(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « LIBRO II — CAPO VII. ed ultimo. Vuoto della Storia teatrale. » pp. 248-280
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(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « LIBRO II — CAPO VII. ed ultimo. Vuoto della Storia teatrale. » pp. 248-280

CAPO VII. ed ultimo.
Vuoto della Storia teatrale.

Chiamiamo vuoto della storia teatrale il lungo periodo interposto dalla corruzione della poesia drammatica sino alla perdita della lingua latina avvenuta principalmente per l’incursione delle nazioni barbare nell’impero Romano.

I.
Copia di teatri per l’impero.

Non è già che sotto gl’ imperadori de’ tre primi secoli cessato fosse il gusto degli spettacoli scenici in Roma ed altrove. I teatri stabili sussistevano nella regione del Circo Flaminio, e alle occorrenze gl’imperadori ne rifacevano quel che dal tempo e dagli accidenti veniva distrutto. Napoli, Capua, Ercolano, Pompei, Nola, Pozzuoli, Siracusa, Catania ed altre città del regno di Napoli e della Sicilia, videro i loro teatri per quel periodo assai frequentati. Di moltissimi altri teatri rimangonci anche oggi gli avanzi nel rimanente dell’Italia. Oltre a quello di Padova, di Pesaro, dell’ altro presso il Lago di Bolsena rammentato nell’iscrizione pubblicata dal Muratori, di quelli della Toscana accennati dal Borghini, di quello di Anzio, di cui favella il P. Giuseppe Rocco Volpi, e del teatro di Brescia mentovato nelle Memorie Bresciane del Rossi, de’ quali tutti ha fatta menzione il chiar. Tiraboschi156, havvene non pochi altri che in parte ancora esistono, e frequentavansi sotto gl’ imperadori de’ primi secoli. Torello Saraina Veronese rammenta il teatro della sua patria157, oltre all’anfiteatro superbissimo che ancor si ammira e si conserva col nome di Arena. Vestigii di teatro veggonsi nel Piceno dove era Alia rovinata dal Goto Alarico, della quale a’ tempi di Procopio rimanevano appena poche reliquie. Nell’Umbria veggonsi in Eugubio alcuni rottami di un teatro, che ebbe le mura reticolate158. Spoleto ancora, secondo il Biondo e il Sabellico, ebbe un teatro rovinato da’ Goti insieme colla città dopo la morte di Teodorico. In Rimini havvi un rottame di un antico teatro fabbricato di mattoni. Oltre Terracina, seguitando la Via Appia, nel luogo dove fu Longola città descritta da Dionigi Alicarnasseo e da Livio, vedesi un teatro quadrato appresso il monistero di S. Angelo sul monte, del quale dice il lodato Alberti, descrivendo la Campagna di Roma, benchè io abbia veduto molti teatri & anfiteatri . . . . . . non però non ho mai veduto il simile a questo 159.

Esistevano intanto in Grecia i già mentovati teatri di Corinto, di Tebe, di Atene, di Delo, di Sparta ecc. Bizanzio ebbe pure un gran teatro, il quale col resto della città fu rovinato dalle truppe di Severo160. Antiochia ne avea un altro, e i di lei istrioni furono cagione della trascuraggine e della fatal rovina di Macrino161. In Tebe di Egitto vuolsi che fosse un teatro, e che di là avesse Pilade tratte alcune novità che introdusse nell’arte pantomimica. Erode Ascalonita ne edificò uno assai grandioso in Gerusalemme162.

Nel rimanente dell’Europa, dove giunsero le vincitrici armi di Roma, trovansi pur teatri. Vedevansene eretti in quella parte dell’ Inghilterra, in cui si piantarono colonie Romane. Tacito fa menzione della colonia de’ veterani di Camaloduno, dove era un tempio dell’ imperador Claudio, e un teatro, il quale, fra gli altri prodigii osservati nella ribellione de’ Trinobanti governando Paulino Suetonio i Britanni, s’intese risonare di gemiti ed urlamenti163. Nella Spagna solevano alle occasioni alzarsi alcuni teatri di legno. Così fece in Cadice il Pretore Balbo, il quale essendosi straricchito con inaudite estorsioni, rapine e ingiustizie, fe costruirvi un teatro con quattordici ordini di scalini per l’ordine equestre; e per potersi millantare di essere la scimia di Giulio Cesare, nell’ultimo giorno de’ giuochi donò l’anello d’oro all’istrione Erennio Gallo e lo fe sedere tra’ cavalieri164. Oltre a ciò si osservano tuttavia in Murviedro le rovine del teatro Saguntino, essendo questa città eretta nel regno di Valenza sulle ceneri dell’antica Sagunto. Era questo teatro capace di circa novemila persone, secondo il calcolo fattone dal dotto Decano di Alicante Don Manuel Martì tanto amico del nostro Gravina, nella lettera scrittane a Monsignor Zondadari. E alluse a questo teatro e ad altre antichità di Murviedro il poeta Leonardo Argensola quando scrisse:

Con marmoles de nobles inscripciones.
(Teatro un tiempo y Aras) en Sagunto
Fabrican oy tabernas y mesones 165.

