(1789) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome V « LIBRO VIII. Teatri Settentrionali nel XVIII secolo — CAPO I. Teatro Inglese. » pp. 189-231
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(1789) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome V « LIBRO VIII. Teatri Settentrionali nel XVIII secolo — CAPO I. Teatro Inglese. » pp. 189-231

CAPO I.
Teatro Inglese.

I.
Tragedia reale.

L’Entusiasmo per la libertà, l’orgoglio e la malinconia Brittannica, l’ energia delle passioni e della lingua, ed il gusto pel suicidio influiscono notabilmente nella tragedia inglese, e tanta forza e vivacità le prestano che al di lei confronto sembra che la francese languisca alla guisa di un dilicato color di rosa accanto ad una porpora vivace. E se la regolarità, il buon gusto, la verisimiglianza, l’ interesse e l’unità di disegno, pregi che si ammirano spesso nella francese, si vedessero congiunti alla robustezza e all’attività dell’ inglese oggi che questa ha deposte le antiche buffonerie che ne deturpavano il coturno, sarebbe forse a suo favore decisa la lite della preferenza. Ma gli affetti universali dell’uomo trovandosi variamente in ogni nazione modificati, dovrà la drammatica in quanto al gusto sempre soggettarsi a certe regole relative e particolari dipendenti dal tempo, dal costume e dal clima.

Il celebre Addisson morto d’anni quarantasette nel 1719, il cui senno, ingegno e sapere l’elevarono fra’ suoi alla carica di segretario di stato, e gli diedero nella repubblica letteraria il nome di poeta de’ savj, aprì agl’ Inglesi il sentiero della buona tragedia l’anno 1713 col suo Catone. Non avendo osato il sig. Hullin di tradurla interamente in versi francesi dopo il saggio fattone della prima scena, il sig. Boyer l’anno stesso ne fece in Londra una traduzione in prosa pur francese. I gesuiti di S. Omero la tradussero in latino e la fecero rappresentare da’ loro scolari. Anton Maria Salvini la tradusse dall’originale in toscano idioma, e gli accademici Compatiti di Livorno la recitarono nel carnovale del 1714, e l’anno seguente s’impresse in Firenze, e riscosse gli applausi universali. Nel 1725 nella medesima città si reimpresse coll’ originale accanto nella stamperia di Michele Nestenus.

Piena di energia e di quella maschia eleganza che eleva gli animi singolarmente in quanto appartiene al carattere intrepido e virtuoso di Catone, questa tragedia si rende notabile per la sublimità e la grandezza de’ pensieri e dell’espressioni. Dee parimente, contro l’avviso del sig. Andres57, chiamarsi regolare, se la regolarità dipenda dal giusto riguardo per le regole suggerite dalla verisimiglianza, uno essendone il principal personaggio, uno l’ interesse che in lui si rincentra, una l’azione ch’è la morte di Catone, la quale avviene nel dì che spira la Romana libertà all’entrare in Utica i Cesariani.

Manca non pertanto al Catone più d’un requisito per dirsi l’opera più bella che sia uscita in alcun teatro. Tutto ciò che non è Catone in essa è mediocre; e la sua mediocrità deriva da due sorgenti, cioè da una languida e inutile congiura di due furbi che si esprimono e pensano bassamente, e da un tessuto d’insipidi e freddi amori subalterni di sei personaggi de’ dieci che sono nella favola. Sventuratamente questi difetti ne menano al fine dell’azione senza interesse e con molta lentezza, e ne riempiono tutte le pause.

Non v’ha scena dell’atto I che non si aggiri su gli amori di Porzio, di Marco, di Giuba, di Marzia, di Lucia, di Sempronio, o sulla congiura tramata da questo scellerato con Siface che gli rassomiglia. L’atto poi termina all’inglese, cioè con una poetica comparazione, compresa nell’ originale in sei versi, di una corrente imbrattata dal fango per le piogge, che poi si affina e per via diviene limpida come specchio,

Riflettendo ogni fior che a riva cresce,
E nuovo ciel nel suo bel sen ne mostra.

Dalla scena quarta dell’atto II, in cui Giuba manifesta a Catone il proprio amore per Marzia, tutto il resto si aggira su i maneggi di Siface e Sempronio pieno dell’idea di conseguir Marzia che desidera bassamente. Di più in mezzo a’ modi famigliari e talvolta indecenti di questi due malvagi frammischiansi impropriamente alcune poetiche immagini con intempestiva sublimità lirica espresse. Tale è quella in cui Catone è paragonato al monte Atlante; tale l’altra con cui termina quest’altro atto distesa in sette versi de i deserti di Numidia che scherzano per l’aria in fieri giri, ravvolgono l’arena, ed il viaggiante (secondo la traduzione del Salvini)

A se d’intorno l’arido ermo scorge
Levarsi tutto, e dentro al polveroso
Turbin rapito ed affogato muore.

Tre prime scene non brevi dell’atto III si occupano intorno agli amori gelati e fuor di tempo di Marco, Porzio e Lucia; viene poi Sempronio co’ condottieri dell’ammutinamento dissipato dalla presenza di Catone; appresso Siface e Sempronio si trattengono su’ loro disegni e sulla diserzione della cavalleria Numida. E mostrando Sempronio qualche pena di lasciar Marzia, Siface se ne maraviglia; ma l’altro risponde, erri se credi che io l’ami,

Stringere io bramo sol l’altiera donna
E piegar l’inflessibile al mio foco;
Fatto ciò, la rigetto.

Determina di rapirla vestito con gli abiti di Giuba. Bella pensata, dice egli stesso, gran gioja avrò nell’averla tralle braccia

Con beltà accesa e scarmigliate trecce;

ed aggiugne per terminar l’atto una comparazione lirica di Plutone che portava Proserpina all’oscuro dell’inferno,

E torvo sorridendo lieto andava
Carco del premio suo, nè invidiava
Il firmamento e il suo bel sole a Giove 58.

Seguono nell’atto IV gli amori soliti; Sempronio mascherato viene a rapir Marzia, dicendo

La lepre è al covo, l’ho fin quì tracciata;

si batte con Giuba ed è ucciso; Marzia ingannata dagli abiti crede che l’ ucciso sia Giuba, il quale stando da parte dalle sue querele intende di essere amato. Così procede quest’atto sino a una parte della scena quarta, di cui il rimanente contiene un tratto forte e patetico insieme, ed opportuno a disviluppare il carattere veramente Romano di Catone. L’ atto quinto con quest’ultima scena del quarto forma il grande di questa tragedia. Strana cosa è certamente che il saggio Addisson non abbia schivato nè gli abusi della scena tragica francese ed inglese riguardo agli amori, nè i soliloquj narrativi, come è quello di Sempronio nella scena terza dell’atto I, nè la mancanza d’ incatenamento delle scene per non lasciar vuoto il teatro, come avviene più di una volta nel Catone 59.

