del 1714, e l’anno seguente s’impresse in Firenze e riscosse compiuti applausi. Nel 1725 si reimpresse nella medesima città coll’originale accanto nella stamperia di Michele Nestenus.

Piena di energia e di quella maschia eloquenza che eleva gli animi singolarmente in quanto appartiene al carattere intrepido e virtuoso di Catone, questa tragedia si rende notabile per la sublimità e per la grandezza de’ pensieri e dell’espressioni. Dee parimente chiamarsi regolare, se la regolarità dipenda dal giusto riguardo per le regole sugerite dalla verisimiglianza, uno essendone il principal personaggio, uno l’interesse che in lui si rincentra, una l’azione che è la morte di Catone, la quale avviene nel dì che spira la romana libertà all’entrare in Utica i Cesariani. Perchè dunque il sig. Giovanni Andres la chiama favola assai irregolare e piena di assurdità ?

Manca non pertanto al Catone moltissimo per dirsi l’opera più bella che sia uscita su di alcun teatro. Tutto ciò che non è Catone è in essa mediocre; e la sua mediocrità deriva da due sorgenti, cioè da una languida inutile congiura di due furbi che si esprimono e pensano bassamente, e da un tessuto d’insipidi e freddi amori subalterni di sei personaggi de’ dieci che entrano nella favola. Sventuratamente questi difetti ne menano al fine dell’azione senza interesse e con molta lentezza, e ne riempiono tutte le pause. Or lentezza, languore, amori insipidi, bassezze ed espressioni comiche, degradano si bene una tragedia, ma non la rendono irregolare ed assurda come pretese l’esgesuita lodato; il quale cadde nell’eccesso contrario di un Encidopedista, che nell’articolo tragedie la chiamò le chef d’oeuvre pour la regularitè, l’èlègance, la poesie, et l’èlèvation des sentimens . Noi vedremo nell’analisi che ne faremo, che questa elevazione di sentimenti è denigrata dalle basse espressioni di Sempronio e Siface, e che i freddi amori di sei personaggi che gelano l’azione principale, non permettono che col medesimo enciclopedista si creda il Catone di Adisson la pièce plus belle qui soit sur aucun thèâtre .

Non v’ha scena dell’atto I che non si aggiri su gli amori di Porzio, di Marco, di Giuba, di Marzia, di Lucia, di Sempronio, o sulla congiura tramata da questo scellerato con Siface che gli rassomiglia. L’atto poi termina all’inglese, cioè con una poetica comparazione compresa nell’originale in sei versi di una corrente imbrattata dal fango per le piogge, che poi si affina e per via diviene limpida come specchio,

Riflettendo ogni fior che a riva cresce,
E nuovo ciel nel suo bel sen ne mostra.

Dalla scena quarta dell’atto II, in cui Giuba manifesta a Catone il proprio amore per Marzia, tutto il resto si aggira su i maneggi di Siface e Sempronio pieno dell’idea di conseguir Marzia che desidera bassamente. Di più in mezzo a’ modi famigliari e talvolta indecenti di questi due malvagi frammischiansi impropriamente alcune poetiche immagini con intempestiva sublimità lirica espresse. Tale è quella in cui Catone è paragonato al monte Atlante; tale l’altra con cui termina anche quest’atto distesa in sette versi de i deserti di Numidia che scherzano per l’aria in fieri giri, e ravvolgono l’arena, ed il viaggiante, secondo la traduzione del Salvini,

A se d’intorno l’arido ermo scorge
Levarsi tutto, e dentro al polveroso
Turbin rapito ed affogato muore.

Tre prime scene non brevi dell’atto III si occupano intorno agli amori gelati, e fuor di tempo di Marco, Porzio e Lucia; viene Sempronio con i condottieri dell’ammutinamento dissipato dalla presenza di Catone; in seguito Siface e Sempronio si trattengono su’ loro disegni e sulla diserzione della cavalleria Numida. E mostrando Sempronio qualche pena di lasciar Marzia, Siface se ne maraviglia; ma l’altro risponde, erri se credi ch’io l’ami:

Stringere io bramo sol l’altiera donna,
E piegar l’inflessibile al mio foco.
Fatto ciò, la rigetto.

Egli determina di rapirla travestito con gli abiti di Giuba. Bella pensata! dice egli stesso, gran gioja avrò nel tenerla tralle braccia

Con beltà accesa e scarmigliate trecce!

e soggiugne, per terminar l’atto con una comparazione lirica di Plutone che rapiva Proserpina conducendola all’oscuro dell’inferno,

E torvo sorridendo lieto andava
Carco del premio suo, nè invidiava
Il firmamento e il suo bel sole a Giove.

Non sono dunque i tragici Italiani del secolo XVI quelli soli che adoperano ornamenti epici e lirici che fanno arricciare il naso a i critici spigolistri ammiratori ciechi anco delle frascherie straniere, giacchè due secoli dopo ne troviamo nel poeta de’ savii Adisson.

Seguono nell’atto IV i soliti amori.

Sempronio mascherato viene a rapir Marzia dicendo

La lepre è al covo, l’ho sin quì tracciata.

Si batte con Giuba, ed è ucciso. Marzia ingannata dalle vesti crede che l’ucciso sia Giuba, il quale stando da parte dalle di lei querele comprende di essere amato. Così procede quest’atto sino a una parte della scena quarta. Ma il rimanente contiene un tratto forte e patetico insieme ed opportuno a disviluppare il carattere veramente romano dì Catone.

L’atto V coll’indicata ultima scena del IV forma il grande di questa tragedia. Strana cosa è certamente che il saggio Adisson non abbia schivato nè gli abusi della scena tragica francese ed inglese riguardo agli amori, nè i soliloquii narrativi, come è quello di Sempronio nella scena terza dell’atto I, nè la mancanza d’incatenamento delle scene ad oggetto di non lasciar voto il teatro, come avviene più di una volta nel Catone a.

Rilevasi dall’esposte cose che non ebbe torto il giudizioso Conte di Calepio in censurar nel Catone le figure troppo poetiche che ne guastano talvolta la gravità, e verità dello stile, la peripezia malamente sospesa con intempestive scene di persone subalterne, i freddi intrighi d’amore, e più altri difetti che offendono l’arte rappresentativa. Non ebbe torto l’esgesuita Andres nel riprenderne la mal intesa cospirazione, gl’inopportuni freddi continui e complicati amori, ed alcune espressioni basse. Non ebbe torto il Voltaire, che ne disapprovò le scene staccate che lasciano il teatro voto, gli amori freddi ed insipidi, una cospirazione inutile. Ebbe però torto l’enciclopedista encomiatore del Catone non solo nel reputarla la più bella tragedia che siesi veduta in qualunque teatro, ma quando si accinse a difendere sconsigliatamente i languidi amori universalmente disapprovati. Ed ebbe maggiormente torto per la ragione che ne reca, cioè che l’amore di Marzia è degno di una vergine romana, e che Giuba ama in Marzia la virtù di Catone. In prima è da avvertirsi esser questa una risposta particolare ad una censura generale fatta per gli amori subalterni, non di Marzia e Giuba soltanto, ma di sei personaggi. Di poi l’enciclopedista fece una risposta, in cui perdè di vista l’oggetto vero della tragedia, il commuovere col terrore, e la compassione. Ebbe parimente torto lo stesso osservatore enciclopedista in lodar tanto la risposta di Porzio data

data a Sempronio nella scena seconda dell’atto I:

Ah Sempronio, vuoi tu parlar d’amore
A Marzia or che la vita di suo padre
Stà in periglio? Tu puoi carezzar anco
Una Vestale pallida tremante
Che già miri spirar la santa fiamma.