Alcuni moderni autori Spagnuoli fanno menzione di altre rovine teatrali che si trovano nella loro Penisola. Presso il luogo che oggi occupa Senetil de las Bodegas, dove fu l’antico Acinippo della Celtica mentovato da Plinio, trovansi tuttavia esistenti le tre porte della scena166. Una lega distante da Calpe, venendosi da Algecira, si osservano i vestigii di un teatro e di un anfiteatro con altre rovine dell’antica città di Tarteso (differente da Cadice che pure portò questo nome) detta da’ Greci Carteia. Tralle antichità di Merida, dove Augusto pochi anni prima dell’Era Cristiana mandò una colonia di Legionarii, vedesi tuttavia quasi intera quella parte del teatro che si appartiene all’uditorio, non essendovi rimasto verun vestigio della scena167.

II.
Magnificenza e profusione eccessiva negli spettacoli scenici.

Non furono mai più sontuosi e frequenti i giuochi scenici quanto ne’ primi secoli dell’impero. Gl’ istrioni musici, ballerini e declamatori moltiplicaronsi oltremodo. Fin dal regno di Tiberio componevano un corpo sì numeroso, e riceveano paghe sì esorbitanti, che egli videsi obbligato a rimediarvi col minorarne la mercede168. Nè conseguì per questo di scemarne il numero, anzi a tal segno esso crebbe, che di sole ballerine forestiere, secondo Ammiano Marcellino169, contaronsi in Roma più di tremila, le quali coi loro cori e con altrettanti maestri furono privilegiate ed eccettuate da un bando di sfratto dalla città intimato per timore di carestia a tutti i filosofi, retori ed altri letterati stranieri. Era Tiberio uno de’ principi più avversi allo spettacolo teatrale. Egli punì come reo di maestà lesa un poeta che in una tragedia avea inserite alcune parole ingiuriose contro il re Agamennone. Assai di rado egli fecesi vedere nel teatro dopo che una volta a richiesta del popolo videsi astretto a manomettere il comedo chiamato Accio170. Avea promesso di riedificare il teatro di Pompeo bruciato casualmente, non essendovi nella famiglia del gran competitore di Giulio Cesare alcuno che potesse a suo tempo sostenerne la spesa. Ma Tiberio non mantenne la parola, e dopo molti anni fecene appena rifare la scena, che pure lasciò imperfetta, come afferma Suetonio, o almeno ne trascurò la dedicazione, come racconta Tacito171. Intanto però la gente da teatro avea di giorno in giorno acquistato tal predominio sopra i Romani, che i personaggi più illustri e le matrone più nobili facevano a gara nell’arricchirla, nel trattarla con somma famigliarità e nell’amarla follemente. Giulio Messala negò il proprio patrimonio a’ parenti, e lo divise tra gl’ istrioni. Diede a una mima la tunica di sua madre, a un mimo la lacerna del padre, a un tragedo il pallio dorato di color di porpora di sua nonna, e ad un coraulo un altro pallio in cui era ricamato il proprio nome e quello della moglie172. Peggio era avvenuto in tempo di Augusto, che dovè castigare col bando da Roma, dopo di averlo fatto menare scopando per tre teatri, Stefanione togatario, il quale giunse all’impudenza di farsi servire alla tavola da una matrona Romana in abito servile173. Il medesimo Augusto però ebbe sì caro il pantomimo Batillo, che lo creò edituo del suo tempio eretto nel proprio palazzo, siccome apparisce dall’ iscrizione scolpita nel di lui sarcofago recata dal Fabretto e dal Ficoroni. Sotto gli altri imperadori degeneri questi eccessi passarono a’ deliri. Cajo Caligola non avea ritegno di baciare in pubblico l’eccellente pantomimo tragico M. Lepido Mnestere; e quando egli ballava, se sventuratamente qualche spettatore facesse il più picciolo strepito, se ’l faceva recare innanzi e di propria mano lo flagellava174. Si sa per quali infami vie ottenne il favore di questo medesimo imperadore un altro famoso attore tragico chiamato Apelle, che giunse ad essere noverato tra’ suoi consiglieri. Ma i Caligoli sono come le fiere addimesticate, che mai non si spogliano di tutta la nativa ferità, e quando meno si attende, la riprendono. Trovavasi un dì Caligola presso ad una statua di Giove col suo Apelle, e gli venne il capriccio di domandargli, fra Giove e lui qual de’ due gli sembrasse più maestoso. E perchè Apelle indugiò alcun poco a rispondere, lo fece battere aspramente, insultando frattanto al di lui dolore, con dire che nel tuono lamentevole ancora spiccava la dolcezza della di lui voce175. Vitellio resse l’Imperio quasi sempre a voglia degl’ istrioni176. Eliogabalo distribuì le maggiori dignità a’ pubblici ballerini; molti di essi destinò procuratori delle provincie; uno ne pose nell’ordine de’ cavalieri, un altro nel senatorio; un altro che da giovane avea rappresentato nella medesima città di Roma, fu da lui creato prefetto dell’esercito177.

