(1790) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI « LIBRO IX. Teatro Spagnuolo del secolo XVIII — CAPO III. Opera musicale Spagnuola e Italiana e Teatri materiali. » pp. 89-108
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(1790) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI « LIBRO IX. Teatro Spagnuolo del secolo XVIII — CAPO III. Opera musicale Spagnuola e Italiana e Teatri materiali. » pp. 89-108

CAPO III.
Opera musicale Spagnuola e Italiana e Teatri materiali.

I.
Opera Spagnuola.

Cominciò l’opera nazionale sin dallo scorso secolo. Sotto Filippo IV l’ infante Don Fernando di lui fratello fondò due leghe distante da Madrid verso il settentrione in mezzo a un querceto una casa di campagna che denominò Zarzuela 29. Egli solea in essa trattenere il re e la real famiglia con magnifiche feste singolarmente teatrali ricche di macchine e decorazioni, nelle quali accoppiavasi alla recita nuda di tutta la favola il canto di certe canzonette frapposte che diremmo arie. Tali rappresentazioni dal luogo ove eseguironsi trassero il nome di Zarzuelas, ed ora così seguitano a chiamarsi in Ispagna i drammi nazionali cantati. La nazione prima poco disposta ad ascoltare tutto un dramma cantato accolse più favorevolmente le proprie zarzuelas, benchè in esse il canto riesca più inverisimile che nell’opera vera. Non ne hanno però un gran numero. Di quelle del tempo di Filippo IV più non si favella nè anche. Le ultime sono pur poche. Io ho vedute ripetersi quasi sempre le medesime sarsuole composte per lo più dal lodato La Cruz, cioè las Segadoras (mietitrici) de Vallegas, las Foncarraleras, la Magestad en la Aldea, el Puerto de Flandes, e qualche Folla. Oltre a queste si sono tradotte e accomodate a foggia di sarsuole alcune opere buffe italiane, cioè rappresentandosi senza canto il recitativo e cantandosi le sole arie, i duetti, i cori, i finali. Tali sono la Buona Figliuola, le Pescatrici, il Filosofo di campagna, il Tamburro notturno.

Si tentò nel 1768 aprir camino ad una opera eroica spagnuola originale, rassettandola parimente alla maniera delle sarsuole. Il peso di comporne la poesia si addossò al sig. La Cruz, il quale compose Briseida Zarzuela Heroica in due atti posta in musica da D. Antonio Rodriguez de Hita maestro di musica spagnuolo: ma fu così mal ricevuta e derisa, spezialmente in alcune Lettere molto graziose e piene di sale scritte da Don Miguèl Higueras sotto il nome di un Barbero de Foncarràl, che questa fu la prima e l’ultima opera seria spagnuola. Essendo quasi impossibile agli esteri l’imbattersi in tal fanfaluca, e ben difficile a’ nazionali che se ne curino, diamone qualche contezza. Essa contiene l’intera sostanza di 19 libri dell’Iliade in compendio, perchè incomincia dal contrasto di Achille ed Agamennone per far rimandare Crisia al padre, nè finisce se non dopo l’ammazzamento di Patroclo, per cui Achille torna a combattere contro i Trojani. Tutto ciò si comprende in due piccioli atti divisi in dodici scene. Ebbe dunque tutta la ragione del mondo il sig. La Cruz di declamar tanti anni contro i compatriotti che inculcavano le moleste unità; e non ebbi io torto in affermare ch’egli rannicchia e pone in pessimi scorci le altrui invenzioni soggettandole al coltello anatomico di Procruste.

Ma ciò sarebbe il minor male, se col misero sacrificio della poesia almeno si servisse alla musica. Egli però, ignorando, punti del dialogo più opportuni per le ariei nè sa valersene a rendere meno ristucchevole il recitativo, nè sa con questo interromperne la frequenza ed evitar la sazietà che si produce anche coll’ armonia quando è perenne. Per esempio la prima aria dell’atto I non si canta se non dopo 126 versi recitati, e 32 versi poi sono seguiti da due arie: nell’atto II si recitano 150 versi prima di sentire un’ aria, e 70 versi soli fanno nascere cinque pezzi di musica, cioè tre arie, una cavatina ed un recitativo obbligato: altri 98 versi poi precedono un’ altra aria. Con tale economia sono distribuiti 14 pezzi di musica per lo più parlanti e senza affetti.