È nobile questa immagine di una Vestale, e ben collocata in bocca di un Romano. Ma Porzio che parimente ama mentre la vita del padre stà in periglio, non reca una ragione che dovea internamente rimproverargli la propria debolezza? E per finirla ebbe pur torto il sign. Andres in affermare che Voltaire la stimava una tragedia scritta da capo a fondo con nobiltà e politezza. Voltaire preferì il personaggio di Catone a quello di Cornelia del Pompeo di Pietro Cornelio, ed esaltò la sublimità, l’energia e l’eleganza del Catone; ma ne rilevò, come abbiamo osservato, molti difetti, e conchiuse che la barbarie et l’irrègulieretè du thèatre de Londre ont percè jusque dans la sagesse de Addisson . Non debbo lasciar di osservare che il merito eminente di questo scrittore è nella grandezza de’ sentimenti e nella forza energica dell’espressioni che non mai si smentisce in tutti i personaggi; e che l’espressioni che mancano di elevatezza e sono piuttosto comiche che tragiche, appartengono unicamente a Siface e Sempronio, personaggi che Adisson volle rendere bassi e disprezzabili d’ogni maniera.

Or vediamo ciò che soprammodo nella storia teatrale contribuisce ai progressi del gusto nella gioventù, cioè le bellezze più che i difetti de’ componimenti, che è la parte nobile della critica inaccessibile a i freddi ragionatori privi di cuore.

Se non diciamo come l’enciclopedista, che questa tragedia sia un capo d’opera e la più bella di qualunque teatro , ravvisiamo pure nel Catone dipinto da Adisson quel gran Romano della storia che solo osò contendere colla fortuna e colla potenza di Cesare e prolongare i momenti della spirante libertà di Roma, quell’uomo grande, per valermi dell’espressiòne di Pope,

                 Che lotta col destino
Tralle tempeste, e grandemente cade
Misto a ruine di cadente stato.

Nella scena quarta alla forza e destrezza del corpo lodata da Siface ne i Numidi è vagamente contrapposta l’arte di regnare, di dettar leggi, di render l’uomo all’uomo amico , propria de’ Romani.

L’atto II ha maggiore interesse perchè animato dal carattere dì Catone. Sempre giusto, senza timore, senza impeto, tutto della sua sapienza egli riempie il picciolo suo senato. Non si trasporta con Sempronio, ma non cede con Lucio, e conchiude nobilmente:

Siam sempre a tempo a chieder le catene.
Perchè un punto anzi tempo cadria Roma?

La scena con Decio legato di Cesare è in quest’atto il trionfo del carattere di Catone. Cesare ( dice il legato ) vuol essere amico di Catone; proponetene il prezzo e le condizioni.Che licenzii ( risponde tosto Catone con magnanimità )

Le legion, la libertà alla patria
Restituisca, i falli suoi sommetta
Alla censura pubblica, e sì stiasi
Alla sentenza d’un Roman Senato.
Ch’ei faccia questo, ed è suo amico Cato.

Aggiugne che allora poi, per non farlo perire, egli stesso monterà su i rostri per ottenergli il perdono. Questa grandezza di pensieri e di espressioni meritò l’approvazione del gran Metastasio, che in simil guisa se l’appropriò emulandola nell’abboccamento di Cesare e Catone:

                 Lascia dell’armi
L’usurpato comando: il grado eccelso
Di Dittator deponi: e come reo
Rendi in carcere angusto
Alla patria ragion de’ tuoi misfatti.
Questi, se pace vuoi, saranno i patti.

Cesare

Ed io dovrei…

Catone

Di rimanere oppresso
Non dubitar, che allora

Tu solo non basti, gli dice Cesare, ed io potrei

I giorni miei sacrificare invano.

Catone

Ami tanto la vita, e sei Romano?

La scena quinta dell’atto III, in cui Catone con dignità seda colla presenza sola l’ammutinamento, rende all’azione la gravità che le tolgono le troppe scene di amori tanto più intempestivi, quanto più si avvicina l’esercito di Cesare, e la ruina di Catone è imminente.

Dopo la languidezza del IV atto già riferita un improvviso nuovo vigore misto di eroico e di compassionevole chiama tutta l’attenzione dal punto che si enuncia la morte di Marco. Marco… incomincia Porzio… e Catone l’interrompe: che ha egli fatto? ha abbandonato il suo posto? No , dice Porzio; egli si è opposto a’ Numidi, ed è caduto da forte. Son contento , dice Catone; egli ha fatto il suo dovere; Porzio, quando io morrò, fa che la di lui urna sia posta accanto alla mia. È condotto in iscena il corpo di Marco, e Catone gli va incontro dicendo, Welcome mi son, «benvenuto, mio figlio; ponetelo alla mia presenza, lasciate ch’io conti le sue ferite; chi non torrebbe esser questo giovane? Disgrazia grande non poter morire che una volta sola!» Questa scena si accolse con ammirazione in Londra, e in alcune città d’Italia. Assicurava però Voltaire a milord Bobingbrooke che in Parigi non si sarebbe sofferta. Catone volgendosi a i circostanti che piangono, amici, dice, voi piangete per una perdita privata?

Roma è quella che chiede il nostro pianto.

«Roma nutrice di eroi, donna del mondo, Roma non è più! Oh libertà! oh virtù ! oh patria! Tutto è di Cesare!

                Per lui i votati Decii,
I Fabii cadder, vinser gli Scipioni.
Anco Pompeo pugnò per Cesar! i maggiori
Non lasciar altro a vincer che la patria.

Questo gran sentimento non isfuggi al Metastasio; ed ecco in qual guisa l’espresse nella mutazione dell’ultimo atto del suo Catone:

                         Ecco soggiace
Di Cesare all’arbitrio il Mondo intero.
Dunque (chi ’l crederia?) per lui sudaro
Gli Scipioni, i Metelli! Ogni Romano
Tanto sangue versò sol per costui;
E l’istesso Pompeo pugnò per lui!
Misera libertà, patria infelice,
Ingratissimo figlio! Altro il valore
Non ti lasciò degli avi
Nella terra già doma
Da soggiogar che il Campidoglio e Roma!

Adisson senza punto indebolire la fermezza del suo eroe sa colle disposizioni da lui date per la salvezza degli amici trarre certo patetico di nuova specie che commuove ed interessa. Egli dice addio agli amici; indi conchiude:

S’appressa il vincitor, di nuovo addio.
Se mai c’incontrerem, c’incontreremo
In più felici climi e in miglior spiaggia
U’ Cesar non fia mai a noi vicino.

Nell’atto V la prima scena filosofica è un prodotto del dialogò di Platone sull’immortalità dell’anima. Perchè l’alma (dice Catone col libro di Platone alla mano e colla spada sguainata davanti)

Ritirata in se stessa e impaurita
Alla distruzion s’aombra e fugge?
È la divinità che muove dentro;
Il cielo è quel che l’avvenire addita,
E all’uom l’eternitate accenna, e mostra.
Eternità! pensier grato e tremendo!

