(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « LIBRO II — CAPO V. Continuazione del teatro Latino. » pp. 222-242
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(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « LIBRO II — CAPO V. Continuazione del teatro Latino. » pp. 222-242

CAPO V.
Continuazione del teatro Latino.

I.
Diverse specie di favole sceniche Latine.

Ebbe il teatro latino due specie di tragedie, drammi Italici, diverse commedie, mimi, e pantomimi. Le tragedie erano o palliate che imitavano i costumi de’ Greci, a’ quali appartenevasi il pallio, o pretestate che dipingevano il costume de’ Romani che usavano la pretesta. Di quest’ultima specie erano la tragedia di Ennio intitolata Scipione, il Bruto di Azzio, l’ Ottavia di Mecenate, e l’Ottavia attribuita a Seneca ecc.

Le favole Italiche, delle quali parla Donato nella prefazione alle commedie di Terenzio, erano azioni giocose di personaggi pretestati, le quali doveano rassomigliare alle greche Ilarodie.

La commedia latina si copiò dalla nuova de’ greci, e non ebbe coro di sorta alcuna. La caterva introdotta nella Cistellaria di Plauto, e il grex che trovasi nell’Asinaria, ne’ Cattivi, nella Casina, nell’Epidico, e nelle Bacchidi del medesimo, altro non sono che il corpo o coro intero degli attori, il quale con pochissimi versi nella fine prende commiato dall’uditorio (Nota XVI). Terenzio neppure di tal gregge fece uso; ond’è che nè anche da ciò potè derivare il farfallone di certo Francese, il quale, come narra Madama Dacier, lodava i cori delle commedie di Terenzio (Nota XVII).

Se si attende all’attività dell’azione, la commedia latina dividevasi in motoria e stataria: se si mira alla natura de’ costumi imitati, essa era palliata, ossia greca, e togata, ossia Romana; e quest’ultima suddividevasi in togata propriamente detta, in tabernaria, e in Atellana. La togata propria era seria, e corrisponderebbe alla moderna commedia nobile, e talvolta giugneva ad essere pretestata, a cagione de’ personaggi cospicui che soleva ammettere, ed anche trabeata, così detta dall’antica trabea reale degli auguri e de’ re. Questo genere di commedia togata trabeata parve nuovo a’ tempi di Augusto; e fu inventato da Cajo Melisso da Spoleto, il quale nato ingenuo, ma esposto per la discordia de’ suoi genitori, fu poscia donato per gramatico a Mecenate, per la cui opera insinuatosi presso Augusto fu preposto a rassettare le Biblioteche nel Portico di Ottavia129. La tabernaria frammischiava l’eccellenza alla bassezza, e prendeva il nome da taberna, luogo frequentato da persone di ogni ceto. L’Atellana era una commedia bassa sì ma piacevole, lontana alla prima da ogni oscenità e licenza scurrile (siccome nel secondo capo del presente volume abbiamo osservato), indi contaminata dall’esempio de’ mimi. Essa per quel che ricavammo da Strabone, si recitò lungo tempo da attori privilegiati che godevano della Romana cittadinanza, e nella lingua nativa del paese degli Osci donde venne; ma dopo alcun tempo verisimilmente se ne continuò lo spettacolo anche nel comune linguaggio latino, giacchè troviamo diversi scrittori Atellanarii latini. Tra questi si distinse Lucio Pomponio Bolognese, il quale fiorì nel tempo che Tullio prese la toga virile. Nonnio, Prisciano, Carisio, Festo e Macrobio, hanno conservati i nomi di moltissime sue favole. Tali sono gli Adelfi, Agamennone supposto, l’Aruspice, l’ Asinaria, l’Atreo, il Citarista, i Campani, la Cena, il Collegio, la Conca, l’Ergastolo, i Galli transalpini, le Calende Marzie, il Lare famigliare, il Medico Pansa, o la Sposa di Pappo, le Nozze, il Zio, la Filosofia, i Pittori, i Pescatori, la Porcaria, il Rustico, la Satira, i Sinefebi, Verre ammalato, Macco esule, i due Macchi, Pitone Gorgonio, ed altre molte130. Di quest’ultima favola parlando Scaligero intorno a Varrone, dice: Pomponio poeta Atellanario intitolò certo esodio 131 Pitone Gorgonio, il quale, a mio credere, altro non era che il Manduco, perchè il nome di Pitone è posto per incutere terrore, e Gorgonio equivale a Manduco, dipingendosi i Gorgoni con gran denti. Manduco era un personaggio ridicolo coperto di una maschera di gran guance con una gran bocca aperta e con certi dentacci che si moveano e facevano molto strepito, ond’è che i ragazzi se ne spaventavano132. Questo personaggio era menato intorno ne’ giuochi con altre maschere spaventevoli e ridicole, principalmente nel rappresentarsi le Atellane. Altre figure ridicole introducevano i poeti Atellanarii nelle persone del Macco e del Buccone, delle quali favellasi in un passo di L. Apulejo da Giusto Lipsio interpretato scrivendo a Niccolò Briardo133. Erano esse figure sceniche e notabili per la sordidezza, goffaggine e fatuità. Il dotto Anton Francesco Gori riconosce il Macco degli antichi in una figurina trovata nel Monte Esquilino e conservata nel Museo di Alessandro Capponi. Essa avea due gran gobbe nel petto e nelle spalle, coprivasi di ampie braghe insino a’ piedi, portava in testa una beretta aguzza, e una maschera in volto alterata da un gran naso. Stimava il lodato valoroso antiquario che la voce maccus appartenesse alla lingua Osca, la qual cosa non sembra improbabile; ma è pur certo che la Greca voce μακκαειν, delirare, e l’altra μακκοαω, far l’ indiano, usata da Aristofane ne’ Cavalieri, corrispondono alla goffaggine e alla stolidità del macco degli Atellanarii.