Cinque scene compongono l’atto I, in cui deliberata la restituzione di Crisia, Agamennone fa togliere Briseida ad Achille, il quale si allontana dal campo. Nella prima scena mille pensieri sublimi ed espressioni nobili energiche e poetiche possono notarvisi. Agamennone chiamato re de’ mortali (titolo per altro dato nella poesia greca e latina al solo Giove) lodando Achille dice che il di lui nome solo è definizione degna di lui: di Agamennone si dice che gli eroi della Grecia si gloriano d’essergli soggetti, nivelando su conducta por su prudencia: de’ Greci si dice,

separamos los brazos de los cuellos
de las esposas,

volendosi dire che si sono distaccati dagli amplessi delle consorti, benchè separar le braccia da i colli possa parer piuttosto un’ esecuzione di giustizia: di un reo che involge gl’ innocenti nella sua ruina, dicesi con espressione propria, felice ed elegante, hizo participantes del castigo agl’ innocenti: si danno braccia ad una pecora, dalle quali il lupo strappa gli agnelli: per dirsi che Agamennone nè vuol cedere Criseida nè permettere che sia riscattata, si dice con tutta proprietà castigliana che ni cederla quiere ni redimirla, quasi che dovesse egli stesso riscattarla da altri. Or tocca al La Cruz, al Sampere ed a tutta la turba che gli applaude, a conciliar tutto ciò colla loro lingua, colla poesia e col senso comune. Si conchiude con un’ aria in cui Calcante profetizza che il sole irritato convertirà en temor nuestras alegrias; ma di grazia quali allegrie, se Achille ha descritto la mortalità del campo desolato dalla peste? Si aggiugne un’ altr’aria di paragone di un fresco rio che coll’ umor frio feconda le piante, ma se poi è trattenuto da un pantano vil altivo, questo rio annega ogni cosa. Veramente un rio che sbocca in un pantano non può che impantanarsi anch’ esso, e non sommerger tutto, ma passi; non si capisce però come si dia un pantano vil altivo.

Dopo alcuni soporiferi discorsi di Briseida e Crisia Achille annunzia a questa la sua libertà, ed ella grata gli augura una corona di lauro che Apollo idolatra; ma immediatamente poi nell’aria gliene augura un’ altra di mirto, nè le basta se non vede su i di lui capelli fiorire i rami di tal mirto; e nella seconda parte (che conviene alla prima come il basto al bue) si dice

y de nuestras vidas
con afectos nobles
aprehendan los robles
à permanecer.

Achille nella scena 4 dice a Briseida,

Al beneficio de los ayres puros
Nuestras naves y tropas veràs luego
A su primer vigor restituidas.

Che cessando la peste la gente riprenda il vigore, ben s’intende; ma le navi sono anch’esse soggette al contagio? ed in qual vigore esse ritornano coll’ aria pura? Che Achille non solo voglia chiamarsi figlio ma primogenito di Teti, è buona scoperta genealogica per gli antiquarj. Lasciamo la sintassi irregolare di quel no se acuerda de quien soy y quanto &c.; lasciamo quel supongo yo mas, espressione castigliana, sì, ma troppo famigliare per un dramma eroico. Disconviene però al carattere del magnanimo Achille quel gettar motti maligni contro una verità notoria dell’elezione di Agamennone, con dirsi che forse sia stato eletto per capo da pocos hombres. Graziosa è la di lui determinazione di non voler suscitare una guerra civile contraddetta dall’ aria tutta minaccevole, nella quale paragona se stesso al mar tempestoso e medita vendette, e nella seconda parte di essa, che non ha che fare col primo pensiere, si dice,

sin tus perfecciones
serà à mis passiones
dificil la calma,
quando à mi alma
la quietud faltò;

ciò in castigliano potrebbe dirsi una pura quisicosa, ed in francese un galimathias.

Agamennone nella scena 5 domanda a Taltibio se abbia eseguiti i suoi ordini, quando pur vede Briseida ed Achille in quel luogo; ed il servo disubbidiente dice che gli ha enunciati, ma non è passato oltre per compassione, e canta un’ aria di un tronco che cede alla forza ma mostra colla resistenza il proprio dolore, sentenza che quando non fosse falsa, impertinente ed inutile per la musica, sarebbe sempre insipidamente lirica e metafisica. Termina l’atto con un terzetto di Achille, Briseida ed Agamennone (rèstando per muti testimoni Patroclo e gli altri), e con questi versi cantati da tutti e tre,

dioses, que veis la injuria,
vengadme del traidor.

In prima in quest’azione niuno di essi può dirsi un traditore, e l’istesso Agamennone col prendersi Briseida usa una prepotenza una tirannia, ma non un tradimento; pure quando voglia concedersi agli amanti un’ espressione per isdegno men misurata, come mai Agamennone che offende Achille col togliergli l’ amata, può per soprappiù lagnarsi di essere ingiuriato e tradito da Achille?