Il sonno poi gli aggrava gli occhi, ed egli vuol prima soddisfare a questo bisogno del suo corpo, e dice,

                         Colpa o timore
Svegliano altrui, Caton non gli conosce,
A dormire o morire indifferente.

Catone poichè si è ferito conserva morendo la sua grandezza d’animo non meno che la tenerezza verso gli amici, pe i quali egli cerca se può far qualche cosa negli ultimi momenti. Sul finire gli sopravviene un dubbio sull’avere troppo affrettato, forse per quello che nel medesimo dialogo di Platone s’insegna, cioè che vieta il sommo Imperante di sprigionar lo spirito prima di un suo decreto.

                         O numi voi
Che penetrate il cuor dell’uomo e i suoi
Intimi movimenti ne pesate,
Se fallito ho, a me non l’imputate.
I migliori erran: buoni siete, e…. oh!

Egli spira qual visse grande e virtuoso prima della libertà. Ed ecco quanto secondo me ha di pregevole la tragedia del Catone. S’essa non discendeva da tanta altezza sino a Sempronio e Siface, Adisson avrebbe forse nociuto all’arte togliendo a’ posteri ogni speranza di appressarglisi. De’ grandi ingegni giovano ancor le debolezze. Ad Omero che talora dormicchia e mostra l’uomo, dobbiamo i Virgilii ed i Torquati. In francese compose m. Deschamps una tragedia di Catone più regolata nell’economia, ma non meno carica di parti accessorie che sopraffanno l’azione principale e la rallentano, e deturpata nel carattere di Cesare che rappresenta innamorato.

L’amor della patria, della virtù e della libertà regna parimente nelle tragedie di Niccolò Rowe encomiatore e scrittore della vita di Shakespear. Nacque in Devonshire nel 1672 e morì in Londra di anni quarantacinque nel 1727. Regolare nell’economia, felice nella dipintura de’ caratteri, puro nella lingua, nobile ne’ sentimenti, quest’autore si novera in Inghilterra tra’ migliori tragici. Le più applaudite sono: la Suocera ambiziosa, ed il Tamerlano amato con predilezione dal proprio autore.

Il celebre Giorgio Villiers duca di Buckingam fautore de’ poeti Inglesi compose due tragedie, il Cesare, ed il Bruto regolari e non imbrattate da freddi amori. Egli scrisse ancora una commedia applaudita il Robersal, ossia la Ripetizione delle parti, in certo modo rassomigliante alle Rane di Aristofane.

Edoard Joung amico e socio ne’ lavori letterarii di Switf, Pope, e Richardson, ed autore delle Notti lugubre poesia sepolcrale, scrisse ancora tre tragedie, il Busiri tradotta in Francia da m. la Place, e rappresentata con applauso sul teatro di Drury-Lane nel 1719, la Vendetta uscita al pubblico nel 1721, ed i Fratelli che comparve nel 1753, riputata inferiore alla seconda per lo stile, ma meritevole d’indulgenza come frutto di un uomo pervenuto agli anni sessantanove dell’età sua.

Savage sventurato figlio dell’inumana contessa di Macclsfields, la cui memoria eccita il fremito dell’umanità, privo d’ogni umano soccorso coltivò fralle miserie la poesia. Contando diciotto o diciannove anni di età si acquistò qualche nome con due commedie, la Donna è un enigma, e l’Amor mascherato. Scrisse poi aggirandosi senza tetto e senza fuoco per le strade e per le taverne, la tragedia intitolata Tommaso Oversbury. Egli nacque dal nominato mostro nel 1698, e per opera della stessa barbara madre morì in carcere nel 1743.

Il famoso Tompson allievo di Adisson nato nel 1700, e morto del 1748, chiaro pel noto poema delle Quattro stagioni, non acquistò minori applausi colle sue tragedie, nelle quali si allontanò ugualmente dal sentiero calcato da Shakespear, e dal gusto di Adisson. Le sue tragedie Sofonisba, Agamennone, Alfredo, Coriolano furono dal pubblico assai bene ascoltate. Si replicò per più anni con applauso Sigismonda e Tancredi tragedia ricavata da una novella del romanzo di Gil Blàs, la quale in Francia s’imitò dal Saurin con la sua Bianca e Guiscardo, ed in Italia dal conte Calini colla Zelinda, dal conte Manzoli con Bianca ed Errico, e dal sig, Ignazio Gajone coll’Arsinoe. Ma la nazione malcontenta di Tompson per altri motivi, non volle ascoltare Edoardo ed Eleonora pubblicata nel 1739.

Il sig. Home forse tuttavia vivente che altri chiamò Hume, compose due buone tragedie, l’Agis e Douglas, le quali da’ suoi compatriotti non meno che dagli esteri che le conoscono, vennero concordemente applaudite.

Denny nemico di Pope scrisse in buono stile una tragedia regolare intitolata Appio e Virginia, argomento che ha un solo punto interessante, e per ciò poco atto a tener sospeso l’ascoltatore per cinque atti senza un’arte sopraffina. Un’ altra Virginia compose la signora Brooke, di cui favellò nel Giornale straniero di Parigi La Place nel 1757. In grazia del sesso per altro i giornalisti Inglesi trattarono con indulgenza l’autrice, la quale trasportò anche in inglese il Pastor fido. Non godè del medesimo favore l’autore della tragedia l’Amore ed il Dovere, ed ebbe la mortificazione di vederla rifiutata da i direttori di ambi i teatri, ed accolta con disprezzo, poichè fu impressa. Ugual destino toccò all’autore della tragedia di Atelstan.

Una efimera guerra critica si appiccò per essa trall’autore ed un censore geloso, cui forse appartiene la parodia di Atelstan intitolata, Turncoat, voltacasacca. Turncoat, Atelstan, ed i loro meschini autori, tutto si perde ben presto nel nulla.

Errico Brooke diede alla scena inglese una tragedia di Gustavo Wasa, ossia il Liberatore del suo paese, la quale dal sig. Du Clairon autore di una tragedia di Cromwel si tradusse felicemente in prosa francese, e fu impressa in Parigi nel 1766. L’argomento del Gustavo inglese non si aggira, come quello del Piron, intorno all’amore, ma tutto riguarda la libertà, per la quale ha solo combattuto Gustavo. L’azione è ben condotta e trattata con energia, e i caratteri si sostengono con nobiltà, e si esprimono con forza.

L’Andromaca di Racine si tradusse da Philipps di cui motteggiò Pope nella Dunciade. Smith ne tradusse la Fedra, ma vi congiunse anche l’intrigo del Bajazette del medesimo tragico francese. Il più grazioso si è, che Smith si vantava di aver tutta la sua filastrocca ricavata dall’Ippolito di Euripide a. Hille tradusse la Zaira con poche alterazioni, Cibber, Hoadley, Farquar, e qualche altro, composero varie tragedie che si trovano nella collezione de’ quaranta drammi usciti in Londra nel 1762 col titolo di Teatro Inglese.

Negli ultimi fogli periodici del secolo XVIII si lodano due tragedie pubblicate in Londra nel 1788, cioè la Sorte di Sparta, ossia i Re Rivali, ed il Reggente. Appartiene la prima alla parente di. Gay Mistriss Cowley, e rappresenta la rivalità pel trono di Leonida e Cleombroto, e le angustie della virtuosa Chelonice figlia del primo, e consorte dell’altro. Il Reggente del sign. Barthie Graathead rappresentata in Drury-Lane si dice ben condotta ed interessante; ma i personaggi subalterni parlano in essa in prosa, ed i principali in versi, giusta l’antica usanza de’ tragici inglesi.

