(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « LIBRO II — CAPO II. Prima epoca del teatro Latino. » pp. 9-90
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(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « LIBRO II — CAPO II. Prima epoca del teatro Latino. » pp. 9-90

CAPO II.
Prima epoca del teatro Latino.

I.
Semi primitivi della scena in Roma.

L’unico spettacolo Circense frequentato per lungo tempo in Roma erano le feste Consuali istituite da Romolo dopo il ratto delle Sabine. Ma nel Consolato di C. Sulpizio Petico e di C. Licinio Stolone, nel primo anno della CIV olimpiade e nel 389 della sua fondazione, Roma afflitta da una crudelissima peste, sospesa ogni cura bellica, per liberarsi da sì fiero nemico domestico, contro di cui ogni umano argomento riusciva inefficace, pretese placare lo sdegno celeste con un nuovo rito religioso, e compose alcuni inni. Questo sacro poetico omaggio passò poscia in costumanza, e la gioventù che lo cantava, incominciò a poco a poco ad animarlo scherzevole con atteggiamenti rozzi e scomposti, e lo convertì in ricreazione17. Ecco la sacra informe materia teatrale che nasce, per ciò che nel precedente volume divisammo, in ogni terreno, senza che se ne prenda da altri popoli l’esempio, nella quale per lungo tempo rimangono antiqui vestigia ruris. Essa rassomigliava ai primi inni ditirambici e ai cori rustici de’ Greci, e pose in voga i diverbii Fescennini, i quali insieme co’ modi Saturnii per centoventi anni in circa vennero da’ Romani coltivati18. Ma siffatti motteggi per la soverchia acrimonia e maldicenza personale abbisognarono col tempo di correzione, e furono dalla legge ridotti al solo oggetto d’instruire e dilettare. Orazio stesso ce ne trasmise la storia19:

. . . . . . . Quin etiam lex,
Pœnaque lata malo quæ nollet carmine quemquam
Describi. Vertere modum formidine fustis
Ad bene dicendum, delectandumque redacti.

E la legge quì accennata era quella descritta nella settima Tavola de’ Decemviri: Si quis pipulo centasit, carmenve condisit, quod infamiam faxit, flagitiumve alteri, fuste ferito.

In Grecia però la rozza satirica materia de’ cori villeschi, senza esempio di altro popolo, avea prodotta la poesia scenica; ma tra’ Romani sì l’accennata sacra poesia gesticolata che i rozzi diverbii Fescennini ebbero bisogno dell’esempio degli Etruschi perchè essi passassero a conoscere e ad esercitar l’arte ludicra. Si pensò pertanto verso l’ anno 391 di Roma ad invitare un attore scenico dell’Etruria, il quale per la sua nuova, graziosa e dilettevole agilità (all’usanza de’ Cureti e de’ Lidii, da’ quali traevano l’origine gli Etruschi) riuscì ad essi molto grato. Ma confusa poscia quest’arte stessa con gl’ inconditi e quasi estemporanei surriferiti versi Saturnii e Fescennini, prima di partorire la poesia drammatica, diede l’origine alla satira tutta Romana20, nella quale, non già come prima alla rinfusa e rusticamente si motteggiava, ma con un canto regolare e con un’ azione assai più congrua e composta21.

Con tali passi lentamente preparavasi in Roma la strada alla poesia scenica, la quale nè anche dovea coltivarsi senza gl’ impulsi e gli esempii or degli Osci, or della Magna Grecia, or della Grecia transmarina.

II.
Osci colle proprie Atellane in Roma.

Uno spettacolo appartenente con proprietà maggiore alla poesia rappresentativa recarono a Roma dalla Campania gli Osci, i quali vi furono chiamati a rappresentare le proprie favole mimiche celebri per la loro speciale piacevolezza. Esse nomaronsi Atellane, perchè fiorivano principalmente in Atella città Osca posta allora due miglia distante dalla presente Aversa nel regno di Napoli. Con quale applauso vi fossero accolte e con quanti privilegii onorate, si vede da’ seguenti fatti. I. Esse continuarono a rappresentarsi in Roma nella patria lingua Osca ancora nel fiorir della Latina favella e sino all’età di Augusto, quando scrivea il grave geografo Strabone22. E si ascoltarono con singolar diletto, perchè ignorando i primi Atellani la lingua Latina, si valeano della propria con molta grazia23; al che allude il noto verso di una favola di Titinio citato da Pompeo Festo24. E che a’ Romani non riuscisse malagevole il gustare delle grazie di quella lingua, può dedursi da ciò che scrive Tito Livio del Console L. Volunnio, il quale militando contro i Sanniti che la parlavano ancora, spedì alle vicinanze del fiume Volturno alcune sue spie pratiche del parlare Osco, per esplorar gli andamenti del nemico25. II. Stabilito questo spettacolo Campano in Roma la gioventù Romana volle sottentrare a rappresentarlo dopo gli attori nativi di Atella, e se ne riserbò il diritto privativo ad esclusione degl’ istrioni di professione, i quali erano schiavi e perciò mirati con disprezzo, e reputati infami. III. Gli attori Atellani non perdevano il nome ed il diritto di cittadini Romani, non erano rimossi dalla propria Tribù, non si escludevano dagli stipendi militari26. IV. Essi ottennero il nome di veri attori personati, non perchè soli usaffero della maschera, ma perchè soli ebbero il privilegio di non mai deporla sulla scena; là dove gli altri istrioni commettendo qualche fallo di rappresentazione, a un cenno del Popolo doveano smascherarsi e soffrirne a volto nudo le fischiate27.

Ma per qual pregio particolare vennero in simil guisa privilegiate e conservate ancora dopo che la scena Latina ammise drammi migliori? Perchè, secondo il nostro avviso e del Casaubon28, gli arguti copiosi sali e le vivaci piacevolezze che le condivano, non erano da oscenità veruna contaminate, ma talmente dalla natural gravità Italica temperate, al dir di Valerio Massimo29, che non recarono veruna taccia a chi le rappresentava. Si è però preteso da taluni troppo leggermente che esse fossero sin dalla loro origine basse non solo e buffonesche ma oscene ancora. Pure da quale classico scrittore ciò si ricava? Non da Livio, non da Strabone, non da Valerio Massimo che ne favellano. Le favole Atellane (disse il Gesuita Francese Pietro Cantel nelle sue Illustrazioni all’epitome di quest’ultimo scrittore stimata opera di un Giulio Paride dal Vossio e di un Gianuario Nepoziano da altri) oscene per origine furono corrette e temperate dalla Romana severità, cangiando l’Italica di Valerio in Romana, quasi che fossero sinonimi, o quasi che i nostri Osci fossero fuori dell’Italia. Ma egli dovea sapere che da prima la denominazione d’Italia propriamente designava il paese che tennero gli Osci, gli Ausoni e gli Enotrii30, e che più tardi poi sotto nome d’Italia s’intese tutto ciò che Apennin parte e ’l mar circonda e l’alpe, e in conseguenza il Lazio con Roma. Sicchè l’Italica severità di Valerio si riferisce agli Osci festivi sì, ma non osceni da principio. Gli Osci (dice pure lo stesso Cantel) dall’usar che facevano parole turpi ed oscene sortirono il nome di Osci. Ma donde egli l’apprese? Osceno significò per avventura impudico, turpe, licenzioso nella lingua Osca, o nella Sabina, nell’Etrusca, nella Messapia ed altre antiche lingue dell’Italia? E se osceno è vocabolo Romano, come può stare che esso desse la denominazione agli Osci nazione più antica di Roma? Ma che giuochetto vizioso è poi questo di tal Francese! le parole impudiche dagli Osci furono dette oscene31, e gli Osci presero il proprio nome dall’ oscenità32. L’una cosa non distrugge l’altra? Ma che gli Osci non poterono così nominarsi dalla parola osceno, chiaro apparisce ancora agli occhi degli eruditi che ragionano, dal sapersi che tali popoli da prima chiamaronsi Opici (parola che si allontana di molto da osceno) o da οϕις secondo alcuni, o da un accorciamento di Etiopici secondo altri; e che in appresso i Romani pronunziando male il vocabolo Opici lo corruppero in Opsci, indi in Obsci e finalmente in Osci 33.

Fuor di ogni dubbio i privilegii dati agli attori ingenui Atellanarii riguardarono la salsa giocondità delle loro favole da principio esenti da ogni oscenità. E la corruzione di esse fu posteriore e contemporanea agli eccessi degli altri attori, e da ripetersi verisimilmente dall’imitazione contagiosa de’ mimi Greci già ricevuti nella scena Romana. Tacito ci fa sapere che Tiberio dopo varie inutili lagnanze de’ Pretori, si determinò a riferire in Senato l’immodestia degl’ istrioni, i quali alimentavano le sedizioni in pubblico e le dissolutezze e le turpitudini in privato, essendo anche lo spettacolo Osco caro un tempo alla plebe a tal colpevole indecenza trascorso che bisognava reprimerlo coll’ autorità de’ Padri; ed allora gl’ istrioni furono cacciati dall’Italia34.

III.
Primi scrittori scenici Latini.

Roma guerriera, ordinato lo stato della repubblica in libero popolare per la legge Petelia sin dal 419 della sua fondazione, avea successivamente disteso il proprio dominio oltre del Lazio, vinti i Sabini e i Lucani, trionfato più volte de’ Sanniti (vendicando l’onta delle Forche Caudine, cui soggiacquero per essersi fatti rinchiudere in un luogo di cui cercasi tuttavia il vero sito) e cacciato Pirro dall’Italia. Non avea guerreggiato ancora co’ Greci orientali; ma sin dall’anno 487 le obedivano le provincie Italogreche del regno di Napoli conosciute sotto il nome di Magna Grecia. Mancava alla gloria di Roma vincitrice quella coltura dell’ingegno che dalle nazioni allontana la barbarie e ingentilisce i costumi, e toccò a questa prima vinta Grecia il vanto di erudirla e abbellirla colle lettere. I primi suoi maestri, retori e poeti furono Semigreci, cioè Greci delle Calabrie, perchè i primi che v’introdussero l’amore della letteratura e la conoscenza della greca erudizione, furono Livio Andronico e Quinto Ennio i quali da Suetonio vengono chiamati entrambi Semigreci 35.

Contava Roma circa 514 anni dalla sua fondazione e presso a centoventiquattro dalla venuta degl’ istrioni Etruschi, quando nel consolato di C. Claudio Centone figliuolo di Appio Cieco e di M. Sempronio Tuditano (cinquantadue anni in circa dopo la morte di Menandro) cominciò a fiorire secondo i Fasti Capitolini Livio Andronico. Egli fu liberto di M. Livio Salinatore, di cui ammaestrava i figliuoli, e Greco di nazione. Ma che non nascesse nella Grecia d’oltramare, può dedursi dall’osservare che Salinatore di cui egli era schiavo, non militò se non contro gl’ Italiani e i Cartaginesi; e che appartenesse ai Greci delle Calabrie si argomenta con molta probabilità dall’essere stata questa la Grecia vinta in guerra e soggiogata da’ Romani pochi lustri prima che Andronico vi fosse condotto schiavo. Nè dubbiamente l’indica il citato Suetonio, sì perchè se egli fosse nato nella vera Grecia, impropriamente l’avrebbe lo Storico chiamato Semigreco, sì perchè così lo nominò, come abbiam detto, insieme con Ennio, il quale senza controversia nacque tra’ Greci del regno di Napoli. Esercitava Andronico l’uffizio di gramatico, e coltivò più di un genere poetico, avendo l’anno 546 composto un inno che per placare i numi si cantò solennemente da ventisette verginelle. Acquistò maggior fama per la poesia drammatica, non solo per avere secondo Donato composte e recitate tragedie e commedie seguendo i Greci, ma per essere stato il primo a volgere gli animi degli spettatori dalle satire alle favole teatrali36, per la cui rappresentazione gli fu assegnato il portico del tempio di Pallade. La novità dello spettacolo lo rendè molto accetto, essendone egli medesimo l’attore. E non saziandosi il popolo di udirne talora ripetere i più bei pezzi, un di avvenne che fatto roco impetrò di far cantare per lui al suono della tibia un suo servo, a se riserbando di animare tacitamente le parole col gesto e coll’ atteggiamento37. Piacque al popolo ancor quest’altra novità, e ne nacque l’usanza di dividere la declamazione dall’azione, usanza che non so per qual singolarità di gusto serbossi poscia costantemente nel teatro latino. Ne’ Frammenti degli antichi tragici latini raccolti, dopo le cure degli Stefani e del Delrio, con diligenza maggiore dallo Screverio e pubblicati in Lione nel 1720, trovansi nominate le seguenti favole di Andronico: Achille, Adone, Ajace, Andromeda, Antiopa, i Centauri, il Cavallo Trojano, Egisto, Elena, Ermione, Inone, Laodamia o Protesilaodamia, Tereo, Teucro. Cicerone afferma che le favole Liviane non meritavano di leggersi la seconda volta38, ed Orazio le pregiava ancor meno. Questo è il destino di coloro che inventano o precedono ogni altro in qualche impresa; essi insegnano a’ posteri ad inoltrarsi sulle loro tracce per esserne censurati. Andronico però mostrò certamente sommo ingegno e gusto squisito pel tempo in cui fiorì, avendo trovati i Romani sforniti quasi di ogni letteratura e senza quasi di poesia rappresentativa. Egli sopravvisse al 546, ma s’ignora l’anno della sua morte.