Rilevasi dalle cose esposte che non ebbe torto il giudizioso conte di Calepio in censurar nel Catone le figure troppo poetiche che ne guastano qualche volta la gravità e verità dello stile, la peripezia malamente sospesa con intempestive scene di persone subalterne, i freddi intrighi d’amore, e più altri difetti dell’arte rappresentativa. Non ebbe torto il sig. Andres nel riprenderne la mal intesa cospirazione, gl’ inopportuni, freddi, continui e complicati amori ed alcune espressioni basse. Non ebbe torto il Voltaire che ne disapprovò le scene staccate che lasciano il teatro vuoto, gli amori freddi ed insipidi, una cospirazione inutile &c. Ebbe però torto l’enciclopedista encomiatore del Catone quando volle difendere gli universalmente disapprovati languidi amori; ed ebbe maggiormente torto per la ragione che ne reca, cioè che l’amore di Marzia è degno di una vergine Romana, e che Giuba ama in Marzia la virtù di Catone. In prima è questa una risposta particolare ad una censura generale fatta agli amori subalterni, non di Marzia e Giuba soltanto, ma di sei personaggi. Di poi egli fece una risposta in cui perdè di vista l’oggetto vero della tragedia che è di commuovere col terrore e colla compassione. Ebbe anche torto lo stesso enciclopedista in lodar tanto la risposta di Porzio data a Sempronio nella scena 2 dell’atto I:

Ah Sempronio, vuoi tu parlar d’amore
A Marzia, or che la vita di suo padre
Stà in periglio? Tu puoi carezzar anco
Una Vestale pallida tremante
Che già miri spirar la santa fiamma.

E’ bella e nobile questa immagine di una Vestale e ben collocata in bocca di un Romano. Ma Porzio che parimente ama mentre la vita di suo padre stà in periglio, non reca una ragione che dovea internamente rimproverargli la propria debolezza? E per finirla ebbe pur qualche torto il lodato Andres in affermare che Voltaire la stimava una tragedia scritta da capo a fondo con nobiltà e politezza. Voltaire preferì il personaggio di Catone a quello di Cornelia del Pompeo di Cornelio, e vantò la sublimità, l’energia e l’eleganza del Catone, ma ne rilevò molti difetti, e conchiuse che la barbarie & l’irrégularité du théâtre de Londres ont percé jusque dans la sagesse de Addisson. Del rimanente il merito eminente della grandezza de’ sentimenti e della forza energica dell’espressioni non mai si smentisce in tutti i personaggi; e l’espressioni che mancano di elevatezza e sono piuttosto comiche che tragiche, appartengono unicamente a Siface e Sempronio, personaggi che Addisson ha voluto rendere bassi e disprezzabili d’ogni maniera.

Vediamo intanto ciò che soprammodo nella storia teatrale contribuisce ai progressi del gusto nella gioventù, cioè le bellezze più che i difetti de’ componimenti, che è la parte nobile della critica inaccessibile ai freddi ragionatori privi di cuore.

Se non diciamo come l’enciclopedista che questa tragedia sia un capo d’opera e la più bella che sia comparsa sulle scene, ravvisiamo pure nel Catone dipinto da Addisson quel gran Romano della storia che solo osò contendere colla fortuna e colla potenza di Cesare e prolongare i momenti della spirante libertà di Roma, quell’uomo prode, per valermi dell’espressione di Pope,

   Che lotta col destino
Tralle tempeste e grandemente cade
Misto a ruine di cadente stato.

Nella scena quarta alla forza e destrezza del corpo lodata da Siface ne’ Numidi è vagamente contrapposta l’arte di regnare, di dettar leggi, di render l’uomo all’uomo amico, propria de’ Romani.

L’atto II ha maggiore interesse perchè animato dal carattere di Catone. Sempre giusto senza timore e senza impeto tutto della sua sapienza egli riempie il picciolo suo senato. Non si trasporta con Sempronio, ma non cede con Lucio, e conchiude nobilmente:

Siam sempre a tempo a chieder le catene ..
Perchè un punto anzi tempo cadria Roma?

La scena con Decio legato di Cesare è in quest’atto il trionfo del carattere di Catone. Cesare (dice il legato) vuol essere amico di Catone, proponetene il prezzo e le condizioni. Che licenzj (risponde tosto Catone con magnanimità)

Le legion, la libertà alla Patria
Restituisca, i fatti suoi sommetta
Alla censura pubblica, e sì stiasi
Alla sentenza d’un Roman Senato.
Ch’ei faccia questo, ed è suo amico Cato.

Aggiugne poi che allora per non farlo perire egli stesso monterà su i rostri per ottenergli il perdono. Questa grandezza di pensieri e di espressioni ha meritato l’approvazione del gran Metastasio, che in simil guisa se l’appropriò emulandola nell’ abboccamento di Cesare e Catone:

   Lascia dell’armi
L’usurpato comando: il grado eccelso
Di Dittator deponi: e come reo
Rendi in carcere angusto
Alla Patria ragion de’ tuoi misfatti.
Questi, se pace vuoi, saranno i patti.

Ces.

Ed io dovrei . . . .

Cat.

Di rimaner oppresso
Non dubitar, che allora
Sarò tuo difensore.

Tu solo non basti, gli dice Cesare, ed io potrei

I giorni miei sacrificare invano.

Cat.

Ami tanto la vita, e sei Romano?

La scena quinta dell’atto III, in cui Catone con dignità seda colla sua presenza l’ammutinamento, rende all’azione la gravità che le tolgono le troppe scene di amori tanto più fuor di tempo quanto più si avvicina l’esercito di Cesare, e la ruina di Catone è imminente.

Dopo la languidezza del IV già riferita un improviso nuovo vigore misto di eroico e di compassionevole chiama tutta l’attenzione dal punto che si enuncia la morte di Marco. Marco . . . incomincia Porzio, e Catone l’interrompe: Che ha egli fatto? ha abbandonato il posto? No, dice Porzio, egli si è opposto a’ Numidi ed è caduto da forte. Io son contento (dice Catone) egli ha fatto il suo dovere; Porzio, quando io morrò fa che la di lui urna sia posta accanto alla mia. É condotto in iscena il corpo di Marco, e Catone gli va incontro dicendo, welcome my son, ben venuto mio figlio; ponetelo alla mia vista, lasciate ch’io conti le sue ferite; chi non torrebbe esser questo giovane? Disgrazia grande non poter morire che una volta sola per la patria60! Amici, voi piangete per una perdita privata?

Roma è quella che chiede il nostro pianto.

Roma nutrice di eroi, donna del mondo, Roma non è più! oh libertà! oh virtù! oh patria! Tutto è di Cesare!

   Per lui i votati Decii,
I Fabii cadder, vinser gli Scipioni,
Anco Pompeo pugnò per Cesar!
   I maggiori
Non lasciar altro a vincer che la patria.