Dall’opera sulla Tragedia Italiana dell’amico Cooper Walker rilevo tre altri tragici della Gran Brettagna, Oxford, Ravenscraft, e Preston. Lord Oxford compose la Madre Misteriosa tratta o da’ racconti della Regina di Navarra, o dalla novella 35 della II parte del Bandelli, in cui racconta che un gentiluomo sposa una propria sorella, e figliuola a un tempo senza saperlo. Oxford conduce artificiosamente la sua tragedia. La Contessa pel corso di quattro atti manifesta il suo pentimento, e fa ammirare varie sue azioni lodevoli, ignorandosi tuttavia il suo delitto. Ma nell’ultimo atto in un accesso di frenesia scoppia la verità, e l’orrore succede all’ammirazione. Il Walker la chiama tragedia inimitabile.

La tragedia di Ravenscraft s’intitola Tito Andronico, ovvero il Ratto di Lavinia. Atroce in ogni senso. Nuova Medea l’Imperatrice trafigge il proprio figlio. Il Moro che l’ha spinta all’eccesso esecrando, applaude al colpo della spietata madre. Mi ha superato, dice, nell’arte mia; di me più fiera ha trucidato il figlio; me ’l porgi, lascia che me ’l divori.

Dell’Irlandese Preston si hanno due tragedie, la Rosmunda e Messene libera. Trovasi la Rosmunda fralle di lui Opere postume pubblicate in Dublin nel 1793. È l’argomento stesso della Rosmunda del Rucellai, se non che l’Irlandese la mostra nell’atto V rea di adulterio, e l’Italiano la preserva dalla prostituzione, e dall’assassinamento. Il Walker ne commenta l’eccellente dipintura de’ caratteri del cupo Corrado, del magnanimo Astolfo, e della tenera Adelaide. L’argomento della sua Messene è appunto l’Aristodemo di Carlo Dottori; ma il Walker esalta quella del compatriotta, come più ricco di poetiche bellezze, e di più forte interesse . Il leggitore avrà cura di confrontarle, giacchè a me sinora non è dato di poterla leggere.

II.

Abbozzo di tragedia Ersa o Celtica.

Appartiene alla Gran-Brettagna, al secolo XVIII, e alla tragedia reale una traduzione di un dramma in lingua ersa pubblicata verso il 1762a. Il titolo è Comala, che n’è il personaggio principale. L’azione è fondata su di una tradizione conosciuta. Comala figliuola del re d’Inistore, e dell’isole Orhney amando Fingal figliuolo di Comhal lo segue in abito virile. È ravvisata da Hidallan seguace di Fingal, il cui amore avea ella disprezzato. Fingal l’avrebbe sposata se non l’impediva l’invasione di Caracul, che sembra essere Caracalla, il quale nell’anno 211 assalì i Calidonii. Fingal marcia contro il nemico, e lascia Comala in un colle, promettendo di rivederla la notte stessa rimanendo in vita. Vince, e spedisce Hidallan ad annunziarle il suo ritorno. Il traditore le narra, che Fingal è rimasto estinto. Il dolore riduce Comala agli estremi di sua vita. Torna l’amante vincitore, ed ella spira alla sua presenza. Eccone la traccia.

Dersagrena invita Melilcoma a deporre l’arco, e prender l’arpa essendo terminata la caccia coll’avanzarsi la notte. Melilcoma mostra temere per la vita di Fingal. Sopravviene Comala che si meraviglia che le acque del fiume Carun corrano torbide e sanguinose, e fa una preghiera alla luna. Arriva Hidallan colla funesta falsa notizia. Comala si scioglie in lagrime. Melilcoma dice, che ode un suono verso Arden, e che vede certo lume nella valle. «Ah, dice Comala, altri esser non può che il nemico di Comala, il barbaro figlio del re del Mondo… O spirito di Fingal, vieni, e dalla tua nube regola l’arco di Comala, sì che il tuo nemico cada come una lepre nel deserto… Ma che vedo! Fingal viene accompagnato da’ suoi spiriti, … Ombra diletta, vieni tu a spaventare insieme, e a consolare la tua Comala.» Ella fugge dall’amante credendolo estinto. Giungono i Bardi, e cantano la vittoria di Fingal; ma il loro canto è interrotto dall’avviso della morte di Comala. Fingal si dispera; Hidallan confessa il suo tradimento che ne ha cagionata la morte; Fingal lo discaccia; i Bardi cantano le lodi di Comala.

Questo picciolo poema rassomiglia più ad un dialogo che ad un dramma; ma chi rifletterà al luogo, all’entrate successive de’ personaggi, alla mescolanza del canto alla narrazione, vi troverà azione, spettacolo, movimento e patetico. Tra’ Celti cacciatori chi avrebbe sospettato di trovare un informe idea della poesia scenica, mancante per altro di un piano, rozza, senz’arte, ma non priva d’interesse? Ciò può sempre più rassodare quel che osservammo sin dal principio di questa istoria, che presto o tardi gli uomini raccolti in grandi o picciole famiglie sono tratti ad imitar per diletto più o meno imperfettamente le azioni umane a seconda del grado di coltura in cui si trovano.

III.

Tragedia Cittadina.

Scendiamo dalla tragedia reale alla picciola cittadinesca, la cui invenzione appartiene agl’Inglesi, perchè qualche esempio che se n’ebbe in Italia ne’ passati secoli rimase obbliato. Giorgio Lillo giojelliere di Londra, il quale morì l’anno 1739, imprese a scrivere più d’una di simili favole tragiche di persone private sommamente atroci, per le quali si è communicata alle scene francesi ed allemanne la smania di rappresentare le più rare esecrande scelleratezze che fanno onta all’umanità.

L’anno 1735 si rappresentò in Londra la sua Fatal Curiosity, Fatale curiosità. L’Abate Arnaud che ne recò un estratto nel tomo VII della Gazzetta letteraria dell’Europa, «noi, dice, non abbiamo potuto leggerlo senza esserne commossi, non già per quella tenera generosa pietà cara ai cuori più sensibili, ma per certo tristo sentimento doloroso, onde l’anima rimane abbattuta, lacerata, istupidita». Eccone l’argomento e qualche tratto.