II.
Quali attori in Roma si reputassero infami.

In proposito degli attori delle Atellane vuolsi osservare che tra’ privilegii loro accordati, era quello di escludere dalla rappresentazione de’ loro esodii e farse giocose gli altri istrioni, i quali per lo più erano schiavi e in generale pochissimo considerati fuori della scena. Non era dunque l’esercizio del rappresentare quello che disonorava gli attori in Roma, ma sì bene la loro condizione di servi accoppiata alla vita dissoluta che menavano; là dove gli Atellani liberi, e morigerati sino a certo tempo, godevano della stima della società e delle prerogative di cittadini. Egli è però da avvertirsi che anche gli altri istrioni allorchè vivevano onestamente e segnalavansi per l’eccellenza del loro mestiere, si onoravano e si ammiravano (Nota XVIII). Notissima è la stima particolare che Cicerone avea del tragedo Esopo e del dotto Roscio, come appare dalle di lui Lettere. Il medesimo Oratore, secondo Macrobio, riprese il popolo Romano in una orazione per avere una volta schiamazzato rappresentando Roscio134. E lo stesso Macrobio ci assicura che dal Dittatore L. Cornelio Silla venne Roscio onorato coll’ anello d’ oro, cioè fu ascritto all’ordine equestre. In fatti la disistima ch’ ebbesi poscia per le persone di teatro in Roma, non pare che cadesse su i tragedi e i comedi, ma su gli attori mimici de’ quali parleremo appresso. Senza ciò che dovremmo pensare di Augusto, il quale, non già per pena fulminata contro di loro, ma per grandezza, secondo me, espose alcuni cavalieri e matrone Romane a rappresentare in teatro135? Fu questo poi vietato con un Senatoconsulto; ma sembra che il divieto fosse andato in disuso, trovandosi appresso trasgredito. Domizio avo di Nerone, chiaro poi per gli onori trionfali, sotto Augusto fe rappresentare una farsa mimica in pubblico da matrone e cavalieri in vece de’ soliti attori136. Pisone, il quale fu in procinto di essere acclamato imperadore e sostituito a Nerone, se la congiura di tanti illustri Romani non si fosse scoperta, soleva esercitarsi a rappresentar tragedie137. Nerone stesso ne’ Giuochi Massimi prese dall’ordine Senatorio ed Equestre varie persone di entrambi i sessi, e le fe rappresentare138. L’eroe, il filosofo Trasea Peto, nel quale, al dir di Tacito, Nerone volle estinguere la virtù stessa, in Padova sua patria cantò vestito da tragedo ne’ giuochi Cestici istituiti dal Trojano Antenore139.

III.
Mimi.

I mimi de’ latini furono picciole farse buffonesche che usaronsi da prima per tramezzi, e poscia formarono uno spettacolo a parte, avendo acquistato molto credito per l’eccellenza di alcuni poeti che ne scrissero, e molta voga per la buffoneria che gli animava, e per la sfacciataggine delle mime.