Ecco in qual guisa espresse Metastasio sì gran sentimento nella mutazione del suo Catone:

   Ecco soggiace
Di Cesare all’arbitrio il mondo intero.
Dunque (chi ’l crederia?) per lui sudaro
Gli Scipioni, i Metelli? Ogni Romano
Tanto sangue versò sol per costui?
E l’istesso Pompeo pugnò per lui?
Misera libertà, patria infelice,
Ingratissimo figlio! Altro il valore
Non ti lasciò degli avi
Nella terra già doma
Da soggiogar che il Campidoglio e Roma.

Addisson senza punto indebolire la fermezza del suo eroe sa colle disposizioni da lui date per la salvezza degli amici trarre certo patetico di nuova specie che commuove ed interessa. Egli dice addio agli amici; indi conchiude:

S’appressa il vincitor, di nuovo addio.
Se mai c’incontrerem, c’incontreremo
In più felici climi e in miglior spiaggia
U’ Cesar non fia mai a noi vicino.

Nell’atto V la prima scena filosofica è un prodotto del dialogo di Platone sull’immortalità dell’anima. Perchè l’alma (dice Catone col libro di Platone alla mano e colla spada sguainata davanti)

Ritirata in se stessa e impaurita
Alla distruzion s’aombra e fugge?
È la divinità che muove dentro;
Il cielo è quel che l’avvenire addita,
E all’uom l’eternitate accenna e mostra.
Eternità! pensier grato e tremendo &c.

Il sonno poi gli aggrava gli occhi, ed egli vuol prima soddisfare a questo bisogno del suo corpo, dicendo,

   Colpa o timore
Sveglino altrui, Caton non gli conosce,
A dormire o morire indifferente.

Catone poichè si è ferito conserva morendo la sua grandezza d’animo non meno che la tenerezza verso gli amici, pe i quali egli cerca se può far qualche cosa negli ultimi momenti. Sul finire gli sopravviene un dubbio sull’avere troppo affrettato, forse per quello che nel medesimo dialogo di Platone s’insegna, cioè che vieta il sommo Imperante di sprigionar lo spirito prima di un suo decreto:

   Oh numi voi
Che penetrate il cuor dell’uomo, e i suoi
Intimi movimenti ne pesate,
Se fallit’ho, a me non l’imputate.
I migliori erran: buoni siete, e . . . oh! . .

Egli spira qual visse grande e virtuoso prima della libertà. Ed ecco quanto secondo me ha di pregevole la tragedia del Catone 61. S’ella non discendeva da tanta altezza sino a Sempronio e Siface, Addisson avrebbe forse nociuto all’arte togliendo a’ posteri ogni speranza di appressarglisi. De’ grand’ingegni giovano ancor le debolezze. Ad Omero che talora dormicchia e mostra l’uomo, dobbiamo i Virgilj ed i Torquati.

L’amor della patria, della virtù e della libertà regna parimente nelle tragedie di Niccolò Rowe encomiatore e scrittore della Vita di Shakespear nato in Devonshire nel 1673 e morto in Londra di anni 45 nel 1728. Regolare nell’economia, felice nel delineare i caratteri, puro nella lingua, nobile ne’ sentimenti, viene questo autore noverato in Inghilterra tra’ migliori tragici, singolarmente per la di lui Suocera ambiziosa, e pel Tamerlano amato con predilezione dal proprio autore.

Il celebre Giorgio Villiers duca di Buckingam fautore de’ poeti inglesi compose due tragedie il Cesare ed il Bruto regolari e non imbrattate da freddi amori. Egli scrisse ancora una commedia applaudita il Rehersal ossia la Ripetizione delle parti in certo modo rassomigliante alle Rane di Aristofane.

Edoardo Young amico e socio ne’ lavori letterarj di Swift, Pope e Richardson; ed autore delle Notti lugubre poesia sepolcrale, scrisse ancora tre tragedie, il Busiri tradotta in Francia da M. la Place e rappresentata con applauso sul teatro di Drury-Lane nel 1719; la Vendetta uscita nel 1721; e i Fratelli che comparve nel 1753 stimata inferiore alla seconda per lo stile, ma meritevole d’indulgenza come frutto di un uomo giunto all’età di anni sessantanove.

Savage figlio sventurato dell’inumana contessa di Macclesfields, la cui memoria eccita il fremito dell’umanità, privo di ogni umano soccorso coltivò fralle miserie la poesia. Di età di 18, o 19 anni si acquistò qualche nome con due commedie, la Donna è un enigma e l’Amor mascherato. Scrisse poi per le taverne e per le strade la tragedia intitolata Tommaso Overbury. Egli nacque dal nominato mostro nel 1698, e per di lei opera morì in prigione nel 1743.

Il famoso Tompson allievo di Addisson nato nel 1700 e morto nel 1748, chiaro pel noto poema delle Quattro stagioni, non acquistò minori applausi colle sue tragedie nelle quali si allontanò ugualmente dal sentiero calcato da Shakespear e dal gusto di Addisson. La Sofonisba, l’Agamennone, l’Alfredo, il Coriolano furono accolte con molto gradimento. Si è replicata per molti anni con applauso Sigismonda e Tancredi tragedia ricavata da una novella del romanzo di GilBlàs, la quale in Francia s’imitò dal Saurin con la sua Bianca e Guiscardo, ed in Italia dal conte Calini colla Zelinda, dal conte Manzoli con Bianca ed Errico e dal sig. Gajone coll’ Arsinoe. Ma la nazione malcontenta di Tompson per altri motivi non volle ascoltare Edoardo ed Eleonora pubblicata nel 1739.

Il sig. Hume della famiglia del celebre David Hume ammiratore de i talenti tragici del suo parente, compose due buone tragedie Agis e Douglas encomiate dagl’ Inglesi.

Dennis nemico di Pope scrisse in buono stile una tragedia regolare intitolata Appio e Virginia argomento che non ha che un solo punto interessante e poco atto a tener sospeso l’ascoltatore per cinque atti. Un’ altra Virginia compose la signora Brooke, di cui favellò nel Giornale straniero la Place nel 1757. In grazia del sesso per altro i giornalisti Inglesi trattarono con indulgenza l’autrice, la quale trasportò anche in inglese il Pastor fido. Non godè del medesimo favore l’autore della tragedia l’Amore e ’l Dovere ed ebbe la mortificazione di vederla rifiutata da’ direttori di ambi i teatri ed accolta con disprezzo poichè fu impressa. Ugual destino toccò all’autore della tragedia di Atelstan. Una efimera guerra critica si appiccò per essa trall’autore ed un censore geloso, cui forse appartiene la parodia di Atelstan intitolata Turncoat, voltacasacca. Turncoat, Atelstan e i loro meschini autori, tutto si è perduto nel nulla.