Cinque o sei anni dopo che Livio ebbe introdotta la poesia teatrale in Roma, cioè verso l’anno 519, Gneo Nevio poeta nato nella Campania vi fe udire i suoi drammi tragici e comici. Si sono conservati i titoli di undici sue tragedie: Alcestide, il Cavallo Trojano, Danae, Duloreste, Egisto, Esione, Ettore, le Fenisse, Ifigenia, Licurgo, Protesilaodamia. Il Patrici conta fino a venti favole di Nevio che tutte trasportò dalle Greche, e tra esse nomina il Trifalo. Quella che intitolò Alimoniæ Remi & Romuli potrebbe credersi azione tragica. Le commedie ch’egli compose, gli furono fatali. Traducendo e imitando i Greci ne trasse lo spirito satirico della commedia antica. Ma la costituzione della Romana repubblica non soffriva la licenza della democrazia Ateniese. Il Popolo Romano, anche dopo la legge del Dittatore Publilio Filone, esercitava la somma potestà or ne’ Comizii Tributi, or ne’ Centuriati, or per bocca dell intero Senato. In siffatto governo molti erano i capi nobili della repubblica ognora potenti e degni di rispetto; e un privato censore non impunemente poteva arrogarsi il diritto di riprenderli. Nevio non per tanto pieno della lettura de’ Greci e della loro mordacità ardì satireggiare Metello ed altri illustri Romani, e fu imprigionato per ordine de’ Triumviri. Per implorar grazia e per emendare l’errore commesso, scrisse in carcere altre due commedie in istile più saggio intitolate Ariolo e Leonte, e ricuperò a stento la libertà col favore de’ Tribuni della Plebe39. Niuno degli antichi a lui contese il pregio di scrivere in latino con somma purezza, e Cicerone propone Nevio e Plauto come eccellenti modelli di pura latinità. Lo stesso Nevio conosceva il proprio merito, e ne volle lasciare a’ posteri la memoria nel bello epitafio che per se compose, in cui misto alla nobiltà e all’eleganza scorgesi l’orgoglio e la vanità40. Lo stesso Virgilio lo studiò, e ne imitò diverse frasi e invenzioni41. Ennio con certa invida rivalità ne’ suoi Annali volle motteggiar Nevio come poco elegante ne’ libri della prima guerra Punica, ne’ quali fece uso de’ versi Saturnii. Ma Cicerone osserva che Ennio, benchè miglior poeta di Nevio, scrivendo delle guerre Romane tralasciò quella che Nevio avea cantato quasi schivando il paragone. Tu stesso ne prendesti (dice poscia ad Ennio volgendosi) molte cose, se vuoi confessarlo, o le rubasti, se pretendi dissimularlo42. Nevio dunque non solo fu uno de’ primi poeti drammatici, ma il primo epico de’ Romani. Quanto alla comica poesia egli anche sotto gl’ Imperadori della famiglia Flavia fu creduto degno di essere nominato dopo Cecilio e Plauto, e preferito a Terenzio43. Nevio avea militato nella prima guerra Punica, per quel che da lui stesso ricavò Varrone44, e la di lui morte avvenne nel consolato di Publio Sempronio Tuditano e di Marco Cornelio Cetego, cioè l’anno di Roma 549, benchè Varrone stesso citato da Tullio ne allunghi ancor più la vita. Secondo Eusebio egli morì in Utica nell’olimpiade cxliv (che cade nel nominato anno 549) cacciato da’ nobili Romani che solea mordere nelle sue favole.

Contemporaneo di Andronico e di Nevio fu Quinto Ennio poeta di loro più chiaro per sangue, per valore, per illustri amicizie e per lettere. Questo scrittore che a’ suoi tempi recò grande ornamento alla città di Roma, e di anni settanta morì nel 584, l’anno 514 quando cominciò a comparire Andronico sul teatro Latino, nacque in Rudia nella Japigia secondo Plinio, Silio Italico e Pomponio Mela. Ennio affermava di esser egli nato ne’ monti Calabresi, ed Ovidio lo disse ancora Calabris in montibus ortus; ma vi fu una Rudia presso Lecce, ed un’ altra presso Taranto, ed alcuni autori trovano i monti additati nelle vicinanze di Taranto, ed altri in quelle di Lecce45. Ennio vantava la discendenza dal re Messapo, come accennò Silio Italico,

Ennius antiqua Messapi ab origine regis;

e dedicatosi alle armi fu Centurione e accompagnò in diverse spedizioni Scipione Africano il maggiore. Catone, secondo Cornelio Nipote, lo trasse dalla Sardegna, e il di lui acquisto si stimò da’ Romani tanto pregevole, quanto qualsivoglia amplissimum Sardiniensem triumphum. Egli instruì la gioventù nella buona letteratura, interpretando i migliori autori Greci46, e possedendo perfettamente tre lingue l’Osca, la Greca e la Latina, per la qual cosa solea dire di aver tre cuori, potè, come fece, arricchir l’ultima col soccorso delle altre. Trovò egli ancora che dopo la comparsa di Andronico e l’introduzione de’ drammi simili ai Greci, si erano a quelli cominciate a soggiugnere le farsette satiresche recitate dagli Atellani col nome di Esodii che poi rimase al teatro, e che i moderni hanno ritenuti nominandoli tramezzi all’Italiana, saynetes e fin de fiesta ed entremeses alla Spagnuola, e petites pieces alla Francese. Ennio stimò che anche fuori del teatro potessero piacere al popolo que’ poemi mordaci pieni di sale e di piacevolezze instruttive; e quindi si provò a comporre i primi Sermoni Latini simili agli Oraziani, a’ quali diede il nome di satire, se non che sull’esempio de’ Greci e dello stesso Omero meseolò insieme diversi metri, esametri, jambici, trimetri, tetrametri, trocaici47. Aureo è quel frammento Enniano in cui un’ altra specie di versi adoperando, con eleganza superiore a quell’età deride gli auguri, gli astrolaghi, gli opinatori Isiaci e gl’ interpreti di sogni, aggiugnendo con molta venustà:

Non enim sunt ii aut scientia, aut arte divini,
Sed superstitiosi vates, impudentesque harioli,
Aut inertes, aut insani, aut quibus egestas imperat:
Qui sui quæstus causa fictas suscitant sententias,
Qui sibi semitam non sapiunt, alteri monstrant viam,
Quibus divitias pollicentur, ab iis drachmam petunt.

Debbe in oltre da lui riconoscersi il primo poema epico latino in versi esametri in istile per quel tempo elegante; perchè Nevio che l’avea preceduto colla narrazione della prima guerra Punica, avea adoperati i versi saturnii. E quante gemme avesse tratte dai di lui poemi l’impareggiabile Virgilio per lo più trascritte da verbo a verbo, può ricavarsi dal sesto libro de’ Saturnali di Macrobio. Ond’è che i posteri sempre sospireranno coll’ erudito Scaligero la perdita delle opere Enniane degnissime degli encomii di Lucrezio Caro e di Vitruvio Pollione48.

Quanto alla poesia rappresentativa si è conservata la memoria di tre sue commedie Amphithraso, Ambracia, Pancratiastes, per le quali nel giudizio di Vulcazio Sedigito ebbe luogo tra’ Latini comici più pregevoli; ma fu posposto, non che a Nevio e a Terenzio, a Turpilio e a Lucio stesso, e solo in grazia dell’antichità collocato nel decimo luogo,

Decimum addo antiquitatis causa Ennium.

Le sue tragedie sono: Achille, Achille di Aristarco, Ajace, Alcmeone, Alessandro o Alessandra, Andromaca, Atamante, Cresfonte, Duloreste, Eretteo, Ecuba, l’ Eumenidi, Fenice, Ilione, Ifigenia, i Litri di Ercole, Medea Esule, Medo, Menalippe, Telamone, Telefo, Tieste, tutte o tradotte o imitate da’ Greci, e Scipione originale di argomento Romano. I frammenti che se ne conservano ancora49, ci fanno desiderare che il tempo avesse distrutta l’Ottavia attribuita a Seneca, purchè ci fosse pervenuta la tragedia di Ennio detta Scipione. Avremmo dato di buon grado il Tieste di Seneca che già conosciamo, per quello di Ennio da lui composto nel settantesimo anno della sua età, cioè in quello in cui finì di vivere. La sua Medea esule forse non temerebbe il confronto di quella di Seneca che pure è la migliore di questo Cordovese, giacchè Cicerone50 diceva: E qual mai sarà tanto, per dir così, nemico del nome Romano, che ardisca sprezzare e rigettare la Medea di Ennio? Forse il giudizio altrove mostrato da Ennio potrebbe indurci a credere che nell’Ecuba avesse schivata la duplicità dell’ azione di quella di Euripide e delle Troadi di Seneca. Certamente il Poeta Leccese non tradusse letteralmente la greca tragedia. Per vederne la guisa possono confrontarsi gli squarci che soggiungo. Nella tragedia di Euripide Ecuba così si lamenta nell’atto primo:

Τις αμύνει; ποία γενυα,
Ποία δε πολις.

cioè, Chi mi difende? qual gente? qual città? Ennio non copia, ma imita ed amplifica in questa guisa il sentimento:

   quid petam
Præsidii? quod exequar? quo nunc aut exilio, aut fuga
Freta sim? arce & urbe sum orba. Quò accedam? quò applicem?
Cui nec patriæ aræ domi stant: fractæ & dejectæ jacent:
Fana flamma deflagrata: tosti alti stant parietes.

In Euripide Ecuba nel persuadere ad Ulisse d’intercedere per Polissena profferisce questa sentenza:

Λόγος γαρ ἐκ τʹ αδοξούτω ἰὼν,
κακ τῶν δοκουντων, ἀντὸς ου ταντον τε τϑενει,

cioè, Non ha la medesima forza il medesimo discorso pronunziato da persone oscure che da illustri. Ennio imita questo pensiero, ma ne toglie giudiziosamente l’aria di massima:

Hæc tu, etsi perversè dices, facile Achivos flexeris,
Namque opulenti cum loquuntur pariter atque ignobiles,
Eadem dicta, eademque oratio æqua non æque valet.

Quest’insigne poeta de’ suoi tempi, che fu l’amico di Scipione Africano il maggiore e di Scipione Nasica e di altri celebri Cavalieri Romani, contemporaneo di Andronico, di Nevio, e di Plauto, sopravvisse a tutti, e morto fu onorato con una statua marmorea postagli nel sarcofago gentilizio degli Scipioni51, giusta la testimonianza di Ovidio:

Ennius emeruit, Calabris in montibus ortus,
Contiguus poni, Scipio magne, tibi.