A tempo di Giulio Cesare fiorirono due celebri scrittori di favole mimiche, Decimo Laberio cavaliere Romano e Publio Siro schiavo e poi liberto. Laberio per suo esercizio e diletto compose moltissimi mimi che si rappresentavano, e forse da lui stesso ancora privatamente. La qual cosa per avventura non ignorando Giulio Cesare volle che negli spettacoli dati per lo suo trionfo Laberio stesso comparisse in teatro (siccome avea già obbligati i due principi reali dell’Asia e della Bitinia a danzare in pubblico la pirrica) promettendogli cinquecentomila sesterzii, cioè intorno a quattordicimila ducati Napoletani. Più di questa offerta valse forse, a persuader Laberio ad avvilirsi in simil guisa, la potenza di Cesare che invitando comandava. Obedì, ma volle vendicarsene in un prologo, di cui ecco una parte:

Necessitas, cujus cursus tranversi impetum
Voluerunt multi effugere, pauci potuerunt,
Quò me detrusit penè extremis sensibus!
Quem nulla ambitio, nulla unquam largitio,
Nullus timor, vis nulla, nulla autoritas
Movere potuit in juventa de statu,
Ecce in senecta ut facilè labefecit loco
Viri excellentis mente clemente edita
Submissa placide blandiloquens oratio.
Etenim ipsi dii negare cui nil potuerunt,
Hominem me denegare quis posset pati?
Ego bis tricenis annis actis sine nota,
Eques Romanus lare egressus meo,
Domum revertar mimus. Nimirum hoc die
Uno plus vixi mihi quam vivendum fuit.

Nella stessa favola poi sparse altri tratti di satira che andavano a colpire il Dittatore. Col vestito di uno schiavo che era bastonato, gridava fuggendo,

Porrò, Quirites, libertatem perdimus.

Ed aggiunse appresso:

Necesse est multos timeat, quem multi timent;

al qual motto si rivolse il popol tutto à mirar Cesare140. Ma quantunque sentisse questi le punture, mantenne la parola quanto al premio, e gli diede anche l’anello quasi in segno di ristabilirlo nella dignità equestre, dalla quale pareva Laberio per di lui capriccio decaduto. Andò questo mimo cavaliere dopo la rappresentazione a prender luogo tra gli altri della sua classe, e si abbattè in Cicerone, il quale mostrandosi imbarazzato diceva non potergliene dar molto, a cagione della gran folla che vi era, alludendo al gran numero di senatori e cavalieri creati da Cesare. Ma Laberio che non cedeva all’Arpinate nel motteggiare, rispose che non si maravigliava che stimasse di stare a disagio in un solo sedile chi era solito ad occuparne due in un tempo; satireggiando in tal guisa la doppiezza ed incostanza dell’oratore. Orazio141 riprende i mimi di Laberio come poco eleganti; e veramente egli si arrogava una gran libertà d’inventar parole nuove, siccome leggesi in Aulo Gellio. Scaligero però stima ingiusta la censura di Orazio142; quasi che egli da’ frammenti soli che ne rimangono, potesse giudicar più drittamente di un Orazio che ne conobbe gl’ interi componimenti. Di varie di lui farse fanno menzione gli antichi, e specialmente il nominato Gellio143: Theophinus, Fullonica, Staminarii, Restio, Compitalia, Cacomemnon, Nacca, Saturnalia, Necromantia, Scriptura, Alexandra, nel qual mimo diffinisce il giuramento,

Quid est jusjurandum? emplastrum æris alieni.

In un altro suo mimo intitolato Rector inserì i seguenti versi sull’acciecamento di Democrito da un vecchio avaro applicato a’ proprii casi:

Democritus Abderites physicus philosophus clypeum
Constituit contra exortum Hyperionis, oculos
Effodere ut posset splendore aereo, ita radiis
Solis aciem effodit luminis, malis bene
Esse ne videret civibus! sic ego
Fulgentis splendore pecuniæ volo
Elucificare exitum ætatis meæ,
Ne in re bona videam esse nequam filium.