III.
Decadimento della poesia drammatica, e perchè avvenisse.

Ma non ostante il numero e la magnificenza de’ teatri, e le ricchezze e gli onori prostituiti agli strioni, debbesi da questo tempo contare il vuoto della storia teatrale, perchè la poesia drammatica in tal periodo non ebbe scrittore veruno Greco o Latino che meritasse di passare a’ posteri. Appena in Roma ripetevansi le antiche produzioni, ed il popolo trovava insipido ogni altro spettacolo scenico, fuorchè i pantomimi e i mimi che occuparono interamente le scene.

Potrebbe qui domandarsi, perchè mai in Roma, ove la poesia si elevò sino al punto di partorire Orazii e Virgilii, non potesse, specialmente sotto gl’ imperadori, sorgere un Sofocle e un Menandro? Manifesta a me ne sembra la cagione. Sotto la repubblica si ebbe un Accio, un Cecilio, un Afranio, e un Terenzio, i quali se non uguagliarono i Menandri e i Sofocli, passarono innanzi a molti tragici e comici della stessa Grecia. Questi principii avrebbero accelerata la perfezione della poesia rappresentativa; ma la repubblica sotto gl’ imperadori, se non si estinse totalmente, almeno cangiò di aspetto, ed i costumi si alterarono enormemente. I Romani da eroi che erano e superiori a’ principi stranieri, come credevansi, divennero de’ proprii signori bassissimi cortigiani. La libertà cedette all’adulazione, l’ indipendenza al timore, e il despotismo atterrì i poeti drammatici, e ne raffreddò il genio. Agamennone Greco maltrattato in una tragedia Romana divenne un delitto di stato. Alcuni versi inseriti in un’ altra, e dalla malignità naturale de’ cortigiani interpretati contro del Principe, cagionarono la morte del poeta. Uno scrittore di favole Atellane per un verso ambiguo fu da Caligola fatto bruciar vivo in mezzo dell’ anfiteatro. E chi poteva amare e coltivare una poesia che menava alla morte e all’infamia del supplizio senza delitto178? Osservammo nel tomo precedente, che la legge or dirige or aguzza gl’ingegni, e l’ arte ne acquista perfezione; ma ciò s’intende quando la legge, cioè la ragione, gastiga i delitti, non già quando un’ arbitraria indomita passione infierisce contro l’innocenza, e punisce in essa i proprii sogni e vaneggiamenti. Il veleno è un antidoto, ma dà la morte, se si adoperi fuor di tempo, o se la dose ecceda il bisogno. Non è adunque maraviglia che anche in tempi sì luminosi la drammatica avesse avuti così pochi coltivatori. Egli è vero che Plinio ascrive a lode di Trajano, che il popolo stesso abborriva sotto di lui l’effemminatezza de’ pantomimi. Egli è ancor vero, che secondo il racconto di Sparziano, l’imperadore Adriano ne’ suoi conviti amava di far rappresentare commedie, tragedie e atellane. Ma le cagioni distruggitrici della drammatica sussistevano, e i costumi e gli studii aveano già preso nuovo cammino.