IV.
Teatro di Plauto.

Il gastigo di Nevio contenne la mordacità de’ comici suoi contemporanei, e tutta ne rivolse l’energia alla pretta piacevolezza. Marco Accio Plauto nativo di Sarsina nell’Umbria mancato essendo consoli L. Porcio Licinio e P. Claudio l’anno 569, quindici anni prima della morte di Ennio, mostra in diversi tratti vigorosi sparsi nelle sue commedie che era dotato d’ingegno al pari di Aristofane, ma non passò oltre i confini di una prudente moderazione. Lasciata adunque la satira personale attese unicamente a far ridere imitando la maniera, i sali, e le lepidezze del Siciliano Epicarmo, disegno che manifestò in varii luoghi, e specialmente nel prologo del suo Pseudolo,

Ubi lepos, joci, risus, vinum, ebrietas, decent,
Gratia, decor, hilaritas, atque delectatio,
Qui quærit alia his, malum videtur quærere.

Egli non meno degli altri Latini si arricchì colle invenzioni delle greche favole, ma per evitare la satira de’ particolari, non altronde le tolse che dalla commedia nuova, siccome è manifesto da molte sue commedie. Essendo esse nelle mani di tutti non esigono minute analisi, e basterà per la gioventù che quì se ne osservino alcune particolarità che reputo più degne di notarsi.

Anfitrione. Se non è questa una favola tessuta alla foggia della Greca ilarodia, non saprei scerne altra fralle Latine che più se le avvicini. Rintone inventore, come si disse nel tomo precedente, di quel genere di drammi, compose appunto un Anfitrione, ed Archippo comico ne scrisse un altro, come leggesi in Ateneo. Da’ loro frammenti non si scorge la guisa che essi tennero nel condurre i loro Anfitrioni; ma è verisimile che come Plauto nel suo essi vi trattassero in una maniera tutta comica l’avventura di Giove con Alcmena, dipartendosi dal camino tragico probabilmente battuto da Euripide nella sua favola perduta intitolata Alcmena. Plauto nel prologo fa dire a Mercurio che la sua favola è una tragedia; ma prevedendo la maraviglia del popolo promette di convertirla in commedia senza alterarne i versi. Riflettendo poi che doveano favellare da una parte principi e dei, personaggi non proprii per la commedia, e dall’altra alcuni servi comici non convenienti alla tragedia, dice che la renderà una favola mista chiamata tragicommedia. Scherza egli in tal guisa sull’indole della propria favola che non ignorava di essere una vera commedia, come è da credersi che fossero ancora le Rintoniche. Dalla somiglianza di Sosia e di Anfitrione presa da Mercurio e da Giove derivano tutte le grazie comiche tante volte ripetute nelle moderne scene negli argomenti di somiglianza. Si trasse da tal commedia in Italia in prima la novella di Gieta e Birria attribuita al Boccaccio, ma scritta da Giovanni Acquetini che fiorì col Burchiello nel 1480, come dimostra l’ Argelati52. Indi altri Italiani cominciando da Pandolfo Collenuccio tradussero questa favola, e cento volte ne imitarono l’artificio e i comici colori sotto altri nomi. Oltramonti il celebre poeta Portoghese Luigi Camoens nel suo Anfitrione conservò molte bellezze del latino originale. Il Francese Rotrou contemporaneo di Pietro Corneille trattò lo stesso argomento nella sua commedia detta i Sosii. Sopra ogni altro il noto Moliere colse il fiore di tutte le bellezze Plautine nel suo Anfitrione, molte altre aggiugnendone. Mercurio nel prologo di Plauto accenna che per servire al Tonante la notte si è prolongata, e nella prima scena s’indirizza così alla notte stessa:

Perge, nox, ut occœpisti: gere Patri morem meo.
Optume optumo optumam operam das, datam pulchre locas.

E Moliere prese quindi l’idea di far nel suo prologo un dialogo tra Mercurio e la Notte. Il nume la prega a compiacersi di ritardare la venuta del giorno, e la Notte risponde:

Voila sans doute un bel emploi
Que le grand Jupiter m’apprête.

Mercurio ripiglia che siffatte cose possono reputarsi viltà tralle persone volgari, ma che tra’ grandi non si guarda così sottile:

Lorsque dans un haut rang on a l’heur de paroître,
Tout ce qu’on fait est toujours bel & bon.

Al che la Notte con maliziosa sommessione risponde: “Su tali materie, mio Signor Mercurio, voi sete di me più esperto, e perciò mi rimetto alla vostra perspicacia. Bel bello (replica Mercurio) Madama la Notte, che di voi stessa corre voce che sapete in tanti climi diversi essere la fida conservatrice di mille dilettosi intrighi; ed io credo che in tal materia fra noi due si giostri con armi uguali”. Moliere accrebbe la piacevolezza di tale argomento col dare a Sosia per moglie Clèantis che è il personaggio di Tessala introdotto da Plauto, e coll’ immaginare che essa al pari della sua padrona Alcmena ammetta in casa come proprio marito un altro Sosia. Piace oggi questa graziosa ripetizione de’ colori comici impiegati nell’azione de’ personaggi principali; e Moliere stesso se ne valse felicemente nel Dispetto amoroso, e la praticarono alcuni Italiani del cinquecento e i comici detti dell’arte, ed anche nel teatro Spagnuolo del passato secolo il Grazioso ripete coll’ innamorata le parole de’ padroni, facendone per lo più una parodia. Ma agli antichi, e spezialmente a Plauto, forse ciò farebbe sembrato una spezie di povertà. Ogni popolo ha un gusto particolare ed è stravagante il pretendere ch’egli abbia ad essere una norma universale. Comprendo che la pratica del teatro dimostra, non esser priva di grazia simile ripetizione, e singolarmente quando si colorisce con vivacità, e si varia in parte, come ha fatto Moliere. Ma non ardirei per questo di asserire consoverchia franchezza (come seguendo il Bayle fassi da alcuni, i quali mirano gli oggetti da un lato solo) che in ciò il Francese abbia superato il suo modello. Dicasi la stessa cosa dello scioglimento usato dall’uno e dall’altro comico. Il Latino, secondo che ben conveniva in un teatro ripieno di superstiziosi adoratori di Giove, fa che questo padre degli dei preceduto dallo strepito de’ tuoni comparisca nel teologion o pulpito de’ numi, manifesti l’accaduto, e comandi ad Anfitrione di rappacificarsi colla moglie, e che costui piegando la fronte al decreto soggiunga,

Faciam ita ut jubes . . . .
Ibo ad uxorem intro.

Ma il Francese ora che tali divinità sono appunto divenute comiche larve, accomodando l’azione a’ tempi moderni, fa che Sosia con molta piacevolezza tronchi il complimento di congratulazione di Naucrate,

Le grand Dieu Jupiter nous fait beaucoup d’honneur.
Mais enfin coupons aux discours.
   Sur telles affaires toujours
    Le meilleur est de ne rien dire.

Egli è vero che non senza ragione Madame Dacier imputa a Plauto lo studio di filosofare con qualche affettazione; ma in questa favola sparge alcuna massima filosofica senza gonfiezza, e come si farebbe in una conversazione. Così nel prologo,

. . . Injusta ab justis impetrare non decet:
Justa autem ab injustis petere, insipientia ’st.

e poco dopo,

Virtute ambire oportet, non favitoribus.
Sat habet favitorum semper qui recte facit.

e nell’atto secondo, scena seconda,

. . . Ita quoique comparatum
Est in ætate hominum,
Ita diis placitum, voluptati ut mœror comes consequatur.

Si osservi finalmente in qual maniera Anfitrione adirato nella scena terza dell’atto quarto sollevi il tuono, e minacci al sentire che Alcmena è in procinto d’infantare,

Numquam ædepol me inultus istic ludificabit, quisquis est &c.

A nostra istruzione Orazio avea già detto,

Interdum tamen & vocem comœdia tollit,
Iratusque Chremes tumido delitigat ore,

Ma che pro? I pedanti loschi vorrebbero ridurre questo poema a quattro riboboli del popolaccio e l’immaginazione della gioventù a un limitato numero di picciole idee. Ma essa che è la speranza delle belle arti, rompa oramai que’ ceppi pedanteschi, e si avvezzi a studiare la natura, a consultare il proprio cuore, a ritrarre la società, a ridere sul viso degli orgogliosi pedagoghi ascoltando i consigli suggeriti dal buongusto. Il Mureto, lo Scaligero, il Castelvetro, l’Einsio, hanno osservato che Plauto pecca in questa favola contro la verisimiglianza, facendo che Alcmena nel tempo solo della rappresentazione, cioè in una notte e un giorno resti incinta e partorisca. Non per tanto l’Anfitrione, come testifica Giambatista Pio nel suo comento, per consenso de i dotti si reputa la migliore delle commedie Plautine per la forza, la proprietà e e la Salsa facondia che regna nell’elocuzione, e per la sontuosa abbondanza dello stile veramente latino.

L’Asinaria. Onagos chiamavasi la favola del Greco Demofilo dalla voce όνος, asino, la quale Plauto imitò e nominò Asinaria. Demeneto padre troppo indulgente compassiona il figliuolo Argirippo innamorato di Filenia meretrice e bisognoso di danaro, senza che egli possa sovvenirlo, perchè le proprie entrate si maneggiano dalla moglie e da un servo a lei addetto chiamato Saurea. Ricorre a Libano suo servo assai trincato. „Io amo mio figlio (gli dice) e voglio esserne amato. Così pensò mio padre, così mi educò, nè si vergognò a mio riguardo d’ingannare un ruffiano, e vestito da marinajo menarmi la donna che io amava. Mio figliuolo ha bisogno di venti mine richiestegli dalla madre di Filenia; mia moglie rigida e spilorcia non gliene darà un picciolo, io non ne ho, perchè del mio non dispongo, e perchè

Argentum accepi, dote imperium vendidi.

Or dunque, Libano amato, ricorro a te, trova queste venti mine, usa del tuo ingegno, ingannami, aggirami, inganna mia moglie e ’l fattore Saurea, fa di tutto; purchè mio figlio abbia questo danajo, mi chiamerò di ogni cosa contento”. Egli sprona in tal guisa un cavallo sboccato; di buon grado il servo pregato dal proprio padrone si presta a quello che farebbe per naturale inclinazione. Intanto un mercatante che ha comprato da Demeneto alcuni asini, ne manda il prezzo a Saurea l’atriense, ma il messo non conosce questo Saurea, benchè conosca lo stesso Demeneto. Adunque col consenso di costui il danajo è consegnato a un altro servo additatogli come fosse Saurea. Lo riceve poi Argirippo, il quale con questa chiave riapre quell’uscio che l’era stato chiuso in sul viso. Si destina la cena, alla quale vuole intervenire lo stesso Demeneto. Essa però viene disturbata, perchè un altro amante di Filenia rimasto escluso si vendica con avvisare di tutto la moglie di Demeneto. Non senza ragione Plauto dice nel breve prologo,

Inest lepos, ludusque in hac comœdia.
Ridicula res est.

Essa in fatti per eccitare il riso sacrifica in più di un luogo il verisimile e il decoro. Un servo che pria di consegnare il danajo sospirato all’innamorato l’astringe a portarlo sulle spalle in una pubblica strada: un vecchio che cena colla bagascia del figliuolo, e si fa da lei baciare e abbracciare in presenza del figliuolo stesso, son cose immaginate per muovere il riso per qualunque via. Queste sono favole di cattivo esempio. Qual moderno teatro soffrirebbe senza bisbigliare lo spettacolo di un padre mentecatto che seconda sino a tal segno le debolezze di un figliuolo? In ciò mai abbastanza i moderni non si allontaneranno dagli antichi. Havvi non per tanto in questa favola molta vivacità comica. I caratteri della ruffiana, della meretrice e de’ servi sono dipinti con franchezza. L’ingordigia delle madri ruffiane delle figliuole, cui per una legge Imperatoria si dispose che si tagliasse il naso, come anche il costume delle donne prostituite, le quali combattono sovente coll’ amore e colla necessità di guadagnare, sono nella terza scena dell’atto primo e e nella prima del terzo delineate eccellentemente. Con pratica e maestria si ritraggono le arti della cochetteria, o sia civetteria nella prima scena dell’atto quarto:

Neque illæc ulli suo pede pedem homini premat,
Cum surgat, neque in lectum inscendat proximum,
Neque cum descendat, inde det cuique manum:
Spectandum ne cui anulum det, neque roget 53.