Publio Siro così denominato dalla Siria ove nacque, fu schiavo in Roma, ma ottenuta la libertà andò rappresentando i suoi mimi per l’Italia. Tornato indi a Roma ne’ giuochi di Cesare riportò vittoria di tutti gli attori e poeti e di Laberio stesso. Cesare offeso dall’arroganza e maldicenza di costui abbracciò volentieri l’occasione di mortificarlo, dichiarandosi pubblicamente a favore de’ mimi rappresentati da Publio. Di questo liberto ci sono pervenute alcune centinaja di versi, i quali contengono eccellenti sentenze e insegnamenti per la vita civile, e la di loro eleganza ci rende molesta la perdita delle intere sue favolette. In sentimento di Cassio Severo144 i di lui detti sentenziosi reputavansi superiori a qualunque comico e tragico greco e latino. Aulo Gellio ce ne ha conservati moltissimi versi. Fra quelli che più volte se ne raccolsero e si stamparono, ne sceglieremo per saggio alcuni pochi che ci sembrano degni di osservarsi per la nitidezza ed eleganza e per le verità, che contengono:

Ad pœnitendum properat, citò qui judicat.
Amici vitia si feras, facis tua.
Bis vincit qui se vincit in victoria.
Citò ignominia fit superbi gloria.
Felix improbitas optimorum est calamitas.
Heredis fletus sub persona risus est.
Fortuna vitrea est, tum cum splendet, frangitur.
Ignoscito sæpe alteri, nunquam tibi. &c.

Altri non divulgati trovansene in fine di un codice del Capitolo Veronese, alcuni de’ quali sono riferiti dal Marchese Maffei nel suo trattatino de’ Teatri.

Vincere est honestum, opprimere acerbum, sed pulchrum ignoscere.
Pœnæ satis est, qui læsit, cum supplex venit.
Etìam sine lege pœna est conscientia.
Sat est disertus, pro quo veritas loquitur &c.

Dopo questi si distinsero tra’ mimografi Lentulo, di cui favellano San Girolamo e Tertulliano, Gn. Mazio da Gellio appellato dottissimo, e Lucio Crassizio di famiglia Tarantino. Costui ebbe il cognome di Paside che poi trasformò in Panza ed attese da prima agli studii teatrali e compose alcuni mimi. In Ismirne acquistò rinomanza con un dotto commentario, ed in Roma insegnò le belle lettere a molti nobili e spezialmente a Giulio Antonio figliuolo del triumviro. Fu stimato al pari del famoso Verrio Flacco precettore de’ nipoti di Augusto. Terminò il suo corso dandosi alla filosofia dietro la scorta del filosofo Quinto Settimio.

I mimi prodotti da tali scrittori erano ingegnosi, morali e piacevoli, nè si scostavano moltissimo dalla commedia. Ma la buffoneria e l’oscenità a poco a poco corruppe queste picciole farse, specialmente coll’ introdurvisi le donne. Dicemmo nel teatro Greco che nelle commedie e tragedie non rappresentavano donne, ed in Roma avvenne lo stesso. L’ istrione Rutilio rappresentava le parti di Antiopa ed altre donne. Nerone stesso, secondo Suetonio, colla maschera finta a somiglianza delle femmine ch’egli amava, cantando rappresentò Canace che partoriva145. Non così nelle mimiche rappresentazioni, nelle quali, per condire di oscenità la buffoneria, s’introdussero le donne. Allora fu che de’ mimi degenerati si disse da Ovidio, imitantes turpia mimi, e che Diomede diffinì la mimica, factorum turpium cum lascivia imitatio (Nota XVIII). Da quel tempo s’intesero ne’ fasti scenici mentovati i nomi delle mime Origine e Arbuscula, delle quali favella Orazio ne’ Sermoni, e di Citeride mima favorita di Marcantonio, e di Lucilia mima che visse sino a cento anni nominata da Plinio. Della sfacciataggine di simili mime sono pieni gli scrittori. Mima e meretrice diventarono sinonimi. Sul medesimo teatro non che nelle case, campeggiava la loro impudenza. A un cenno del popolo dovevano nudarsi e fare spettacolo del proprio corpo. Ma in tal caso dir non saprei, se maggiore sfacciataggine mostrassero queste schiave in eseguirlo, o il popolo in comandarlo. Assisteva Marco Porcio Catone ai giuochi Florali fatti dall’Edile Messio l’anno di Roma DCXCVIII, ed il popolo si vergognò di chiedere che le mime deponessero le vesti, rispettando la presenza di quel virtuoso cittadino; ma egli avvertitone da Favonio suo amico uscì dal teatro, e il popolo contento l’accompagnò con plausi strepitosi, e richiamò sulla scena l’antico costume146.