IV.
Secoli, ne’ quali mancarono gli scrittori scenici.

In tempo di Antonino Pio troviamo da Capitolino mentovato solamente Marco Marullo attore e scrittore di favole mimiche, il quale ebbe l’ardire di satireggiare i principali personaggi della città senza eccettuarne lo stesso imperadore. Marco Aurelio di lui figliuolo adottivo e successore diceva, che le commedie de’ suoi tempi altro non erano che mimi. In fatti sotto gli Antonini non troviamo mentovati con applauso se non Q. Trebellione pantomimo insigne della città di Telese due volte coronato179, e L. Acilio della tribù Pontina archimimo che fu decorato dalla città di Boville del decurionato180. Sino alla divisione del Romano Impero, per quanto io so, non si trova nominato scrittore alcuno drammatico.

E come trovarne dalla morte di Teodosio I sino allo stabilimento de’ Longobardi in Italia, periodo il più deplorabile per l’umanità a cagione del concorso di tante calamità, cioè di guerre, d’incendii, di fame, di peste che all’inondazione di tanti barbari desolarono l’intera Europa? Ausonio ci ha conservato memoria di un certo Assio Paolo retore che fioriva verso la fine del quarto secolo, e coltivava più di un genere poetico oltre alla storia. Ausonio gl’ indirizza sette delle sue epistole. Nella decima invitandolo in campagna gli dice che venga con tutti i suoi scritti:

Dactylicos, elegos, choriambum carmen, epodos,
Socci & cothurni musicam
Carpentis impone tuis, nam tota supellex
Vatum piorum chartacea est.

Nella decimaquarta poi l’invita a venire alla leggera:

Attamen ut citiùs venias, leviusque vehare,
Historiam, Mimos, Carmina lingue domi.

E forse era una spezie di mimo il componimento di questo Paolo intitolato Delirus mentovato nella lettera XI che è in prosa: Ergo nisi Delirus tuus in re tenui non tenuiter elaboratus opuscula mea, quæ promi studueras, retardasset ecc.181.

Abbiamo ancora la commedia intitolata Querolus, o Aulularia scritta senza aversi esatta ragione del metro, e quindi dal Vossio appellata dramma prosaico 182. Essa fu impressa in Parigi nel 1564 appo Roberto Stefano con dotte annotazioni di Pietro Daniele Aurelio, e s’inserì poi nella bella edizione di Plauto di Filippo Pareo uscita nel 1619. Se ne ignora l’autore, e il dottissimo Fabrizio ci dice: Marci Accii certè minime est, quoniam author ipse in prologo hanc fabulam investigatam Plauti per vestigia profitetur 183. Si congettura essere stata scritta intorno al principio del sesto secolo sotto Teodosio II. Ma queste rarissime ed oscure fatiche che mai potevano influire in tempi sì tristi a vantaggio della poesia rappresentativa?

Non ci somministra veruno scrittore il rimanente del secolo sesto, quando i popoli cominciarono a respirare alquanto. Troviamo bensì in esso i giuochi e i disordini teatrali. In oriente Giustiniano imperadore e legislator famoso chiamò a parte del suo letto e dell’alloro imperiale la mima Teodora: in Italia il Goto re Teodorico fe rialzare le terme di Verona e riparare in Roma il teatro che minacciava ruina184, e un anfiteatro e nuove terme fe costruire in Pavia: sotto Atalarico frequenti furono gli spettacoli teatrali in Italia, e vi si profusero ricchezze grandi per diletto e ristoro del popolo185: la Sicilia sin dal quarto secolo ebbe in costume di mandare a Roma i suoi abili artefici di scena che vi erano chiamati186. Ma non troviamo scrittori drammatici.

Non ne troviamo nel VII, VIII e IX secolo, ne’ quali sparì dal cospetto degli uomini pressochè interamente ogni vestigio di politica, di giurisprudenza, di arti e letteratura Romana, e s’introdussero nuovi governi, nuove leggi, nuovi costumi, nuove vesti, nuovi nomi di uomini e di paesi, e nuove lingue, cangiamenti maravigliosi che non poterono accadere senza l’esterminio quasi totale degli antichi abitatori. In Francia appena si ripeterono le sconcezze mimiche nel barlume che vi fe rilucere Carlo Magno187.

