(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO VI. Teatro Greco. » pp. 44-148
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(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO VI. Teatro Greco. » pp. 44-148

CAPO VI.
Teatro Greco.

I.
Prima epoca sino a Frinico I.

Quante novità forse un dì apporteranno i più comuni oggetti che ora ci veggiamo intorno senza prenderne alcuna cura! Da fonti lontani e quasi impercettibili scaturiscono spesso i più notabili evenimenti. Quel chimico che vide la prima accidentale esplosione del nitro, imprigionò Motezuma, strangolò Guatemazin, giustiziò Atabualpa, tradì e condannò l’innocente Cazica Anacoana, spopolò tutta l’America. Ma bisogna che un interesse personale determini il primo osservatore a fissarvi lo sguardo: che la sua osservazione per un interesse più generale si comunichi a’ circostanti: e che vada così di mano in mano continuando a prender forma, finchè pervenga a costituire un’ epoca notabile. Quanti capri avranno rose e guaste tante volte le viti delle montagne dell’ Attica senza produrre veruna novità! Ma quell’abitatore d’Icaria, che ne sorprese uno nel suo podere, fu per sicurezza della sua vigna consigliato dal proprio interesse a sacrificarlo a Bacco, e quei paesani che ciò videro, ricordandosi delle proprie vigne per somigliante interesse applaudirono al colpo, si rallegrarono, e saltarono cantando in onor del nume. Quindi nacque una festa, un sacrifizio e un convito rinnovato ogni anno in tempo di vendemmia, nel quale la licenza del tripudio e l’ubbriachezza svegliarono quella satirica derisione scambievole che piacque tanto e che perpetuò la festa. Quel motteggiarsi a vicenda e quegl’ inni sacri cantati ballando formarono a poco a poco un tutto piacevole, che da τρυγη, vendemmia, si chiamò trigodia 40, e fu come il germe che in se conteneva la gran pianta della poesia drammatica, la quale vedremo di quì a poco ingombrar tant’aria e spandere per tutto verdi e robusti i suoi rami.

Continuando in tal guisa lungo tempo questi cori pastorali ed inni Dionisiaci doveano naturalmente partorir sazietà e svegliare in alcuno un desiderio di rianimargli con qualche novità. Così in fatti avvenne. Vi è chi attribuisce ad Epigene di Sicione il pensamento d’interporvi altri racconti chiamati Episodj, per rendere la festa più varia o per dar tempo a’ saltatori e cantori di prender fiato41. I primi cori contenevano le sole lodi di Bacco, e gli episodj parlavano di tutt’altro. Il popolo se ne avvide, e mormorò della novità42; ma continuò ad ascoltarli, e la novità parve felice e dilettevole. Questa istoria ci si presenta ad ogni passo nelle opere de’ più veridici scrittori dell’antichità, e punto non ripugna all’ordinata serie delle umane idee, le quali vanno destandosi a proporzione che si maneggia l’arte, e la società avanza nella coltura. Chi adunque arzigogolando sdegna di riconoscere da tali principj la tragedia e la commedia Greca, non vuol far altro che dare un’ aria di novità e di apparente importanza a’ proprj scritti, e formar la storia della propria fantasia più che dell’arte.

Solevano i riferiti cori ed inni nominarsi indistintamente tragedia e commedia, e chi ne scrisse ebbe il nome talvolta di tragico talvolta di comico poeta. Apollofane da Suida vien detto antico poeta comico, e nell’ Antologia tragico. Cefisodoro, Forono, Efippo sono chiamati ora tragici ed ora comici. Suida mentova una Medea ed un Tereo argomenti tragici come favole di un tal Cantaro, cui dà il nome di poeta comico. Il nomato Epigene vien detto comico da Suida, ma da Ateneo si citano l’Eroine e la Baccante di questo drammatico come favole tragiche.

Corsero intorno a mille anni dal tempo, in cui resse Minos lo scettro di Creta, alla venuta di Tespi, ed in tal periodo moltissimi Poeti coltivarono in Atene la tragedia, spiegando tutto il patrio veleno contro di quel re che dipinsero come ingiusto e crudele, pel tributo da lui imposto agli Ateniesi delle donzelle e de’ giovani da esporsi al Minotauro in vendetta dell’ucciso Androgeo di lui figliuolo43.

Ma il genere tragico sino all’olimpiade LX o LXI non si vide ben distinto dal comico. Tespi contemporaneo di Solone provveduto di competente gusto e discernimento gli separò; e perchè si attenne sempre al solo tragico, gli fu attribuita l’invenzione della tragedia44, avvegnacchè altri l’avessero preceduto (Nota III). I Giovani sacri, il Forbante, il Penteo sono nomi di alcune favole Tespiane. Appartiene a Tespi questo frammento rapportato e tradotto da Grozio45:

Vides ut alios Jupiter superet Deos;
Mendacium illi, & risus, & fastus procul:
Unus deorum est dulce quem non attigit.

Gli Episodj così purificati da ogni mescolanza comica, nel passare nell’ olimpiade LXVII nelle mani di Frinico discepolo di Tespi, di parte accessoria del coro divennero corpo principale del dramma, trattarono favole ed affetti, e formarono uno spettacolo si dilettevole, che meritò di essere introdotto in Atene. Cherilo l’Ateniese che fiorì nell’ olimpiade LXIV, avea trovata la maschera ed abolita la feccia, di cui prima tingevansi gli attori46, e Frinico accomodò quest’invenzione anche alle parti di donne.

Se abbiasi riguardo allo stato della drammatica di quel tempo, Frinico merita l’ammirazione de’ posteri. In una tragedia pose alcuni versi così pieni di robustezza, di energia e di arte militare, e gli rappresentò con tanto brio che scosse gli spettatori di un modo che nel medesimo teatro fu creato capitano; giudicando assennatamente gli Ateniesi che chi sapeva tanto solidamente favellare delle operazioni belliche, era ben degno di comandare alle squadre per vantaggio della patria47. Frinico inventò ancora il tetrametro. Le favole che di lui si citano, sono: Pleuronia, gli Egizi, Atteone, Alcestide, Anteo, i Sintoci e le Danaidi. Fu egli figliuolo di Poliframmone o di Minia o di Corocle, secondo Suida, e fu padre di un altro poeta tragico chiamato anche Poliframmone. L’Espugnazione di Mileto, di cui parla Eliano stesso48, appartiene a un altro Frinico figliuolo di Melanta, il quale per tal tragedia fu punito dagli Ateniesi con una multa di mille dramme. Questo Frinico di Melanta fu il poeta che rappresentando la mentovata tragedia preso da non so qual timore ovvero orrore naturale non potè proseguire, ed il popolo lo fe ritirare dalla scena49.

II.
Teatro di Eschilo.

Epigene, Tespi e Frinico I furono tre uomini di talento, ognuno de’ quali sorpassò il predecessore e diede nuovo lustro alla tragedia. Con qualche passo di più forse l’ultimo di essi l’avrebbe condotta a quel grado di perfezione, in cui le arti, come ben dice Aristotile, si posano ed hanno la loro natura. Eschilo il settatore di Pitagora sopravviene in un punto sì favorevole, corre lo spazio che rimaneva intentato, coglie il frutto delle altrui e delle proprie fatiche, e giugne ad esser il primo meritamente onorato da Aristotile e da Quintiliano col titolo d’ingegno creatore e di padre della tragedia. Come poeta eccellente seppe con arte e felicità maggiore degli antecessori trasportar le favole Omeriche al genere tragico e maneggiarle in istile assai più grave e più nobile. Come direttore intelligente, valendosi dell’opera dell’architetto Agatarco, fece innalzare in Atene un teatro magnifico e assai più acconcio a rappresentarvi con decenza e sicurezza; là dove Pratina e altri tragici del suo tempo montavano su tavolati non solo sforniti di quanto può contribuire all’illusione, ma così mal costruiti che sovente cedevano al peso e cadevano con pericolo degli attori e degli spettatori. Eschilo abbigliò ancora le persone tragiche con vestimenti gravi e maestosi, fece ad esse calzare il coturno, e migliorò l’invenzione della maschera di Cherilo e di Frinico. Volle innoltre egli stesso e comporre la musica de’ suoi drammi, e inventar l’azione de’ balli, e prescrivere i gesti e i movimenti del coro che danzava e cantava negl’ intervalli degli atti, togliendone la direzione agli antichi maestri ballerini. Secondò parimente molto meglio il pensiero de’ suoi predecessori di scemare il numero degl’ individui del coro musico e ballerino per accrescerne quello degli attori degli episodj; e con questa seconda classe di rappresentatori rendè l’azione vie più viva e variata. Seppe in somma per molti riguardi farsi ammirare ed in se unire i meriti più rari di poeta, di musico, di attore e di direttore. Settanta, o come altri vuole, novanta, o cento tragedie egli compose, delle quali sette appena ce ne rimangono, e riportò la corona teatrale intorno a trenta volte. Guerriero, capitano, vittorioso nella pugna di Maratona per Atene sì gloriosa, mostra nello stile la grandezza, il brio militare e la fierezza de’ proprj sentimenti (Nota IV). Il suo carattere è robusto, eroico, grande, benchè talvolta turgido, impetuoso, gigantesco e oscuro. Le tragedie che se ne sono conservate, s’intitolano Prometeo al Caucaso, le Supplici, i Sette Capi all’assedio di Tebe, Agamennone, le Coefore, l’Eumenidi, e i Persi. Di queste non meno che delle altre favole greche a noi giunte, in grazia della gioventù curiosa e senza arrogarci l’autorità e l’infallibilità degli oracoli, andremo brevemente esponendo le bellezze principali senza dissimularne qualche difetto.

Traluce nel Prometeo l’elevazione dell’ingegno di Eschilo, e l’energia de’ suoi concetti mista si vede a certa antica ruvidezza che gli concilia rispetto. Intervengono in questa favola numi, ninfe, eroi e personaggi allegorici, come la Forza e la Violenza. Vulcano per comando di Giove annoda Prometeo al Caucaso con catene indissolubili, per avere involato il fuoco celeste, ed animati e ammaestrati gli uomini, indi l’abbandona al suo dolore. Prorompe in compassionevoli querele l’infelice benefattore degli uomini punito. Io ardisco per saggio recare in Italiano il principio di esse per coloro che non amano le latine letterali traduzioni e soffrono di vederne qualche squarcio comunque da me espresso:

O spazj immensi ove ogni cosa nuota,
O voi venti leggieri o fonti o fiumi,
E voi del mare interminabil onde,
O madre o terra, o sol che a tutti splendi 50,
A voi ragiono, s’altri, oimè, non m’ode.
Vedete i mali miei: me nume un nume,
Nuovo signore de’ superni dei,
E preme e oltraggia e inesorabil danna
A lacci eterni e prigionia spietata.
Soffro il presente, e la memoria amara
Del par mi attrista del futuro danno.
Deh quale è a tanto duol termin prescritto?
Oimè che parlo? oimè! la serie acerba
Di mie sventure antiveder m’è dato
Per tormento maggior! Lunga essa fia,
Eterna fia! e qual prevedo, ahi lasso!
Tutto avverrà; chè non si vince il fato,
E alla necessità nulla contrasta.

Un coro di Ninfe dell’Oceano viene a consolarlo, colle quali Prometeo parlando disacerba il suo dolore, e narra l’innocente ed utile suo delitto. Sopraggiugne il Padre Oceano a prestargli un amichevole uffizio, ed in gravi ragionamenti si trattengono sul nuovo regnator de’ numi, ed in tal proposito Oceano gli porge salutari consigli:

Deh te stesso conosci e al tempo servi;
Nuovi costumi un nuovo regno esige.

Prende Prometeo in buon grado le parole dell’amico, e dopo aver seco favellato di altri rigori da Giove usati con Atlante e con Tifeo, Prometeo l’esorta a partire, perchè non abbia anch’egli ad incorrere nell’indignazione del nuovo regnante. Favella poi col coro dei diversi ritrovati e di tante arti insegnate agli uomini, i quali prima poco differenti da’ tronchi viveano come le belve rintanati negli antri. L’ episodio degli errori della misera Io trasformata in giovenca accresce il terrore di questa favola; e benchè vi sia introdotta senza manifesta necessità o immediato vantaggio dell’ azione principale, pure dà luogo a sviluppare sempre più il carattere del benefico infelice protagonista. Ella in tal guisa entra nella scena, secondochè io traduco:

Quai terre? Ove son io? Chi a queste avvinto
Orride rupi ed al rigor del verno
Tal giace esposto o sventurato o reo?
Chi sei? qual tuo delitto o nume avverso
Così ti opprime? In quai contrade errante
Senza speme e consiglio il piè mi trasse? ....
Ma l’usato furor di nuovo annebbia
La mia ragione, e mi trasporta, e punge! ...
Sento già risuonar le note avene; 51
Sorger di nuovo, oimè! veggio dall’orco
Argo severo, e con orrenda face
In truce aspetto mi minaccia e fuga
Per erme arene e per solinghe vie!
Dove, misera me, superna forza
Dove mi spinge mai! Giove, e qual colpa
Sì in me punisci, e di terrore ignoto
L’alma riempi, ed a vagar mi sforzi?
Ah per pietà m’incenerisci, o il suolo
S’apra e m’ingoi, o di marini mostri
Esca infelice in mezzo al mar mi scaglia.
Abbastanza vagai, soffersi e vissi 52.

Dopo così bel passo energico, patetico, vigoroso, Io ascolta le sue future avventure da Prometeo, indi presa dal solito estro precipitosamente sen fugge. Mentre Prometeo affretta co i voti la venuta di un successore di Giove, ch’egli crede di prevedere, sopravviene Mercurio a minacciarlo da parte dello stesso Giove di più atroci pene, se non palesa questo nuovo successore. Traspare in Prometeo una grandezza d’animo che nelle disgrazie lo rende degno di rispetto. Non si piega ai comandi, non si avvilisce nelle minacce, non ispande gemiti nè preghiere per esser liberato, non si approfitta dell’occasione per impetrar grazia e perdono. Gli antichi Greci insegnano ai moderni ingegni l’arte d’interessare e piacere senza ampollose accumulate particolarirà e romanzesche azioni. E’ ciò picciol merito? Sì, per gli piccioli e manierati talenti, come furono i La-Mothe, i Perrault e i Cartaud de la Vilade, de’ quali per altro abbonda ogni nazione. Mercurio dopo di avere pregato invano, spiega tutta la serie de’ nuovi imminenti mali di Prometeo. Tuoni, venti, fulmini, scuotimenti di terra, sepoltura improvvisa nelle viscere de’ monti, aquile divoratrici del di lui cuore, apportano terrore agli spettatori e quando vengono minacciate e quando effettivamente agitano la scena. Prometeo l’ascolta, prevede il resto della minacciata sventura dal vederne i principj avverati, nè cede, nè si ritratta e solo si lagna invocando la terra sua madre e l’etere che circonda la luce in testimonio dell’ingiustizia che l’ opprime. Non ci fermiamo nelle minute obbiezioni del per altro erudito Robortelli fatte a questa favola che spira per tutto grandezza e nobiltà e un patetico interessante. Il giovane studioso impara inutilmente, per esempio, ch’egli è assurda cosa il trovarsi Prometeo in tutta la rappresentazione alla vista dell’uditorio, essere gl’ interlucutori tutti numi e cose simili. Leviamo un pò più su il guardo ed osserviamo che Prometeo è un personaggio totalmente buono e benefattore dell’umanità, e che il buono effetto che se in teatro, c’ insegna, che sebbene Aristotile ci diede una bellissima pratica osservazione nel prescrivere che il protagonista debba essere di una bontà mediocre mista a debolezze ed errori, non debba però tenersi per legge generale inviolabile, altrimenti ne mormorerà il buon senno che ci porta ad ammirare giustamente il bellissimo carattere di Prometeo, quello di Ajace in Sofocle, ed altri ancora di ottime tragedie moderne (Nota V).