Se si trattasse poi di un amore in qualche modo renduto meno illecito, meriterebbe tutta la lode il tratto patetico della divisione di Argirippo e Filenia nella terza scena dell’ atto terzo. Del rimanente la commedia è piena di bassezze triviali e di scherzi soverchio istrionici e tal volta indecenti, i quali piacquero assai nel tempo della repubblica, e si riprovarono nell’età del buongusto quando vivea Orazio e Mecenate, ed a torto nel passato secolo se ne dichiarò protettore l’erudito Benedetto Fioretti54.

Casina. Greca ancora è questa favola appartenente al comicissimo Difilo, e s’intitolava Clerumenoe, o forse piuttosto Cleronemoe da κληρος, sors, sortitio, e νέμω, tribuo. Plauto la nominò Sortientes. Due servi aspirano alle nozze di una serva loro compagna chiamata Casina. L’amano a competenza il vecchio padrone, ed il di lui figliuolo, e ciascuno di loro pel proprio intento favorisce uno de’ servi. La moglie del vecchio che ha educata la fanciulla, conosacendo la malizia del marito, ne manda fuori il figliuolo, e prende la protezione del servo da lui favorito. Per troncare ogni contrasto, convengono di commetterne il giudizio alla sorte, e si pongono i nomi de’ due pretensori nell’urna, e se ne estrae quello del servo protetto dal vecchio. Restano scornati quelli del contrario partito, e si preparano le nozze. Ma per rendere vano l’accordo e per deludere il vecchio insieme col suo villano fortunato, la moglie fa vestire cogli abiti di Casina il servo Calino rivale escluso, il quale fingendo la sposina ritrosa è menato alla casa destinata al ricevimento; e rimasto prima col rustico marito, indi col vecchio commarito, come dice Plauto, gli respinge a pugni ed a calci e gli caccia in fuga. L’azione termina, scoprendosi Casina ingenua e cittadina Ateniese, che è destinata per consorte al figliuolo del vecchio. Ma ciò si accenna appena con due soli versi dalla Caterva degli attori, che congeda l’uditorio:

Hæc Casina hujus reperietur filia esse e proxumo,
Eaque nubet Euthynico nostro herili filio.

La favola appartiene alla commedia bassa ed è piena di piacevolezze popolari. Essa ha prodotto un incredibil numero d’intrighi e di colpi teatrali usati da’ moderni, spezialmente nel XVI e XVII secolo. Niccolò Machiavelli ripetè finamente nella sua Clizia gran parte dell’azione della Casina, e ne imitò diverse espressioni, e quelle singolarmente della quinta scena dell’atto secondo,

Inimica est tua uxor mihi, inimicus filius, ecc.

Difilo in questa favola non si dimostra indegno del soprannome acquistato in Grecia. Plauto ne compose la sua Casina sommamente applaudita la prima volta che si rappresentò, e, per quanto si dice nel prologo recitato nella ripetizione che se ne fece, superò tutte le altre favole,

Hæc cum primum acta est, vicit omnes fabulas.

La Corda (Rudens in latino) è pure una favola greca del medesimo Difilo, dalla quale parimente derivarono varie commedie moderne. Tra’ primi che l’imitarono in Italia fu Lodovico Dolce nella sua commedia detta il Ruffiano. Non so se Difilo avesse intitolata la sua favola προτονος che significa rudens, non avendocene Plauto conservato il nome greco, nè altrove ricordandomi di averlo letto tralle favole di quel comico citate dagli antichi. Eccone l’argomento. Un ruffiano vende una fanciulla a Pleusidippo giovanetto preso del di lei amore, e ne riceve la caparra, promettendo di menargliela nel tempio di Venere, ma colla speranza di farne un doppio guadagno senza curarsi del contratto s’ imbarca per la Sicilia. Una tempesta fracassa la nave, separa il ruffiano dalle sue donne e privo di tutto lo respinge alla spiaggia. Palestra con la compagna si ricovera nel tempio di Venere lungo il mare; vi arriva anche il ruffiano, le vede e vuol menarle via a forza; ma sono difese dal servo di Pleusidippo e dal vecchio Demone che abita in que’ contorni. Vi accorre lo stesso Pleusidippo e chiama il ruffiano in giudizio. Intanto un pescatore raccoglie nelle reti un involto appartenente al ruffiano, che contiene molte sue ricchezze e una cestina cogli ornamenti infantili della fanciulla Palestra e varii altri contrassegni per gli quali un dì potesse conoscere i proprii parenti. Queste cose pervenute nelle mani di Demone fanno ch’ei riconosca Palestra per la perduta sua figliuola. Il ruffiano ricupera le sue robe, il pescatore la sua libertà con un buon regalo, e Pleusidippo ottiene per consorte la sua bella Palestra. Arturo che impietosito della fanciulla e crucciato contra del ruffiano spergiuro ha svegliata la procella, forma il prologo della favola Plautina, nel quale scagliansi diversi tratti satirici contra gli spergiuri, i litiganti di mala fede e i falsi testimoni. Con molta grazia nella seconda scena dell’atto quarto negli arzigogoli del pescatore Grippo si fa un ritratto di coloro che da picciole speranze sollevati si promettono grandezze impossibili e fantastiche55.

Il Mercatante. Filemone il giovane compose una commedia intitolata Ἐμπορος, mercator, e Plauto l’imitò ritenendone il titolo. Notasi nel prologo di questa favola una novità simile a quella che abbiamo osservata in alcune di Aristofane, cioè l’ illusione distrutta dal medesimo poeta. Aristofane in qualche coro ragiona a lungo delle proprie favole e delle altrui, cose che niuna relazione hanno coll’ azione rappresentata. Plauto introduce Carino ch’è il protagonista a parlar nel tempo stesso e come prologo e come personaggio che rappresenta nell’azione:

Duas res simul nunc agere decretum est mihi,
Et argumentum, & meos amores eloquar.

Quì la verità combatte colla finzione, in vece di prestarsi, come converrebbe, l’una e l’altra concordemente alle mire del poeta. Scorgesi da qualche commedia moderna l’effetto di simili esempii degli antichi. Gl’ Intronati di Siena ed alquanti altri Italiani hanno introdotti gli attori che parlano coll’ uditorio, mostrando di sapere di essere ascoltati. Gli Spagnuoli nelle commedie del passato secolo, che in questo continuano a rappresentarsi, fanno che il loro Grazioso quasi sempre narri al popolo ascoltatore i disegni del poeta. Moliere stesso nell’Avaro introduce Arpagone che s’indirizza agli spettatori. Gli abusi o le licenze però non mai partoriscono prescrizione contro i principii della ragion poetica. Ma vediamo l’argomento del Mercatante. Carino applicatosi alla mercatura per consiglio del padre, ne’ suoi viaggi s’innamora di una serva di un suo ospite e la riscatta. Rimpatria, scende dalla nave lasciandovi la fanciulla, e va in busca de’ suoi. Intanto per un’altra via arriva alla nave il padre che a prima vista rimane preso di Pasicompsa l’amata di Carino. Chiede a un servo chi ella sia, e gli è dato a credere essere una schiava comperata dal figliuolo per servire alla madre. Il vecchio si abbocca col figlio, gli parla della schiava, dicegli non esser propria per faticare nella loro casa, ma volerla comperare a conto di un amico che gliel’ha chiesta. Ripugna in vano Carino, e Pasicompsa è comperata a nome di Lisimaco, nella cui casa è condotta. La moglie di Lisimaco che era in villa arriva in sua casa in tal punto, e trovatavi la giovane non senza apparente fondamento sospetta ch’esser possa qualche intrigo del marito, e strepita contro di lui. Carino perduta Pasicompsa, nè sapendo ove esser possa, disperato pensa di prendere volontario esiglio da Atene. Eutico suo amico figliuolo di Lisimaco lo raggiugne, lo consola, intercede per lui presso il padre, e ne ottiene che gli ceda Pasicompsa. Notabile a mio avviso in questa commedia scritta con vivacità e piacevolezza è singolarmente la terza scena dell’ atto II per la graziosa competenza di Carino e del padre offerendo all’ incanto nella compera di Pasicompsa. Nella prima dell’atto terzo è un equivoco pieno di arte e di sale comico quello di Pasicompsa nel supporre che Lisimaco le favelli del suo Carino, mentre quegli intende del vecchio per cui l’ha comperata. Patetico è poi il congedo che Carino prende dalla patria nella prima scena dell’atto quinto. I gramatici e i critici de’ secoli precedenti hanno eruditamente rilevate negli antichi le veneri del linguaggio e dello stile, o le regole di Aristotile osservate o neglette, lasciando a i posteri più filosofi e di miglior gusto quasi intatta la più utile investigazione de’ loro drammi, cioè quella de’ tratti più vivaci, de’ vaghi colori scenici, dell’arte di maneggiar con delicatezza gli affetti, e di dipingere con verità i costumi.

Il Trinummo. Questa è un’ altra favola di Filemone intitolata in greco Θησαυρὸς, e da Plauto detta Trinummus forse meno felicemente da tre nummi pagati per incidenza a un Sicofanta. Il prologo vien formato dalla Lussuria e dall’Inopia di lei figliuola, la quale dalla madre è mandata ad abitare in casa del giovine Lesbonico, dopo che per le sue prodigalità ha dissipato quanto avea. Egli ha venduta fin anche la casa, ove Carmide suo padre avea nascosto un tesoro senza di lui saputa. Callicle vecchio onorato cui Carmide partendo raccomandò i figliuoli e rivelò il segreto del tesoro, affinchè questo insieme colla casa non andasse in altrui potere, prende il partito di comperarla egli stesso. Intanto Lisitele giovane ricco e ben costumato vorrebbe per moglie la sorella di Lesbonico senza dote; ma questi reputando cosa vituperevole per un uomo della sua condizione il dargliela indotata, vuole assegnarle un picciolo podere che gli è rimasto. Ripugna Lisitele per non ispogliarlo dell’unica cosa che può sostentarlo, temendo che ridotto alla mendicità non pensi indi a sparir dalla città per disperazione. Callicle intesa questa nobil gara, procura rimediarvi, e dar la dote alla fanciulla senza palesare il segreto del tesoro. E a consiglio di un suo amico finge due lettere mandate da Carmide, una a lui stesso, e l’altra al figliuolo accompagnata da mille filippi per la dote della sorella. Un sicofanta prezzolato con tre nummi che danno il titolo alla commedia, si addossa il carico di recar queste lettere. E volendo questo furbo eseguire il concertato, alla prima dà in Carmide stesso padre di Lesbonico che rimpatria, e ne risulta una scena sommamente piacevole imitata poi soventi fiate da’ drammatici Italiani del cinquecento. Alla venuta del padre si sospende la vendita della casa, e si conchiudono le nozze di Lisitele colla sorella di Lesbonico e di Lesbonico colla figliuola dell’onorato amico Callicle. Questa favola tutta decente e nobile e condotta con regolarità e piacevolezza, dimostra, che se Filemone inventava sempre con simil grazia accoppiando alla ben disposta tela lo stile, certamente con molta ragione venne tante volte in Grecia coronato. Notando al nostro solito le scene più belle, ci sembra ottima fralle altre la seconda dell’atto primo di Callicle e Megaronide. Questi riprende l’amico come uomo poco onesto ed ingordo per essersi approfittato della disgrazia di Lesbonico comperando la di lui casa, e dandogli, giusta la sua espressione, la spada in mano perchè si togliesse la vita. Si giustifica il buon vecchio, e mostra la malignità mal fondata di chi va spargendo tali voci senza essere delle cose appieno informato. Persuaso Megaronide dell’onoratezza dell’amico dal di lui racconto, non può darsi pace al riflettere alla malignità di coloro che vanno seminando novelle e giudicando sinistramente delle altrui azioni. E rimasto solo esclama in simil guisa, secondochè io ho tradotto:

Veracemente non si dà più matta,
Nè più stolida gente o più mendace,
Nè più vana cicala, nè più pronta
A vender come storie i proprii sogni,
E spergiurando accreditar le fole,
Di cotesti oziosi bigherai
Che passano la vita affastellando
Novelle, rattoppandole a lor modo,
Ripetendole ognor con nuove giunte.
Ned io mi traggo fuor di tal genìa
Che da’ lor detti inzampognar mi feci.
O che gente! o che forche! o che linguacce!
O che sfacciati! Quanto in città passa,
Tutto fingon saper, ma nulla sanno.
Ciò che pensa ciascun, ciò che domani
O da quì a un mese ha da pensar, ben sanno.
Ciò che all’orecchio il re da solo a sola
Susurra alla regina, essi pur sanno.
Lodino a torno o a dritto, i panni addosso
Taglino a questo e a quello, il falso e ’l vero
Non gli trattien, purchè quanto alla bocca
Lor si presenta, possan dir che sanno.
Tutto il mondo volea che il mio vicino
Fosse d’Atene anzi di vita indegno,
Per aver sovvertito e messo al fondo
Il giovane Lesbonico. Io credendo
A questi maldicenti novellieri
Venni a rimproverar l’onesto amico.
Oh se qualor si leva un romor falso
D’una in un’ altra lingua rimontando
Si venisse a indagar da chi mai nacque,
E gastigato il novellier ne fosse,
Saria certo minor la maldicenza,
E i malvagi ciarloni assai più pochi,
Che sanno sempre quel che mai non sanno.