Wilmot e Aguese conjugi per fasto e per negligenza si trovano caduti nell’ultima miseria. Un di loro figliuolo savio ed onesto amante corrisposto di Carlotta bella e virtuosa giovane ma non ricca, per non comunicarle la propria indigenza, l’abbandona con la patria sperando di migliorare il suo stato nell’Indie, e si sparge poi il romore di esservi morto. I di lui genitori sussistono stentatamente per gli scarsi soccorsi della stessa Carlotta. Wilmot che sino a questo punto non si è imbrattato di alcun delitto, vacilla sotto il peso dell’infortunio, si pente di essere stato onesto senza frutto, e pensa ad ammazzarsi. Questa situazione è dipinta con forza nella prima scena. Avendo disegnato di’ morire congeda l’affettuoso servo Randal, ed essendo egli vicino a partire Wilmot gli dice: Addio… Ti arresta. Tu non conosci il mondo, a me costa caro l’averlo conosciuto; pria di separarci debbo darti un consiglio… asciugati gli occhi, o Randal; se piangi, non potrò parlare. Odi amico. Vuoi tu sollevarti? vuoi mutar fortuna? Lascia i libri, rinunzia alla filosofia, studia gli uomini; questo solo studio ti basterà. Tu da essi imparerai a nascondere i tuoi fini e a prendere la maschera dell’onore e della probità per arrivare al tuo intento a costo di chiunque sarà così sciocco di fidarsi della tua apparente onestà. Mi consigliate (gli dice il servo) a far quello che voi avreste vergogna di praticare. Ah! questa vergogna appunto (ripiglia Wilmot) mi ha rovinato. Io sono stato corrivo, vorrei che tu fossi più accorto; vorrei che tu trattassi gli uomini come essi meritano, come hanno trattato me, come ti tratteranno, amico… Approfittati del mio consiglio, e ricordati di questa lezione. Osserva il mondo, e sii malvagio e felice; addio.

Torna intanto il giovane Wilmot dall’Indie con una cassetta piena di gioje d’inestimabil valore, ed in abito indiano si presenta a Carlotta che trova tenera e fedele e la riempie di allegrezza. Intende lo stato de’ genitori; si rallegra pensando che è in sua mano il sollevarli; ma vuol presentarsi loro alla prima come un forestiere raccomandato da Carlotta. È accolto cortesemente; ma parlandosi di un figlio che hanno perduto, mostrano essi tanto dolore, che il giovane intenerito temendo di cagionarli una commozione troppo viva col palesarsi in quel momento, si ritira per riposare, consegnando prima alla madre la cassetta con dire di guardarla contenendo cose preziose. Agnese maravigliata della fiducia di quel forestiere è tentata dalla curiosità ad aprir la cassetta; resiste alquanto, poi l’apre e resta abbaccinata allo splendore di tanti diamanti. Quante ricchezze (ella dice)! Questo tesoro discaccerebbe da questa casa l’orrore che vi regna; ci vendicherebbe del disprezzo ingiurioso e della pietà più ingiuriosa ancora del mondo insolente. Esita, indi cede alla sugestione della necessità. Wilmot padre viene per dire che il forestiere è addormentato.

Wil.

Ma che miri tu? La di lui cassetta! L’hai tu aperta! indegna cosa! Se si sapesse…

Agn.

E chi lo saprà?

Wil.

Dobbiamo a noi stessi…

Agn.

Dobbiamo vivere. Stà bene l’essere delicato a chi non ha pane!

Wil.

Si ha tutto, quando si vive senza taccia, e si ha coraggio per morire.

Agn.

Io non vò morire.

Wil.

Ma quali mezzi hai tu di prolongar la vita?.

Agn.

Eccoli. Mira questo tesoro.

Wil.

Oh cielo! che dici? vuoi tu provarmi? Ma bada bene; non v’è cosa più mostruosa che in certe circostanze il cuore umano non possa esser tentato ad approvare.

Agnese dice che essi possono evitare il suicidio detestabile per mezzo di un delitto minore. Ella piange, ella gli rimprovera la vita passata. Wilmot si fa sedurre. Oh Agnese Agnese, (le dice) se vi è inferno, egli è giusto che noi vi siamo tormentati. Egli entra. Agnese lo seguita con gli occhi, ne descrive i movimenti che esprimono i di lui pensieri di pentimento, di tristezza, di surore. Il giovane Wilmot esclama dalla prossima stanza: oh padre oh padre mio. Agnese atterrita chiama il marito. Arriva Carlotta, e intende l’orribile delitto. Si sentono gridi e gemiti. Agnese comprende di aver fatto uccidere il proprio figliuolo, e grida forsennata:

Agn.

Tutto muoja sopra la terra; perda il sole la sua luce; una notte eterna ingombri la specie umana, perchè la nostra storia resti per sempre sepolta nell’obblio.

Wil.

Vane imprecazioni! Il sole continuerà a risplendere, e tutto compierà il suo corso, intanto che noi orrore e peso della terra saremo ridotti in polvere. Il nostro delitto, la nostra disperazione passerà di secolo in secolo per insegnare alle razze future, che il cielo irritato sa trovare certe vendette che l’umana mente non può prevedere. Muori prima di me; non mi fido della tua debolezza.

L’ammazza, e poi si ferisce.

Alla lettura di questo dramma orribile si crederebbe che l’autore fosse stato un uomo di una tetra immaginazione e di un carattere feroce. Ma la regola di giudicar dagli scritti del carattere dell’autore non sempre è sicura. Lillo era un uomo dolce, onesto, di costumi semplici, amato e stimato da quanti il conoscevano. Prima di questa Curiosità fatale egli compose George Barnwel o il Mercante di Londra, che rappresenta un personaggio nato con indole non prava che però sedotto da una donna che ama, ruba il padrone, assassina un suo zio e benefattore, ed è impiccato. Questo argomento è meno orribile del precedente. La gioventù ed una passione eccessiva possono eccitare qualche pietà per un delinquente, là dove nell’altro nulla scema l’orrore di una atrocità abbominevole conceputa a sangue freddo per un motivo vilissimo. Lillo compose ancora un altro dramma, in cui una bella e giovane donna maritata ad un uomo ch’ella non ama, e schiava di un malvagio che ama, vien dall’amante indotto ad esser complice dell’assassinamento del marito. L’autore di un Dizionario de’ Poeti e de i Drammi Inglesi osserva che Lillo era felice nella scelta de’ suoi argomenti. Questa scelta per gl’Inglesi felice tale non sembra agli occhi de’ più giudiziosi Francesi, Italiani e Spagnuoli. Sempre diremo che simili atrocità scelte a bello studio da’ processi criminali più rari o inventati da chi ignora il segreto di commuovere e di chiamar le lagrime su gli occhi con minor quantità di colori oscuri, potrà soltanto piacere in teatro al popolaccio che per aver la fibbra men dilicata si diletta dello spettacolo de’ rei che vanno al patibolo. Quanto poi alla morale istruzione, di grazia che mai può imparare da simili esempi un popolo, in cui passeranno molti e molti lustri senza che in esso avvengano misfatti sì atrocemente combinati? Dicesi che Lillo si prefigeva la correzione de’ costumi, e supponeva che le sue favole potessero prevenire i delitti grandi. Egli s’ingannava sul fine e sull’effetto delle rappresentazioni sceniche. Non tocca al pubblico l’uffizio di un esecutore di giustizia, e le anime atroci non si correggono col teatro. Malheur à la nation (diceva filosoficamente l’abate Arnaud) qui auroit besoin pour corriger ses moeurs de semblabes spectacles.

Una favola seria difettosa per la mescolanza comica è stata coltivata nel secolo XVIII come ne’ precedenti in Inghilterra. La nominata Miss Cowlei compose l’Evasione, e lo Stratagemma della Bella. Mistriss Moore scrisse Percy oltre ad alcuni drammi sacri.