Nella condotta delle Danaidi Supplichevoli si osserva una regolarità così naturale che con tutta la gran semplicità dell’ azione tiene sospeso il leggitore sino all’atto V, quando le Danaidi passano dall’asilo alla città, venendo discacciato l’araldo dell’ armata Egiziana nemica di queste principesse. Quest’araldo ne prende una per la chioma e la strascina verso i vascelli, la qual cosa esaminata colle idee de’ tempi correnti sembra disdicevole al decoro di persone reali; ma per giudicarne drittamente bisognerebbe risalire col pensiero agli antichissimi costumi de’ tempi eroici, altrimenti ci faremmo giudici di Omero e de’ tragici antichi senza comprendere la materia de’ loro poemi.

La tragedia de’ Sette a Tebe reca diletto ed invita a leggere anche a’ giorni nostri, essendo ripiena di bei tratti, di movimenti militari, di sospensioni maravigliose, fatta in somma per presentare uno spettacolo degno di ogni attenzione. Longino ottimo giudice ne cita un vago frammento dell’atto I, che nella nostra lingua potrebbe così tradursi:

Sette Guerrier spietatamente audaci
Stan presso a un’ ara di gramaglie cinta
In atto minacciosi e con orrendi
Giuramenti spaventano gli dei,
Alta giurando insolita vendetta
A Gradivo, a Bellona, alla Paura,
Mentre le mani tingonsi nel sangue
Fumante ancor d’un moribondo toro.

Sommo impeto di vigorosa eloquenza scorgesi nel coro del medesimo atto primo, e la dipintura vivace del sacco di una città presa per assalto si legge con gran piacere nell’atto secondo. L’ultimo atto sembra veramente un accessorio superfluo, poichè si è sciolto l’assedio per l’ esito funesto del combattimento di Eteocle e Polinice.

La tragedia Agamennone fu coronata, e certamente anche a giudizio de’ posteri intelligenti meritava quest’onore. Il Viperani e lo Scaligero nelle loro Poetiche ne osservano la manifesta inverisimiglianza di vedervisi a un tempo stesso Agamennone ucciso e sepolto. Si può notare eziandio che o la rappresentazione di questa tragedia dee durare alcuni giorni, o, come riflette Metastasio53, Eschilo non ha creduto obbligata la sua imitazione alle circostanze del tempo. E la ragione si è perchè la guardia posta sulla cima di una torre a veder se risplenda la fiamma che dee di montagna in montagna da Troja ad Argo prevenire la venuta di Agamennone, vede appena il fuoco e ne porta la notizia a Clitennestra, che giugne il marito quasi nel medesimo punto. Noi ci contentiamo di osservare che quantunque l’azione sembri languire alquanto ne’ primi atti, pur questi preparano ottimamente l’ orribile evento dell’atto quinto, dove si veggono le passioni condotte al più alto punto. L’esclamazioni di Cassandra tutte piene di enimmi enfatici e d’immagini inimitabili manifestano la robustezza dello stile e dell’ingegno di Eschilo.

Le Coefore, ovvero Donne che portano le libazioni, rappresentano la vendetta di Agamennone presa da’ suoi figliuoli, argomento poi trattato ancora dai due gran tragici che vennero appresso. Sin dalla prima scena vi si espone lo stato dell’azione con arte e nitidezza tale, che l’antichissimo riformatore e padre della tragedia non ebbe bisogno dell’esempio altrui per condurre alla perfezione questa parte sì rilevante del dramma, nella quale tanti moderni fanno pietà, a differenza del celebre Metastasio che sempre mirabilmente vi riesce. L’energia e la forza del coro dell’atto I difficilmente può passare in altra lingua. La riconoscenza di Elettra e del fratello si fa nel II per mezzo de’ capelli gettati da Oreste sulla tomba e delle vestigia impresse nel suolo simili a quelle della sorella e di un velo da lei lavorato nella fanciullezza di Oreste. Euripide veramente non a torto nella sua Elettra si burla di simili segni; ed in fatti non si prenderà mai per modello delle agnizioni teatrali questa di Eschilo sfornita di verisimiglianza. Ma egli poi mostra molto giudizio nel medesimo atto, facendo che Oreste rifletta sull’impresa a cui si accinge: che si lagni dell’oracolo di Apollo onde è minacciato de’ più crudeli supplicj, se lascia invendicato il padre: che s’intenerisca alla di lui rimembranza: che si mostri ancora sensibile ai mali de’ popoli sacrificati agli usurpatori del trono. Tutto questo rende in certo modo sopportabile il gran parricidio che è per commettere. Nè di ciò pago il savio poeta, in una lunga scena di Elettra e del coro con Oreste, fa che questi appalesi la ripugnanza e l’incertezza che lo tormenta, la quale si va poi dissipando col sovvenirsi delle terribili circostanze dell’ammazzamento di Agamennone, alle quali fremendo dice che darà la morte a Clitennestra, indi a se stesso. Tali riguardi, sospensioni e cautele erano indispensabili per disporre l’uditorio ad uno spettacolo oltremodo atroce di un figlio che si bagna del sangue di una madre. Segue nell’atto IV l’uccisione di Egisto, ed il pianto che sparge Clitennestra per quest’usurpatore serve di cote al furor di Oreste e lo determina ad ucciderla. Nel V il poeta si dimostra parimente gran maestro, facendo vedere benchè in abbozzo l’ infelice situazione di Oreste che trasportato da’ rimorsi va perdendo la ragione.

Oreste medesimo perseguitato dalle Furie indi liberato dalle loro mani per lo favore di Apollo e di Minerva e per la sentenza dell’Areopago, è l’argomento della famosa tragedia dell’Eumenidi. Le Furie rappresentate da cinquanta attori ne formavano il coro, i quali furono dal poeta in tale spaventevole e mostruosa foggia mascherati e con si orribili modi e grida entrarono nella scena, che tutto il popolo si riempì di terrore, ed è fama che vi morisse qualche fanciullo e più di una donna incinta vi si sconciasse. Eschilo in questa favola trasgredì le regole del verisimile, facendo passare una parte dell’ azione nel tempio di Apollo in Delfo e un’ altra in Atene. Si vuol notare nella prima scena la pittura terribile dell’Eumenidi fatta dalla sacerdotessa, l’inno magico infernale pieno del fuoco di Eschilo cantato dal coro dell’atto III per aver trovato Oreste, ed il giudizio del di lui delitto fatto nel V coll’ intervento di Minerva che presiede agli Areopagiti, di Apollo avvocato del reo, e delle Furie accusatrici. Il coro che negl’ intermezzi è cantante, nel giudizio è parlante come ogni altro attore, ed uno solo favella per tutti, la qual cosa si osserva in tutte le tragedie antiche.

Finalmente i Persi, tragedia data da Eschilo otto anni dopo la famosa giornata di Salamina sotto l’Arconte Menon, è fondata sulla spedizione infelice di Serse nella Grecia, argomento prima di Eschilo trattato da Frinico. La condotta n’è così maestrevole che il leggitore dal principio sino alla fine vi prende parte come nato in Grecia: tale essendo l’arte incantatrice degli antichi posseduta da ben pochi moderni, che la più semplice azione viene animata dalle più importanti circostanze con tanta destrezza, che il movimento e l’ interesse va crescendo coll’ azione a misura che si appressa al fine. Per non avere a tale artificio posto mente il dotto Scaligero ne censurò54 la soverchia semplicità, nè le diede altro nome che di semplice narrazione; ed il Nisieli che sì spesso declama contro gli antichi, ne adottò la decisione55. Nè l’uno nè l’ altro erudito nel leggerla consultò il cuore. Il racconto della perdita della battaglia nell’atto II bellamente interrotto di quando in quando dalle querele del coro de’ vecchi Persi, forma una delle bellezze di questo dramma. L’atto IV, in cui comparisce l’Ombra di Dario, è veramente un capo d’opera, con tanto senno vi contrasta coll’ambizione di Serse il governo di Dario divenuto pacifico, la prudenza del vecchio colla vanità del giovane regnante; e con tale delicatezza mettonsi in bocca di sì gran nemico le lodi della Grecia. La venuta di Serse nel V atto aumenta la dolorosa situazione del Consiglio di Persia. Queste bellezze che sfuggono alla pedanteria, non isfuggirono al giudizioso e dotto Brumoy. I Persi è tragedia da leggersi attentamente da chi voglia impadronirsi della grande arte d’interessare e in conseguenza di commuovere e piacere (Nota VI). Discordi pure da questo avviso chiunque si senta rapire dall’autorità de’ Nisieli e degli Scaligeri, purchè non mi si ascriva a delitto il dipartirmene per seguire l’affetto che m’inspira la lettura di questa favola. Io non mi sono punto proposto in quest’opera di copiar ciecamente gli altrui giudizj (che sarebbe un’ infruttuosa improba fatica), ma bensì di comunicare co’ miei leggitori l’effetto che in me fanno le antiche e le moderne produzioni drammatiche. Noi siamo persuasi che dopo di essersi la mente preparata co’ saldi invariabili sovrani principj della Ragion Poetica ed avverati e con una paziente e critica lettura e con una lunga esperienza del teatro, il cuore solo è quello che decide dei drammi e senza ingannarsi ne conosce e ne addita le bellezze.

Dopo queste succinte notizie delle sette tragedie di Eschilo, non c’ incresca di ascoltare ciò che alla solita sua maniera ne dice il notissimo avvocato Don Saverio Mattei nel Nuovo sistema d’ interpretare i tragici Greci. Altro per lui non sono che feste teatrali di ballo serio preparate da alcune poetiche declamazioni. Se il leggitore conosce tali tragedie, non potrà non rimanere maravigliato al vedere in quella scrittura del Signor Mattei tutte le idee naturali scompigliate per lo prurito di dir cose nuove che al fine si risolvono in nulla. Se poi non le conosce, sulle di lui parole ne concepirà una immagine tutta aliena dal vero, e crederà che le patetiche declamazioni in Eschilo preparassero un ballo serio, come i discorsi di Tancia e Lisinga in Metastasio introducono al ballo Cinese. Che vuol dir mai festa teatrale di ballo serio? Le tragedie di Eschilo furono, come quelle di Sofocle e di Euripide, vere azioni drammatiche eroiche accompagnate dalla musica e decorate dal ballo del coro; nè altra differenza può ravvisarsi trall’uno e gli altri, se non quella che si scorge ne’ caratteri di diversi artefici che lavorano in un medesimo genere, per la quale distinguiamo ne’ pittori eroici Tiziano da Correggio, ne’ poeti melodrammatici Zeno da Metastasio, ne’ tragici moderni Corneille da Racine. Le prosopopeje (come il Mattei chiama le Ninfe, il Padre Oceano, l’Eumenidi, la Forza ecc.) punto non dimostrano, com’ egli crede, che allora la tragedia era una danza animata dall’intervento di questi genj mali e buoni piuttosto che una vera azione drammatica; ma pruovano solo che Eschilo introdusse ne’ suoi drammi le ninfe, i numi, le ombre, le furie, e diede corpo a varj esseri allegorici, come Sofocle ed Euripide si valsero delle apparizioni di Minerva, di Bacco, di Castore e Polluce, della musa Tersicore, d’Iride, di una Furia, di un’ Ombra, della Morte ecc. Di grazia in che mai essi discordano da Eschilo su questo punto?

Eschilo trasportato una volta dal proprio entusiasmo cantò alcuni versi notati di manifesta empietà, ed il governo che vigila per la religione e per li costumi, condannò alla morte l’ardito poeta. Ma Aminia di lui minor fratello, che nella pugna di Salamina avea perduta una mano, alzando il mantello scoperse il braccio monco, inteneri i giudici, ed il colpevole ottenne il perdono.

Per questo rigore usato seco Eschilo si disgustò di Arene sua patria, tanto più quanto cominciarono ad applaudirsi le tragedie del giovane Sofocle. La prima volta che questo nuovo tragico, contando anni ventotto di età, produsse un suo componimento e trionfo di Eschilo già vecchio, fu nel celebrarsi la solennità del ritrovamento e della traslazione delle ossa di Teseo, nella quale Cimone nominò i giudici scegliendone uno di ogni tribù (Nota VII). Or qual colpo per un veterano come Eschilo fiero per tanti trionfi poetici da lui riportati al vedersi vinto al primo saggio di questo novizio soldato! Egli prese il partito di allontanarsi volontariamente da Atene, e si ritirò presso Jerone in Sicilia, ove dopo alquanti anni morì, e secondo Plutarco56 fu sotterrato presso Gela. O servisi però che la contesa di questi due gran tragici avvenne negli ultimi anni dell’olimoiade LXXVII, e Jerone mori nel secondo anno dell’olimpiade LXXVIII57. Adunque Eschilo che secondo i marmi di Arondel morì nel primo anno dell’olimpiade LXXXI, dovette sopravvivere a Jerone intorno a dodici anni. Vuolsi in oltre che quando Eschilo si ritirò alla corte di Jerone, trovasse questo re occupato in riedificare l’antica città di Catania rovinata da’ tremuoti cui diede il nome di Etna, e su di essa Eschilo fece un componimento poetico. Ma la nuova edificazione di tal città, ove Jerone invitò ancora de’ nuovi abitatori, avvenne nell’olimpiade LXXVI. Adunque allora Eschilo non era ancora stato vinto da Sofocle58. Laonde converrà dire che egli due volte sia andato in Sicilia, l’una dopo la sua assoluzione in grazia del fratello Aminia, e trovò allora Jerone occupato nella ristaurazione di Catania, e l’altra volta dopo la vittoria di Sofocle, quando, dimoratovi qualche anno, seguì la morte di quel re. Si è però detto che Eschilo morisse tre anni dopo la vittoria di Sofocle, il che non può conciliarsi coll’ epoca della di lui morte, che seguì nell’ultimo anno dell’olimpiade LXXX, o nel primo della LXXXI, essendo egli di anni sessantanove59.

Ma il sommo credito che andava Sofocle acquistando, non nocque gran fatto alla riputazione di Eschilo. Gli Ateniesi diedero pubblici attestati della stima che facevano delle di lui tragedie, avendo decretato60 che si rappresentassero anche dopo la di lui morte, onore ad altri non compartito, pel quale potè Aristofane fargli dire nelle Rane, che la sua poesia non era morta con lui. In fatti alcuni tragici che si dedicarono a ritoccarne più di una, ne riportarono più volte la corona teatrale. Euforione figlio di Eschilo, oltre ad alcune tragedie da lui composte, vinse secondo Suida e Quintiliano quattro volte con alcune favole del Padre, alle quali diede novella forma.