L’Andromaca di Racine fu tradotta da Philipps di cui Pope motteggiò nella Dunciade. Smith ne tradusse la Fedra, ma vi congiunse ancora l’intrigo del Bajazzette del medesimo tragico francese; ed il più bello si è che Smith si vantava di aver tutta la sua filastrocca tratta dall’Ippolito di Euripide62. Hille tradusse la Zaira con poche alterazioni. Cibber, Hoadley, Farquar e qualche altro hanno composte varie tragedie che si trovano nella collezione de’ quaranta drammi uscita in Londra nel 1762 col titolo di Teatro Inglese.

Si lodano negli ultimi fogli periodici due tragedie quivi pur pubblicate nel 1788, cioè la Sorte di Sparta, ossia i Re Rivali, ed il Reggente. Appartiene la prima alla parente di Gay Mistriss Cowley, e rappresenta la rivalità pel trono di Leonida e Cleombroto, e le angustie della virtuosa Chelonice figlia del primo e moglie dell’altro. Il Reggente del sig. Barthie Graathead rappresentata in Drury-Lane si dice ben condotta e interessante, ma i personaggi subalterni vi parlano in prosa ed i principali in versi, giusta l’ antica usanza de’ tragici Inglesi.

II.
Abbozzo di tragedia Ersa o Coltica.

Appartiene alla Gran Brettagna, a questo secolo e alla tragedia reale una traduzione di un dramma in lingua Ersa pubblicata verso il 176263. Il titolo è Comala che n’è il principal personaggio. Il fondo dell’azione è appoggiato a una tradizione conosciuta. Comala figliuola del re d’Inistore o dell’isole Orhney amando Fingal figliuolo di Comhal lo segue in abito virile. È ravvisata da Hidallàn seguace di Fingal, il cui amore ella avea disprezzato. Fingal l’avrebbe sposata, se non l’impediva l’invasione di Caracul, che sembra essere Caracalla, il quale nell’anno 211 assalì i Calidonj. Marcia Fingal contro del nemico e lascia Comala in un colle promettendo di rivederla la notte stessa rimanendo in vita. Vince e spedisce Hidallan ad annunziarle il suo ritorno. Il traditore le narra la morte di Fingal. Ella è ridotta dal suo dolore agli estremi. Torna l’amante ed ella spira alla sua presenza. Eccone la traccia.

Dersagrena invita Melilcoma a deporre l’arco e prender l’arpa, essendo terminata la caccia coll’ avanzarsi la notte. Melilcoma mostra temere per la vita di Fingal. Sopravviene Comala che si maraviglia che l’acque del fiume Carun corrano torbide e sanguinose, e fa una preghiera alla luna. Giugne Hidallàn colla falsa notizia. Comala si scioglie in lagrime. Melilcoma dice che ode un suono verso Ardven e che vede certo lume nella valle. “Ah (dice Comala) altri esser non può che il nemico di Comala, il barbaro figlio del re del mondo . . . O spirito di Fingal, vieni e dalla tua nube regola l’arco di Comala sì che il tuo nemico cada come una lepre del deserto . . . Ma che vedo! Fingal viene accompagnato da’ suoi spiriti . . . Ombra diletta, vieni tu a spaventare insieme e a consolare la tua Comala”? Ella fugge dall’amante credendolo estinto. Giungono i Bardi e cantano la vittoria di Fingal; ma il loro canto è interrotto dall’avviso della morte di Comala. Fingal si dispera; Hidallàn confessa il suo tradimento che ne ha cagionata la morte; Fingal lo discaccia; i Bardi cantano le lodi di Comala.

Questo picciolo poema rassomiglia più a un dialogo che a un dramma; ma chi rifletterà al luogo, all’entrate successive de’ personaggi, alla mescolanza del canto alla narrazione, vi troverà azione, spettacolo, patetico e movimento. Tra’ Celti cacciatori chi avrebbe sospettato di trovare una informe idea della poesia scenica, mancante, egli è vero, di un piano, rozza, senz’arte, ma non priva d’interesse? Ciò può sempre più rassodare quel che osservammo fin dal principio di questa istoria, che presto o tardi gli uomini raccolti in grandi o picciole famiglie son tratti ad imitar per diletto più o meno imperfettamente le azioni umane a seconda del grado di coltura in cui si trovano.

III.
Tragedia Cittadina.

Scendiamo dalla tragedia reale alla picciola cittadinesca la cui invenzione appartiene agl’ Inglesi, perchè qualche esempio che se n’ ebbe in Italia ne’ passati secoli, rimase obbliato. Giorgio Lillo giojelliere di Londra, il quale morì l’anno 1739, imprese a scrivere più d’una di simili favole tragiche di persone private sommamente atroci, per le quali si è comunicata alle scene francesi ed alemanne la smania di rappresentar le più rare esecrande scelleraggini che fanno onta all’umanità.

L’anno 1735 si rappresentò in Londra la sua Fatal Curiosity, fatale curiosità. L’ab. Arnaud che ne recò un estratto nel tomo VII della Gazzetta letteraria dell’ Europa, “noi (dice) non abbiamo potuto leggerlo senza esserne commossi, non già per quella tenera generosa pietà cara a i cuori più sensibili, ma per certo tristo sentimento doloroso, onde l’anima rimane abbattuta, lacerata, istupidita”. Eccone l’argomento e qualche tratto.

Wilmot e Agnese conjugi per fasto e per negligenza si trovano caduti nell’ultima miseria. Un di loro figliuolo savio ed onesto amante corrisposto di Carlotta bella e virtuosa giovane ma non ricca, per non comunicarle la propria indigenza, abbandona la patria e l’amata colla speranza di migliorare il suo stato nell’Indie, e si sparge poi il romore di esservi morto. I di lui genitori sussistono stentatamente per gli scarsi soccorsi della stessa Carlotta. Wilmot che sino a questo punto non si è imbrattato di alcun delitto, vacilla sotto il peso dell’infortunio, si pente di essere stato onesto senza frutto, e pensa ad ammazzarsi. Questa situazione è dipinta con forza nella prima scena. Avendo disegnato di morire congeda l’affettuoso servo Randal, ed essendo egli vicino a partire Wilmot gli dice: “Addio . . . ti arresta, tu non conosci il mondo, a me costa caro l’averlo conosciuto; pria di separarci debbo darti un consiglio . . . asciugati gli occhi, o Randal; se piangi non potrò parlare. Odi, amico. Vuoi tu sollevarti? vuoi mutar fortuna? lascia i libri, rinunzia alla filosofia, studia gli uomini; questo solo studio ti basterà. Tu da essi imparerai a nascondere i tuoi fini e a prendere la maschera dell’onore e della probità per arrivare al tuo intento a costo di chiunque sarà così sciocco di fidarsi della tua apparente onestà. “Mi consigliate (gli dice il servo) a far quello che voi avreste vergogna di praticare?” Ah questa vergogna appunto (ripiglia Wilmot) mi ha rovinato. Io sono stato corrivo, vorrei che tu fossi più accorto; vorrei che tu trattassi gli uomini come essi meritano, come hanno trattato me, come ti tratteranno, amico . . . Approfittati del mio esempio e ricordati di questa lezione: osserva il mondo e sii malvagio e felice; addio”.