Egli è però notabile che ad onta di tanti ammazzamenti, di tanto sangue e di tanti enormi delitti esposti sul teatro inglese, ogni dramma è preceduto da un Prologo rare volte serio, e seguito da un Epilogo ordinariamente comico anche dopo i più malinconici argomenti. Sovente avviene che la stessa attrice che sarà morta nella tragedia, venga fuori co’ medesimi abiti a far ridere gli spettatori. Un critico Inglese censura seriamente questo costume degli epiloghi nazionali, pretendendo che per mezzo del ridicolo che li condisce, si distrugga il frutto morale del dramma. Ma perchè ciò? Che connessione ha l’una cosa coll’altra? La di lui tetra morale quanto tempo dopo della tragica rappresentazione permette che si possa ridere? Passiamo alla commedia.

IV.

Commedia.

La gloria della commedia inglese dopo del Wycherley è cresciuta per le favole piacevoli e regolari del sign. Congreve morto d’anni cinquantasette nel 1729. Varie ne compose tutte esatte ingegnose e piene di ben descritti caratteri assai di moda tratti da ciò che dicesi gran mondo, avendo animati con tinte vivaci e naturali gli uomini ben nati e male educati, falsi, doppii e furbi in fatti, ma nobili, onesti e virtuosi in parole. Si ha di Congreve parimente una favola tragica sommamente applaudita, la Sposa in lutto.

Riccardo Stèele membro del parlamento e compagno di Addisson nell’opera dello Spettatore Inglese scrisse alcune commedie popolari assai pregiate. Era sua massima che i componimenti teatrali debbano giudicarsi sulla scena e non impressi. Ma quanti di essi scritti pessimamente sono stati meritamente scherniti alla lettura, e non pertanto riuscirono di profitto a’ commedianti nel rappresentarsi a cagione di qualche situazione interessante, o di un’ attrice accetta al pubblico, o di un partito che mai non manca agl’impostori? Li chiameremo perciò buoni? La massima di Stèele presa di traverso può favorire i Pradroni in pregiudizio de’ Racini. Quelle distance immense (diceva Voltaire con tutto senno) entre un ouvrage souffert au thèatre et un bon ouvrage!

Nel 1733 si rappresentò in Londra l’Avare del Moliere ben tradotto dal Fielding miglior poeta e più modesto di Shadwel. Il dialogo non è trasportato parola per parola, ma imitato con libertà moderata e abbellito da qualche immagine. Questa commedia, con riuscita assai rara in Londra, si ripetè sempre con applauso ben trenta volte in circa.

Eduardo Moore nel 1756 se recitare nel teatro di Drury-Lane la Figlia ritrovata, che si scioglie pe’ rimorsi di una balia, e non lascia d’interessare mal grado di tal disviluppo mille volte ripetuto. Tutto il resto però può dirsi una filza di scene debolmente accozzate più che un’ azione ben combinata. Soprattutto il personaggio di Fadle basso triviale, poltrone, infame, preferito in casa di una dama ad un colonnello che la pretende in moglie, ma che intanto a guisa di un mascalzone è preso pel collo, scosso, minacciato, cacciato or da questo or quello, tal personaggio così spregevole dispiacque al pubblico, il quale obbligò l’autore a toglierne tutto ciò che era episodico. Egli poi nell’impressione lo produsse come l’aveva scritto da prima, e con questo lasciò una pruova dell’intelligenza del pubblico, e della propria indocilità ed imperizia.

Miglior pennello comico fu certamente quello di Murphy autore della commedia la Maniera di fissarlo rappresentata nel 1761. Egli l’accozzò co’ materiali di due commedie francesi, il Pregiudizio alla moda, e la Nuova scuola delle donne, ond’è che l’azione apparisce troppo complicata. Il leggitore si dispone nel tempo stesso agli eventi di Lovemore e di sir Constant e di madama Belmour. Ne risulta non pertanto uno scioglimento non infelice, ma da non compararsi però con altri che con un sol colpo mettono i fatti in tutta la necessaria chiarezza. Il ridicolo di un marito amante della propria moglie senza aver coraggio di manifestarsi, è più rilevato nella favola di Murphy che in quella di La-Chaussèe. Constant diviene totalmente piacevole allorchè parla con dolcezza alla moglie essendo soli, ed affetta asprezza ed umore al comparir de’ servi. Curiosa è la dipintura di coloro che aspirano ad entrare nel parlamento fatta da Constant nella propria persona. Che non ho io fatto per voi (dice alla moglie nella seconda scena dell’atto II)? Per darvi gusto non son diventato membro del Parlamento? Per essere eletto non mi son fatto vedere per un mese più ubbriaco del mio cocchiere? Per soddisfare la vostra vanità non mi sono esposto a tutte le insolenze di un popolaccio abbominevole? Non metto poi a conto quella maladetta cicalata che mi convenne recitare! Sa dio come la pronunziai e come la camera l’ascoltò! Io non sapeva dove mi avessi la testa. E che diavolo aveva io a fare col Parlamento?

Giorgio Colman traduttore di Terenzio produsse nel 1763 la Moglie gelosa commedia rappresentata in Drury Lane, e comparsa in seguito per varii anni sulle scene inglesi. Vi è calore, brio, vivacità. Il carattere della gelosa è dipinto con verità e naturalezza. Bene espresso è pure quello di sir Henns rustico occupato sempre de’ suoi cavalli. Graziosa nella prima scena dell’atto II è la genealogia di una giumenta rilevandovisi il ridicolo dell’eccessiva passione degl’Inglesi per le razze de’ loro cavalli. L’azione non ha luogo di languire per la moltitudine degli accidenti accumolati l’un sopra l’altro tratti in parte dal romanzo di Fielding. Si richiedeva però miglior destrezza nel prepararli, affinchè paressero condotti dalla natura, e non dal bisogno che ne aveva il poeta. Quando l’arte si mostra più della natura, lo spettatore si sovviene dell’autore, lo vede passeggiar tra’ personaggi, riflette alla realità, e l’illusione della fantasia è distrutta.

David Garrick il Roscio Inglese insieme col prenominato Colman lavorò al Matrimonio clandestino commedia in cinque atti rappresentata nel 1766 con sommo applauso. È una favola ravviluppata, in cui non si trascura la dipintura de’ caratteri tutti comici, e vi si veggono alcuni colpi teatrali che conducono lo scoprimento di un matrimonio segreto che ne forma il viluppo.

A differenza delle commedie francesi ove trionfa un solo carattere principale, rimanendo gli altri illuminati da una luce riflessa, in questa commedia tutti i personaggi hanno un colorito, e un carattere vivace, e compariscono a buon lume. Il suo merito principale consiste nella connessione delle scene, in una piacevolezza decente, e nell’eleganza dello stile. Colman e Garrick composero varie altre commedie ora uniti, ora separatamente. Appartiene al solo Garrick il Servo bugiardo, la cui traduzione intera si trova inserita nel Giornale straniero di m. La Place nel mese di agosto del 1757. É divisa in due atti, e scritta con gusto e forza comica. L’azione si rappresenta or nell’appartamento di Gayless giovane dissipatore ridotto alle ultime strettezze, ora in quello di Melissa da lui amata, la quale lo crede tuttavia dovizioso. Vi si scorge qualche tratto ricavato dal Dissipatore del des-Touches, specialmente nella prima scena. Le menzogne del servo Sharp ne formano il groppo. I Costumi del Mondo grande è un’ altra commedia del Garrick, in cui non si dipinge fuori della natura, ma si vede l’indole licenziosa del teatro inglese. Un marito offende la fede conjugale d’accordo con una cugina di sua moglie, e questa se ne vendica rendendogliene il cambio con un giovane militare. Garrick figliuolo di un Francese rifugiato in Inghilterra, ebbe per maestri il dottor Johnson e Colson di Rochester; e dopo avere esercitate varie professioni si unì al fine nel 1741 ad una compagnia comica, e per lo spazio di circa anni quaranta fece la delizia, e l’ornamento delle scene inglesi, e morì d’anni sessantatre in Londra nel 1779. Come attore Garrick non ebbe colà chi lo pareggiasse; ebbe bensì chi gareggiò con lui. Cibber altro attore inglese di non poco grido credeva di non essere a lui inferiore. Ciascun di loro resse un teatro per qualche tempo, ed ebbe un partito favorevole. Garrick alla lunga trasse a se tutti i voti, e sopraffece l’emolo. Cibber tuttochè non mancasse di talento, si vide ridotto ad esser capo di una compagnia subordinata, e poco accetta al pubblico, ed a rappresentare componimenti ajutati dalla musica e dal ballo. Egli con due dissertazioni su gli spettacoli che formano una specie di storia del teatro inglese, si lusingava di poter disingannare il pubblico sulle novità introdotte da Garrick, e sul di lui modo di rappresentare. Egli disacerbava così il proprio rancore, e Garrick seguitava ad esser amato ed ammirato.