III.
Teatro di Sofocle.

Ma la soverchia semplicità delle favole di Eschilo non sempre animata da quella interessante vivacità che può renderla accetta, qualche reliquia di rozzezza nella decorazione e la scarsezza di moto, additavano a Sofocle una corona tragica non ancora toccata. E per conseguirla attese e a formarsi uno stile grave, sublime, maestoso ma spogliato della durezza e gonfiezza del predecessore, e a tirare l’attenzione dell’ uditorio più col movimento e colla vivacità e colla economia mirabile della favola, che colla magnificenza delle decorazioni. E perchè gli parve necessaria all’esecuzione del suo disegno un’ altra specie di attori, volle separar dal coro una terza classe di cantori e ballerini per aggregarla ai semplici declamatori61. Ed acciocchè tutto contribuisse all’illusione indispensabile per disporre gli animi alle commozioni che si vogliono eccitare, fe dipingere la scena, secondochè afferma Aristotile nella Poetica, probabilmente per mettere alla vista il luogo dell’azione. Ebbe ancora l’accortezza di scerre argomenti adattati al talento e alla disposizione de’ suoi attori, giacchè egli per mancanza di voce non potè rappresentare, come facevano gli altri poeti, i quali per lo più recitavano nelle proprie favole. Sino alle cose più picciole stese Sofocle le sue osservazioni per far risplendere l’abilità di ciascuno; e perchè si vedessero in teatro brillare i piedi de’ ballerini, fe calzar loro certe scarpe bianche. Scrisse centodiciassette, o centotrenta ed anche più tragedie, delle quali venti furono coronate; ma non ne sono a noi pervenute che sette, cioè: Ajace, le Trachinie, Antigone, Elettra, Edipo re, Filottete, Edipo Coloneo, le quali dovunque fioriscono gli ottimi studj, divengono gli esemplari de’ più pellegrini ingegni. Lo stile di Sofocle è talmente sublime, magnifico e degno della tragedia, che per caratterizzare la maestosa gravità di tal componimento, dopo Virgilio suol darsi al coturno l’aggiunto di Sofocleo (Nota VIII). Tale è poi l’aggiustatezza e la verisimilitudine che trionfa ne’ piani da lui disposti, che senza contrasto vien preferito a tutti i tragici per l’economia della favola.

Nell’Ajace, detto flagellifero dalla sferza, colla quale quest’eroe furioso percoteva il bestiame da lui creduto Ulisse e gli altri capi del campo Greco, tra molte bellezze generali e varj pregi della favola e de’ caratteri, si ammirino con ispezialità le tre seguenti bellissime scene: la situazione patetica di Ajace rivenuto dal suo furore col figliuolo Eurisace e colla sposa Tecmessa; la pittura naturalissima della disperazione di Ajace che si ammazza; ed il tragico quadro che presenta la troppo tarda venuta di Teucro, ed il dolore di Tecmessa e del coro allo spettacolo di Ajace ucciso. Oh quanto è vaga la natura ritratta da un gran pennello! Ma oh quanto si scarseggia di gran pennelli, che sappiano mettere in opera i bei colori della natura agli antichi sì famigliari! Or perchè mai trascurarono di osservare simili scene ricche di bellezze inimitabili il Robortelli, il Nisieli ed altri nostri critici, per nulla dire de’ transalpini falsi belli-spiriti la-Mothe, d’Argens, Perrault, in vece di perdersi a censurarne ogni minimo neo nello sceneggiamento e ogni leggera espressione che loro paresse bassa e grossolana, per non avere abbastanza riflettuto alla natura eroica di que’ tempi lontani che i tragici intesero di ritrarre? Il garrire degli eroi tanto da’ critici ripreso, era proprio de’ primi tempi della nazione Greca. I concetti sono figli de’ costumi, e le stesse passioni generali nel genere umano si modificano esteriormente sul genio delle razze o famiglie diverse nelle quali esso è diviso. Ognuno può osservare nelle aringhe de Greci oratori con quali forti ingiurie l’uno contro l’altro essi si scagliassero nel Pritaneo a’ tempi di Filippo, di Alessandro ed anche di Cassandro. Or quello che i Greci profferivano ne’ tempi della loro gran coltura, nè già nel solo teatro, ma dove gravemente decidevasi del destino della patria, ci dee far risalire sino al tempo eroico di Achille e di Ajace, e guarirci dal pregiudizio di giudicare dal decoro osservato ne’ moderni tempi di quello che convenisse a’ tragici Greci nel copiare Teseo ed Agamennone. Del rimanente nell’Ajace io non vedo nella contesa di Menelao e poi di Agamennone con Teucro, e spezialmente in quella di Ulisse, tante villanie obbrobriose quante nel Paragone della Poesia Tragica ne rimprovera a Sofocle il Conte Pietro di Calepio critico per altro assai saggio. In tutta la scena di Menelao e di Teucro trovo soltanto che quegli riprende nell’altro la soverchia baldanza, e questi di rimbalzo lo taccia di stoltezza; or dove sono gli obbrobrj esagerati? Più forte è la scena con Agamennone. Questi come re de’ re irritato per la resistenza di Teucro gli rinfaccia di aver egli, che pur non è che un figlio di una cattiva, σέ . . . . τὸν έκ της αιχμαλώτιδος, osato ricalcitrare agli ordini de’ supremi capitani. Lo chiama indi servo e barbaro di stirpe. Teucro mostra di esser nato di Telamone e di una Regina, e si maraviglia come a lui favelli a quel modo Agamennone nipote del barbaro e Frigio Pelope figlio di Atreo famoso per la scellerata cena e di Cressa colta con uno straniero. Dopo ciò arriva Ulisse, e cerca di placare Agamennone; nè in questa ultima scena trovansi punto le villanie decantate. Perchè dunque attribuire agli antichi i difetti che non hanno, oltre a quelli che hanno per essere stati i primi nell’arte? Perchè inventare nuovi errori? Non basta scoprire quelli che son veramente tali? Noi ultimi venuti possiamo dire nelle nostre poesie barbabaro, stolto, insano, vile, mostro, tralcio illegittimo di tronco oscuro ecc. ecc.; nè Corneille, Crebillon, Voltaire, Metastasio, Zeno, vengono tacciati (nè debbono esserlo) come villani e plebei, ed il Calepio vuol riprendere severamente queste medesime cose in Sofocle?62.

Si rappresenta nelle Trachinie la morte di Ercole avvenuta per lo dono funesto di Dejanira, nella quale con tutta verità e delicatezza si vede delineato il carattere di una moglie tenera e gelosa. Nell’atto quarto Ilo viene a riferire alla madre l’effetto del regalo fatale della veste inviata al padre nell’atto terzo, ma Ilo l’ ha egli stesso veduto nel promontorio Ceneo, ed è venuto a narrarlo in Trachinia. É mai naturale che egli avesse due volte valicato in tempo sì corto uno stretto di sessanta miglia italiane interposte da Ceneo a Trachinia? D’altronde il giudizioso Sofocle avrebbe esposto agli occhi de’ Greci una inverisimilitudine sì manifesta, se il fatto non fosse sembrato comportabile per qualche circostanza allora nota ed oggi involta nell’oscurità di tanti secoli? Sommamente patetico in quest’atto è il silenzio dell’ingannata Dejanira alle accuse del figlio addolorato, silenzio eloquente artificioso che sempre in Sofocle precede le disperazioni e i suicidj. Nell’atto quinto trovasi quello squarcio maraviglioso che latinamente con molta eleganza tradotto da Cicerone adorna il II libro delle Questioni Tusculane, O multa dictu gravia, perpessu aspera ecc., del quale Ovidio nel IX delle Metamorfosi fece una bellissima imitazione. Tragica e degna del gran Sofocle è pure l’ultima scena.

Antigone conosciuta per moltissime traduzioni si aggira su gli onori della sepoltura che erano tanto a cuore dell’ antichità63, prestati da Antigone al fratello Polinice mal grado del vigoroso divieto di Creonte. E’ notabile nell’atto II la scena delle due sorelle Antigone ed Ismene, che disprezzando a competenza la morte accusano se stesse di aver trasgredita la legge. Questo contrasto tenero e generoso imitò il gran Torquato nell’episodio di Olindo e Sofronia, e l’immortale Metastasio lo ravvivò con tutto il patetico di una passione grande e lo rendè più interessante nel Demofoonte, quando Timante e Dircea si disputano a gara la reità principale della seduzione nel vietato loro imeneo. Antigone n’è sepolta viva, Emone figliuolo del re che ama questa principessa, si ammazza, ed Euridice di lui madre che ne intende il racconto, istupidita dal dolore parte senza parlare, e si uccide come Dejanira. Questa patetica tragedia rappresentata con sommo applauso ben trentadue volte, fe decorare l’autore colla prefettura di Samo (Nota IX). Dove si conosce il pregio dell’ arte, si premiano i talenti. In Groelandia rimarrebbero inonorati e confusi tralla plebe, se vi capitassero, gli Archimedi, i Borelli, i Galilei, i Newton64.

L’Elettra contiene lo stesso argomento delle Coefore di Eschilo maneggiato con e sattezza maggiore. L’intermezzo, ossia canto del coro dell’atto II, è congiunto alle querele di Elettra. La riconoscenza molto tenera fassi con più verisimilitudine di quello che avviene nella tragedia del predecessore, per mezzo di un anello di Agamennone. Il dolore di Elettra in tutta l’azione si trova espresso a maraviglia, ed il di lei carattere ottimamente scolpito spicca con ispezialità nella scena con Crisotemi. Quella poi in cui Elettra piagne la morte del fratello tenendo l’urna delle di lui ceneri si rappresentò da Polo che sostenevane la parte, con tal vivacità che trasse dagli spettatori copiose lagrime. Con tutti questi pregi parrà forse, nè senza fondamento, troppo orribil cosa a’ moderni quel vedere due figli tramare ed eseguire l’ammazzamento di una madre benchè colpevole. Chi oggidì non fremerebbe alle parole di Elettra che incoraggisce Oreste a replicare i colpi, παισον διπλῆν? La fatalità discolpava il poeta presso i Greci: ma avrebbe fatto male Sofocle a rilevar meglio il contrasto delle voci della natura colla necessità di obedire all’oracolo che dovea fuor di dubbio lacerare in quel punto il cuore di Oreste? Eschilo non gliene avea dato nello stesso argomento un bell’esempio? Sofocle a mio giudizio rimane pure ad Eschilo inferiore allorchè scema la sospensione dell’uditorio col far seguire la morte di Clitennestra prima di quella di Egisto, perchè ne rende meno interessante lo scioglimento.

L’Edipo re 65 è la disperazione di tutti i tragici ed il modello principale di tutte l’età. Nulla di più tragico ha partorito la Grecia. Tutta la stupidità o il capriccio di certi pregiudicati incurabili moderni appena basta per ingannar se stessi sul merito di questo capo d’opera, e per supporre la tragedia ancora avvolta nelle fasce infantili nel tempo che si producevano simili componimenti che nulla hanno di mediocre (Nota X). Torresti tu (diceva col solito discernimento Longino66 di esser piuttosto Bacchilide che Pindaro, e nella tragedia Jone Chio che Sofocle? . . . . E chi sarà quegli che avendo fior di senno, messe tutte insieme le opere di Jone, al solo dramma dell’Edipo ardisca contrapporle? Certo niuno. Si apre sì bel componimento con uno spettacolo curioso e compassionevole. Vedesi in una gran piazza il real palagio di Edipo: alla porta di esso si osserva un altare, innanzi al quale si prostra un coro di vecchi e di fanciulli: si rileva dalle parole che in lontananza dovea vedersi il popolo afflitto radunato intorno ai due tempj di Pallade e all’altare di Apollo. Nè ciò era difficile ne’ teatri Greci, la cui grandezza non può ravvisarsi in niuno de’ moderni, benchè alquanti assai vasti se ne contino. Dopo il contrasto di Edipo e Creonte, Giocasta nell’atto III cercando di consolare il consorte con iscreditare le predizioni racconta come andò a vuoto un oracolo di Apollo, il quale presagiva che un di lei figlio dovea essere l’uccisore del padre; imperciocchè essendo stato il bambino esposto sul monte Citero, il padre cadde per altra mano, avendolo ucciso alcuni ladroni in un trivio. Questo trivio ricordato e descritto con esattezza presta all’azione un calore e un movimento inaspettato recando nella mente al re la morte da lui data a un vecchio in un luogo simile; e a misura che vanno i fatti rischiarandosi la favola diviene interessante. Si vuole osservare come quì Giocasta si studia di torre il credito agli oracoli; e nell’ atto IV Edipo all’udir che Polibo suo creduto padre è morto in Corinto, ne deduce per conseguenza l’inutilità di consultare l’oracolo di Apollo. Ma frattanto nel rimanente della tragedia si mostra appunto la falsità del raziocinio di que’ due spiriti-forti, e si accreditano col fatto le divine risposte, stabilendosi l’infallibilità di Apollo, e l’insuperabile forza del fato, quella forza che è il gran perno su cui si aggira il tragico teatro Greco. Che riconoscenza poi mirabilmente condotta per tutte le circostanze nell’atto IV e di qual tragica catastrofe produttrice! Aristotile quel gran conoscitore n’era con troppa ragione incantato. Giocasta, cui le parole del messaggiero non lasciano più dubbio alcuno dell’essere di Edipo, in se stessa concentrata e piena del proprio dolore, dovette essere agli spettatori Ateniesi intelligenti e sensibili un oggetto sommamente compassionevole. Ella giusta la maniera di Sofocle esprime col silenzio l’intensità della sua pena ed il funesto disegno che indi a poco eseguisce. E quì veramente si vede il patetico eloquente silenzio partorir tutto l’ effetto teatrale invano cercato dai declamatori e ragionatori. Edipo sicuro di essere egli quel figlio colpevole additato dall’oracolo, chiude con passione ed energia tutte le sue sventure in queste brevi querele:

Terribile destino, ecco una volta
Tutti svelati i tuoi decreti! Io nato
Son di cui non dovea: ho un letto offeso
Cui d’innalzare anco un pensier fugace
Era scelleratezza: il giorno ho tolto
A chi mi diè la vita. O sol, fia questa
L’ultima volta che i tuoi raggi io miri 67.

Ma quanto è tragico e spaventevole nell’atto V il racconto della morte di Giocasta e dell’acciecamento di Edipo! Che spettacolo Edipo acciecato! Quivi è il bel passo ammirato e citato da Longino, che il Giustiniani ha così tradotto nell’elegante, esatta e vivace sua versione dell’Edipo:

. . . . . . . . . . . O nozze o nozze
Voi me quì generaste, e generato
Poscia, o scelleratezza! ritornaste
Nel ventre de la madre il seme istesso
Concependo di lui parti nefandi.
Fratelli, padre e figli produceste
D’un sangue istesso, e d’un istesso ventre
E nuore e mogli e madri, in un mischiando
Tutto ciò che più turpe e più nefando
Tra’ mortali si stima.