Torna intanto il giovane Wilmot dall’Indie con una cassetta piena di gioje d’inestimabil valore. In abito indiano si presenta a Carlotta che trova tenera e fedele, e la riempie di allegrezza. Intende lo stato de’ genitori, si rallegra pensando che è in sua mano il sollevarli, ma vuol presentarsi loro alla prima come un forestiere raccomandato da Carlotta. È accolto cortesemente, ma parlandosi di un figlio che hanno perduto mostrano essi tanto dolore, che il giovane intenerito temendo di cagionarli una commozione troppo viva col palesarsi in quel momento, si ritira per riposare, consegnando prima alla madre la cassetta con dire che contiene cose preziose. Agnese maravigliata della fiducia di quel forestiere è tentata dalla curiosità ad aprir la cassetta; resiste alquanto, poi l’apre e resta abbacinata allo splendore di tanti diamanti. “Quante ricchezze (ella dice)! Questo tesoro discaccerebbe da questa casa l’orrore che vi regna; ci vendicherebbe del disprezzo ingiurioso e della pietà più ingiuriosa ancora del mondo insolente”. Esita, indi cede alla suggestione della necessità. Wilmot padre viene a dire che il forestiere è addormentato . . .

Wil.

Ma che miri tu? la di lui cassetta! l’hai tu aperta! indegna cosa! se si sapesse . . .

Agn.

E chi lo saprà?

Wil.

Dobbiamo a noi stessi . . .

Agn.

Dobbiamo vivere. Stà bene l’esser delicato a chi non ha pane!

Wil.

Si ha tutto, quando si vive senza taccia, e si ha coraggio per morire.

Agn.

Io non vo morire.

Wil.

Ma quali mezzi hai tu di prolongar la vita?

Agn.

Eccoli. Mira questo tesoro . . .

Wil.

Oh cielo! che dici? vuoi tu provarmi? Ma bada bene; non v’è cosa più mostruosa che in certe circostanze il cuore umano non possa esser tentato ad approvare”.

Agnese dice che essi possono evitare il suicidio detestabile per mezzo di un delitto minore. Ella piange, ella gli rimprovera la vita passata. Wilmot si fa sedurre. Oh Agnese Agnese (le dice)! se vi è inferno, egli è giusto che noi vi siamo tormentati. Egli entra. Agnese lo seguita con gli occhi, ne descrive i movimenti che esprimono i di lui pensieri di pentimento, di tristezza, di furore. Il giovane Wilmot esclama dalla prossima stanza, oh padre, oh padre mio. Agnese atterrita chiama il marito. Arriva Carlotta e intende l’ orribile delitto. Si sentono gridi e gemiti. Agnese comprende d’aver fatto uccidere il proprio figliuolo, e grida forsennata,

“Tutto muoja sopra la terra, perda il sole la sua luce, una notte eterna ingombri la specie umana perchè la nostra storia resti per sempre sepolta nell’obblio.

Wil.

Vane imprecazioni! il sole continuerà a risplendere, e tutto compierà il suo corso, intanto che noi orrore e peso della terra saremo ridotti in polvere. Il nostro delitto, la nostra disperazione passerà di secolo in secolo per insegnare alle razze future, che il cielo irritato sa trovare certe vendette che l’umana mente non può prevedere. Muori prima di me, non mi fido della tua debolezza”.

L’ammazza e poi si ferisce.

Alla lettura di questo dramma orribile si crederebbe che l’autore fosse stato un uomo di una tetra immaginazione e di un carattere feroce. Ma la regola di giudicar dagli scritti del carattere dell’autore non sempre è sicura. Lillo era un uomo onesto, dolce, di costumi semplici, amato e stimato da quanti il conosceano. Prima della Curiosità fatale egli compose George Barnwel o il Mercante di Londra, che rappresenta un personaggio nato con indole non prava che però sedotto da una donna che ama, ruba il padrone, assassina un suo zio e benefattore, ed è impiccato. Quest’argomento è meno orribile del precedente. La gioventù ed una passione eccessiva possono eccitare qualche pietà per un delinquente, là dove nell’altro niuna cosa scema l’orrore di una atrocità abbominevole conceputa a sangue freddo per un motivo vilissimo. Lillo compose ancora un altro dramma, in cui una bella e giovane donna maritata a un uomo ch’ella non ama, e schiava di un malvagio che ama, viene dall’amante indotta ad esser complice dell’assassinamento del marito. L’autore di un Dizionario de’ poeti e de i drammi inglesi osserva che Lillo era felice nella scelta de’ suoi argomenti. Questa scelta per gl’ Inglesi felice tale non sembra agli occhi de’ più giudiziosi Francesi, Italiani e Spagnuoli. Sempre diremo che simili atrocità scelte a bello studio da’ processi criminali più rari o inventati da chi ignora il segreto di commuovere e di chiamar le lagrime sugli occhi con minor quantità di colori oscuri, potrà soltanto piacere in teatro al popolaccio che per aver la fibbra men delicata si diletta dello spettacolo de’ rei che vanno al patibolo. Quanto poi alla morale istruzione, di grazia che mai può imparare da questi esempj un popolo, in cui passeranno molti e molti lustri senza che in esso avvengano misfatti sì atrocemente combinati? Dicesi che Lillo si prefiggeva la correzione de’ costumi, e supponeva che le sue favole potessero prevenire i gran delitti. Egli s’ ingannava sul fine e sull’effetto delle rappresentazioni sceniche. Non tocca al pubblico l’uffizio di un esecutore di giustizia, e le anime atroci non si correggono col teatro. Malheur à la nation (diceva filosoficamente l’ab. Arnaud) qui auroit besoin pour corriger ses moeurs de semblables spectacles.

Una favola seria difettosa per la mescolanza comica è stata pur coltivata in questo secolo come ne’ precedenti. La nominata Miss Cowlei compose l’ Evasione e lo Stratagemma della bella. Mistriss Moore scrisse Percy oltre ad alcuni drammi sacri.

Egli è notabile però che ad onta di tanti ammazzamenti, di tanto sangue e di tanti enormi delitti esposti sul teatro inglese, ogni dramma è preceduto da un prologo rare volte serio, e seguito da un epilogo ordinariamente comico anche dopo i più malinconici argomenti. Sovente avviene che la stessa attrice che sarà morta nella tragedia, venga fuori co’ medesimi abiti a far ridere gli spettatori. Un critico Inglese censura seriamente questo costume degli epiloghi nazionali, pretendendo che per mezzo del ridicolo che li condisce, si distrugga il frutto morale del dramma. Ma perchè ciò? Che connessione ha l’una cosa coll’ altra? La di lui tetra morale quanto tempo dopo la tragica rappresentazione permette che si possa ridere? Passiamo alla commedia.