Volendo il sig. Kelly prestar qualche omaggio al merito di questo attore, dedicogli una sua commedia la Falsa Delicatezza rappresentata nel 1768. Una fredda regolarità per quanto comportano tre intrighi amorosi, un fiacco interesse, alquanti difetti, poche grazie, non poca noja, caratterizzano questa favola. Terenzio e Moliere, dirò sempre, si leggono e si encomiano dapertutto, perchè dapertutto oggi s’ imitano sì poco? Nel 1781 si è impressa in Londra una commedia rappresensata in Drury-Lane the Disipation la Prodigalità. Non avendone veduto neppure qualche estratto, non saprei dire quanto ad essa convenga l’aggiunto di nuova, con cui si enunciò, non ostante che simile argomento, incominciando da Aristofane, e terminando a des Touches e Garrick, sia stato maneggiato tante volte dagli antichi, e da’ moderni.

Vuolsi parimente far menzione delle picciole commedie, o farse possedute dagl’Inglesi, nelle quali trionfa per lo più la satira, e la mimica buffoneria. Recheremo per esempio quelle di Dodsley da lui intitolate Novelle, o Satire drammatiche, e dedicate al Domani essere che non esiste ancora. Una di esse è il Re ed il Mugnajo di Mansfield, di cui si fe parola nel tomo precedente. Nella scena nona si trova un satirico ritratto della città di Londra che ne dà poco vantaggiosa idea, ma che è il ritratto di più di una società culta. Il Cieco di Betnal-Green (litolo che portava un’ altra favola antica del poeta Johnday del tempo di Giacomo I) è un argomento interessante pel contrapposto de’ caratteri bene espressi. Vi si vede dipinto a neri colori un milordo prepotente, ed un quakero ipocrita, i quali cercano di comprare, sedurre, e poi rapire una virtuosa fanciulla figlia di un cieco povero in apparenza. La Bottega di merceria (bijouterie) è tutta satirica. Un merciajo vende satireggiando, e moralizzando con grazia. Per esempio egli alle dame e agli zerbini che vengono in bottega, presenta uno specchio, in cui (egli dice) la civettuola può vedere la sua vanità, la bacchettona la sua ipocrisia, non poche femmine più bellezza che modestia, più smancerie che grazie, più spirito che buon senso. Presentando una scattola dice che è una rarità, perchè è la più picciola che trovisi in Inghilterra. Un cortigiano in essa può chiudere tutta la sua probità, un verseggiatore tutto il suo danaro.

Queste sono le tragedie, le commedie, e le farse del secolo XVIII, nelle quali si sono distinti al pari de’ migliori attori diverse attrici. Siccome l’Inghilterra può vantarsi di avere avuto in Garrick il suo Baron, così in madamigella Cibber ebbe la sua Le-Couvreur. Appena contava la Cibber diciotto anni della sua età, quando rappresentando la parte di Zaira nella traduzione di Hille, fe vedere alla nazione certa sensibilità spogliata da ogni caricatura istrionica, ed una declamazione naturale sino a’ suoi dì sconosciuta in quel clima. Nella fine del secolo trionfava sulle scene inglesi madamigella Siddons eccellente attrice, alla quale tributano gl’Inglesi tutti gli elogii per la verità, l’espressione e l’energia, che al loro dire ella possiede eminentemente. Bisogna dire che le attrici inglesi siano assai ben disposte alla declamazione. L’Inghilterra ha vantato prima della Siddons e della Cibber diverse altre attrici stimabili. Dopo la Nelly, cioè Elena Guyn attrice comica sì cara al re Carlo II, fiorì la celebre Ofields ammirata in vita, e sepolta poi accanto ai grandi poeti del suo paese in Westminster. Quins, Davesport, Marshall, Betteron, Lees furono parimenti attrici assai rinomate.

V.

Opera Inglese ed Italiana.

Non mancò all’entrar del XVIII secolo quella specie di opera inglese che si chiamava mascherata, anche dopo della Circe di Carlo d’Avenant. La Rosamunda di Addisson fu una mascherata forse troppo da’ nazionali applaudita. Il Giudizio di Paride, e la Semele di Congreve portarono parimente il titolo di mascherate. Milord Granville che scrisse sull’opera musicale, una ne compose egli stesso, prendendo quasi per modello fra quelle di Quinault l’Amadigi di Gaula, e l’intitolò gl’Incantatori Brettoni.

Gl’Inglesi hanno avuta ancora un’opera buffa nazionale. Il Diavolo a quattro è una burletta musicale di caratteri comici ben combinati. Ma la più celebre in questo genere è quella del sig. Gay rappresentata nel 1728. Il titolo è Beggars’ Opera, cioè l’Opera del Mendico, e non già de’ Pezzenti, come la chiamarono alcuni Francesi, ed anche il sig. Giovanni Andres, impropriamente dandosi il titolo di pezzenti a’ ladroni facinorosi de’ quali in essa si tratta. L’autore la chiamò opera del Mendico, perchè nell’introduzione finse che un poeta mendico l’avesse composta, e presentata a’ commedianti. È un componimento di tre atti in prosa con sessantanove ariette da cantarsi. Incredibile è l’effetto che produsse in tutte le isole brittanniche. In Londra alla prima si recitò 63 volte, e si ripigliò nell’inverno. In Bath, in Bristol nel paese di Galles, in Iscozia, in Dublin, si rappresentò con insolito esempio or cinquanta, or quaranta, e non meno di trenta volte di seguito. L’attrice che rappresentò la parte di Polly, che si chiamava Miss Fenton, divenne la delizia di Londra. Se ne scrisse la vita, se ne lodarono i bei motti, se ne fecero più ritratti, ed in fine sposò pubblicamente il duca di Bulton uno de’ primi signori Inglesi. Il dottor Swift intimo amico di Gay nel suo Gazzettiere non meno che il Pope nella Dunciade, e che il Warburton nelle note che fece a questo poema satirico, l’esaltarono come un capo d’opera. È una viva imitazione, e un ritratto naturale de’ più scellerati della società, essendone gl’interlocutori spioni, traditori, ladroni di campagna e di città, bagasce le più impudenti, che abbracciando un loro amante lo disarmano, e lo consegnano alla forza pubblica. Il tutto è sparso copiosamente di oscenità, e di una satira ardita sopra tutti i ceti, non risparmiandosi i nobili, le dame, gli avvocati, le persone di corte, e fin anco i ministri di stato, i quali vi sono paragonati a i delatori de’ ladri ed alle persone più basse ed esecrabili. A mirar la nostra professione (dice l’infame Peachum ritratto di Jonathan Wild impiccato in Londra nel 1724) per certo aspetto si può chiamare disonesta, perchè noi rassomigliamo a’ ministri di stato nel dar coraggio a’ malvagi, affinchè tradiscano i loro amici. Il Mendico che nell’ultima scena torna in teatro col commediante, gli dice: Nel corso dell’opera avrete notata la grande rassomiglianza che hanno i grandi co’ plebei; è difficile decidere, se ne’ vizii di moda la gente colta imiti i ladroni di vie pubbliche, ovvero se questi ladroni imitino la gente colta.