In questi versi si vede egregiamente espresso quell’αῖμ’ εμφύλιον, sanguinem cognatum, che il dottissimo Brumoy desiderava nella per altro elegante traduzione di questo passo fatta da Niccolò Boileau. Lacera finalmente tutti i cuori che non ignorano la potenza della sensibilità, la preghiera di Edipo ridotto in sì misero stato per abbracciar le figliuole, e quando brancolando va loro incontro chiamandosi ora di loro fratello ora padre:

Figlie, ove sete o figlie?
Stendete pur le braccia all’infelice
Vostro . . . . fratello. Non fuggite, o care,
Queste man che dagli occhi a vostro padre
Trasser la luce.

e quando le abbraccia e non sa separarsene; tutte situazioni appassionate ottimamente dipinte. Il coro conchiude la tragedia colla sentenza di Solone. Tutti i cori dell’Edipo esprimono al vivo la sublimità dello stile di Sofocle, e si veggono mirabilmente accomodati alle particolarità dell’azione, nella qual cosa Sofocle riuscì più di ogni altro tragico. Qualche frammento di quello dell’atto I dell’elegantissima versione fattane dal lodato Giustiniani mostrerà alla gioventù studiosa l’arte di Sofocle ne’ canti de’ cori:

Santo oracol di Giove
Che sì soave spiri,
Con che annunzio venisti
Dagli eccelsi di Delfo aurati tempj
A la nobile Tebe?
Trema la mente in me stupida e tutta
Per timor sbigottita
Da sollecita tema
Scuotere il cor mi sento.
Sacro e possente Dio Signor di Delo
Che risanando sgombri
I perigliosi morbi,
Te col cor tutto riverente onoro.
Quali sono or le tue risposte? e quali
Ne l’avvenir saranno?
Dinnelo or tu, fama immortal, soave
Frutto d’amica e preziosa speme.

Invocata poi Minerva, Diana ed Apollo, si passa alla descrizione de’ mali di Tebe:

Giace dal morbo afflitto il popol tutto,
Nè so donde io m’impetri
O soccorso o consiglio.
Già de li frutti suoi ricca e cortese
La terra or nulla rende,
Nè resister possendo
Cadon da morte oppresse
Le femmine dolenti
Ne le angosce del parto.
Come spessa d’augei veloce torma
Fende l’aria volando,
Tal da li corpi un sopra l’altro estinti
In largo e folto stuolo,
Più che il foco leggere
Fuggon l’alme di Stige ai tristi liti.
Ma l’infinita turba abbandonata
Da la pietate altrui
A cruda morte giunta,
Priva de l’altrui pianto,
Sopra il nudo terren giace insepolta.
E le tenere spose
E le madri canute
L’una de l’altra a canto
Piangon supplici e meste i loro mali.
In varie parti, dove
Son per le rive i sacri altari alzati,
Si raddoppiano gl’ inni,
E con lor risonando
Fanno il pianto e i sospiri
Un doglioso concento.
Levaci tu da tanti strazj omai ecc.

Non poteva Sofocle esser da miglior penna trasportato in italiano. Simili traduzioni animate, fedeli, armoniose de’ nostri cinquecentisti fanno vedere quanto essi intendevano oltre il vano suono delle parole, e come ben sapevano recare con eleganza lo spirito poetico nella natia favella. Non so adunque come l’anzilodato Signor Mattei affermi nella citata dissertazione alla pagina 210, che i nostri antichi traevano da quelle miniere (de’ tragici Greci) solo il piombo, e lasciavano l’oro. E ne sono sempre più maravigliato in leggendo poco dopo nella pagina 218, che dalla Greca tragedia aveano i Francesi e gl’ Italiani con felice successo preso ed unito insieme tutto il bello. Di grazia, Signor Mattei, intendiamoci bene: gl’ Italiani hanno da’ Greci preso con felice successo tutto il bello, o hanno tratto dalle loro miniere tutto il piombo e lasciato l’ oro? Passiamo alle rimanenti tragedie di Sofocle.

Egli è un altro capo d’opera dell’antichità Filottete le cui saette fatali conducono in Lenno Ulisse e Neottolemo, perchè richiedevansi indispensabilmente alla caduta di Troja. Filottete è il più compiuto esemplare della inimitabile semplicità della tragedia antica, e della costante regolarità ed aggiustatezza di Sofocle nell’ economia dell’azione. Tutto in tal favola è grande e sino al fine sostenuto da un interesse ben condotto, tutto tende con energia al suo scopo. Dipinto a maraviglia è il carattere di Neottolemo. I moderni non vedrebbero con piacere sulle loro scene Filottete zoppicante e disteso nell’atto II colle convulsioni: ma ciò si rappresentava senza sconcezza sul teatro della dotta Atene. E ciò ne dimostra che certo sublime idropico e romanzesco, e che io chiamo di convenzione teatrale, perderebbe affatto il credito anche sulle scene moderne a fronte delle patetiche situazioni naturali, sempre che vi fossero introdotte con leggiadria da un ingegno sagace che sapesse renderle, sulle vestigia di Sofocle, tragiche e grandi. Può osservarsi in questa favola che i cori del primo e del terzo atto sembrano più parlanti del secondo; il che trovandosi ancora in altre può valer di pruova che non sempre terminavano gli atti con un canto sommamente lontano dalla declamazione del rimanente. Il coro del quarto è accoppiato ai lamenti di Filottete, i quali pajono una spezie de’ moderni recitativi obbligati o vogliamo dire accompagnati dagli stromenti. La prima scena dell’atto quinto è molto vivace pel vago contrasto della virtù di Neottolemo colla politica di Ulisse. Piacemi che il soprallodato Conte di Calepio osservi che sia figura lirica l’apostrofe di Filottete al proprio arco, ed al fragore del mare che sentiva stando nell’antro di Lenno. Ma sì lieve neo non meritava di esser tanto esagerato in una tragedia che gli presentava molte bellezze da esercitare il gusto e l’ erudizione di chiunque e da ammaestrare la gioventù. La tragedia termina per machina coll’ apparizione di Ercole, pel cui comando Filottete accompagna Neottolemo a Troja68.

L’Edipo Coloneo, o sia a Colona patria di Sofocle, contiene la venuta di Edipo cieco in Atene, fuggendo la persecuzione di Creonte re di Tebe. Egli si ritira colle figlie nel tempio delle venerabili dive, cioè delle furie, la cui memoria di tanto orrore colmava i Greci, che non ardivano quasi mai mentovarle col loro vero nome, o per antifrasi le appellavano eumenidi, cioè benevole, benigne, da εὐμενέω, benevolus sum. Il coro instruisce Edipo delle cerimonie praticate ne’ sacrificj che facevansi all’eumenidi, affinchè questo forestiere e le di lui figlie rifuggite al loro tempio non incorressero in qualche errore nel venerarle. Or perchè quest’opportuno episodio parve tanto fuor di luogo e ozioso al Signor di Calepio? Edipo avendo implorata la protezione di Teseo, secondo l’oracolo va a morire in un luogo a tutti ignoto. Fra questa tragedia e le Supplici di Eschilo scorgesi qualche conformità riguardo al piano. Sofocle decrepito poco prima di morire fu da Iofante suo figliuolo chiamato in giudizio e accusato di fatuità, ed il poeta, per convincere i giudici della falsità dell’ accusa, presentò e lesse loro l’Edipo Coloneo da lui scritto in età tanto avanzata; ed essendone stato ammirato rimase egli assoluto e l’accusatore stesso dichiarato insano69. Questo gran tragico, secondo Luciano nel catalogo de’ macrobj, morì strangolato con un grano di uva di anni novantacinque (Nota XI).

IV.
Teatro di Euripide.

Era Sofocle già vecchio, quando Euripide, lasciata la palestra degli Atleti, tutto si dedicò alla poesia tragica e di anni diciotto osò metter fuori la prima sua tragedia (Nota XII). Ardua impresa per sì pochi anni, gareggiare colla rinomanza di un Sofocle! Pure quali ostacoli non vince l’attività, l’ingegno e lo studio? Egli vi si accinse con alacrità e coraggio; vi si accinse con tutti i soccorsi onde i frutti poetici si stagionano per l’immortalità, avendo appresa da Prodico l’eloquenza e da Anassagora le scienze fisiche; e vi si accinse con quella indefessa attenzione indispensabile per isviluppar l’ ingegno e rintracciar le bellezze vere di ogni genere. Egli per natura malinconico ed avverso alla mollezza cercò negli orrori e nel silenzio di una caverna nell’isola di Salamina70 tutto l’agio per insinuarsi negli avvolgimenti secreti del cuore umano e per istudiare e dipignere al vivo le passioni. Con tali mezzi pervenne a saper meglio di ogni altro l’arte di parlare al cuore e di rapire gli animi maneggiando un patetico sommamente dilicato nè più usato sulle scene Ateniesi, per cui Aristotile davagli il titolo di Τραγικωτατος, tragico in supremo grado. Certo il suo stile si distingue da quello de’ predecessori per l’arte mirabile di animare col più vivace colorito tutti gli affetti e quelli spezialmente che appartengono alla compassione. Euripide (dice Longino) è veramente assai industrioso in esprimere tragicamente il furore e l’amore, nelle quali passioni riesce felicissimo. La frequenza e la gravità delle sentenze, e una ricchezza filosofica ne caratterizzano lo stile; di modo che i Greci l’appellavano filosofo tragico, e davano alla sua filosofia l’aggiunto di coturnata. Si appressa, secondo Quintiliano, al genere oratorio con tale riuscita che a niuno de’ più eloquenti rimane inferiore (Nota XIII); ma per la stessa ragione talvolta si allontana dal vero dialogo drammatico. Gli s’imputa poi, nè senza fondamento, da Aristotile nella Poetica, un poco di negligenza nel condurre e disporre le sue favole; ciocchè pruova ch’egli poneva più cura a ritrarre la natura che a consigliarsi coll’arte. Secondo alcuni egli scrisse settantacinque tragedie; ma contando le diciannove intere che ne rimangono, e i frammenti di molte altre raccolti nella bella edizione del Barnès, si può con altri asserire con più ragione che ne componesse sino a novantadue, otto delle quali erano satiriche. Gli Ateniesi le accolsero sempre con avidità ed applauso, e la posterità più sagace le ha successivamente ammirate; ma nel certame drammatico cinque sole di esse riportarono la corona, e nelle altre egli soggiacque alla sventura de’ valentuomini per lo più posposti a’ competitori ignoranti. Tale era Senocle (figlio del tragico Carcino anteriore ad Euripide) che più di una volta venne a lui preferito da’ giudici, al dir di Eliano, sciocchi o subornati.

Le tragedie che ne abbiamo intere sono: Elettra, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauri, Elena, Alcestide, Ippolito coronato, Ecuba, Andromaca, le Trojane, Reso, Medea, le Fenisse, le Supplici, gli Eraclidi, Ercole furioso, Jone, le Baccanti, il Ciclope. Per mettere con chiarezza sotto gli occhi quanto stimava necessario per intelligenza della favola, egli sempre fece uso del prologo, là dove Sofocle senza prologo esponeva a maraviglia lo stato dell’azione.

Nell’Elettra appunto per l’introduzione rimane Euripide a Sofocle inferiore. Egli nella riconoscenza di Oreste e della sorella perderebbe anche al confronto di Eschilo per cagione della vivacità che in questo è maggiore; ma quella immaginata da Euripide la supera di verisimiglianza, avvenendo con molta proprietà per mezzo dell’Ajo di Oreste e per una cicatrice che questi avea sulla fronte sin della fanciullezza. Sofocle però vince in tal riconoscenza e l’uno e l’ altro per l’effetto che produce in teatro; perocchè Oreste creduto morto che si trova inaspettatamente vivo, apporta la rivoluzione della fortuna di Elettra, e la fa passare da un sommo dolore a una somma gioja. Il carattere di Elettra si vede da Euripide dipinto molto più feroce e veemente che dagli altri due tragici. Elettra si prende da se stessa la cura di uccidere la madre, e manifesta l’artifizio con cui pensa di trarla nella rete, disegno e fierezza atroce in una figlia che nè anche è mitigato dalle savie prevenzioni che osservammo in Eschilo. Ma qual è mai l’artifizio di Elettra? Chiamar Clitennestra nella propria casa perchè l’assista nel finto parto imminente. Era però verisimile che una madre la quale lasciavala perire nell’indigenza, volesse appunto in quella occasione ripigliare la materna tenerezza? Tuttavolta il poeta fa che Clitennestra vada per tal menzogna a trovar la figliuola: ma quando? quando già era stato da Oreste ucciso Egisto in un solenne sacrificio. Un fatto di tanta importanza avvenuto pubblicamente, poteva ignorarsi con verisimilitudine dalla regina? Mal grado però di simili negligenze, che noi schiettamente rileviamo, ma senza il fiele de’ nemici dell’ antichità, la tragedia di Euripide ci sembra piena di moto e di calore, i costumi vi si veggono vivacemente coloriti, e le passioni vi sono espresse con grande energia.

L’Oreste, una delle di lui tragedie coronate, seguita la materia dell’Elettra. Egli non solo è perseguitato dalle furie vendicatrici, ma è vicino ad esser punito per l’uccisione della madre. Si legge nell’atto primo un breve dialogo di Elena e di Elettra sua nipote, le quali si motteggiano in una maniera poco conveniente al tragico decoro. Nel terzo si dipinge l’Assemblea Argiva, la quale par che alluda all’Areopago di Atene, e vi si satireggiano di passaggio alcuni oratori contemporanei del poeta, circostanza per noi perduta ma importante per chi allora ascoltava. Vi si osservano da per tutto tratti assai popolari, quasi comici, e lontani di molto dal gusto moderno. Ma la scena di Elettra con Oreste nell’atto quarto sommamente tenera merita di essere ammirata come degna di sì gran tragico. Vaga parimente è l’amichevole contesa di Pilade e di Oreste.

Ifigenia in Aulide è uno degli argomenti da Euripide maneggiati con forza e bellezza maggiore. Vi trionfa per ogni parte la maravigliosa sua maestria nel trattar gli affetti che destano la compassione. Chi ha giudizio, gusto e sensibilità noterà il dilicato contrasto che fanno nell’atto terzo le innocenti naturali domande d’ Ifigenia, e le risposte equivoche e patetiche di Agamennone, la di lei sincera gioja nell’abbracciare il padre, ed il profondo dolore di costui nascosto sotto l’esteriore serenità e allegrezza forzata71. Voglionsi appunto osservar negli antichi questi bei tratti per ravvisarne l’alto ingegno e la maestria, e non già le macchiette d’irregolarità e qualche accidentale espressione poco pensata. E’ questo il fuoco elettrico rinchiuso nelle loro opere, il quale non iscintilla per chi non lo cura o non sa l’arte di farlo scappar fuori. Io compiango coloro che ne giudicano con questo entimema, le nostre principesse non fanno così, dunque gli antichi offendono il decoro. L’azione di questa tragedia acquista dal principio dell’atto quarto gran calore e movimento per l’avviso dato dallo schiavo a Clitennestra e ad Achille. Vigorosa è quì la declamazione della regina, ed il discorso d’Ifigenia tenero e patetico e sostenuto da un vivo continuo interesse, benchè cominci con una spezie di rettorico esordio, augurandosi ella l’ eloquenza di Orfeo e l’arte onde egli seppe costringere i sassi a seguitarlo. Lodovico Dolce ha mitigato in parte quel cominciamento: ma la sua versione, benchè per più riguardi degna di lode, riesce quasi sempre languida e snervata, perchè al traduttore molto mancava del calore che riscaldava l’immaginazione del tragico Greco. Se Agamennone dovea piegarsi e cangiar consiglio, per questo bellissimo discorso il dovea, nel quale la figliuola gli mette innanzi le più tenere memorie. Eccone una parte adombrata comunque siasi in questa mia traduzione:

Poichè altro non poss’ io, vedi il mio pianto,
Vedimi a’ piedi tuoi. Deh padre amato,
Non far che acerba senza colpa io pera.
Dolce è la vita, i rai del dì son dolci.
Guardami, caro padre, io quella sono,
Che a profferir di padre il dolce nome
Primiera appresi, quella a cui tu prima
Figlia dicesti; guardami, son io.
Me nel tuo grembo pria d’ogni altro assisa
Scherzar vedesti e a me dicevi allora:
Deh quanto fia che a nobile consorte
E di me degno e di fortuna amico
Ti vegga unita trarre i dî felici?
No, caro padre (io ti dicea pendendo
Da le tue guance ch’oggi ancora io tocco)
Non fia mai ver che in vecchia età ti lasci.
No, no, teco io vivrò: tu mi nutristi,
Io curerò di te, finchè avrò fiato.
Oimè! de’ nostri detti io mi sovvengo,
Tu l’obbliasti, e vuoi ch’estinta io cada!