IV.
Commedia.

La gloria della commedia Inglese dopo del Wycherley è cresciuta per le favole piacevoli e regolari del sig. Congreve morto d’anni cinquantasette nel 1729. Varie ne compose tutte esatte, ingegnose e piene di caratteri assai di moda in ciò che si dice gran mondo, avendo animati con tinte vivaci e naturali gli uomini ben nati e mal educati, falsi, doppj e furbi in fatti, ma nobili, onesti e virtuosi in parole. Egli compose ancora una favola tragica sommamente applaudita, la Sposa in lutto.

Riccardo Stéele membro del Parlamento e compagno di Addisson nell’opera dello Spettatore Inglese scrisse alcune commedie popolari assai pregiate. Era sua massima che i componimenti teatrali debbano giudicarsi sulla scena e non impressi. Ma quante composizioni posizioni scritte pessimamente, a cagione di qualche situazione interessante, o di un’ attrice accetta al pubblico, o di un partito che mai non manca agl’impostori, riuscite sulla scena sono state schernite alla lettura? La massima di Stéele presa di traverso può favorire i Pradoni in pregiudizio de’ Racini. Quelle distance immense (diceva ottimamente Voltaire) entre un ouvrage souffert au théâtre & un bon ouvrage!

Nel 1733 si è rappresentato in Londra l’Avaro di Moliere ben tradotto da Fielding miglior poeta e più modesto di Shadwel. Il dialogo non è trasportato parola per parola, ma imitato con libertà moderata e abbellito da qualche immagine. Questa commedia con riuscita assai rara in Londra si rappresentò sempre con applauso circa trenta volte.

Edoardo Moore nel 1755 fe recitare nel teatro di Drury-Lane la Figlia ritrovata, che si scioglie per gli rimorsi di una balia, e non lascia d’interessare mal grado di tal disviluppo mille volte usato. Tutto il resto però può dirsi una filza di scene debolmente accozzate più che un’ azione ben combinata. Soprattutto il personaggio di Fadle basso, triviale, poltrone, infame, preferito in casa di una dama a un colonnello che la pretende in moglie, ma che in tanto a guisa di un mascalzone è preso pel collo, scosso, minacciato, cacciato or da questo or da quello, tal personaggio, dico, così spregevole dispiacque al pubblico, il quale obbligò l’autore a toglierne tutto ciò che era episodico. Egli poi nell’impressione lo produsse come l’avea scritto da prima, e con questo lasciò una pruova dell’intelligenza del pubblico, e della propria indocilità ed imperizia.

Miglior pennello comico è certamente quello di Murphy autore della commedia la Maniera di fissarlo rappresentata nel 1761. Egli l’accozzò co’ materiali di due commedie francesi, il Pregiudizio alla moda e la Nuova scuola delle donne, ond’è che l’azione apparisce troppo complicata. Il leggitore si dispone nel tempo stesso agli eventi di Lovemore, di sir Constant e di madama Belmour. Ne risulta non per tanto uno scioglimento non infelice, ma da non compararsi però con altri che con un sol colpo mettono i fatti in tutta la necessaria chiarezza. Il ridicolo di un marito amante della propria moglie senza aver coraggio di manifestarsi, è più rilevato nella favola di Murphy che in quella di La Chaussée. Constant diviene totalmente piacevole allorchè parla con dolcezza alla moglie essendo soli, ed affetta asprezza ed umore al comparir de’ servi. É curiosa la dipintura di coloro che aspirano ad entrare nel Parlamento fatta da Constant nella propria persona. “Che non ho io fatto per voi? dice alla moglie nella seconda scena dell’atto II. “Per darvi gusto non son diventato membro del Parlamento? Per essere eletto non mi son fatto veder per un mese più ubbriaco del mio cocchiere? Per soddisfare la vostra vanità non mi sono esposto a tutte le insolenze di un popolaccio abbominevole? Non metto poi a conto quella maladetta cicalata che mi convenne fare: sa dio come la pronunziai, e come la Camera l’ascoltò! Io non sapeva dove mi avessi la testa. E che diavolo avea io a fare del Parlamento?”

Giorgio Colman traduttore di Terenzio produsse nel 1763 la Moglie gelosa commea dia rappresentata in Drury-Lane e compars per varj anni sulle scene inglesi. Vi è calore, brio, vivacità. Il carattere della Gelosa è vero, naturale e ben colorito. Ben espresso è pure quello di sir Henns rustico occupato sempre de’ suoi cavalli. Graziosa nella prima scena dell’atto II è la genealogia di una giumenta, rilevandovisi il ridicolo dell’eccessiva passione degl’ Inglesi per le razze de’ loro cavalli. L’azione non ha luogo di languire per la moltitudine degli accidenti accumulati l’un sopra l’ altro tratti in parte dal romanzo di Fielding. Si richiedeva però maggior destrezza nel prepararli, affinchè paressero condotti dalla natura e non dal bisogno che ne avea il poeta. Quando l’arte si mostra più della natura, lo spettatore si sovviene dell’autore, lo vede passeggiar tra’ personaggi, riflette alla realità, e l’illusione della fantasia è distrutta.

David Garrick il Roscio Inglese insieme col nominato Colman lavorò al Matrimonio clandestino commedia in cinque atti rappresentata nel 1766 con sommo applauso. É una favola ravviluppata, in cui non si trascura la dipintura de’ caratteri tutti comici, e vi si veggono alcuni colpi teatrali che conducono lo scoprimento di un matrimonio secreto che ne forma il viluppo. A differenza delle commedie francesi, ove trionfa un solo carattere principale, rimanendo gli altri illuminati da una luce riflessa, in questa commedia tutti i personaggi hanno un colorito e un carattere vivace e compariscono a buon lume. Il suo principal merito consiste nella connessione delle scene, in una piacevolezza decente e nell’eleganza dello stile. Colman e Garrick composero varie altre commedie ora uniti ora separatamente. Appartiene al solo Garrick il Servo bugiardo, la cui traduzione intera si trova inserita nel Giornale straniero di M. La Place nel mese di agosto del 1757. È divisa in due atti e scritta con gusto, grazia e forza comica. L’azione si rappresenta or nell’ appartamento di Gayless giovane dissipatore ridotto alle ultime strettezze, ora in quello di Melissa da lui amata, la quale lo crede tuttavia dovizioso. Vi si scorge qualche tratto ricavato dal Dissipatore del Des Touches, specialmente nella prima scena. Le menzogne del servo Sharp ne formano il groppo. I Costumi del mondo grande è un’ altra commedia di Garrick, in cui non si dipinge fuori della natura, ma si vede l’indole licenziosa del teatro Inglese. Un marito offende la fede conjugale d’accordo con una cugina di sua moglie, e questa se ne vendica rendendogliene il cambio con un giovane militare. Garrick figliuolo di un Francese rifugiato in Inghilterra, ebbe per maestri il dottor Johnson e Colson di Rochester, e dopo avere esercitato varie professioni si unì al fine nel 1741 a una compagnia comica, e fece per lo spazio di circa quarant’anni la delizia e l’ornamento delle scene Inglesi, e morì di anni 63 in Londra nel 1779. Egli come attore non ebbe colà chi lo pareggiasse; ebbe bensì chi gareggiò con lui. Cibber altro attore Inglese di non poco grido credeva di non essere a lui inferiore. Ciascun di loro resse un teatro per qualche tempo ed ebbe un partito favorevole. Garrick in fine tirò a se tutti i voti e sopraffece l’ emolo. Cibber tuttochè non mancasse di talento, si vide ridotto ad esser capo di una compagnia subordinata e poco accetta al pubblico che rappresentava componimenti ajutati dalla musica e dal ballo. Egli con due dissertazioni su gli spettacoli, che formano una specie di storia del teatro inglese, si lusingava di poter disingannare il pubblico sulle novità introdotte da Garrick, e sul di lui modo di rappresentare. Egli disacerbava così il proprio rancore, e Garrick seguitava ad essere ammirato ed amato.