IV.
Pantomimi.

I Pantomimi coltivati in Roma poterono derivare dalla tacita gesticolazione di Livio Andronico o dalle antiche danze Orientali e Greche surriferite; nè se ne può ragione-volmente attribuire la prima invenzione a Batillo e Pilade famosi istrioni ballerini del tempo di Augusto. Al più questi diedero un gusto più moderno all’antica arte pantomimica. C. Giulio Batillo di Alessandria dalla prisca danza comica formò l’Italica, la quale per la troppo oscenità diede motivo ai tratti satirici lanciati da Giovenale nella citata satira sesta. P. Elio Pilade di Cilicia spiccò ne’ balli tragici, e secondo Suida e Ateneo compose anche un libro in tal materia. Egli ebbe un discepolo chiamato Ila, il quale rappresentando co’ gesti una tragedia, nel voler esprimere queste parole, il grande Agamennone, sollevò la persona. Pilade lo disapprovò, affermando che il di lui gesto esprimeva alto, e non grande. Volle allora il popolo che sottentrasse il maestro a rappresentar la stessa cosa, ed egli obedì, e giunto a quelle parole si compose in atto grave colla mano alla fronte in guisa di uomo che medita cose grandi, e caratterizzò più aggiustatamente la persona di Agamennone147. Tale era l’ accuratezza degli esperti pantomimi antichi (Nota XIX). Altre delicatezze di Pilade e del di lui discepolo nel rappresentare vengono accennate dal citato Macrobio. Ila però come sommamente licenzioso ad istanza del Pretore fu da Augusto nella propria casa fatto pubblicamente bastonare148. Da Batillo e Pilade si formarono le due famose scuole, o partiti, chiamate i Batilli e i Piladi, i quali scambievolmente si disprezzavano e facevansi ogni male. Batillo favorito da Mecenate giunse a far bandire da Roma e dall’Italia il suo emulo Pilade, benchè Suetonio ci dica essere costui stato esiliato, per avere dalla scena mostrato a dito uno degli spettatori che lo beffeggiava. Ebbe egli poi tanti protettori che fu richiamato. Questi partiti produssero sanguinose fazioni nella città dominatrice del mondo. Nerone che se ne compiaceva, assisteva talora ascoso in teatro per goderne, e al vedere attaccata la mischia soleva anch’egli gettar pietre contro i partigiani della fazione contraria, e una volta ruppe il capo a un Pretore149; e in quale altra guerra avrebbe fatte le sue prodezze un imperadore che si gloriava di esser contato tra’ musici ed istrioni? Finì in Roma ogni gloria della poesia drammatica, allorchè cominciò a regnarvi la moda delle buffonerie e oscenità de’ mimi e de’ pantomimi, spettacoli più atti a trattenere un popolo che andava degenerando.

Ma le nostre querele e quelle di tanti scrittori contro de’ pantomimi, cadono sulla loro arte o anzi sulla scostumatezza? L’arte al fine non è altro che una vivace rappresentazione che unita acconciamente alla poesia drammatica serve ad animarla. Ora se gli attori pantomimi giunsero a rappresentare con tal verità e delicatezza che non soccorsi dalla locuzione tutta sapevano esprimere una favola scenica, come si può senza nota di leggerezza asserire, che l’arte pantomimica à la honte de la raison humaine fît les delices des Grecs & des Romains, secondo che declama M. Casthilon? I talenti possono mai far vergogna alla ragione, sempre che i costumi sieno puri? La tragedia di Medea espressa mirabilmente per gesti da Mnestere poteva recar vergogna alla ragione, perchè la vita del pantomimo era dissoluta, o perchè le matrone Romane innamoravansi di tali istrioni ballerini, o perchè essi prendevano dominio sugl’ imperadori e influivano negli affari del governo? Ma gli errori di tal Francese su i pantomimi ed altre cose teatrali e non, teatrali non sono nè piccioli nè pochi. Chi mai, se non costui, senza pruove, confondendo fatti ed idee, e passando di un salto leggiero sulle terribili vicende dell’Europa che per dir così la fusero e rimpastarono di nuovo, chi, dico, avrebbe francamente scritto che le fazioni per gli pantomimi perpetuaronsi per mille e dugento anni sino a produrre, che cosa? i partiti de’ Guelfi e de’ Ghibellini! È vero che in Roma e in Constantinopoli arsero le fazioni de’ Verdi e de’ Turchini nel circo e ne’ teatri; ma è vero ancora, che i pantomimi influirono negl’ interessi e nell’origine degli odii de’ Guelfi e de’ Ghibellini quanto v’influì la discordia de’ Tebani Eteocle e Polinice.