Segue ella sempre con egual vigore a pregare il padre, ricercandogli in mille guise le vie del cuore; ma nulla ottiene. Al fine Agamennone benchè addolorato risolutamente le dice, κἂν ϑέλω, κἂν μη ϑέλω, voglia io o non voglia, non per Menelao, ma per la Grecia tutta son costretto a sacrificarti. Partito il re, l’ espressione d’Ifigenia è degna di notarsi. La madre ha detto: ah figlia, ah madre sventurata per cagione della tua morte; ed ella ripiglia: la medesima misura di versi conviene allo stato mio, o come traduce il dotto P. Carmeli:

Ahi sventurata anch’io,
Poichè lo stesso carme
Per la sciagura d’ambe
A noi convien.

Soggiugne a ciò l’erudito Brumoy: l’autore dee mai mostrarsi inteso di parlare in versi? Ma l’espressione Greca è figurata, e ve ne ha delle simili altrove. Euripide stesso dice nell’ Ecuba: incomincio il canto delle baccanti, cioè, prorompo in querele da forsennata. Non debbesi adunque l’espressione d’Ifigenia tradurre letteralmente per la stessa misura di versi, ma sì bene per lo medesimo lamento, come ben fece il Dolce:

Madre misera madre,
Posciachè questa voce
Di misero e infelice
Ad ambedue conviene.

Nuovo movimento acquista l’azione nella scena delle donne con Achille, ed il patetico delle preghiere di Clitennestra e la pietà che ne mostra quell’eroe, si converte in ammirazione per lo cangiamento d’Ifigenia. Ella durando il loro dialogo dovette mostrarsi sospesa e agitata da varj pensieri sulle conseguenze della difesa che di lei vuol prendere Achille. Una muta rappresentazione sommamente eloquente non veduta da’ semplici gramatici e da’ freddi critici, a’ quali fa uopo che sieno materialmente siffatte cose accennate in note marginali, dovette allora far comparire nel volto d’Ifigenia la riflessione del pubblico interesse che a lei sopravvenne e si contrappose al primo terror della morte. Or questo salva il poeta dalla pedantesca censura dell’ineguaglianza del carattere d’Ifigenia, che alla prima piange e prega per sottrarsi alla morte, e poi si offre vittima volontaria del pubblico bene, per acquistare, giusta la traduzione del Dolce,

Ne’ secoli futuri onore e gloria.

Un’ altra apparente opposizione sogliono fare i poco esperti al carattere di Achille, per essersi prima mostrato tutto fervoroso a difenderla, e per soffrirne poi pacificamente il sacrifizio senza nulla tentare in di lei prò. Achille avea promesso di salvarla dalla violenza; ma quando ella si offre di buon grado alla morte, secondo i principj della religione pagana non gli era lecito più di liberarnela senza esser sacrilego, e quindi desiste dalla promessa difesa. Segue a ciò una scena assai patetica, in cui Ifigenia rassegnata a morire prendre congedo dalla madre che le va rammentando i suoi più cari. Finalmente con somma perizia de’ moti del cuore umano questo grande ingegno mostra l’immenso dolore del padre più eloquentemente di quello che avrebbero fatto i moderni declamatori teatrali. Il Dolce così l’espresse:

Poichè fu l’innocente al loco giunta,
Dove i Greci facean larga corona
Al nostro re, come venir la vide,
Benchè fuori di tempo e troppo tardi,
Da paterna pietà gelossi il sangue,
E la pallida faccia addietro volse,
Indi col manto si coperse il volto.

Timante quel Greco pittore tanto vantato da Cicerone trasportò nel suo famoso quadro questa felice situazione. Volle ancora il celebre Racine conservarla nella sua Ifigenia. Ma egli rappresenta un’ armata divisa in due partiti pronti ad assaltarsi, uno de’ quali è retto dall’iracondo Achille. Ora in tal congiuntura la situazione di Agamennone che si cuopre il volto, è perduta, e debbe parer men bella e men propria. Essa ci fa vedere un Generale pieno del suo privato dolore, che si ricorda di esser padre e s’indebolisce in sì pericolosa occasione. Sembra anche una contraddizione del di lui carattere, perchè da per tutto si è dimostrato più ambizioso che tenero, e per ritenere il comando ed il titolo di re de’ re, era condisceso a sacrificar la figliuola. Si osservi come in varie scene e ne’ cori Euripide si vale di una misura di versi più corta come più idonea ad esprimere il dolore; e Lodovico Dolce ha seguitato in ciò l’originale, come ha pur fatto il P. Carmeli. Non è improbabile che gli atti di questa tragedia sieno sei, e che il quinto termini dopo la tenera scena dell’ultimo addio della madre e d’Ifigenia, colle parole che questa dice alle fanciulle perchè cantino in onore di Diana nella sua disgrazia. Non si vede però allora eseguito questo canto, e pare che vi manchi il coro. In tal caso l’atto sesto comincerebbe dalla nuova uscita d’Ifigenia Ἅγετε με, conducete me; o pure terminerebbe il quinto col coro Ἰὼ, Ἰὼ ἲδεστε, ahi, ahi, vedete, ed il sesto conterrebbe il racconto che fa il Nunzio a Clitennestra e la venuta di Agamennone che lo conferma. Il Carmeli conservando la divisione in cinque atti non solo racchiude nel quinto soverchie cose, ma lascia pochissimi versi cantati dal coro frall’incaminarsi d’Ifigenia al sacrifizio, e la venuta del Nunzio che racconta l’avventura già seguita, per la quale manca il tempo che dovea correre verisimilmente per tante cose narrate.

Ifigenia in Tauride rappresenta la riconoscenza di Oreste colla sorella sul punto di esser da lei come sacerdotessa sacrificato, e la fuga che eseguiscono seco loro menandone la statua di Diana Taurica. E’ da notarsi in tal tragedia la tenera scena di amicizia tra Pilade ed Oreste, colla quale termina l’atto terzo senza coro. Maneggiata poi con gran delicatezza e giudizio è la bellissima riconoscenza per mezzo della lettera che Ifigenia pensa di mandare in Grecia ad Oreste. Fra quante agnizioni si sono esposte sulla scena, questa ad Aristotile parve una delle eccellenti, ed a noi parimente pare la più verisimile, la più vivace e la più acconcia a chiamare l’attenzione dell’uditorio e a tenerlo sospeso. Osserviamo in questa favola che dopo la scena d’Ifigenia e Toante, il coro canta solo nella scena quarta dell’atto quinto, Celebriamo le lodi di Febo e di Diana. Or non sarebbe questo il finale di un atto? Allora potrebbe la tragedia dividersi in quattro atti così: il primo composto del primo e del secondo della prima divisione terminerebbe col canto del coro, O rupi Cianee che congiungete i mari; il secondo conterrebbe il terzo ed il quarto terminando col coro che incomincia, Tenero augelletto che errando vai; il terzo terminerebbe col coro sopraccennato della quarta scena dell’atto quinto; ed il quarto comincerebbe dalla scena quinta. Ma la divisione degli atti non mi sembra la cosa più essenziale per conoscere l’eccellenza degli antichi tragici. E che importa che una situazione ben dipinta si collochi più in uno che in altro atto, purchè sia ben preparata, e se ne comprenda tutta l’arte e la vaghezza? Egli è vero che il noto traduttor de’ Salmí e il degno autor delle Probole il Signor Mattei stima tal divisione così importante che al suo dire niuno Europeo ha capito ancora che cosa sieno le tragedie Greche, perchè niuno, a suo credere, le ha ancora ben divise. Ma queste esagerazioni enfatiche oggi fanno poca fortuna, e si comparano alle precauzioni che prendevano i sacerdoti gentili per accreditare i loro responsi e venderli per oracoli celesti.

Nella tragedia intitolata Elena si tratta di Elena virtuosa in Egitto, secondo ciò che ne racconta Erodoto72. Vi si maneggia la fuga di Menelao con quest’Elena ingannando astutamente Teoclimene che n’era innamorato. Per la disposizione sembra questo dramma gettato nella stampa dell’Ifigenia in Tauride; ma a mio giudizio cede a questa assai in patetico, in moto, in nobiltà, e in interesse.

Nell’Alcestide che si offre vittima volontaria alla morte in cambio di Admeto suo marito, desidererei che gli stupidi biasimatori degli antichi leggessero attentamente l’atto secondo per apprendervi a dipingere la natura con forza e vivacità (Nota XIV). Alcestide moribonda indi senza vita, i suoi figli, il marito, il coro, formano un quadro così compassionevole che farà cader la penna dalla mano a chi oggi voglia esercitarsi nella tragica poesia. Il contrasto però di Admeto col padre, e i rimproveri ch’egli fa a quel povero vecchio cui non è bastato l’animo di morire in vece del figlio, potevano forse tollerarsi presso i Greci, ma fra noi sembreranno sempre ingiusti, inurbani e in niun modo tragici. Non per tanto si dee riflettere che Euripide era un gran maestro, nè avrà egli presentato a’ suoi compatriotti una cosa che potesse contraddire ai loro costumi e alle passioni dominanti di que’ tempi.

Ippolito coronato produsse al poeta la corona tragica sotto l’Arconte Epamenone nel terzo anno della guerra del Peloponneso avendo Euripide trentacinque anni. Contiene la morte d’Ippolito per la falsa accusa di Fedra sua madrigna ed amante. S’inganna però chi crede che si dicesse coronato Στεϕκνηϕορος, dalla corona riportata dal poeta. Altre favole conseguirono la corona teatrale ne’ giuochi Olimpici o in Atene, e niuna si vede che ne avesse tratto il nome di coronata. Ippolito dopo il prologo viene in teatro con una corona in testa che indi offerisce a Diana, e per questa corona che egli porta, ricevè quell’aggiunto, della stessa maniera che l’Ajace di Sofocle s’intitolò Μαςτιγοϕορος per la sferza che egli portava in iscena. Nell’atto primo partito Ippolito resta solo il coro e si trattiene fullo stato di Fedra; or non potrebbe esser questa la fine dell’atto? Ma vi è attaccata anche la scena di Fedra, la quale naturalmente par congiunta colla prima dell’atto secondo. Quella felice distrazione di Fedra egregiamente dipinta dal Racine Dieu que ne puis-je assise, è una bellezza originale di Euripide. Fedra in mezzo alle donne del coro, assistita dalla nutrice, piena della propria passione, distratta, fuor di se, secondo la mia versione, favella in Euripide in tal guisa:

Fed.

Ah perchè non poss’ io spegner la sete
Nell’onda pura di solingo rio?
Perchè sul verde prato al rezzo assisa
I miei mali ingannar non mi è concesso?

Nut.

Che mai ragioni, o mia Regina? Ah pensa
Chi ti ascolta, ove sei: scopron que’ detti
Le tempeste del cuore,
De la mente i delirj.

Fed.

Al monte al monte:
Seguiam la traccia de’ fugaci cervi:
Giova aizzare il cacciatore alano
Col grido eccitator, Tessalo dardo
Brandir, lanciar ver la tremante preda.

Nut.

Deh ritorna in te stessa: in quai ti perdi
Vani pensieri! oimè! cacce, foreste,
Ombre, ruscelli .... A queste torri appresso
Limpidi fonti non vi sono e piante?

Fed.

Dive di Linna, a presedere elette
A l’esercizio de’ corsieri ardenti,
Deh perchè non poss’ io con questa mano
Generoso destrier domare al corso?

Nut.

Ma, Principessa, ancor vaneggi? I cervi
Ora inseguivi per le alpestri rupi,
Or domi al piano un corridore? Un dio
Un dio nemico t’agita e confonde.

Fed.

Misera me! che parlo? Ove son’ io?
La ragion mi abbandona, è vero! Un nume
Avverso e crudo me la toglie! Ah sono
Pur sventurata! Ti avvicina, amica,
Ricomponi i miei veli onde mi avvolga.
Di me stessa ho rossor: coprimi, dico,
Nascondi agli occhi altrui questo che il volto
M’inonda e bagna involontario pianto.
Sento che avvampo di vergogna. O cruda
E pur cara follia! L’error mi piace;
La ragion mi rattrista. Ah cedi al fato,
Cedi, meschina, al tuo delirio e mori.

La scena dell’atto secondo, in cui Fedra manifesta alla Nutrice la cagione del suo male, fu ancora trasportata quasi interamente dal Racine, a riserba di uno squarcio molto delicato, dove Fedra risponde alle istanze della Nutrice:

Ah prevenirmi perchè mai non puoi?
Perchè non dir tu stessa
Ciò che forza è scoprire?

Per altro l’illustre tragico Francese scorre più rapido e con maggior nerbo, nè si ferma come fa Euripide a far dire da Fedra alla Nutrice, sai tu che mai sia una certa cosa che si chiama amore? e giudiziosamente si appiglia subito a quelle parole, Conosci tu il figlio dell’Amazone? Anche la scena di Teseo e Ippolito dell’atto quarto è stata copiata maestrevolmente dal Racine; ma la Greca riesce più tragica e importante per lo spettacolo di Fedra morta. Racine in somma si è approfittato da grande ingegno della tragedia Greca; ma avendo preso un camino alquanto differente, ne ha dovuto perdere non poche altre bellezze, come il dolore di Teseo per la morte di Fedra, e la tragica scena d’Ippolito moribondo. Il racconto della di lui morte è vagamente ornato ma sobrio e naturale nel Greco, e presso il Racine è soverchio pomposo e poetico. Osserva il lodato Brumoy che all’incontro del mostro il poeta Greco pieno del terrore che ne presero i cavalli, non presta al suo Ippolito altro pensiero se non se quello di governarli: Seneca gli diede maggior coraggio facendolo disporre ad assalire il mostro: Racine passa più oltre, e fa che arrivi a lanciare un dardo e lo ferisca. Nel che (soggiugne quell’erudito) si scorge il progresso della mente umana che tende sempre alla perfezione. Io ardisco dissentire dal di lui avviso. Ognuno de’ tre potrebbe trovare qualche partigiano che ne approvi l’immagine che rappresenta, ma il Greco a me sembra assai più internato nella verità dell’orribil caso. E questo ci addita lo spirito de’ Greci ognora intento a copiare con esattezza la natura, e lo spirito de’ moderni propenso a spingerla oltre, a manierarla, a preferire al vero lo specioso. Questo confronto degli autori antichi e moderni in un medesimo argomento è il vero modo di pesarne il merito rispettivo, e di studiare nel tempo stesso l’arte drammatica con fondamento. In simil guisa si rileva l’ artificio usato da diversi scrittori nel maneggiare le passioni, materia essenziale della poesia drammatica che non varia per tempo nè per luogo. Il tacciar quelli o questi per le maniere, per un decoro locale, variabile e incostante, al pari della moda (siccome fanno certi critici moderni) è un far la guerra agli accidenti e sfuggire la sostanza della contesa, è un volere allucinar volontariamente se stessi e chi loro crede. Di grazia quando anche accorderemo a Udeno Nisieli, al Signor di Calepio e ad ogni altro, che Ippolito trafitto dalla sventura che soffre immeritamente, sia trascorso in una espressione che sente alcun poco d’irreligione verso gli dei, che cosa avremo appreso de’ pregi inimitabili di questa bella tragedia? I giovani non ne sapranno che un neo forse in parte scusabile per la veemenza della passione che rare volte lascia all’uomo tutto l’uso della sua ragione; e forse da queste critiche esagerate su i difetti più che su i pregi degli antichi proviene la moderna non curanza delle favole Greche e l’idolatria per le romanzesche degli ultimi tempi.