Al di lui merito volendo prestar qualche omaggio il sig. Kelly dedicogli una sua commedia la Falsa delicatezza rappresentata nel 1768. Una fredda regolarità per quanto comportano tre intrighi amorosi, un fiacco interesse, alquanti difetti, poche grazie, non poca noja caratterizzano questa favola. Terenzio e Moliere, dirò sempre, si leggono e si encomiano dapertutto, perchè dapertutto oggi s’imitano sì poco? Nel 1781 si è impressa in Londra una commedia rappresentata in Drury-Lane the Disipation, la Prodigalità. Non avendone veduto neppure qualche estratto, non saprei dire quanto ad essa convenga l’aggiunto di nuova con cui si enunciò, non ostante che simile argomento, incominciando da Aristofane e terminando a Des Touches e Garrick, sia stato maneggiato tante volte dagli antichi e da’ moderni.

Si vuole ancora far menzione delle picciole commedie o farse che hanno gl’ Inglesi, nelle quali trionfa per lo più la satira e la mimica buffoneria. Recheremo per esempio quelle di Dodsley, alle quali dava il titolo di novelle o satire drammatiche, dedicandole al Domani essere che non esiste ancora. Una di esse è il Re ed il Mugnajo di Mansfield di cui si fe parola nel tomo precedente. Nella scena nona vi si trova un satirico ritratto della città di Londra che ne dà poco vantaggiosa idea, ma che è il ritratto di più d’una società culta. Il Cieco di Bethnal-Green (titolo che portava un’ altra favola antica del poeta Iohnday del tempo di Giacomo I) è un argomento interessante pel contrapposto de’ caratteri ben espressi. Vi si vede dipinto a neri colori un milordo prepotente ed un quakero ipocrita, i quali cercano di comprare, sedurre e poi rapire una virtuosa fanciulla figlia di un cieco povero in apparenza. La Bottega di Merceria (bijouterie) è tutta satirica. Un merciajo vende satireggiando e moralizzando con grazia. Per esempio egli alle dame e agli zerbini che vengono in bottega, presenta uno specchio, in cui (egli dice) la civettuola può vedere la sua vanità, la bacchettona la sua ipocrisia, non poche femmine più bellezza che modestia, più smancerie che grazie, più spirito che buon senso. Presentando una scattoletta dice che è una rarità, perchè è la più picciola che vi sia in Inghilterra. Un cortiggiano in essa può chiudere tutta la sua sincerità, un curiale tutta la sua probità, un verseggiatore tutto il suo danaro.

E queste sono le tragedie, le commedie e le farse di questo secolo, nelle quali si sono distinti al pari de’ migliori attori diverse attrici. Siccome l’Inghilterra può vantarsi di avere avuto in Garrick il suo Baron, così in Madamigella Cibber ebbe la sua le Couvreur. Appena contava la Cibber diciotto anni della sua età, quando rappresentando la parte di Zaira nella traduzione di Hille fe vedere alla nazione certa sensibilità spogliata da ogni caricatura istrionica ed una declamazione naturale sino a’ suoi dì sconosciuta in quel clima64.

V.
Opera Inglese ed Italiana.

Non mancò all’entrar del corrente secolo quella specie d’opera Inglese che si chiamava mascherata, anche dopo della Circe di Carlo d’Avenant. La Rosamunda dell’Addisson fu una mascherata forse troppo da’ nazionali applaudita. Il Giudizio di Paride, e la Semele di Congreve portarono parimente il titolo di mascherate. Milord Granville che scrisse sull’ opera musicale, una ne compose egli stesso, prendendo quasi per modello fra quelle di Quinault l’Amadigi di Gaula, e l’ intitolò gl’ Incantatori Brettoni.

Gl’ Inglesi hanno avuta ancora un’ opera buffa nazionale. Il Diavolo a quattro è una burletta musicale di caratteri comici ben combinati. Ma la più celebre in questo genere è quella del sig. Gay rappresentata nel 1728. Il titolo è Beggars’ Opera, cioè l’Opera del Mendico, e non già de’ Pezzenti, come la chiamarono alcuni eruditi Francesi ed il sig. Andres, non trattandosi in essa di pezzenti, ma di ladroni facinorosi; e l’autore non la chiamò del Mendico se non perchè nell’introduzione finse che un poeta mendico l’avesse composta e presentata a’ commedianti. È un componimento di tre atti in prosa con sessantanove ariette da cantarsi. Incredibile è l’effetto che produsse in tutte l’isole Brittanniche. In Londra alla prima si recitò sessantatre volte e si ripigliò nell’ inverno; in Bath, in Bristol, nel paese di Galles, in Iscozia, in Dublin, si rappresentò con insolito esempio or cinquanta, ora quaranta, or trenta volte di seguito. L’attrice che rappresentò la parte di Polly, che si chiamava Miss Fenton, divenne la delizia di Londra; se ne scrisse la vita, se ne lodarono i bei motti, se ne fecero i ritratti, ed in fine sposò pubblicamente il duca di Bulton uno de’ primi signori Inglesi. Il dottor Swift intimo amico di Gay nel suo Gazzettiere non meno che il Pope nella Dunciade e che il Warburton nelle note che fece a questo poema satirico, l’esaltarono come un capo d’opera. É una viva imitazione e un ritratto naturale de’ più scellerati della società, essendone gl’ interlocutori spioni, traditori, ladroni di campagna e di città, bagasce le più impudenti, che abbracciando un loro amante lo disarmano e lo consegnano alla giustizia. Il tutto è sparso copiosamente di oscenità e di una satira ardita sopra tutti i ceti, non risparmiandosi i nobili, le dame, gli avvocati, le persone di corte, e fin anco i ministri di stato, i quali vi son paragonati a i delatori de’ ladri ed alle persone più basse ed esecrabili. “A mirar la nostra professione (dice l’infame Peachum ritratto di Jonathan Wild impiccato in Londra nel 1724) per certo aspetto, si può chiamare disonesta; perchè noi rassomigliamo a’ ministri di stato nel dar coraggio a’ malvagi affinchè tradiscano i loro amici”. Il Mendico che nell’ultima scena torna sul teatro col commediante, gli dice: “nel corso dell’ opera avrete notata la grande rassomiglianza che hanno i grandi co’ plebei; è difficile decidere, se ne’ vizj di moda la gente culta imiti i ladroni di vie pubbliche, ovvero se questi ladroni imitino la gente culta”.