Il Penulo. In greco s’intitolò Καρκηδονιος, Cartaginese, e Plauto non ci ha conservato il nome dell’autore. Consiste l’argomento in un Cartaginese che va in cerca di un nipote e di due sue figliuole perdute dall’infanzia, trovate poi fortunatamente in Calidonia. I primi quattro atti si aggirano intorno agli amori di Agorastocle per la prima delle sue cugine a lui ignote, e di Antemonide soldato per la seconda. Nel quinto comparisce il Cartaginese Annone recitando sedici versi Punici. Essi presso a poco contengono il concetto degli undici seguenti Latini, ne’ quali ringrazia gli dei per essere arrivato salvo in quella città ove pensa far diligenza per sapere delle figliuole e del nipote, per mezzo di Agorastocle già adottato da un suo ospite chiamato Antidamante. Chi ha molto agio potrà consultare un gran numero di dotti comentatori, i quali seriamente si sono applicati a interpretare questi pochi versi scritti in una lingua morta e ignorata, e della quale non rimangono libri che accrescano le umane cognizioni, che sembrami il saggio fine dello studio delle lingue. Qual frutto si è ricavato dalle loro fatiche? Ciascuno volle in tali versi rinvenire il linguaggio da se coltivato. Giuseppe Scaligero56 considerò questa scena poco lontana dalla purità dell’ebraismo; e il Pareo la scrisse in lettere ebraiche nella sua edizione di Plauto. Giorgio Errico Safunio57 la riferisce al dialetto Arameo. Giovanni Errico Majo58 vuol provare non essere essa differente dall’idioma Maltese, nel quale secondo lui la lingua Punica si è conservata. La curiosità troverà da pascolarsi in quanto, oltre a’ nominati, dissero per illustrar questa scena il Salmasio, il Reinesio, il Petit, il Bochart, il Clerico, il Seldeno, il Casaubon, il Kirker ed altri gran letterati59. Chi poi volesse durare una fatica più leggera, si metta ad arzigogolare cogli etimologisti ghiribizzosi, i quali, a guisa dell’iride o del collo delle colombe cangiando colore ad ogni movimento, dalla semplice somiglianza di una o due lettere sanno trovare in ogni parola il linguaggio Cinese, Etiopico, Pehlvi, Zend, Malaico, Persiano e Copto. Un uomo che avesse sì strano gusto, copiando alla peggio gli scarsi dizionarii di tali lingue antipodiche, avrà l’ immaginario diletto di lusingarsi di abbattere tutte le verità istoriche e tutte le nozioni del senso comune; e chi l’ascolterà avrà quello di ridersi di lui. Noi intanto lasciando ad uomini siffatti i versi Punici di Plauto per confrontarli colle sillabe di tutti i linguaggi a noi e ad essi medesimi sconosciuti, e adorando senza seguirle le orme di cotali oracoli, con maggior senno e vantaggio osserveremo che nella seconda scena del medesimo quinto atto il servo Milfione che appena sa qualche parola Punica, va a parlare al Cartaginese, ma appunto per lo poco che sa del di lui idioma ne interpreta le risposte alla maniera degli etimologisti imperiti e di Arlecchino; per la qual cosa Annone gli parla nella lingua del paese, e viene a sapere che vive in Agorastocle il perduto suo nipote. Questa scoperta anima Milfione a tentare, per mezzo di questo zio, l’acquisto dell’innamorata del suo padrone, la quale trovasi in potere di un ruffiano. Propone perciò al Cartaginese che finga di conoscere le due sorelle del suo paese per due sue figliuole perdute. A ciò Annone prende un’ aria di tristezza, e dice che furono in fatti a lui rubate due figlie insieme colla loro balia. Bravissimo (ripiglia allegro Milfione): tu fingi a maraviglia bene: il principio non può esser migliore. Più che io non vorrei (replica Annone). Ottimamente (Milfione prosegue): o astutissimo, trincato, scaltrito Cartaginese! Che volto! che lagrime! che malinconia! Evviva. Tu superi me stesso che sono l’architetto di questa frode. Questo comico colore sempre piacevolissimo tante volte imitato da’ Francesi e dagli Spagnuoli, trovasi felicemente adoperato prima forse di ogni altro dal Boccaccio nella Novella del porco rubato a Calandrino, e da Giambatista della Porta in più di una commedia, e specialmente nell’Astrolago.

Il Persiano. Si tratta in questa favola dell’astuzia di un servo che aggira un ruffiano. Eccone la condotta.

Atto I. Tossilo servo fra se ragionando conchiude che la costanza di un amante povero supera le più gloriose fatiche di Alcide, perchè affrontar leoni, idre, cinghiali, uccelli Stinfalici e Antei, non sono sì dure imprese come è quella di combattere con amore. Trovasi egli in tal caso e cerca danajo per soddisfare alla sua passione, ma non ottiene altro in risposta che un non ne ho. Vede Sagaristione altro servo, e gli va incontro:

Tos.

O Sagaristione, il ciel ti salvi.

Sag.

Tossilo, egli a te dia quanto tu brami.
Come stai?

Tos.

Come posso.

Sag.

Cosa si fa?

Tos.

Si vive.

Sag.

Contento?

Tos.

Assai, se il mio pensier riesce.

Sagaristione osserva che l’amico è pallido e sparuto. Tossilo gli confessa di essere innamorato. Che mi dì tu! quegli risponde: è quì venuta la moda che i poveri servi facciano all’ amore? Tossilo risponde esser questo il suo destino; indi l’invita a viver seco durante l’assenza del suo padrone promettendo trattarlo con ogni lautezza. Afferma non aver egli altra cura che lo crucii se non quella di riscattare dalle mani di un ruffiano una bella schiava ch’ egli ama. Mancangli a tal uopo seicento nummi, e prega Sagaristione a volerglieli prestare per tre o quattro giorni. Stupisce costui a tal domanda:

Mentecatto, osi a me con tal franchezza
Domandar sì gran summa? A me seicento
Nummi! a me! Se mi vendo intero intero,
Sa dio se raccorrò quanto tu chiedi.
Tu vuoi che chi di sete sta morendo
Cavi acqua dalla pomice.

Chiedi almeno, dice Tossilo, ad altri questo danajo. Sagaristione promette, e si separano. Sopravviene il parassito Saturione e nel voler entrare in casa di Tossilo, per vedere se vi è rimasto dal passato dì qualche cosa da ingollare, vede aprirsi la porta e si trattiene. Torna fuori Tossilo, ed ha pensato con un’ astuzia di fare che lo stesso padrone della sua bella sborsi il danaro per pagarne il riscatto. Si avvede del parassito di cui abbisogna per l’esecuzione, e per adescarlo finge di non averlo veduto e di ordinare a’ servi di sua casa un banchetto per un suo amico che attende. Saturione con gran giubilo comprende esser lui l’amico atteso, e gli va incontro chiamandolo suo Giove terrestre. Tu giungi (Tossilo gli dice) bene a tempo, caro Saturione. Menti amico (egli risponde), che io non vengo miga Saturione, ma Esurione. Questi sali si passano a’ simili interlocutori e alla bassa commedia; ma fuori della scena riescono freddi, nè in teatro si ammettono in un genere comico più elevato. Oggidì per iscreditarsi un uomo in una conversazione di persone ben nate, basterebbe che profferisse alcuna di queste inezie, che i Francesi chiamano turlupinades. Tossilo gli dice ch’ei mangerà, purchè si ricordi di ciò che jeri gli disse. Mi ricordo, sì, risponde, che non vuoi che la murena e il congrio si riscaldino. Non di questo (l’ altro) ma de’ seicento nummi che dovevi prestarmi. Mi ricordo anzi (Saturione) che tu me ne pregasti, e che io non ebbi che darti. Un parassito con danajo è indegno di portarne il nome. Egli esser dee puro cinico di setta: pochi mobili a lui bastano, un vaso, una stregghia, un orinale, un pajo di zoccoli, un pallio e un picciolo borsotto da guardare alcuna coserella per divertirsi mentre sta in casa; questo è quanto può possedere un buon parassito. Orsù (dicegli in fine Tossilo) da te altro non voglio che la tua figliuola . . . . La mia figliuola? (interrompe Saturione) No, per Dio, che finora a quell’uscio non ha fiutato verun cane. No, no (dice Tossilo); io la vo’ per altro. Ella è vaga, è vezzosa, e tu non sei conosciuto dal ruffiano Dordalo. Certo che no (replica Saturione). Vuoi tu che io sia conosciuto da altri che da chi mi dà da mangiare? Or dunque (ripiglia Tossilo) tu puoi darmi il danajo che io cerco, permettendomi di vendere la tua figliuola. E Saturione: Tu vendere la mia figliuola? Anzi non io (Tossilo dice) ma qualche altro che possa fingersi forestiere, cosa non difficile, non essendo scorsi che sei mesi dalla venuta del ruffiano da Megara in questa città. Saturione si rattrista al’ vedere andare in fumo il banchetto, se dee dipendere da questo intrigo. Tossilo conchiude ch’egli rimarrà digiuno, se non vende la figliuola.

Satur.

Ah vendi me ancora, purchè tu mi venda satollo.

Toss.

Vanne dunque in casa, previeni la giovane, instruiscila di quanto dee dire, di chi si abbia a chiamar figlia, da chi debba favoleggiare di essere stata rapita, in qual guisa figurarsi nata lungi da Atene, come piangere al ricordarsi della patria e de’ parenti.

Satur.

Nè taci ancora? Ella è tre volte più astuta di quello che tu brami.

Toss.

Ottimamente. Prendi anche un vestito per mascherar colui che dee fingersi forestiere e vendere tua figlia.

Satur.

Molto bene.

Toss.

Alla stessa foggia vesti ancor lei.

Satur.

Ma donde prenderemo tali vesti e fregi?

Toss.

Prendetele dal Guardaroba del Coro: gli Edili le hanno già apparecchiate.

Nelle quali parole si vuol notare che mentovando il Corago e gli Edili si fanno sparire i personaggi immaginati, e venire avanti gl’ istrioni, siccome accennammo nel parlar delle commedie di Aristofane. Gli antichi da una banda dipingevano al naturale per ottenere la bramata illusione, e dall’altra la distruggevano alle volte con una parola. I moderni con gran senno gli emuleranno nel primo disegno senza fermarsi molto sulle loro picciole macchie, seguendo l’avviso Oraziano. Tossilo aggiugne che sborsato che avrà il ruffiano il prezzo di questa finta schiava, Saturione si farà avanti dandosi a conoscere per di lei padre, e si ripiglierà la figliuola.