Non empiono questo gran vuoto nè le musiche, i balli e i travestimenti usati da’ Cherici nelle feste solenni dal VII sino al X secolo, nelle quali con istrana mescolanza di pagane reliquie e di cerimonie Cristiane danzando e cantando esponevano le favole delle gentili divinità188; nè gl’ ignorati o negletti sei dialoghi di Roswita monaca di Gandersheim intitolati commedie, che appartengono al decimo secolo189. Sono esse composte in un latino assai barbaro, e ripiene d’incoerenze ed apparizioni. La prima di esse è divisa in due parti, o atti, e s’intitola Gallicano, che è un pagano generale di Costantino, il quale va a combattere contro gli Sciti, n’è vinto, è ricondotto contro di essi da un angelo, vince, si battezza, e fa voto di castità; e nella seconda parte l’imperadore non è più Costantino, ma Giuliano, da cui Gallicano viene esiliato, e riporta la corona del martirio. Le altre cinque commedie di un atto solo s’intitolano: Dulcizio, Callimaco, Abramo eremita, Pafnuzio, e la Fede Speranza e Carità. Ciò che reca maggior maraviglia in tali dialoghi è che l’autrice amava gli antichi e traduceva Terenzio. I medesimi capi d’opera dell’antichità si lessero quasichè da per tutto, or perchè non riproducono da per tutto il loro gusto?

Oltre a’ riferiti dialoghi o commedie, in tutto il secolo X, e nell’XI e XII, sebbene si videro comparire alcune incondite poesie nelle nuove lingue, non ve ne furono a patto alcuno teatrali. Egli è però evidente che non mancarono del tutto gli scenici spettacoli, benchè altre feste si fossero introdotte. Lasciando stare i travestimenti de’ Cherici, e le loro danze nella festa del Natale di Cristo e nell’Episania che duravano, per testimonianza di Teodoro Balsamone, anche nel XII secolo190; e i cantambanchi e buffoni che intervennero nelle famose nozze di Bonifazio Marchese di Toscana con Beatrice di Lorena fatte nel 1037191: alquanti anni prima di terminare il XII secolo troviamo nella storia del Basso Impero mentovate persone di teatro. L’usurpatore Andronico, l’uccisore fraudolento di Alessi Comneno, colui che al contrario di Tito diceva di aver perduto il giorno, in cui non gli era riuscito di fare strangolare o almeno accecare qualche personaggio illustre, costretto da Isacco Comneno a fuggire, s’imbarcò in un picciol legno colla moglie e con una mima che egli amava192.

Si pretende anche trasportare a questo medesimo secolo XII un informe abbozzo di dramma Latino intitolato Ludus Paschalis de adventu & interitu Antichristi, composto e forse rappresentato nella Germania, nel quale intervengono il Papa, l’ Imperadore, i Sovrani di Francia, della Grecia, di Babilonia, l’ Anticristo, l’Eresia, l’Ipocrisia, la Sinagoga, e il Gentilesimo. Così pensa il P. Bernardo Pez, che lo diede alla luce193. Ma più tardi che egli non istima uscirono nella Germania drammi somiglianti al riferito, come vedremo ne’ seguenti volumi; e per fissare l’epoca di questa rappresentazione Pascale al secolo duodecimo, bisognerebbe o averne monumenti storici sicuri, o addurne congetture convincenti, esaminando i costumi che vi si dipingono, e le dottrine ed opinioni, le quali potrebbero menarne a rinvenire il nascimento di questa farsa. Certo è però che il primo io non sono a dubitarne; e il dotto Scipione Maffei194 più cose (dice) alquanto difficultano il crederlo (del secolo XII) e tanto più, se ciò si fosse arguito dal solo carattere del codice, che è congettura molto fallace.