Gay compose poi una continuazione dell’Opera del Mendico che intitolò Polly. Il Lord Ciambellano non ne permise la rappresentazione; ma una numerosissima soscrizione per farsi imprimere lo compensò ampiamente. Il riputato Giovanni Andres afferma che Polly è meglio condotta e più interessante . Noi che non abbiamo ancor letta quest’altra opera, non possiamo altro dire, se non che m. Patu traduttore delle opere di Gay e di altri inglesi, ci fa sapere che Polly è fort inferieure à son prèmier ouvrage .

Gay nella sua Beggars’ Opera mottegiò l’opera italiana introdotta in Londra sin dal secolo XVII, come dal capo al fondo tutta fuori della natura . La musica italiana (dice lodandolo Swift) è pochissimo fatta pel nostro clima settentrionale e pel genio della nazione. I motti di Gay, di Swift, di Dennis, fecero bandir dall’Inghilterra la musica italiana, pretendendosi di averne corrotto il gusto, e cagionato nocumento agli spettacoli nazionali. Vi fu poscia richiamata; ma sembra che di tutti gli spettacoli scenici l’opera italiana sia colà la meno frequentata. Si spende nelle voci prodigamente, e ben poco nelle decorazioni e ne’ balli. I drammi, la musica, i cantanti, tutto chiamano dall’Italia.

Si concorre a questo spettacolo senza trasporto. Non disgusta la nostra musica, ma le donne specialmente (dicesi nel libro francese intitolato Londres) non possono assistere senza riso a uno spettacolo, in cui un Ati o un Eutropio teatrale si vede rappresentar seriamente Artaserse, Adriano, Enea; e quanto più codesti cantanti mal conci si sforzano di esprimere i loro affetti, tanto più si raddoppiano le risa femminili, In questa guisa la natura manifesta avversione e disprezzo per una mostruosità che l’ha oltraggiata per più secoli.

Per accennar qualche cosa della musica stromentale di quel paese, diciamo, che sino al regno di Riccardo cuor di leone era pressocchè selvaggia. Questo principe la coltivò con certa felicità sotto Blondel suo maestro. La regina Elisabetta che amava la melodia e che volle spirare ancora ascoltando un concerto di musica, contribuì agli avanzamenti di sì bell’arte, prendendone in parte il gusto dall’Italia dove fioriva. Nel passato secolo XVIII il famoso tedesco Hendel cagionò in Inghilterra la rivoluzione che aveva prodotto un secolo prima in Francia il fiorentino Lulli. Oggi gl’Inglesi vantano una musica nazionale discendente dalla Tedesca, la quale è figlia dell’Italiana. I concerti del Fax-Hall, e del Renelag, e quelli che si danno nella chiesa di san Paolo, e i particolari di tutta Londra, sono per lo più componimenti d’Inglesi.

VI.

Teatri materiali.

I Teatri di Londra non son certamente i meno pregevoli dell’Europa. Quello dell’Opera, Drury-Lane, e Coven-Garden hanno una immagine della scalinata antica nella platea, e de’ moderni palchi nelle logge. L’edificio dell’Opera è un parallelogramma largo circa cinquanta piedi parigini e lungo trentasette sino all’orchestra. Sono in essi iscritti undici scalini per la platea, nell’ultimo de’ quali si alza una loggia di pilastri isolati con varie scalinate, e su questa una seconda colle sue scalinate, Sopra i lati della platea attaccati all’orchestra si elevano quattro ordini di logge, delle quali ciascuna contiene tre palchetti, presso a questi sono per ogni lato tre colonne isolate di ordine corintio con tre logge negl’intercolunnii, de’ quali ognuno ha tre palchetti l’uno sopra l’altro destinati per la famiglia reale. Le ultime di tali colonne formano il proscenio. Dello stesso ordine corintio sono le due colonne isolate che si veggono nel fondo delle scene. Questo teatro non manca di scale, corridoi e commodi ingressi. Dicesi però nel trattato del Teatro che tralle varie logge de’ palchetti e nell’anfiteatro manca quel necessario ricorso delle linee e quella concatenazione di parti, donde risulta l’unità e l’armonia di tutto l’edificio .

Di gusto e di capacità somigliante sono gli altri due teatri. Più armonia si scorge in quello di Coven-Garden, in cui le scalinate si uniscono colle logge, anche colle reali che sono ai due lati dell’orchestra e del proscenio, ed hanno solo due colonne per lato. Non sono perfette porzioni di cerchi, ma di poligoni tanto la parte anfiteatrale quanto gli scaglioni della platea. Il teatro di Drury-Lane verso l’ultimo lustro del secolo XVIII soffrì un incendio che lo distrusse e nell’ultimo anno di esso si pensò a riedificarlo.

Tutti i teatri di Londra hanno accessorii commodi e nobili; benchè per questa parte trovinsi in Europa diversi teatri che gli uguagliano ed alcuni che gli superano.

Ma niun teatro del mondo ha pareggiati ch’io sappia, non che superati i teatri di Londra in una decorazione altrove non più veduta, che dovrebbe accendere di bella invidia ogni nazione. Una società di marina destinata a fornire a’ poveri giovanetti i mezzi di fargli venire a Londra da ogni parte per apprendere il mestiere di marinajo per uso de’ vascelli di guerra, vi fu stabilita verso la mettà del passato secolo. Contribuirono volontariamente i membri di essa a sostenerla, ed il sovrano la soccorse con mille lire sterline, ed il principe di Galles con quattrocento. Concorsero ad aumentarne il fondo anche gli spettacoli scenici. Gl’impressarii prestarono gratuitamente la sala, e gli attori lasciarono in beneficio della società le loro porzioni. In una delle rappresentazioni di Drury-Lane si raccolsero intorno a 271 lire sterline. Per mostrar poi al pubblico il nobil frutto delle di lei cure e del patriotismo che univa gl’Inglesi a mantenere un’ opera così utile, si schierarono sul teatro 75 giovanetti, de’ quali niuno oltrepassava gli anni diciotto, e quaranta uomini provetti vestiti tutti dalla società. Che vaga pompa! che decorazione invidiabile! Oh chi potesse congiungerla con gli ornati, le dorature, i cristalli e le superbe illuminazioni in tutti i popoli che hanno mare e vagabondi, e che dovrebbero approfittarsi dell’uno e degli altri per avere una marina armata ed un commercio!