Atto II. Lenniselene per la sua fante Sofoclidisca manda un biglietto a Tossilo suo amante, e questi con un altro spedisce a lei Pegnio, incaricandogli di affrettarsi in modo, che possa trovarsi in casa quando egli pensi che sia ancora da Lenniselene. Pegnio risponde, ti obedirò, e torna in casa. Dove vai? dice Tossilo: E Pegnio: in casa per trovarmici mentre tu pensi che io sia da Lenniselene; motto, ovvero, come dicono i moderni comici dell’arte, lazzo e botta adottatata da’ Pulcinelli ed Arlecchini. Parte Tossilo. Ma che fa intanto Sofoclidisca? Ella è fuori: non vede Tossilo a cui è spedita? Direi di no, perchè i teatri antichi potevano rappresentare in una medesima veduta più luoghi di tal modo che un personaggio posto a favellare in una banda della scena poteva essere coperto e non veduto da chi agiva in un’ altra fino a tanto che non venisse avanti nel pulpito. S’incontrano poi i due messaggi Sofoclidisca e Pegnio, e la loro scena è vivace e propria di tali persone, cioè di una fante di un ruffiano e di un ragazzaccio monello. É però lunga, inutile alla condotta, e contraria al comando di chi gl’ invia; ma in ciò vien dipinto il costume e l’indole de’ servi i quali sogliono volentieri trascurare il lor dovere per voglia di cicalare. Entrano nelle case rispettive dove sono stati mandati. Viene fuori Sagaristione allegro per avere avuto del danaro dal proprio padrone per mercare un pajo di buoi, e pensa valersene per prestarlo a Tossilo. Vede Pegnio che esce dalla casa del ruffiano, e vorrebbe domandargli di Tossilo, ma colui risponde colla solita insolenza e parte. Esce Tossilo dicendo alla fante che consoli la padrona, essendo già disposto e pronto il modo di liberarla. Sagaristione con uno scherzo basso e servile gli mostra un tumore nel collo formato colla borsa del danaro, dicendo di essere una vomica. Tossilo allegro lo ringrazia, e promette di renderglielo fra pochi momenti, sperando di cavarlo dal medesimo ruffiano. L’introduce in sua casa, perchè pensa che avrà bisogno della di lui opera.

Atto III. Viene Saturione colla Vergine sua figliuola abbigliata all’ orientale. Le rammenta a che viene, e come sarà venduta. La Vergine con saviezza e modestia procura di rimuoverlo ancora da tal disegno in questa guisa secondo la mia versione:

Verg.

Di grazia, padre mio, benchè sì spesso
Corri alle mense altrui, per la tua gola
Vendi forse tua figlia?

Sat.

Oh buon! Vorresti
Che per lo re Filippo ovver per Attalo
Vendessi il mio?

Verg.

M’hai tu per figlia o serva?

Sat.

Per tutto quello io t’ho che alla mia pancia
Tornerà conto. Io su di te comando,
Tu non già su di me, s’io penso giusto.

Verg.

Egli è così, tutto il comando è tuo.
Pur benchè poveretti, è meglio, o padre,
Viver con poco e conservar l’onore.
Che se alla povertà l’infamia accoppi,
Persa è la fede, e povertà più grave
Diventa, o padre.

Sat.

Sei seccante, o figlia,
Anzi odiosa.

Verg.

No, nol son, nè credo
D’esserla, o padre, se in età sì verde
Ben dritto penso. Narreran la cosa
Di tua figlia a svantaggio i tuoi nemici,
Non attendendo al ver, bensì alla voce.

Sat.

Narrino a posta loro, ed in malora
Vadano pur: fo caso io de’ nemici?
Tanto gli stimo quanto un desco vuoto.

Verg.

Padre, l’infamia non si estingue mai,
E quando il pensi men, t’esce sul viso.

Sat.

Temi tu ch’io ti venda da buon senno?

Verg.

Nol temo, no, ma che si finga, spiacemi.

Sat.

Ti spiaccia pur, sarà quel che vogl’ io.

Verg.

Sarà?

Sat.

Sarà: che cianci?

Verg.

A ciò sol pensa.
Quando un padron di bastonar lo schiavo
Minaccia e sbuffa, benchè poi nol faccia,
Se il braccio è in alto, se il bastone è presso
A cader su di lui, s’ei già si spoglia,
Non palpita il meschino in quell’istante?
Così tem’ io quel che accader non debbe.

Ma ella si affanna in vano: Saturione non si ricorda che delle cene di Tossilo e vuol compiere l’ordinata trama. La figlia altro non potendo si accomoda a bene eseguire i comandi paterni, ed entrano in casa di Tossilo. Dordalo risoluto vuole andar da Tossilo o perchè gli dia il pattuito prezzo della sua schiava, o per disporne a suo modo sciogliendosi dal contratto; ma si ferma al sentire lo strepito che fa la di lui porta nell’aprirsi. Esce Tossilo baldanzosamente, e vedendo Dordalo con disprezzo ed alterigia gli dice che prenda pure il danaro aspettato con tanta diffidenza. Con pari insolenza rispondegli Dordalo. Rimangono di accordo che il ruffiano giuridicamente dichiarerà libera Lenniselene, e poi per la parte dell’orto la menerà in casa di Tossilo.

Atto IV. Tossilo contento del bene ordito inganno chiama Sagaristione perchè conduca fuori la Vergine, e porti seco le lettere ch’egli ha finto di aver ricevute di Persia dal proprio padrone. Lo fa trattenere in disparte, avvertendogli di comparire poichè avrà egli parlato a Dordalo. Viene questi a dire a Tossilo di aver già manomessa la fanciulla e menatala nella di lui casa. Tossilo in segno di sapergliene grado, e di averlo per amico, gli dà a leggere le sinte lettere, ove si accenna di una Vergine Araba fuggitiva da vendersi, e mostrando desiderio di apportargli utile gliene propone la compera. Dordalo, dopo di avere alquanto esitato, cerca di vederla insieme col forestiere che l’ha condotta. La vede e secondo l’ usanza di chi vuol comperare per poco, l’approva a mezza bocca. Tossilo gl’ insinua di udirla un poco prima di parlar del contratto, per ben conoscerne le maniere e il pensare. La scena in cui esce Sagaristione favellando colla fanciulla mentre che gli altri due stanno ad ascoltare, è nella quale si effettua la vendita, è piena d’arte, di grazie, di latine veneri e di buon senso. Ne tradurremo qualche frammento.

Sagar.

Or che dici d’Atene? Non ti parve
Splendida e vaga?

Verg.

Io la città sol vidi,
Gli usi e gli abitator poco conobbi.

Tos.

O che savio principio!

Dord.

Da un sol motto
La saviezza di lei non si discerne.

Sagar.

Come di mura essa è munita e forte!

Verg.

Se cittadini avrà ben costumati,
A meraviglia fia munita e forte.
Se andrà perfidia fuor de’ suoi confini,
E il peculato, e l’avarizia, e poi
L’invidia, l’ambizion, la maldicenza,
Ed in settimo luogo lo spergiuro.

Toss.

Avanti.

Verg.

La pigrizia nell’ottavo,
Prepotenza nel nono, e dietro ad esse
Ogni malvagità. Se da tal peste
Non si ripurghi, a conservarla, io penso,
Ch’è poco ancor di cento doppj un muro.

Toss.

Che ne dici?

Dord.

Che vuoi?

Toss.

Tu fra que’ dieci
Compagni ella ha contato, e quindi in bando
Andar dovrai,

Dord.

Perchè?

Toss.

Come spergiuro.

E’ ammirato tutto ciò ch’ella dice, e se ne tratta la vendita. Tossilo per accreditare l’inganno con finto zelo suggerisce a Dordalo, che nulla conchiuda prima di aver domandato alla fanciulla quel che conviene; indi di soppiatto avverte la Vergine a pensare alle risposte. Ella scaltramente soddisfa ad ogni domanda con parole di doppio senso che ingannano il ruffiano e danno piacere allo spettatore che ne comprende il vero significato. Quest’artificio riesce mirabilmente in ogni specie di commedia, ed è la più ingegnosa fonte del ridicolo, sempre che i sentimenti equivoci sieno naturali e non già tirati al proposito cogli organi. Serva di esempio quest’altro squarcio che io così traduco:

Toss.

Questi, o figliuola, è un uom dabbene

Verg.

Il credo.

Toss.

Presso di lui non servirai gran tempo.

Verg.

Così lo spero, se i parenti miei
Faranno il lor dover.

Dor.

Non dei stupire,
Se della patria tua, se de’ parenti
Noi ti chiediam ragion.

Verg.

Stupir? perchè?
Non permette il destin che mi fa serva,
Che del mio mal meravigliar mi debba.

Toss.

Deh non piangere.

Verg.

Oh Dio!

Toss.

(Sia maledetta!
Che trincata, che scaltra! ha senno: oh quanto
Aggiustato risponde!)

Dor.

(Il nome tuo?

Toss.

Ora temo che sbagli.)

Verg.

Al mio paese
Lucrida era chiamata.

Toss.

O nome insigne,
O nome prezioso! Ed a comprarla
Indugi ancor? (Temei di qualche intoppo,
Ma saltò il fosso a meraviglia.)

Dor.

Io spero
Che se ti compro, Lucrida sarai
Ancor per la mia casa.

Toss.

Un mezzo mese,
Dordalo, non cred’io ch’abbia a servirti.

Dor.

Lo faccia il cielo.

Toss.

E perchè il faccia, adoprati
(Tutto finor va bene)

Dor.

Ove nascesti?

Verg.

Per quello che mi disse un dì mia madre,
In cucina, in un canto a man sinistra.

Ella in somma sfugge con destrezza di mentire, rispondendo indirettamente, nè mai viene a nominar la patria, o sia perchè non voglia mentire manifestamente, ovvero perchè intenda il poeta mostrare ch’ella siasene dimenticato, e si salvi con dire che la sua patria è la città dove ora serve, e cose simili. Dordalo invogliato conchiude il contratto col finto Persiano, contandogli sessanta mine pattuite. Gli domanda poi del di lui nome, ed egli chiudendo nel nome tutta la serie della frode, mi chiamo, gli dice,

Vaniloquidorus, Virginisvendonides,
Nugidololoquides, argentiexterebronides
Tedigniloquides nummorum expalponides,
Quod semel arripides, nunquam postea eripides.

il che graziosamente s’imitò da Giambatista della Porta, nella cui Trappolaria il servo risponde, mi chiamo Nullacredimi, Tuttigabali, Ororubali, Donnatoglili. Partito Sagaristione e Tossilo esce Saturione padre della finta schiava, e la prende per mano. Ella lo saluta col nome di padre. Dordalo rimane attonito all’udirsi chiamare in giudizio dopo di essere stato inzampognato.

Atto V. Trionfa Tossilo colla sua Lenniselene e coll’ amico Sagaristione, e dispone un magnifico banchetto, non solo per tripudiare con gli amici e coll’ amata, ma per fare arrabbiare vie più lo scontento ruffiano. Viene costui lagnandosi del maladetto Persiano, e Tossilo l’invita alla loro mensa, e deridendolo e maltrattandolo danno fine alla commedia. Rimane qualche dubbio sul luogo della scena. I primi atti si passano in istrada; ma quel bagordo dove segue? Metastasio60 non istima che si celebrasse in istrada, e suppone che siasi cambiata la scena. Ma figurandosi cambiato il luogo in una stanza propria per una tavola, come può seguire la venuta del ruffiano da’ commensali schernito? O bisogna concepire un teatro alla maniera di quelli veduti in Napoli in tempo del Marchese di Liveri, ne’ quali senza cangiar la scena vedevansi azioni fatte nell’ interiore di una casa ancor dalla strada, ovvero immaginare che il servo baldanzoso Tossilo, per far disperar Dordalo, avesse disposta la mensa avanti la porta della propria casa per farsi veder da lui, come in fatti avviene. Or nell’uno e nell’altro supposto si conserverebbe l’unità del luogo senza mutazione di scena.

Pseudolo. Vedesi in questa favola un altro ruffiano aggirato e truffato, e tanto più graziosamente, quanto che n’è prima avvertito da un vecchio, il quale per una scommessa fatta con Pseudolo suo servo, e interessato a rendere il ruffiano attento perchè non rimanga col danno e colla beffa perdendo certa sua schiava. In genere di trappole servili è questa una delle più ingegnose e piacevoli di quante se ne sono esposte sulla scena; e Cicerone nel suo Catone ci fa sapere che Plauto stesso oltre modo se ne compiaceva. Tra i vantaggi che ci presenta l’esame delle opere degli antichi, è quello di vedervi la sorgente delle moderne. Il più volte lodato Cavaliere della Porta prese ad imitare questa favola Plautina nella poc’anzi mentovata Trappolaria, ma ne nobilitò l’argomento, e ne rendè più interessanti i caratteri, oltre all’avere alla trappola accresciuto movimento e vivacità con una promessa fatta dal servo per soprappiù di avvisare il ruffiano nel tempo stesso che l’ ingannava; la qual cosa eseguisce con graziosissimi colori comici, de’ quali gode estremamente lo spettatore inteso dell’ingegnosa astuzia. Notabile nella commedia di Plauto è la sfacciataggine del ruffiano, che con alacrità confessa tutte le sue malvagità. Callidoro gli dice, perjuravisti, sceleste, ed egli risponde con prava tranquillità,

. . . . At argentum intro condidi.
Ego scelestus nunc argentum promere possum domo,
Tu qui pius es, istoc genere gnatus, nummum non habes.