Don Blàs de Nasarre letterato Spagnuolo in una sua dissertazione pubblicata nel 1749, faceva sperare monumenti drammatici nella letteratura Araba ricavati dalla Biblioteca dell’Escoriale195. Fu illusione del suo desiderio. Tra gli Arabi non si trova se non quello che ebbero tutte le nazioni anche rozze, cioè musica, balli e travestimenti adoperati ne’ loro giuochi di canne, quadriglie e tornei. Furono anche versificatori; ma per lo più (almeno per quel che apparisce da i libri dell’Escoriale) si limitavano a’ componimenti di non moltissimi versi, ne’ quali facevano pompa di acrostichi, antitesi e giuochetti sulle parole, sembrando che i loro talenti non si fussero avvezzati a soffrire il peso di un poema grande e seguito come il drammatico. Certamente nel Saggio della Poesia Araba del Signor Casiri inserito nella Biblioteca Arabico-Ispana, da cui Nasarre si prometteva tali monumenti, si dice nettamente che gli Arabi non conobbero gli spettacoli teatrali196. E sebbene il lodato Casiri aggiunga che parlerebbe a suo luogo di una o due commedie Arabe, tuttavolta scartabellando la di lui Biblioteca io non trovai un solo componimento drammatico; non dico de’ secoli de’ quali ora favelliamo, ma nè anche de’ seguenti sino all’intera espulsione de’ Mori dalle Spagne. Altro non vi si legge se non che qualche dialogo, ma non teatrale, appartenente al secolo XIV e XV. Il primo del 746 dell’Egira scritto parte in versi e parte in prosa, è di Mohamad Ben Mohamad Albalisi, nel quale trattengonsi a darsi vicendevolmente il giambo cinquantuno artefici. L’ altro dell’anno 845 dell’Egira è di un Anonimo, e s’ intitola Comœdia Blateronis, in cui da diversi interlocutori si tratta di tre cose differenti: nella prima parte parlasi della vendita di un cavallo, nella seconda delle furberie di alcuni vagabondi, nella terza di certi innamorati. S’ingannò adunque Nasarre, e seco trasse Velazquez che gli credè buonamente. Costui nel libretto delle Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi di addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuto, facendo parola di quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovine teatrali di Acinippo, di Tarteso e di Merida. Egli si contentò solo di prorompere in invettive generali fuori di tempo contra Filostrato, perchè nella Vita di Apollonio affermò, che la Betica in tempo di Nerone neppur conosceva gli spettacoli scenici. Soggiugne poi che i Goti non permisero che la poesia drammatica allignasse in Ispagna; e conchiude, che gli Arabi (i quali, come si è dimostrato, non l’aveano) ve la portarono, adottando senza esame l’opinione di Nasarre, la cui solidità si è già notata.

Da quanto abbiamo in questo capo osservato, si deduce che il principio del vuoto della storia teatrale si trova a’ tempi de’ Tiberii, de’ Caligoli e degli altri imperiosi despoti, i quali fecero ammutolire i poeti, spaventandoli colle diffidenze e crudeltà, e furono cagione che i teatri risonassero unicamente di buffonerie e laidezze, per le quali ci vuole più impudenza che ingegno. Sorse poscia il Cristianesimo, e col divenire la religione dell’Impero, intimò la guerra a qualsivoglia superstizione della gentilità, e conseguentemente ai teatri consecrati alle divinità pagane. E non trovandovi nè anche salva la decenza e la morale, perchè le buone tragedie o commedie aveano ceduto alle leggerezze e agli adulterii delle mimiche rappresentazioni, gli zelanti Cristiani concepirono del teatro le più sozze idee, e scagliarono le più amare invettive contro gli spettacoli e gli attori scenici, sotto la qual denominazione compresero soltanto gl’ infami mimi e pantomimi e le impudentissime mime, cantatrici e ballerine. E quale orrore non doveano destare ne’ Padri Cristiani, ne’ Cirilli, ne’ Crisostomi, ne’ Basilii, ne’ Lattanzii, ne’ Cipriani, negli Agostini, quelle detestabili rappresentazioni di nefandi stupri, che Marsiglia gentile, ma non corrotta, escluse dalle sue scene197? E come avrebbero mirato senza indignazione gli adulterii mimici, che, secondo Lampridio, non bastò ad Eliogabalo di vedere fintamente rappresentati, ma ordinò che s’imitassero sulla scena al naturale198? Così ci avvezzammo a detestare indistintamente i teatri, e per fuggirne gli abusi, ci privammo ancor de’ vantaggi: a somiglianza di quegl’ impazienti coltivatori, i quali in vece di potare e recidere i rami lussureggianti, che fanno ombra inutile e perniciosa, danno al tronco e alle radici degli alberi, e privansi per sempre de’ loro frutti.

TAL fu nel mondo conosciuto l’antico stato degli spettacoli teatrali. L’ utile curiosità congiunta al bisogno che si ha di esempj, onde s’ infiamma e si alimenta il genio, ne renderà sempre accetta la narrazione con gusto e con senno particolareggiata, la quale per gradi e con sicurezza ammaestra; e la preferirà a que’ rapidi abbozzi poetici ove scelgonsi arbitrariamente i colori più vaghi, ed a capriccio si compartono l’ombre ed i lumi, per dipignere d’idea e di maniera, purchè si piaccia alla vista, a costo della verità. Eccone intanto i principali lineamenti raccolti in un sol quadro, quali vengono somministrati dalla storia verace che nulla vela con maligne reticenze.