Con altro disegno leggeva i Greci il saggio Racine e ne ritrasse il vantaggio di rendersi superiore a tanti e tanti tragici. Con altra ammirazione e imparzialità giudicano de’ Greci i veri dotti e i critici profondi. Rechiamo l’eccellente parallelo fatto dal chiar. Ab. Le-Batteux dell’Ippolito di Euripide e della Fedra del Racine 73. Osserva in generale che la tragedia Francese è più complicata, più involta in vicende, in intrecci, in episodj, che la Greca. Essa ha più parti, e queste hanno bisogno di maggior arte per conciliarsi insieme, e quindi riesce più difficile il formarne un tutto naturale. Vi entra maggior numero di passioni, alcune delle quali punto non sono tragiche. L’anima di chi si trattiene negli spettacoli moderni è così sovente sollevata dall’ ammirazione e dall’entusiasmo che abbattuta dal terrore e dalla pietà; sente in somma la sua forza mentre indi a poco si accorge della sua debolezza. Non è così della tragedia Greca, la quale sembra odiare tutto ciò che può distrarre dal dolore. Dessa è perfettamente semplice. Una sola azione incominciata dal punto che può interessare si estende dal principio al fine, si avanza, s’imbarazza, scoppia finalmente, diremo così, pel fermento di certe cagioni interne, dalle quali gli effetti si disviluppano con diverse scosse sino alla catastrofe74. “Tutto (prosegue il Signor Le Batteux) vi si trova disposto come nella natura. Non dee lo spettatore affaticarsi, non esercitare il suo ingegno. Il dolore nella natura si abbandona a se stesso e non ha più forza, e lo stesso dee seguire nelle opere dell’arte emule di quelle della natura”. Entra poscia l’erudito autore nel confronto delle due bellissime tragedie. Rende egli i dovuti elogj alla Fedra, ma conviene ancora che l’azione dell’Ippolito sia una ed unica, e che tutto vi succeda con maggior verisimiglianza. Racine congiunge all’azione principale l’azione episodica d’Ippolito e di Aricia che comprende più di quattrocento versi. Due amori, due confidenze, due dichiarazioni d’amore l’una accanto all’altra. Nell’Ippolito non si ragiona della morte di Teseo. Questa morte non è in verun modo preparata nella Fedra, nè produce altro effetto che d’ incoraggire la regina a dichiarare ad Ippolito il suo incestuoso amore. Più decenza in Euripide che in Racine. Fedra appresso il Greco confessa il suo amore non come una passione ma come un delitto. Ed il segreto è svelato ad Ippolito dalla Nutrice non ostante il divieto di Fedra. Questa non soffre avanti i suoi occhi il rifiuto, e l’ascolta senza essere veduta. Presso il Francese la stessa Fedra confessa una passione sì vergognosa, la confessa innanzi a tutti gli spettatori sposa del padre al figliuolo, e nel primo istante che si crede morto il marito. Euripide ha saputo conservare il pudore del poeta e degli attori. In Racine l’interesse dominante si divide tra Fedra, Ippolito e Teseo: in Euripide è tutto per Ippolito dal principio al fine. Tutto è lagrime in Euripide: lagrime di Fedra, lagrime d’Ippolito, lagrime di Teseo, lagrime del Coro e della Nutrice: tutto spira dolore e tristezza, tutto è veramente tragico. Il dramma di Racine è una serie di quadri grandi di amore: amor timido che geme, amore ardito e determinato, amor furioso che calunnia, amor geloso che spira sangue e vendetta, amor tenero che vuol perdonare, amor disperato che si vendica sopra se stesso: ecco la tragedia di Racine. Altrettanti quadri si trovano nell’Ippolito; ma quanto più sostenuti, quanto più austeri! I caratteri quanto non sono più virtuosi e più nobili nella tragedia Greca! Niun tratto, niun movimento, niun dialogo che raffreddi la pietà degli spettatori, Giovane, ornato di nobili costumi, sofferente nella calunnia senza accusare il calunniatore, rispettoso e tenero col padre benchè ingiusto, Ippolito non lascia un sol momento di agitare e tirare a se tutti i cuori sensibili. Fedra in Racine per varie ingiustizie e violenze intepidisce la compassione, ed il poeta con arte somma si affanna per coprirne e discolparne i difetti. Teseo attrae a se tutto l’ interesse dell’atto terzo. L’amore d’Ippolito per Aricia vietato dal padre quanto non toglie al carattere del giovane eroe, virtuoso sempre, sempre degno di compassione in Euripide, debole qualche volta, qualche volta ozioso nel poeta Francese!” Termina Le Batteux questo giudizioso eccellente parallelo con attribuire alle nazioni il diverso carattere dell’uno e dell’altro poeta. “L’amico di Socrate non sarebbe stato mai così mal accorto di presentare ai vincitori di Maratone e di Salamina un Ippolito amoroso ed avido d’intrighi. Il poeta Francese ha dovuto lusingare la debole delicatezza della sua nazione; ed Euripide nelle stesse circostanze non si sarebbe altrimente comportato, ed avrebbe avuta la stessa indulgenza per un popolo che dovea essere il suo giudice.”

Questo esame ben degno della dottrina, del discernimento e del buon gusto del celebre autore delle Belle Arti ridotte a un principio, compensa solo tutte le fanfaluche affastellate lungo la Senna contro gli antichi dal Perrault, La-Mothe, Terrasson e dal Marchese d’ Argens, il quale colla solita sua superficialità e baldanza asseriva che i poeti tragici Francesi tanto sovrastano agli antichi, quanto la Repubblica Romana del tempo di Giulio Cesare superava in potenza quella che era sotto il Consolato di Papirio Cursore. Aggiungiamo qualche sentenza sparsa nel Saggio sul Gusto di Cartaud de la Vilade, affinchè il leggitore, dopo avere ammirato nel bel parallelo surriferito un prezioso monumento del buon gusto e del giudizio degli ottimi critici della Senna, possa divertirsi con un piacevole contrasto del gusto vero col fantastico, di una scelta erudizione colla leggerezza, e del dotto Le Batteux col bello-spirito La Vilade. Questo moderno derisore degli antichi si mostra nauseato di quell’Ippolito che Euripide ci dipinse, sembrandogli un Cavaliere fort peu galunt; e per maggior trastullo di chi ciò legge dice (pag. 48) colla solita sua sicura lettura e martellata erudizione, che questa tragedia è di Sofocle. Avventuratamente però per Ippolito La Vilade non ragiona con più fondamento e dottrina sull’Achillè dell’Ifigenia, supponendolo un innamorato, e trovando nella di lui passione un accento soprammodo grossolano. Si consolino intanto questi Greci Principi, e con loro Omero tacciato di non aver saputo descrivere i giardini di Alcinoo secondo il gusto di quelli di Versailles, perchè questo formidabile Gradasso non tratta con maggior gentilezza il resto de’ Greci, de’ Latini, degl’ Italiani, degli Spagnuoli e degli Inglesi. Per lui Erodoto narra da uomo ubbriaco; Tucidide è pieno di difetti essenziali e di racconti fuor di proposito, senza piano e senza verisimilitudine nelle aringhe; Polibio non è un storico, ma una spezie di parlatore che fa riflessioni sulla storia; gli Oratori Greci, senza eccettuarne Demostene, sono spogliati di ogni savia economia necessaria a condurre gli animi allo scopo prefisso; Pindaro è un poeta volgare e senza entusiasmo; Pitagora ed Archimede fanciulli in matematica incantati per la novità ad ogni picciolissimo oggetto. Questo Saggio che ben può chiamarsi del mal gusto e dell’imperizia di Cartaud, si accompagni colle sessanta pagine del Cavalier di Saint-Mars sopra la letteratura degli antichi. Per quest’originale de’ Marchesini della scena Francese le Ode di Orazio Flacco sono più oscure della notte, cattive, insoffribili, le di lui Satire e l’Arte Poetica un ammasso di nojosità, mostruosità e disordini. Egli ammirava la pazienza de’ Romani nell’ascoltare Cicerone chiacchierone che non la finisce mai; essi doveano (aggiugne) aver la testa d’ une furieuse trempe per resistere a un torrente di loquacità che nulla dice . . . . Ma è dunque una fatalità che gli antichi e chi gli ammira, abbiano ad esser perseguitati dai più ridicoli e dai più sciocchi delle nazioni moderne?

Varj argomenti ha somministrato ad Euripide la Guerra Trojana e gli eventi che ne dipendono. Oltre alle Ifigenie ed Elena, egli scrisse Ecuba, Andromaca, le Trojane e Reso che ci sono pervenute intere, e Palamede, Filottete, i Trojani, delle quali rimangono pochissimi frammenti. L’Ecuba si aggira sulla morte di Polissena e sulla vendetta dell’assassinamento di Polidoro. Parmi in essa singolarmente eccellente la scena di Ulisse con Ecuba e Polissena nell’ atto primo, dove coloro che intendono ed amano le dipinture naturali, si sentiranno, scoppiare il cuore per la pietà. Nel patetico racconto della morte di Polissena nell’atto secondo si ammirano varj tratti pittoreschi e tragici, come il nobile contegno di Polissena, che non vuole esser toccata nell’attendere il colpo: il coraggio che mostra nel lacerar la veste ed esporre il petto nudo alle ferite,

Ella poichè si vede in libertate
Volgendo gli occhi in certo atto pietoso,
Che alcun non fu che i suoi tenesse asciutti,
La sottil vesta con le bianche mani
Squarciò dal petto insino all’ombilico,
E il suo candido seno mostrò fuori:

e finalmente l’atto grande e nobile di cadere con decenza dopo il colpo così espresso dal Dolce, cui appartengono anche i versi precedenti,

Cadd’ ella e nel cader mirabilmente
Serbò degna onestà di real donna.

Le riflessioni morali di Ecuba su i buoni e i cattivi, sull’educazione e la nascita, dopo tal funesto racconto, sembrano per altro intempestive. Serpeggia per tutto il dramma una forza tragica terribile; ma nell’atto terzo si tratta della morte di Polidoro, per la quale l’azione è manifestamente doppia, benchè tutta si rapporti ad Ecuba (Nota XV). Nella scena in cui le si enuncia la morte di Polidoro, osserva Brumoy che vi sono sparse alcune strofette, alle quali forse si congiungeva una musica più patetica. Le comprese il Dolce, e seguì l’originale, traducendole in versi più piccioli; la qual cosa con pace del Signor Mattei, fa vedere che gl’ interpreti de’ tragici Greci compresero il loro artificio per ciò che la musica riguarda. Egli stesso non fece di più nel tradurre questa medesima scena in maniera diversa dalla Salviniana. Non saprei però dissimulare che il terzetto preteso vi si è formato a piacere nella guisa che potrebbe formarsi, volendosi, anche nelle tragedie Inglesi o Russe, non che nelle Greche. Tale terzetto poi secondo me rallenta l’impeto della passione espressa con veemenza dopo le parole καταρχομαι νόμων Βακκειον, incipio numeros Bacchicos, o come traduce Erasmo, cantionem Mænadum ingredior, e dal Sig. Mattei amplificate, benchè con minor precisione. Egli dice:

Son io? vaneggio?
Qual furor mi trasporta? E’ cruda furia
Questa che il cor, la mente, infiamma, accende,
Lacera e squarcia? Io fuor di me già sono,
Comincio a delirar.

Dopo ciò mi sembrano ben freddi i versi da’ quali comincia il terzetto,

Dunque è ver? o questo è inganno.

A un furor da baccante che trasporta Ecuba fuori di se, far succedere un dubbio sul fatto? Ma questo dubbio corrisponde al senso ed alla lettera dell’originale? Ecuba con tutta sicurezza del suo infortunio e con enfasi afferma che vede una strage inopinata, incredibile, tutta nuova. Or perchè cambiar questo pensiero in peggio? Non crederei che il Sig. Mattei peritissimo nella Greca lingua e nel modo d’interpretarla, si fosse fatto ingannare dalla voce απιστα, quasi che Ecuba non credesse vero quel che avea sotto gli occhi. Sa egli bene che questa voce quì manifesta l’enorme, atroce, stupenda serie di disgrazie che l’opprime. Osserviamo in oltre che ne’ Greci i cantici per l’ordinario non hanno luogo se non conosciuta perfettamente la sventura. Ma in questo squarcio che si è voluto convertire in terzetto, si va cercando ancora l’autor della morte di Polidoro. Ecco come traduce il citato Erasmo poco allontanandosi dagli altri interpreti:

   Quo jaces
Fato? peremit te quis?

Fam.

Me latet; at hunc in littore offendi maris.

Hec.

Ejectum ab undis, an trucidatum manu?

Fam.

In littus arenosum
Marinus illum fluctus aestu ejecerat.

Hec.

Hei mihi ecc.

Tutto ciò nell’originale è parlante, e (secondochè oggidì si maneggia in teatro la musica, e si maneggerà finchè il sistema non ne divenga più vero) sarebbe anche ora contrario all’economia musicale il chiudere simili particolarità in un duetto o terzetto serio, perchè essi, a giudizio del celebre Gluck, abbisognano di passioni forti per dar motivo all’espressione della musica. I cori di questa tragedia sono tratti dal soggetto e pieni di passione non meno che di bellezze poetiche. Veggasi quello dell’atto primo, in cui le schiave Trojane sollecite del loro destino vanno immaginando in qual parte toccherà loro in sorte di essere trasportate75. Quello dell’atto terzo mi sembra il più patetico, ed il Dolce ne ha fatto una troppo libera imitazione. A noi piacque di tradurlo ancora, ed affinchè i giovani avessero una competente idea de’ cori di Euripide, c’ingegnammo di ritenere un poco più le immagini e lo spirito dell’originale senza violentare il genio della nostra lingua:

Patria (ahi duol che ne ancide!) Ilio superbo,
Or più non fia che a le nemiche genti
Inaccessibil rocca Asia ti appelli,
Che già di greche squadre un nuvol denso
Ti copre, e cinge, e desolata e doma
E vinta giaci, e de le altere torri
Già la corona in cenere conversa
Nereggiano de’ muri i sassi informi
D’orride strisce di fuligin tinti.
Ahi più non ti vedrò! mai più le vaghe
Tue spaziose vie
Non calcherà il mio piè! Memorie amare!
Avea mezzo il camin la notte scorso,
Quando fin posto a le solenni danze
E a’ lieti canti, un placido sopore
Aggrava le pupille. Inerme ingombra
Già il mio consorte le sicure piume;
Nè a’ lidi intorno pei Trojani campi
Surgon le Argive tende. Io che raccolte
Le sparse trecce e in vago giro avvinte
Entro bende notturne, il mar mirando,
Al geniale talamo mi appresso,
Arme arme, ascolto in marzial tumulto
Per la Frigia città gridar repente;
Cessate, o Greci? Ah se veder vi è caro
Le native contrade, ite, abbattete,
Cada il forte Ilione . . . Il dolce letto
Lascio allor sbigottita in lieve avvolta
Semplice gonna: di Diana all’ara
Mi prostro, e piango, oh vani prieghi e pianti!
Tratta per l’onde io son, misera, e veggio
Trucidato il consorte, acceso il cielo
Di funeste faville, Ilio distrutto,
E le vele nemiche ai patrii liti
Pronte a tornar, e dall’Iliaco suolo
A svellermi per sempre! Il duol mi oppresse,
Caddi abbattuta, mille volte e mille
Elena detestando e il suo rattore,
E le adultere nozze, e di un avverso
Genio persecutor l’odio potente,
Che l’avito terren m’invidia e fura.
Deh la femmina rea sempre raminga
Erri in balìa de’ minacciosi flutti,
Nè i patrii tetti a riveder mai giunga.