Questa è la solita risposta de’ furfanti che deridono i buoni, e si animano a continuare nelle loro infamie. Il poeta acconciamente la mette in vista per insegnare a detestarla, e per rendere più accetta al popolo la beffa che poscia ne riceve quell’indegno che la tiene in bocca e nel cuore. Si osservi che in questa favola ancora Pseudolo distrugge l’ illusione col volgersi nella fine dell’atto primo agli spettatori:

Suspicio est mihi, nunc vos suspicarier,
Me iccirco hæc tanta facinora promittere,
Qui vos oblectem, hanc fabulam dum transigam ec.

Parimente nella quarta scena dell’atto II nega di narrare l’accaduto agli altri attori, perchè non l’ignorano gli spettatori, per li quali si rapresenta:

. . . . horum causa hæc agitur spectatorum fabula.
Hi sciunt, qui hic affuerunt, vobis post narravero.

Il savio leggitore nota ciò e passa, senza fermarsi a trarne ridevoli conseguenze contro gli antichi. Egli non può ignorare che da essi non si vuole apprendere il modo di sceneggiare che varia secondo i tempi e le nazioni, ma la sempre costantemente mirabile semplicità artificiosa dell’azione; ma l’arte in tutti i tempi inarrivabile di dipignere i caratteri, i costumi, le passioni; ma la felicità di motteggiare e di mettere nel vero punto di vista le umane ridicolezze. Per tali cose la favola del Pseudolo fu da Gellio chiamata festivissima, e ammirata da’ moderni più sagaci interpreti, tra’ quali si distinse Federico Taumanno. Giovanni Dousa le da il titolo di ocellus fabularum Plauti 61.

Curculione. Dal nome di un parassito che inganna un soldato millantatore, prende il titolo questa favola. Egli ruba al vantatore un anello, per cui mezzo acquista una Vergine venduta da un ruffiano, e la reca nelle mani di Fedromo di lei innamorato corrisposto. Quell’anello medesimo che ha servito all’inganno, fa che la Vergine venga riconosciuta per sorella del soldato. Se v’ha favola di Plauto, su cui a ragione cada l’ osservazione di Madama Dacier delle sentenze filosofiche affettate, è al certó la presente. Notabile in essa è il personaggio del Corago introdotto nell’atto quarto, il quale teme di perdere le vesti date in affitto a Curculione. Lo spirito di verità che rende i componimenti rappresentativi interessanti, non regnava molto in Roma al tempo della Repubblica prima di Terenzio.

Aulularia. Somministra il titolo a questa favola un vase o pentola ripiena di oro d’intorno a quattro libbre di peso trovata dal vecchio Euclione, il quale avvezzo alla miseria da tanti anni non sa far uso di quel danajo, e di bel nuovo lo seppellisce. Il di lui carattere con somma maestria e con cento grazie dipinto da Plauto, è stato mille volte copiato da Italiani, Spagnuoli, Francesi e Inglesi; e lo scioglimento di questa favola in molte commedie moderne si è ripetuto. Sebbene l’Aulularia non ci sia pervenuta intera, è stata pur tradotta nel secolo XV da Paride Ceresara, per quel che apparisce da una lettera di Lodovico Eletto Mantovano de’ 22 di giugno del 150162. L’ufficio del prologo si fa dal Lare famigliare della casa di Éuclione uno de’ penati custodi delle case degli antichi. Varie sentenze e bene applicate e lontane dall’affettazione possono notarvisi. Tali a me sembrano p. e. nella scena seconda dell’atto secondo queste,

. . . . Si animus est aequus tibi, satis habes, qui bene vitam colas.

e l’altra,

Altera manu fert lapidem, panem ostentat altera.

e ciò che risponde Megadoro all’avaro Euclione, il quale dice di non aver dote da dare alla figlia:

. . . . . . . . . Ne duis:
Dummodo morata recte veniat, dotata est satis.

Così parimente ne giudicò il poc’anzi lodato Dousa 63: Nam præter dictionis genus vere Romanum, tota æthica est, & ad pudicos (unum, alterumve locum exceptes modo) honestosque mores facta videri potest. Perciò non ignobili critici la preferiscono a tutte le altre. Tutte le commedie Plautine (diceva il grande ammiratore di Plauto Udeno Nisieli64) sono altrettante muse; ma l’Aulularia risiede in cima senza fallo come dea di tutte quante le altre. In tanto si vuole osservare che Euclione nel fine dell’atto terzo dice volere andare a nascondere il suo tesoro nel tempio della Fede, e nella seconda scena dell’atto quarto egli comparisce nel luogo dove ha detto volere andare. O dunque bisogna dire col celebre Metastasio che i luoghi di tal favola sien due, o secondo noi concepire un teatro composto di più spartimenti in guisa che vi sieno segnati più luoghi richiesti per eseguire l’azione alla Liveriana. Antonio Codro Urceo Bolognese sotto Sigismondo e Federico III Imperadori supplì a questa favola alcuni versi, e l’illustrarono altri più recenti comentatori come Gioacchino Camerario, Giorgio Reimanno, Leibschütz, Stefano Riccio, Maurizio Sidelio65.

Cestellaria. Denominasi questa favola da un cestino cogli ornamenti infantili di una bambina esposta, ond’ella è riconosciuta da’ genitori. Delineati a maraviglia vi si scorgono i caratteri di una meretrice, di due ruffiane di costumi differenti, della fanciulla esposta, la quale è fieramente innamorata, e di un giovane di lei amante. Questo valoroso comico poeta non ha bisogno di perdersi in episodj. Corre allo scioglimento, e talvolta accenna soltanto quel che conduce alla catastrofe; e pure in così fatta semplicità di argomento e di condotta versa in tal copia i vezzi e le facezie che l’erudito Dousa ne rimaneva attonito. Ma tale è per lo più l’ indole e l’ingegno fecondissimo di Plauto. Si osserva nella Cestellaria una novità che altrove rarissime volte si rinviene. Il prologo fatto dal dio Ausilio non trovasi premesso all’ azione ma in essa inserito, e collocato nella terza scena dell’atto primo. Con Plautina felicità veggonsi nella scena di Alcesimarco, che è la prima dell’atto secondo, dipinte vivamente le contraddizioni, le pene e gli amareggiati diletti dell’amore.

I Menecmi. Di questa commedia, che dalla compiuta somiglianza di due gemelli Siracusani prende le grazie, le scene equivoche, il groppo e lo scioglimento, non credo che siavi nazione moderna che non abbia traduzioni o almeno imitazioni. Nel XV secolo si rappresentò in volgare nella Corte di Ferrara. Gl’ istrioni la perpetuarono sulle scene recitando le loro commedie dell’ arte, e l’intitolarono i Simili di Plauto. Tralascio poi di tutte distintamente riferire le tante imitazioni che se ne fecero ne’ precedenti secoli in Italia co’ titoli de’ Gemelli, delle Gemelle, della Somiglianza ecc. Nel XVII la tradusse in Francia il faceto M. Regnard. Il teatro Spagnuolo conta eziandio un gran numero di favole di somiglianza, come el Parecido en la Corte, el Parecido de Hungria, el Parecido de Tunes, ecc.; ma queste per altro spesso prendono un portamento tragico, e di molto si discostano dal comico artificio latino. Ozioso adunque sarebbe il trattenersi lungamente a favellare di così nota favola, la cui varietà e lepidezza invita a replicarne la lettura66.

Mostellaria. Nell’assenza del padre un giovane di morigerato diviene dissoluto, spende trenta mine a liberare dalla servitù l’innamorata, dissipa, profonde, e si carica di debiti. Arriva il di lui padre in uno dei giorni ch’egli sta in compagnia di donne e di amici gozzovigliando. Un servo autore dei di lui disordini appena ha tempo da fare menar dentro un commensale ubbriaco e chiudere la casa. Incontrasi di poi col vecchio, e gli da ad intendere esser la casa posseduta da mostri e fantasime, perchè sessanta anni fa vi fu spogliato e ammazzato un forestiere da colui che vendè la casa al vecchio padrone. Questa menzogna creduta dal vecchio è quasi distrutta nel nascere dall’arrivo di un creditore; ma il servo per giustificare il debito finge che il figliuolo abbia comperata la casa di un altro vecchio vicino. E perchè Teuropide (padre del giovane) s’ invoglia di vedere quest’altra casa, il servo a forza di bugie ne ottiene la permissione dal padrone di quella, senza che nè l’uno nè l’ altro vecchio nulla penetri della fola. Si osservi che nell’andare a vederla il padrone della casa va via e Teuropide dice al proprio servo, sequere hac igitur, e questi risponde equidem haud usquam a pedibus abscedam tuis, e vanno a vedere l’interiore della casa, e il teatro rimane vuoto nel tempo che si spende a vedere il gineceo, o appartamento delle donne, ed il lunghissimo portico. Il primo verso della scena seguente, quid tibi visum est hoc mercimonii, che subito succede alle parole, equidem haud usquam a pedibus abscedam tuis, dimostra o che la scena, come abbiam detto, sia rimasta vuota nel tempo necessario a veder la casa, o che vi manchino forse de’ versi detti da Simo prima di partire, o che il poeta abbia contato sull’indulgenza dello spettatore. Lo scioglimento avviene per l’arrivo del servo di uno de’ commensali il quale scuopre a Teuropide la verità dello stato di sua famiglia. Il servo colpevole si rifugge all’ara e un amico si frappone, e intercede per lui e pel figliuolo. Nel moderno teatro Francese si trasportò questa favola, ed ebbe per titolo le Rétour imprevû. E’ stato osservato da Metastasio il bisogno che essa ha di mutazioni di luoghi per rappresentarsi67, ove non si sappia costruire una scena alla maniera di Liveri.

Il Soldato millantatore. Αλαζων, jactator, fu chiamata in greco la favola che Plauto intitolò Miles gloriosus; ed è il servo Palestrione che ciò manifesta nella prima scena dell’atto secondo, adoprata in vece di prologo, che per la seconda volta troviamo in Plauto fatto da uno degl’ interlocutori, e collocato nel mezzo della favola. Contiene una beffe fatta a quel vanaglorioso da un fervo per torgli di mano una fanciulla amata da un giovane Ateniese. Questi alla chiamata del servo espressamente viene in Efeso per tale oggetto; e si valgono della casa di un vecchio contigua a quella del soldato, aprendo un muro comune, per la cui apertura passa la donna a veder l’amante. Il servo che la custodisce, la vede nella vicina casa abbracciata coll’ Ateniese. Per rimediare a siffatto disordine Palestrione le insinua di fingersi una propria sorella gemella venuta da poco tempo coll’ amante in Efeso. Il muro aperto colla via occultata facilita la doppia apparenza. Finalmente lo stesso servo alletta il soldato colla speranza di possedere un’ altra donna che si finge una matrona onorata moglie di un vecchio e spasimata amante del soldato. Lusingato il vantatore da questo nuovo acquisto, per non ricevere disturbo dall’amica che ha in casa, risolve di lasciarla partire colla pretesa sorella e colla madre che già si dice imbarcata. Appena l’innamorato vestito da marinajo l’ha menata via, che il soldato pieno di speranza e di amore per l’ideata matrona entra nella vicina casa, corre pericola di esser castrato, e n’è discacciato a colpi di bastone, affetando il vecchio il carattere di marito onorato e geloso. Questa favola si vuol collocare tralle più piacevoli di Plauto per lo sale grazioso che la condisce, e per la vivace dipintura del vano carattere di Pirgopolinice.