Gay compose poi una continuazione dell’Opera del Mendico che intitolò Polly. Il lord Ciambellano non ne permise la rappresentazione; ma una immensa socrizzione per farsi imprimere lo compensò ampiamente. Andres afferma che Polly è meglio condotta e più interessante. Noi che non abbiamo ancor letta quest’altra opera, non possiamo altro dire, se non che M. Patu traduttore delle opere di Gay e di altri ci fa sapere che Polly è fort inferieure à son premier ouvrage.

Gay nel suo Beggars’ Opera motteggiò l’opera italiana introdotta in Londra sin dal secolo precedente, come dal capo al fondo tutta fuori della natura. La musica italiana (diceva lodandolo Swift) è pochissimo fatta pel nostro clima settentrionale e pel genio della nazione. I motti di Gay, di Swift, di Dennis, fecero bandir dall’Inghilterra la musica italiana, pretendendosi che ne avesse corrotto il gusto, e cagionato nocumento agli spettacoli nazionali. Vi fu poscia richiamata; ma sembra che di tutti gli spettacoli scenici l’opera italiana sia colà la meno frequentata. Si spende nelle voci prodigamente, e ben poco nelle decorazioni e ne’ balli. I drammi, la musica, i cantanti, tutto vi si fa venire dall’Italia. Si concorre a questo spettacolo senza trasporto. Non disgusta la nostra musica, ma le donne specialmente (dicesi nel libro francese intitolato Londres) non possono assistere senza riso a uno spettacolo, in cui un Ati o un Eutropio de’ nostri giorni rappresenta seriamente Artaserse, Adriano, Enea; e quanto più questi cantanti malconci si sforzano di esprimere i loro affetti, tanto più crescono le risa femminili. In quante guise la natura manifesta avversione e disprezzo per una mostruosità che l’oltraggia!

Per accennar qualche cosa della musica stromentale di quel paese, diciamo che sino al regno di Riccardo Cuor di leone era pressocchè selvaggia. Questo principe la coltivò con certa felicità sotto Blondel suo maestro. La regina Elisabetta che amava la melodia e che volle spirare ancora ascoltando un concerto di musica, contribuì agli avanzamenti di sì bell’ arte, prendendone in parte il gusto dall’ Italia dove fioriva. In questo nostro secolo il famoso Tedesco Hendel ha cagionato in Inghilterra la rivoluzione che avea già prodotto in Francia il Fiorentino Lulli. Oggi gl’ Inglesi vantano una musica nazionale discendente dalla tedesca, la quale è figlia dell’italiana. I concerti del Fax-Hall e del Renelag, quelli che si danno nella chiesa di San Paolo, e i particolari di tutta Londra, sono per lo più composizioni Inglesi.

VI.
Teatri materiali.

Iteatri di Londra non son certamente i meno pregevoli dell’Europa. Quello dell’Opera, Drury-Lane e Coven-Garden, hanno una immagine della scalinata antica nella platea e de’ moderni palchi nelle logge. L’ edificio dell’opera è un parallelogrammo largo circa cinquanta piedi Parigini e lungo trentasette sino all’orchestra. Sono in in esso inscritti undici scalini per la platea, sull’ultimo de’ quali si alza una loggia di pilastri isolati con varie scalinate, e su questa una seconda colle sue scalinate. Sopra i lati della platea attaccati all’ orchestra si elevano quattro ordini di logge, delle quali ciascuna contiene tre palchetti. Presso a questi sono per ogni lato tre colonne isolate di ordine Corintio con tre logge negl’ intercolunnj, de’ quali ognuno ha tre palchetti l’uno sopra l’altro destinati per la famiglia reale. Le ultime di tali colonne formano il proscenio. Dello stesso ordine Corintio sono le due colonne isolate che si veggono nel fondo delle scene. Questo teatro non manca di scale, corridoi e commodi ingressi; ma (dicesi nel trattato del Teatro) tralle varie logge de’ palchetti e e dell’ anfiteatro manca quel necessario ricorso delle linee e quella concatenazione di parti, donde risulta l’unità e l’armonia di tutto l’edificio.

Di gusto e capacità somigliante sono gli altri due teatri. Più armonia si scorge in quello di Coven-Garden, in cui le scalinate si uniscono colle logge, anche colle reali che sono a i due lati dell’orchestra e del proscenio, ed hanno solo due colonne per lato. Non sono perfette porzioni di circoli, ma di poligoni tanto la parte anfiteatrale quanto gli scaglioni della platea. Tutti i teatri di Londra hanno accessorj commodi e nobili; benchè per questa parte trovansi in Europa più teatri che gli uguagliano ed alcuni che gli superano.

Ma niun teatro del mondo ha pareggiati ch’io sappia non che superati i teatri di Londra in una decorazione altrove non più veduta, che dovrebbe accendere di bella invidia ogni nazione. Una società di marina destinata a fornire a’ poveri giovanetti i mezzi di fargli venire a Londra da ogni parte per apprendere il mestiere di marinajo per uso de’ vascelli di guerra, vi fu stabilita verso la metà del secolo. Contribuirono volontariamente i membri di essa a sostenerla, e il sovrano la soccorse con mille lire sterline, e il principe di Galles con quattrocento. Concorsero ad aumentarne il fondo anche gli spettacoli scenici. Gl’ impresarj prestarono gratuitamente la sala, e gli attori lasciarono in di lei beneficio le loro porzioni. In una delle rappresentazioni di Drury-Lane si raccolsero intorno a 271 lire sterline per la società. Per mostrar poi al pubblico il nobil frutto delle di lei cure e del patriotismo che univa gl’ Inglesi a mantenere un’ opera così utile, si schierarono sul teatro 75 giovanetti, de’ quali niuno oltrepassava gli anni 18, e 40 uomini provetti vestiti tutti dalla società. Che vaga pompa! che decorazione invidiabile! Oh chi potesse congiugnerla con gli ornati, le dorature, i cristalli e le superbe illuminazioni in tutti i popoli che hanno mare e vagabondi, e che dovrebbero approfittarsi dell’uno e degli altri per avere un’ armata e un commercio!