L’uomo da per tutto imitatore, da per tutto osserva e contraffà i suoi simili per natura insieme e per suo giocondo trattenimento. I Selvaggi d’Ulietea, anzi d’ogni contrada e d’ogni tempo, non oltrepassando i balli o pantomimi accompagnati dal canto, danno a divedere al filosofo investigatore in qual distanza dalla coltura essi ritrovinsi. Con più regolate e più magnifiche danze e canzoni i Messicani, quei di Chiapa, i Tlascalteti, mostransi più prossimi ad emergere dalle ombre, perchè non lontani a rinvenir l’arte del dramma, indizio sempre di qualche coltura. Cinesi, Tunkinesi, Giapponesi, Giavani, culti senza raffinamento, artieri senza delicatezza, navigatori senza coraggio, filosofi quanto basta per distinguersi da’ barbari, imitano le umane vicissitudini senza sceverar ne’ loro drammi gli evenimenti ridicoli da’ lagrimevoli. Più filosofi quei di Cusco giunsero a separar le azioni domestiche e le pastorali dalle guerriere ed eroiche. Tutti poi, senza gli uni saper degli altri, i popoli sotto la linea o nelle opposte zone nell’incamminarsi alla coltura s’imbattono nella drammatica; la coltivano colle medesime idee generali; favoleggiano da prima in versi, ed hanno sacre rappresentazioni; passano indi a dipignere la vita civile, ad eccitar ne’ gran delitti l’orrore o la compassione, a schernire e mordere i vizj de’ privati, e ad esser dalla legge richiamati a temperar l’ amarezza della satira, dal che proviene la bella varietà e delicatezza delle nuove favole nate a dilettare ed instruire.

Fu la Grecia, fu Atene ne’ suoi dì luminosi che passando per tutte le solite fasi della drammatica, ne fissò l’arte e la forma. Fu Eschilo che oscurando Epigene, Tespi e Frinico, divenne il padre della tragedia, ed insegnò il sentiero a chi dovea su di lui stesso sollevarsi. Grande, robusto, eroico, pieno di brio e di fierezza, rendesi talvolta turgido, impetuoso, oscuro; e pure a traverso de’ secoli e delle vicende di tanti regni, giugne alla posterità che l’ammira nel Prometeo, ne’ Sette a Tebe, ne’ Persi. Sofocle si forma su di lui; rende il proprio stile più grave, più maestoso, più sublime; aumenta di vivacità, di decenza, di verità, di splendidezza la scena tragica; e diviene nostro modello con Edipo, Elettra, Antigona e Filottete. Dove tali atleti coglievano sì ricche palme, si presenta Euripide, ed occupa il raro l’intatto pregio di meglio parlare al cuore, avvivando col più vigoroso colorito tutti gli affetti che s’appartengono alla compassione. L’eloquenza e la gravità e la copia delle sentenze filosofiche caratterizzano il di lui stile. Qualche negligenza nell’economia scenica manifesta ch’egli attendeva più a colorir vivamente la natura che a consigliarsi coll’ arte. Ma Ifigenia, Alcestide, le Trojane, Ippolito s’ imitano sempre e non si oscurano mai.

Questi tre rari ingegni spiegavano tutta la loro energia nel delineare con maestria singolare le umane passioni, nel dipignere con naturalezza e verità i costumi, nel trionfare per una inimitabile semplicità di azione; sapendosi per tutto ciò egregiamente prevalere della più poetica e più armoniosa delle favelle antiche e moderne, e adoperando quasi sempre una molla per la loro nazione efficacissima, cioè la forza del fato e l’infallibilità degli oracoli consacrati dalla religione. Posero essi in quel clima la meta alla gloria tragica, che spirò pur con loro, ancor prima che la Grecia divenisse schiava.

Fu intanto il Siciliano Epicarmo filosofo pitagorico che diede forma alla commedia e ne fu chiamato il principe. Frinico, Alceo, Cratino, Eupolide ed Aristofane la perfezzionano, e la rendono più caustica. La natura del governo Ateniese inspirò a’ siffatti Greci l’ardita antica commedia allegorica. La poesia d’Aristofane da non paragonarsi punto con chi trattò un’ altra specie di commedia199, e degna degli applausi d’ una libera fiorente democrazia, appunto perchè osò intrepidamente inoltrarsi nel politico gabinetto e convertir la scena comica in un consiglio di stato, nulla ha di rassomigliante nè alla nuova de’ Latini nè alla moderna commedia. Le Cereali, le Nubi, il Pluto leggonsi oggi ancora con ammirazione, ed incantarono un popolo principe. Di grazia siamo sicuri che sarebbero state allora accolte con pari effetto da que’ repubblicani baldanzosi e pieni soltanto della loro potenza e libertà, la Perintia, Euclione, gli Adelfi, e ’l Misantropo?