L’Andromaca di Euripide non contiene l’azione dell’ Andromaca di Racine; perchè questa è la vedova di Ettore che teme per la vita di Astianatte, e nella tragedia Greca è la stessa Andromaca, ma già moglie di Pirro, che teme per la vita di Molosso avuto da questo secondo matrimonio. Oggi desta più compassione il nobile dolore di Andromaca vedova di Ettore, che la semplicità di Andromaca moglie di Pirro. È notabile nella tragedia di Euripide il carattere di Ermione renduto poi senza dubbio dal Racine più delicato e diventato ognor più vero, attivo, vigoroso nell’ambiziosa Vitellia del Metastasio. Non sono più tollerabili sulle nostre scene le ingiurie scambievoli di Andromaca ed Ermione presso Euripide. Osservisi ancora che nell’atto quarto Ermione e Oreste fuggono da Ftia per andare a Delfo ad uccider Pirro, e nel quinto si narra in Ftia questa uccisione già avvenuta in sì poco tempo, e vien portato il cadavere di Pirro, la qual cosa sembra sconcezza che offende ogni verisimilitudine.

Nella tragedia intitolata le Trojane si tratta la morte di Astianatte insieme col destino delle prigioniere fatte in Troja. Le profezie di Cassandra nell’atto secondo, e l’addio che Ella dà alla madre e alla patria, sono degne di osservarsi, e rassomigliano in parte a quelle di Eschilo nell’Agamennone. Squarcia poi i cuori ancor meno sensibili il dolore di Andromaca nell’atto terzo al vedersi strappar dalle braccia Astianatte. Ma le traduzioni non giungono a farne conoscere tutto il patetico, e molto meno questa nostra che si ristrigne a un solo passo spogliato della situazione della scena:

Figlio, viscere mie, da queste braccia
Ti svelgono i crudeli. Ah tu morrai,
E di tuo padre il nome
Che tanti ne salvò, ti fia funesto.
A che sei tu d’Ettore figlio, io sposa?
Per dominar sull’Asia,
Non per morir tra’ barbari sì presto,
Credei produrti, o figlio ... Oh Dio! tu piangi?
Prevedi il tuo destin. Perchè mai stringi
L’imbelle madre tua, e ti raccogli
Nel seno mio, quale augellin rifugge
Sotto l’ali materne? Ahi non è questo
Più un asilo per te. Morì già Ettorre,
Nè dall’avello, per serbarti in vita,
Fia che risorga. Di sostegno privo,
In man del crudo inesorabil Greco,
Chi può rapirti al precipizio orrendo?
Ahi dolce oggetto de’ timor materni,
A ciò ti porsi il seno e del mio sangue
Io ti nutrii? . . . . Vieni, ben mio, ricevi
Gli ultimi amplessi; i tuoi sospiri estremi
Fa ch’io raccolga . ., Oh barbari, spietati,
Inumani, tiranni, e che vi fece
Un misero fanciullo? Il furor vostro
A disarmar non giugne
Quella tenera età, quell’innocenza?
O al vinto e al vincitor fatale agnora
Elena, furia a’ Greci e a’ Frigj infesta.

Reso è una tragedia senza prologo, e senza que’ tratti patetici proprj di Euripide, ma in contraccambio ha molta arte nel dialogo e aggiustatezza nella distribuzione dell’azione, particolar pregio di Sofocle; per il che pretende alcuno che ad esso e non ad Euripide appartenga, benchè altri, come Samuele Petito, la toglie ad ambedue attribuendola a un tragico loro contemporaneo chiamato Aristarco, e Scaligero ne fa autore un altro ancor più antico76. Non è però il parere men sicuro quello del Barnès e del Carmeli che la stimano di Euripide, se si attenda tanto al vecchio consentimento di moltissimi critici che la noverarono sempre tralle di lui tragedie, quanto alle molte espressioni del Reso famigliari a questo tragico. L’argomento è lo strattagemma di Ulisse che con Diomede ammazza questo re di Grecia nel campo Trojano. Nell’atto quarto comparisce Minerva ad Ulisse e a Diomede, la quale vedendo sopraggiunger Paride, per salvarli fa che il Duce Trojano travegga, ed ella si fa credere Venere, mentre i suoi favoriti non lasciano di ravvisarla per Minerva. Tali cose allora convenivano a’ principj e alle opinioni de’ Greci, e perciò non parevano assurde e stravaganti. Lo scioglimento avviene per macchina (come in gran parte delle tragedie antiche) per mezzo della musa Tersicore madre di Reso, la quale apparisce in aria sopra di un carro, tenendo il di lui cadavere sanguinoso sulle braccia.

Medea è una delle più terribili tragedie dell’ antichità, donde trassero la materia tante e tante altre che portano il medesimo titolo. Contiene l’atroce vendetta presa da Medea contro Giasone, Creonte e la di lui figliuola. Degno singolarmente di osservarsi è lo squarcio dell’atto quarto, dove Medea intenerita co’ suoi figliuolini gli abbraccia e gli rimanda, gli compiange e gli destina alla morte, ascolta i moti della natura e la tenerezza di madre, e sente risvegliare i suoi furori alla rimembranza dell’infedeltà di Giasone. Il racconto della morte della nuova sposa di Giasone e del di lei padre Creonte è terribile. I figli che cercano scampar dalla madre che barbaramente gl’ inseguisce e gli riconduce dentro e gli trucida, formano un movimento teatrale sommamente tragico. Quello che mai non piacerà in questa favola è il personaggio di Egeo introdottovi senza veruna ragione per preparare un asilo a Medea, della cui salvezza lo spettatore è ben poco sollecito dopo l’orrenda esecuzione della spietata sua vendetta. Ma il poeta diligentissimo in ogni occasione in dar risalto a tutte le remote tradizioni e antichità patrie, non ha voluto omettere il ricetto che Medea trovò presso Egeo. Notisi però che la vendetta da lei presa contro Giasone ne’ proprj figli avuti da lui, non è istorica ma immaginata dal poeta. Medea lungi dall’ ammazzare quegl’ innocenti nell’accingersi alla fuga, gli depositò in Corinto in un tempio supponendolo asilo inviolabile. Ma i Corintii che odiavano questa straniera, gli uccisero, siccome narrano Parmenisco, Didimo e Creofilo presso lo Scoliaste di Euripide sulla Medea; e per ischivar l’infamia che ad essi ne ridondava, si avvisarono probabilmente di guadagnar qualche poeta per attribuirne l’assassinamento alla stessa madre. Carcino tragico anteriore ad Euripide introdusse Medea che si discolpava di tale imputazione77. Ma Carcino non era di tanto credito da distruggere una tradizione istorica sostituendovi una sua invenzione; e perciò non sembra inverisimile che i Corintii avessero ricorso ad Euripide poeta esimio, il quale, sia per dare, a cagione del suo odio naturale contro del sesso donnesco, un carattere odiosissimo a una donna, sia per essersi fatto corrompere con cinque talenti, come asserisce il nominato Parmenisco, compose la sua tragedia, facendo rea la madre stessa dell’uccisione di que’ fanciulli, e la menzogna per l’eccellenza del poeta passò alla posterità come storia. Egli è certo che Eliano78 afferma esser fama anche a’ suoi tempi (fiorendo egli dopo quelli di Adriano) che i Corintii solevano offerire quasi in perpetuo tributo alle ombre di que’ pargoletti certi sacrifizj espiatorj.

Le Fenisse, altra tragedia di Euripide coronata, contiene la morte di Eteocle e Polinice figli di Edipo e Giocasta avvenuta nell’assedio di Tebe. Lodovico Dolce che ne fece una libera imitazione, ne tolse il prologo, e fe che Giocasta narrasse a un servo tutti gli evenimenti passati di Edipo. E perchè narrare al servo ciò che era pubblico e noto ad ogni Tebano? Scarsezza di arte. Vi è poi in Euripide una scena fra un vecchio ed Antigone che da un luogo elevato osservano l’armata Argiva e ne vanno descrivendo i capi, che è una felice imitazione di un passo del terzo libro dell’Iliade, che dal Tasso pur si trasportò nella Gerusalemme. Il Dolce non si curò di questa bellezza, e la sua scena rimane sterile. Nè anche se n’è curato il Signor di Calepio cui sembra inverisimile che Antigone stando sulle mura di Tebe assediata potesse vedere e distinguere i personaggi del campo Argivo e le loro armature. É da credersi che prima di fare questa censura quel dotto critico si sarà assicurato della distanza del campo e dell’altezza delle mura, per convincere d’inverisimilitudine Euripide, Omero e Torquato. La scena vigorosa di Giocasta co i figli è degna di particolar riflessione per la maestrevole dipintura de’ due fratelli ugualmente fieri, ed accaniti nell’odio reciproco, ma di carattere diversi, e per lo dolore interessante della madre che s’interpone, e cerca di contenerli e disarmarli.

Le Supplici si aggirano sulle conseguenze dell’assedio di Tebe, e sulla sepoltura negata da’ Tebani a i Capi Argivi, là dove le Supplici di Eschilo parlano delle Danaidi; pure queste due tragedie hanno tra loro qualche relazione per la condotta. Lo spettacolo della prima scena dovea produrre un pieno effetto. Etra madre di Teseo stà coll’ offerta in mano a piè dell’altare in mezzo a’ sacerdoti: il tempio è pieno di donne che portano rami di olivo: Adrasto Re d’Argo resta nel vestibulo colla testa velata circondato dai figliuolini delle Argive in atto supplichevole. Oltre a molti altri tratti assai patetici, vi si trovano varie allusioni alle Greche antichità e tradizioni; il che, come altrove accennammo non lasciavano di fare i tragici Greci per mostrare la nobiltà remota delle loro leggi ed origini, e de’ loro costumi a gloria della nazione. Nell’atto secondo però Teseo risolve di portar la guerra a Tebe, e appena incominciato l’atto terzo la guerra è fatta e Teseo ritorna vincitore. È egli un miracolo? vi è corso il tempo necessario? È lo stesso difetto di verisimiglianza osservato nell’Andromaca.

Ercole furioso sino all’atto terzo tratta della giusta vendetta presa da Ercole contro di Lico tiranno e oppressore degli Eraclidi: negli ultimi due atti cambia di oggetto, ed una Furia chiamata da Iride viene a turbare la ragione di Ercole a segno, che questi di sua mano saetta i proprj figliuoli. Nulla di più tragico, di più vivacemente dipinto di questa deplorabile strage, in cui eccitano ugual compassione il saettatore e i saettati.

Euristeo fatal nemico di Ercole ne perseguitò ancora la posterità, minacciando guerra a chiunque osasse ricoverarne i figliuoli. Jolao nipote di quell’eroe e la vecchia Alcmena di lui madre insieme co’ piccioli figliuoli cacciati di città in città fuggono in Atene all’ara della Misericordia sotto il governo di Demofonte e Acamante79. Copreo araldo di Euristeo viene a domandarli, Demofonte ricusa di concederli, e si accende aspra guerra tra gli Ateniesi e gli Argivi, per cagione degli Eraclidi, cioè de’ figliuoli di Ercole, onde prende il titolo questa tragedia. L’erudito Udeno Nisieli, ossia Benedetto Fioretti, ne’ suoi Proginnasmi intento tratto tratto a mettere in vista i più lievi difetti degli antichi, ed ora ad ingrandirli, ora ad immaginarseli, in tal guisa parla di questo dramma: Negli Eraclidi l’ambasciator di Euristeo si parte da Atene protestata la guerra a Demofonte, ritorna a Micene, si congrega l’oste e viensi contra Atene; fassi la guerra, nascene la vittoria, con altri successi da riempiere storie più che da formare una tragedia. La favola enunciata in questa guisa subito sveglierà ne’ lettori l’idea di un dramma Cinese o Spagnuolo che comprenda più azioni passate in molti anni. E pure essa ne contiene una sola, cioè la vittoria riportata sopra Euristeo a favor degli Eraclidi, e ristretta dentro un discreto periodo di tempo. Ecco quel che si legge nella tragedia di Euripide. Gli Argivi armati alla rovina degli Eraclidi, stando a’ confini di Atene, mandano un araldo a richiederli a Demofonte, e nel caso di negativa a intimargli la guerra. L’araldo Copreo per eseguir tale ordine viene in Atene, e la tragedia principia colla sua ambasciata, colla quale nulla ottenendo, protesta la guerra, e ritorna, non già a Micene, come affermò il Nisieli, ma ad Alcatoe, dove trovasi Euristeo alla testa di un esercito congregato prima d’incominciare il dramma, e non già che si congrega dopo il ritorno di Copreo come pur disse il Nisieli. L’esercito muove da Alcatoe città de’ Megaresi posta fra Atene e Corinto, siccome accennò l’araldo stesso: Mi aspettano le migliaja di guerrieri comandati da Euristeo medesimo (μυρίοι δε με μενουσιν ασπιςτῆρες Εύρυσϑευς τ’ ἄναξ αὐτὸς ϛρατηγῶν) negli ultimi confini d’Alcatoe (Ἀλκάϑου δ’ έπ’ εσχάτοις). Non sono dunque tante le azioni in poco tempo accumulate, quante, non so per quale utilità, volle numerarne il critico Fiorentino. Una bella aringa di Jolao, per determinar gli Ateniesi a proteggere gli Eraclidi, leggesi nell’atto primo. L’oracolo che comanda un sacrificio di una vergine illustre perchè gli Ateniesi possano trionfar degli Argivi, apporta una rivoluzione interessante, facendo ricadere gli Eraclidi in una penosissima incertezza, non essendo nè onesto nè sperabile che qualche illustre Ateniese s’induca in favore di persone straniere a versare il sangue di una propria figlia. Ode nell’atto secondo questo nuovo sconcerto la vergine Macaria figliuola di Ercole, e piena di eroismo e di pietà verso i fratelli si offre vittima volontaria. Interessante e tenero n’è l’ultimo congedo che prende da essi e da Jolao. Nell’atto terzo un Messo riferisce la venuta d’Illo figlio di Ercole con un esercito a favore de’ congiunti. Se ne rallegra Alcmena; ma è da notarsi che ella verun motto non fa sul destino di Macaria degna di tutto il suo dolore e per esser figlia del suo figliuolo e per l’azione eroica fatta in pro di tutta la famiglia. Nell’atto quarto essa riceve la notizia della vittoria d’Illo e di Jolao e degli Ateniesi, avvelenata però da quella della fanciulla immolata, ma neppure si mostra in alcun modo sensibile alla di lei morte. Si racconta ancora il miracolo di Jolao ringiovenito che ha imprigionato Euristeo, bene alieno dalle nostre idee, ma gli Ateniesi udivano siffatti prodigj in teatro senza restarne maravigliati, per tal modo era la religione congiunta allo spettacolo. Nell’atto quinto Euristeo prigioniero usa ogni viltà per ottener la vita; ma Alcmena inesorabile, contro il parere degli stessi Ateniesi, lo manda a morire. In questa tragedia ancora Euripide nulla omette che possa ridondare in onore di Atene sua patria80.