Le Bacchidi sorelle. Il prologo col principio della prima scena affermò il Lascari di averlo trovato in Messina, e da alcuni si attribuisce a Francesco Petrarca68. Dipingonsi in tal commedia i costumi meretricj di due sorelle così chiamate. Esse adescano due giovani amici Pistoclero e Mnesiloco. Crisalo servo per favorire l’ intento del padrone Mnesiloco, con varie astuzie tira il danajo necessario dal di lui padre Nicobulo. Scopre costui le bugie di Crisalo, ne freme, ed unitosi col padre di Pistoclero con animo di vendicarsene vuole entrare in casa delle meretrici. Compariscono le sorelle sulla porta, e alla prima gli dileggiano; pensano poscia di accarezzarli per dissiparne lo sdegno, e riescono nell’intento. I vecchi cadono nelle debolezze che riprendevano ne’ figliuoli. Il parlare allo spettatore, il chiamare alla memoria la persona dell’ attore nel più bello del dramma, è cosa comune nelle favole di Plauto. E’ degno di osservarsi che nella scena seconda dell’atto secondo Pistoclero racconta al servo l’amore che Bacchide ha per Mnesiloco, e Crisalo annojato non ne vuol sentir parlare. T’incresce adunque (dice Pistoclero) di sentire la buona ventura del tuo padrone? Non è il padrone che m’incresce (risponde Crisalo) ma è l’attore che m’infastidisce e mi ammazza. Epidico, non dico altro, la favola prediletta e da me amata al pari di me stesso, mi diviene ristucchevole, quando rappresenta Pellione. Questo Pellione dovea essere un attore poco applaudito, e poco accetto allo stesso Plauto.

Epidico. Questa è la favola mentovata nelle Bacchidi. Epidico è un servo, che in vece di riscattare una figliuola naturale del vecchio Perifane suo padrone compra una donna che suona e canta sull’ arpa (fidicina) per secondare un amoroso capriccio del giovane Stratippocle. Oltre a ciò per procurargli quaranta mine che dee a un usurajo per aver comprata un’ altra donna, fa sì che lo stesso Perifane compri un’ altra cantatrice, che per altro è libera, dandogli speranza che non mancherebbe di esser ricomprata da un soldato che l’ ama. Ma il soldato ricusa di ricomprarla accorgendosi di non esser quella ch’egli desidera. Dall’altra parte Perifane che tiene in casa come sua figlia la sonatrice comprata da Epidico, colla venuta di una donna da cui egli l’ebbe, conosce di non esser tale. Per tanti inganni fulmina il vecchio contro Epidico. Ma per buona ventura di costui si scopre che l’ultima fanciulla comprata da Stratippocle era veramente la di lui sorella naturale, ed Epidico per tal felice evento ne ottiene, non che il perdono, la libertà. Contasi questa favola tralle Plautine più ben disposte e verseggiate; e meritò la predilezione dello stesso famoso autore per la traccia dell’azione, per la copia de’ vezzi e per la continuata eleganza69.

Stico. Il servo che presta il nome a questa commedia, è un personaggio episodico che per niun modo influisce nell’azione principale. Questa consiste nella costanza dimostrata da due matrone in amare i loro mariti bisognosi, i quali da tre anni partirono dalla patria cercando di migliorar col commercio il proprio stato. Il padre di queste giovani indarno tenta di persuaderle ad abbandonare la casa de’ mariti; e la loro fermezza è premiata col ritorno di essi già divenuti ricchi. Sembra che a Plauto non bastasse tale argomento per una intera commedia, e che avesse voluto supplirvi colla languida e in niun conto interessante giunta della cena di Stico colla serva Stefania.

Il Truculento, o sia il Burbero. Poco più del personaggio di Stico appartiene all’azione principale del Truculento il duro e salvatico servo onde prende il titolo. Riesce non pertanto instruttiva e interessante per la natural dipintura di una meretrice annunziata con una pennellata maestra nel prologo in tal guisa:

La giovane che alberga in quella casa
Fronesia è detta, e tutti in se raccoglie
Della moda e del secolo i costumi.
Ella non cerca mai quel che altri porse,
Ma cerca e toglie quel ch’egli pur serba.

Questa scaltra civetta, ovvero arpia, pela a un tempo stesso tre merlotti, uno della villa, uno della città, e un altro che viene da’ paesi esteri. A quest’ultimo da lei trattato in altro tempo ancora dà ad intendere di aver di lui partorito un bambino, per trarne regali e per richiamarlo all’antica amistà. Le arti meretricie che adopera variamente coi tre innamorati in compagnia delle sue fantesche, le quali con felicità lla secondano, sono copiate al naturale dalo procedure di simili femmine che trafficano i loro vezzi. Lo scioglimento avviene colla riconoscenza del bambino supposto che era preso da una giovane amata da Dinarco uno degli amatori di Fronesia. Questo Dinarco riconvenuto dal padre della genitrice del bambino è costretto a sposarla. Per le felici dipinture de’ caratteri, per la condotta e per lo stile, è questa commedia noverata tralle buone, e fu cara al poeta che la compose.

I Prigioni. Tralle antiche commedie rispettate dal tempo, la favola più decente e pudica è questa che Plauto intitolò Capteivei. Egione ha due figliuoli, uno che di anni quattro gli fu rubato da uno schiavo e venduto a uno straniero, e un altro già grande fatto prigioniero da’ nemici. Per avere l’opportunità di riscattare o permutare l’ultimo figliuolo prigione si mette a mercatantare di schiavi. Tra questi compera un giovane chiamato Filocrate e un di lui servo per nome Tindaro, i quali però per ogni evento dispongono di cangiar nomi e stato, facendosi il servo credere padrone col nome di Filocrate, ed il padrone rappresentando la figura di servo col nome di Tindaro. Per ventura il figliuolo di Egione trovasi per l’appunto cattivo nella città di Elide patria di Filocrate. Disegna adunque il vecchio di proporre a’ nemici la permuta del proprio figlio per Filocrate; e per trattarla concede al creduto Tindaro l’andare in Elide, stimandosi abbastanza sicuro avendo in mano, com’ egli crede, un pegno importante nella persona di Filocrate. Così rimane col nome del padrone il generoso servo Tindaro esposto al pericolo dell’indignazione di Egione, scoprendosi l’ inganno. Ciò di fatto avviene. Un altro prigioniero compatriotto di Filocrate tratto dal desiderio di vedere l’amico, va a parlare al creduto Filocrate, lo ravvisa per Tindaro e scopre l’inganno ad Egione, che vedendosi aggirato lo condanna a cavar pietre. Torna intanto Filocrate col figliuolo di Egione già liberato, e l’opportuno suo ritorno rende il virtuoso Tindaro libero dalla collera di Egione. Questi osserva con attenzione uno schiavo venuto in compagnia di Filocrate, e lo riconosce per lo stesso malvagio schiavo che rubò e vendè l’altro suo figlio di quattro anni, e nel ricercarsi le particolarità del ratto e della vendita, trovasi che il servo Tindaro è l’altro figlio di Egione. L’unità di tempo non si osserva in questa favola. Filocrate nel fine dell’atto secondo parte dal luogo della scena che è Calidone di Etolia: va in Elide: tratta quivi il cambio degli schiavi: si sa nell’ atto quarto che è tornato e nel quinto comparisce egli stesso, avendo corso nello spazio di poco più di un atto oltre a dugento miglia. I Latini assai meno rigorosi de’ moderni accordarono a’ loro poeti comici più ampii confini della verisimiglianza. Convengono i più sagaci critici in tener questa favola per una delle più eccellenti di sì gran Comico. Dousa n’era incantato. Gioacchino Camerario dice nel prologo: Inter Plautinas omnes hæc & argumento & expositione optima est, & elegantissima. Ipse etiam Poeta hanc commendat ut publice scriptam, multæque bonæ sententiæ in hac insunt, & eximiæ fidei exemplum servi erga herilem filium. Essa è tutta onesta e piena di motteggi innocenti e graziosi; e le stesse trappole servili tendono a un oggetto nobile e lodevole. Il poeta l’avea prevenuto nel prologo: “Non troverete (egli dice) in questa favola nè versi laidi, nè ruffiani spergiuri, nè perfide meretrici, nè soldati millantatori”. E nel congedo ripete lo stesso: “O spettatori (dice il coro degli attori col nome di grex) questa favola è composta per chi ama le dipinture de’ costumi pudici. Non vi sono debolezze, amore, parti supposti, danari truffati, e bagasce liberate da qualche giovane di nascosto del padre. Di siffatte commedie, nelle quali i buoni diventano migli ori, se ne inventano ben poche dai poeti di oggidì”. I pedanti orgogliosi, i quali appresero l’antica letteratura soltanto nelle scuole fanciullesche, e vogliono indi gludicarne canuti dalle idee elementari che ivi ne ricevettero, imparino dall’argomento di questa commedia, che gli antichi comici molte altre invenzioni avranno immaginate assai diverse da quelle che leggiamo nelle reliquie de’ loro scritti a noi pervenute; e cessino dal dettar pettoruti in tuono di oracolo aforismi generali che contraddicono all’ imitazione dell’immensa natura, e circoscrivono angustamente la poesia comica, ristrignendola a’ soli raggiri servili, a intrighi meretricii e ad una elocuzione bassa e triviale. I pedanti senza filosofia sono i selvaggi dell’orbe letterario: non ostentano che spalle nude, armi di legno e presunzione senza modo.

Ed ecco succintamente mostrato qual sia Plauto nelle venti commedie che di lui ci sono rimase. Osservatore non sempre esatto delle regole dell’ illusione teatrale, è non per tanto sempre vago, semplice, ingegnoso, piacevole e faceto, versando a piena mano a ogni passo sali e lepidezze capaci di fecondar largamente l’immaginazione di chi voglia coltivare un genere di commedia inferiore alla nobile. Contesero gli antichi intorno al numero delle commedie che scrisse. Altri secondo Servio gliene attribuirono trent’una, altri quaranta, altri cento, altri cento e trenta. Secondo Varrone e Festo Pompeo passarono presso alcuni per commedie di Plauto anche le seguenti: Artemone, Frivolaria, Fagone, Cestrione e Astraba. Aulo Gellio col filosofo Favorino riconosce per favole Plautine la Beozia che si ascriveva ad Aquilio, la Nervolaria, ed il Fretum; ma essi fondano il loro giudizio nel trovarsi in queste alquanti versi degni della penna di Plauto, argomento, a mio avviso, poco sicuro, quando tutto il rimanente non corrisponde. Spesso avviene che un numero limitato di versi non infelici scappi fuori dal fangoso talento del più meschino improvvisatore. Fin da’ tempi di Varrone mal si distinsero le commedie genuine di Plauto, la qual cosa l’incitò a comporre un opuscolo per isceverarle. Certo Plauzio, secondo lui, antico poeta comico scrisse diverse commedie, le quali dal di lui nome doveano chiamarsi Plauziane, e talvolta passarono per Plautine attribuendosi a Marco Accio Plauto. Il lodato Varrone solamente vent’una ne assegna a Plauto, e vuole che le commedie intitolate Gemini, Leones, Condalium, Anus, Bis compressa, Bœotia, Ἀγριχος, Commorientes, appartengano a Marco Acutico70. Certo è però che Plauto miglior poeta che mercatante caduto in miseria e postosi a lavorare con un mugnajo compose tre altre commedie, due delle quali s’intitolarono Saturio e Addictus, non avendoci Aulo Gellio conservato il titolo della terza. Ora queste tre aggiugnendosi alle venti che ne abbiamo, passerebbero il numero di vent’una da Varrone riconosciute per Plautine. Certo Lelio, al dir di Gellio, uomo eruditissimo affermava che venticinque veramente erano le commedie da Plauto composte, e che altre appartenevano ad altri più antichi comici, e furono da lui ritoccate nel ripetersene le rappresentazioni. E’ noto l’epitafio che Plauto compose a se stesso, in cui dimostra la perdita che nella sua morte era per fare la commedia:

Postquam est morte captus Plautus,
Comoedia luget, Scena est deserta.
Deinde risus, ludus, jocusque, & numeri
Innumeri simul omnes collachrymarunt.