Alesside illustrò la commedia mezzana colla grazia, e colla vivacità della satira senza appressarsi alla troppa mordacità di Aristofane. Non fu tragico Anassandride, come lo stimò il Signor Andres nel parlar rapidamente di ogni letteratura, ma comico della commedia mezzana, secondo Ateneo, ed in essa, e non nel teatro tragico, introdusse le deflorazioni e le avventure amorose. Egli ne fu anche la vittima, nella stessa guisa che Eupolide era stato sacrificato nell’antica al risentimento de’ potenti.

Per questi gradi passando la Grecia pervenne ad inventar la nuova commedia sorgente della Latina e dell’Italiana del secolo XVI. Domata la greca ferocia col timore delle potenze straniere, si avvezzò ad una commedia più discreta, più delicata, la quale si circoscrisse a dilettare con ritratti generali mascherati di modo che lo stesso vizioso deriso, senza riconoscersi nel ritratto, rideva del proprio difetto. Dopo il Cocalo ed il Pluto di Aristofane, e le favole de i di lui figliuoli, vennero ad illustrar questo genere gli Apollodori, l’uno e l’altro Filemone, Difilo, Demofilo, e più di ogni altro Menandro che divenne la delizia de’ filosofi e ’l modello di Terenzio, e fu il primo a cui la grazia comica si mostrasse in tutta la sua beltà. E chi poteva dopo di lui calzar degnamente il greco borzacchino? Cadde colla Grecia stessa la sua bella commedia per rinascere indi nel Lazio per mano di un Affricano.

Gli Etruschi e i Campani infondono l’amor del dramma negl’ Italiani che Romolo avea raccolti intorno ai sette colli. I Semigreci della Magna Grecia Livio Andronico, Ennio, Pacuvio, ed anche Nevio il Campano, insegnano loro ad amar le lettere e a coltivar la poesia drammatica. Plauto calcando le orme di Epicarmo, e non di Aristofane, ed imitando a un tempo Difilo, Demofilo e Filemone, diletta soprammodo un popolo guerriero. Dopo Cecilio, il Cartaginese Terenzio seguito da Afranio, colle spoglie di Menandro e degli Apollodori, introduce in Roma la bella commedia, la quale, non che a’ filosofi e letterati, piacque ai migliori della repubblica, ai Furii, agli Scipioni, ai Lelii. Ennio, Accio e Pacuvio vi riconducono con decoro e gravità la greca tragedia, e spianano il sentiero al Tieste di Vario, all’Ottavia di Mecenate, alla Medea di Ovidio, all’Ippolito, alla Medea e alla Troade di Seneca, e all’Agave di Stazio. La grandezza eroica campeggia nel loro stile con carattere particolare, meno attaccato alla naturalezza Greca, e più confacente alla maestà Romana. Il perno però su cui volgesi la tragedia Romana, è lo stesso della Greca, cioè il fatalismo, se tralle conosciute se n’ eccettui la Medea, che regge per la sola combinazione delle passioni, nè mette capo nella catena di un destino inesorabile.

Ma i Mimi e i Pantomimi trionfano del socco e del coturno sotto gl’ Imperadori, i quali, non che flagellare i togatarii e gli atellanarii, solevano punir coll’ ultimo supplicio i tragici che non rispettavano la memoria de’ re della stessa mitologia o della più remota antichità come Agamennone. Abbandonato il teatro a i Pitauli e Corauli, a i Mnesteri, a i Paridi, a i Piladi ed a’ Batilli, più non ammise la commedia Terenziana che parve fredda, insipida, indifferente ad un popolo snervato e corrotto, che sotto Eliogabalo si compiaceva de’ mimici stupri e adulterii, non che finti e imitati, rappresentati al vivo sulle scene profanate. Così la vera drammatica senza perfezzionarsi nel Lazio fu distrutta dalle depravazioni mimiche, ed il teatro divenne lo scopo dell’invettive de’ Cirilli, de’ Basilii, degli Agostini e de’ Lattanzii. Giacque colla mole dell’istesso Impero sotto i barbari del settentrione ogni coltura, e sparvero le arti involte in un caliginoso nembo almeno di dieci secoli di barbarie. A cui toccò la gloria di dissiparlo? Dove risorsero le arti, la drammatica, la coltura?