Jone, nato di Apollo e di Creusa figlia di Eretteo re di Atene, fondatore della Jonia, è l’eroe della tragedia così intitolata. Questo Jone a se stesso ignoto e alla madre, che di poi si congiunse in matrimonio con Suto, è allevato in Delfo tra’ ministri del tempio. Dopo il prologo fatto da Mercurio, mentre Jone attende alla cura delle cose sacre, il coro composto di donne Ateniesi va osservando curiosamente e con molta naturalezza il vestibolo. Jone si appressa a queste straniere e fa loro osservare i quadri e i bassi rilievi, diciferandone le storie.

Jon.

Vedete quì il figlio di Giove che colla dorata falce ammazza l’idra di Lerna.

Cor.

Lo vedo bene.

Jon.

E quest’altro che gli è dappresso e porta una fiaccola accesa.

Cor.

Chi è mai egli? Sembra una figura che siamo solite di rappresentare ne’ nostri ricami.

Jon.

Egli è Jola scudiere di Ercole. Vedete quest’altro su di un cavallo alato in atto di ferire quel mostro di tre corpi ecc.

E così è condotta tutta la scena. Virgilio in simil guisa descrive Enea che osserva le dipinture del tempio di Cartagine; ma Virgilio le anima colla passione e coll’ interesse dell’eroe Trojano, perchè esse tutte rappresentano la distruzione di Troja. L’immortale Metastasio fino discernitore delle bellezze degli antichi si vale di questa scena di Euripide nell’Achille in Sciro, ma sulle tracce di Virgilio rende le immagini utili all’ azione con alludere vivacemente alla situazione di Achille ozioso in quella reggia. Notabile nel medesimo atto primo è la scena di Creusa e Jone che non si conoscono. Il ragionamento di Jone a Suto nell’atto secondo è ben vago e naturale, e da Racine è stato imitato nell’Atalia e da Metastasio nel Gioas. Così non v’ha bellezza in Euripide che questi due gran maestri della poesia rappresentativa eroica non abbiano sáputo incastrare ne’ loro componimenti. L’altra scena di Jone e Creusa che termina l’atto quarto e che dovrebbe essere la prima del quinto, è una di quelle che meritano maggiore attenzione. Interessa ancora per la vivacità il riconoscimento che avviene nel quinto; ma le domande di Jone intorno al suo nascere mettono in angustia la madre, ed il poeta è costretto a far discendere Minerva per giustificarla. Questa tragedia è assai teatrale, benchè non lasci di abbondar d’incoerenze e di difetti. La situazione di una madre e di un figlio, che non conoscendosi per errore si tramano la morte, è molto vaga; e Metastasio non ha lasciato di approfittarsene nel Ciro Riconosciuto, dandole nuovo interesse e forse più leggiadria.

L’argomento delle Baccanti è l’avventura di Penteo fatto in pezzi dalla madre e dalle di lei sorelle descritta da Ovidio nel terzo delle Metamorfosi, e forse trattata anche da Stazio nella sua Agave. Questa tragedia di Euripide ha un carattere differente dalle altre sue, e si avvicina allo spettacolo satirico e alle antiche tragedie che trattavano soltanto di Bacco. Havvi nell’atto quarto una scena totalmente comica trall’infelice Penteo già fuor di senno vestito come una baccante e Bacco che glì va rassettando la veste e l’acconciatura. Molti tratti allusivi agli effetti del vino si veggono ne’ cori e nel rito delle Orgie di Bacco. É terribile il racconto dell’ammazzamento del disgraziato re preso per un cinghiale; ed assai tragica la scena in cui Agave riviene dal suo furore, e riconosce nella pretesa fiera il figliuolo dilaniato.

Il Ciclope è un dramma satirico, ed è il solo che ci è pervenuto di simil genere; ma di esso favelleremo nel trattar de’ Satiri.

Della Danae, del Cresfonte, dell’Auge, della Menalippe, del Meleagro, della Niobe, dell’Alcmena, del Telefo, della Penelope, dell’Edipo, del Frisso, del Teseo, dell’Archelao e di molte altre tragedie di Euripide, altro a noi non è pervenuto se non se alquanti frammenti, i quali talvolta appena bastano per conoscerne il soggetto. Famosa tralle tragedie perdute fu la sua Andromeda per la strana malattia degli Abderiti avvenuta a’ tempi di Lisimaco. Era questa una febbre che di ordinario durava sette giorni, e riscaldava di modo l’immaginazione degl’ infermi che faceva diventarli rappresentatori. In tal periodo essi non cessavano di recitar versi tragici, e specialmente quelli dell’Andromeda come se si trovassero in teatro. Vedevansi per le strade questi deplorabili attori pallidi e sparuti andar follemente declamando. Durò quell’epidemico delirio finchè non sopravvenne l’inverno. Luciano nell’opuscolo intitolato In qual modo debba comporsi l’ istoria, così ne racconta l’origine. Archelao buon commediante rappresentò in Abdera l’Andromeda in una state sommamente calda, e non pochi spettatori uscirono dal teatro febbricitanti. Ora avendo essi l’immaginazione piena della mentovata tragedia altro non vedevano se non Perseo, Andromeda, Medusa, e ne recitavano i versi, imitando il modo di rappresentare di Archelao. Il morbo fu contagioso, e potè contribuirvi tanto la vivacità ed energia dell’attore quanto l’azione del sole e la natural debolezza delle teste degli Abderiti. In fatti questa città marittima della Tracia era popolata da gente stupida e grossolana per testimonianza di Cicerone, Giovenale e Marziale, sebbene di tempo in tempo avesse prodotti non pochi uomini illustri, come Protagora, Democrito, Anassagora, Ecateo lo storico, Niceneto il poeta, ed altri, de’ quali vedasi Stefano Bizantino alla voce Ἅβδηρα, e il Dizionario Critico di Pietro Bayle.

L’autore di tante belle tragedie, sì gran filosofo, conoscitore sì savio del cuor dell’uomo, e ragionatore sì eloquente, dimorando in Macedonia per compiacere al re Archelao assai amante delle lettere e degli uomini dotti, dopo di aver cenato con esso lui, nel ritornarsene a casa fu lacerato da’ cani fattigli scatenare addosso da Arideo Macedone e da Crateva Tessalo poeti invidiosi, più che della gloria poetica, del di lui favore presso il regnante. Morì Euripide delle ferite nell’olimpiade XCIII (Nota XVI); e Archelao n’ebbe tal dolore, che al riferir di Solino volle recidersi i capelli, e fece in di lui onore innalzare un magnifico avello nella città di Pella. I Macedoni talmente si gloriavano di possederne le ossa, che le negarono concordemente agli ambasciadori Ateniesi che le domandavano per seppellirle nella patria terra81; per la qual cosa gli Ateniesi altro non potendo gli eressero secondo Pausania un cenotafio, ossia voto sepolcro lungo la via che da Atene conduceva al Pireo. Sofocle che ad Euripide sopravvisse, mentre vivea questo suo grand’emulo, compose contro di lui qualche epigramma; ma poichè fu morto mostrò un dolore sì vivo e sì vero, che non meno per ciò si rende meritevole degli applausi della posterità, che per aver prodotto l’Edipo e il Filottete. Ègli l’onorò col suo pianto, e impose a’ suoi attori di présentarsi sulla scena senza corone, senza ornamenti e con abiti lugubri. Con questi due rari ingegni finì la gloria della poesia tragica de’ Greci82.

Discordarono gli antichi nel dar la preferenza a uno de’ nominati gran tragici Eschilo, Sofocle ed Euripide. Aristofane nelle Rane e il filosofo Menedemo presso Diogene Laerzio83 antepongono Eschilo agli altri due. Socrate l’amico di Euripide, sembra averlo preferito a tutti, ben di rado o non mai facendosi vedere in teatro se non quando Euripide vi esponeva qualche nuova tragedia, avendolo amato e per la bontà e bellezza de’ versi e per la sapienza con cui gli nobilitava. Quintiliano84 posponeva Eschilo di lunga mano a Sofocle e ad Euripide, e di questi due affermava non potersi facilmente decidere qual di essi fusse più riuscito ne’ due differenti sentieri che batterono. Plutarco tuttavolta presso Stanley nelle Note ad Eschilo senza preferirne veruno vuole che ciascuno di essi abbia avuto alcun pregio particolare, nel quale non sia stato dagli altri superato.

V.
Ultima epoca della tragedia Greca.

Fra’ più insigni coltivatori della tragica poesia Greca avremmo contato un altro pellegrino ingegno capace di arricchirla di nuove maraviglie, se avesse continuato ad esercitarvisi il divino Platone, il quale secondo Eliano prima di dedicarsi totalmente alla filosofia scrisse tre tragedie e una favola satiresca, delle quali componeasi la tetralogia necessaria per concorrere nel certame85. Delle di lui tragedie non per tanto si racconta che avendole Socrate ascoltate l’insinuò di bruciarle, dicendo: questo Platone ha bisogno dell’opera tua, o Vulcano. Prima di dedicarsi dell’intutto all’eloquenza oratoria il famoso Isocrate si provò ancora nella poesia tragica. Il rètore Melito nemico di Socrate si esercitò parimente nella tragedia. Anche l’orator Teodette, il quale con Teopompo e Naucrite concorse nel certame panegirico instituito da Artemisia in onor del marito, compose fralle altre una tragedia molto applaudita intitolata Mausolo, la quale a’ tempi di Aulo Gellio ancor si leggeva.

V’erano stati altri poeti tragici di qualche nome o poco innanzi o intorno al tempo de’ tre nominati. Si segnalarono in tal carriera in Atene Platina, due Carcini, un altro Euripide, che secondo Suida compose dodici favole e vinse due volte, un di lui nipote dello stesso nome, ed Alceo tragico diverso dal comico, del quale favelleremo nel capo seguente. A questo Alceo tragico da alcuni si attribuisce la favola Cœlum, se è vero che sia stata una tragedia, come la chiama Macrobio che ne rapporta tre versi86. L’altra favola Endimione citata da Giulio Polluce non si sa a qual de’ due appartenga. Contemporaneo del grande Euripide fu tra gli altri Senocle che ne’ Giuochi Olimpici restò di lui vincitore colle tragedie Edipo, Licaone, Bacchide, e coll’ Atamante dramma satirico. Intorno al di lui tempo visse pure Euforione e Bione, e lo scrittore di tragedie non meno che di commedie Agatone che Platone onorò della sua amicizia. Che che di lui motteggi Aristofane nelle Tesmoforie, è certo che Aristotile nella Poetica celebra la tragedia di Agatone intitolata ἄνθος, il Fiore, nella quale i nomi e le cose erano tutte inventate dal poeta, e non tratte dalla storia o dalle favole87. Eraclide Pontico, di cui Laerzio ha scritta la vita, fu ancora poeta, ed Aristosseno scrittore musico afferma che avea composto alcune tragedie che volle pubblicare sotto il nome di Tespi. Egli passa per uno scrittore capriccioso, che talvolta attribuiva ad altri le proprie fatiche e talvolta si appropriava le altrui, cioè quelle di Omero e di Esiodo, di che l’incolpa Camaleone. Acheo Siracusano fu un altro poeta tragico, che compose dieci tragedie, e si vuole che dal di lui Etone satirico avesse Euripide imitato il suo verso

Saturis Venus adest, non iis quos premit fames.

Empedocle celebre pitagorico Agrigentino e poeta fisico rinomato fu pure autore di ventiquattro tragedie88. Dionisio il maggiore tiranno Siracusano scrisse ancora favole tragiche che niuno volle con lui tener per buone. Coltivò pure la poesia tragica il celebre Dione cognato de i due Dionisii, e Mamerco tiranno di Catania, il quale più di una volta contendendo co’poeti della Grecia orientale riportò la tragica corona89.

A’ tempi di Tolommeo Filadelfo spiccarono nella poesia tragica sette scrittori celebrati sotto lo specioso nome di Plejade diversa in parte da un’altra Plejade mentovata da Isacco Tzeze, la quale si componeva di poeti di varj generi. Secondo Efestione la Plejade tragica si formava di Omero il giovane figlio di Mira poetessa Bizantina, di Sositeo, Alessandro, Anantiade, Sosifane, Filisco e Licofrone. Quest’ultimo è il più noto per l’erudito quanto oscuro poema di Cassandra, o Alessandra, e per varie tragedie, venti delle quali sono rammentate da Suida. Nominansi tra esse due Edipi, Andromeda, Iceta, Ippolito, Cassandride, Penteo, Pelopida, Telegono. Egli fu ammazzato di un colpo di freccia, per quel che appare da questi versi di Ovidio in Ibin notati dal dottissimo Pietro Bayle:

Utque cothurnatum periisse Lycophrona narrant,
Haereat in fibris missa sagitta tuis.

Declinando l’età e la sorte delle città greche non solo da esse mai più non uscirono Euripidi e Sofocli, ma per una specie di fatalità gli scritti de’ più chiari drammatici di quella nazione furono consegnati alle fiamme. Ecco come ne favellò presso l’Alcionio Giovanni Medici essendo Cardinale: Sovviemmi di avere nella mia fanciullezza udito da Demetrio Calcondila peritissimo delle Greche cose, che i Preti Greci ebbero tanto credito e tale autorità presso i Cesari Bizantini, che per di loro favore ebbero la libertà di bruciare la maggior parte degli antichi poeti, e specialmente quelli che parlavano di amori; alla qual disgrazia soggiacquero le favole di Menandro, Difilo, Apollodoro, Filemone e Alesside, e i poemi di Saffo, Erinna, Anacreonte, Minnermo, Bione, Alcmone e Alceo. Per la qual cosa su mestieri per instruire la gioventù in difetto de’ nominati sostituire i poemi di San Gregorio Nazianzeno, i quali comechè utilissimi fossero per infiammare i Cristiani ad un più fervoroso culto della religione, erano però ben lontani dall’inspirar l’atticismo e l’eleganza del Greco idioma. Nel quarto secolo si compose la nota tragedia sacra intitolata Cristo paziente, la quale per più secoli si attribuì al prelodato San Gregorio, e ne’ tempi più a noi vicini ad Apollinare seniore Alessandrino, scrittori che principalmente fiorirono sotto Giuliano Apostata. Quest’Apollinare, oltre a tale tragedia, espose sulle scene altri fatti del Vecchio Testamento imitando Euripide, e scrisse ancora commedie a somiglianza delle favole di Menandro90.

Si corruppe finalmente la Greca lingua, e se in appresso si compose alcuna favola drammatica, fu dettata nel Greco moderno. Leone Allacci nella Diatriba De Georgiis presso la Biblioteca Greca del dottissimo Fabricio mentova Giorgio Cortazio Cretese, il quale nel corrotto idioma Greco scrisse in verso una tragedia intitolata Erofila elegante per quanto comporta l’odierno linguaggio della Grecia serva, e l’unica che abbia meritato ne’ bassi tempi di esser letta e pregiata. Passiamo alla poesia comica.