Stancherò io i miei leggitori con una circostanziata analisi dell’atto II? Contentiamci di accennare che pari meschinità di concetti, trivialità d’espressioni, abuso ed improprietà di termini si trova nel rimanente30. Aggiungiamo solo alla sfuggita che tutte le arie sono stentate, inarmoniche, difettose nella sintassi e contrarie o distanti dal pensiero del recitativo: che vi si trova uguale ignoranza delle favole Omeriche e de’ tragici antichi: che Briseida augura ipocritamente ad Achille che giunga

à gozar del amor de su Ifigenia,

ignorando che la sacrificata Ifigenia per miracolo di Diana ignoto a’ Greci dimorava nel tempio della Tauride: che la stessa Briseida lo prega ad intenerirsi,

y no qual fuerte hierro à tu Briseida
aniquiles, abrases y consumas,

colle quali parole par che attribuisca al ferro le proprietà del fuoco di annichilare, bruciare, consumare: che Achille vuole che gli augelli loquaci siano muti testimoni (los pajaros parleros sean mudos testigos): che il medesimo dice di avere appreso da Ulisse

à despreciar la voz de las sirenas,

la qual cosa non può dire se non con ispirito profetico, perchè Ulisse non si preservò dalle sirene se non dopo la morte di Achille e la distruzione di Troja: che anche profeticamente l’istesso Achille indovina che l’uccisore di Patroclo sia stato Ettore, perchè nel dramma niuno gliel’ ha detto: che Agamennone dice ad Achille che vedrà al campo il corpo di Patroclo

pasto fatal de las voraces fieras,

bugia che contraddice al racconto di Omero che lo fa venire in potere de’ Mirmidoni; nè poi Achille potrebbe mai vedere una cosa già seguita, purchè le fiere a di lui riguardo non vogliano gentilmente differire di manicarselo sino al di lui arrivo: in fine che l’autore dovrebbe informarci perchè Briseida di Lirnesso cioè Frigia di nazione mostri tanto odio contro le proprie contrade a segno di desiderarne l’ annientamento anche a costo di dover ella rimaner priva di Achille? È mentecatta quest’insipida figlia del Frigio Briseo, ovvero il sig. La Cruz? E questa è la Briseida di Don Ramòn La Cruz Cano y Olmedilla &c. &c. I critici nazionali decideranno qual sia il più scempiato componimento di questo secolo tra questa Briseida ed il Paolino di Añorbe y Corregel. Essi investigheranno ancora chi sia quel poetilla ridiculo autor de comedias goticas, todas aplauditas en el teatro, todas detestables à no poder mas, y todas impresas por suscripcion, con dedicatoria y prologo 31.

Il teatro spagnuolo ha un’ altra specie di rappresentazione musicale, cioè la tonadilla e la seguidilla, narrazioni fatte per la musica, che tal volta si distendono a più scene e si cantano anche a due, a tre e a quattro voci. Ecco come le diffinisce nel poema della Musica il sig. Yriarte:

Canzoneta vulgar breve y sencilla,
Y es hoi à veces una escena entera,
A veces todo un acto,
Segùn su duracion y artificio.

Essa però negli ultimi anni si vede passata dalle grazie naturali delle venditrici di aranci, di frutta e di erbaggi, all’elevatezza della musica più seria, ai gorgheggi, alle più difficili volate; di maniera che con mala elezione ha cangiato il proprio carattere, e si vede in una stessa tonada spesso congiunto l’antico ed il moderno gusto, la musica nazionale e l’italiana. Vedasi pure come ne parla il medesimo sig. Yriarte:

Pues uno eleva tanto
El estilo en asuntos familiares,
Que aun suele para rusticos cantares
De heroicas arias usurpar el canto:
Otro le zurce vestidura estraña
De retazos ni suyos ni de España &c.

Riguardo alla poesia l’insipidezza, i delirj, la scempiaggine delle ultime tonadas è giunta all’estremo. In una di esse si sono personificate e introdotte a parlare le due statue di Apollo e Cibele ed il Passeggio del Prado: in un’ altra si personificò la Cazuela e la Tertulia, che sono due palchettoni del teatro32.

II.
Opera Italiana.

L’opera italiana non tradotta si è rappresentata in diversi tempi interrottamente nella penisola. Nel real palazzo del Buen Retiro di Madrid sotto il re Ferdinando VI si cantarono le più famose opere di Metastasio e qualche serenata di Paolo Rolli, da più accreditati attori musici e dalle più celebri cantatrici dell’Italia, senza balli ma con alcuni tramezzi buffi, dirigendone lo spettacolo il rinomato cigno Napoletano Carlo Broschi detto Farinelli da quel Cattolico Sovrano dichiarato cavaliere. La Nitteti del Cesareo Poeta Romano, in cui l’intrigo interessante e le situazioni patetiche vengono arricchite da maravigliose decorazioni ma tutte ricavate dalla natura, fu espressamente composta per tale teatro a richiesta del suo amico Farinelli. Ma questo spettacolo veramente reale, cui venivano ammessi gli spettatori senza pagarne l’entrata, terminò colla vita della Regina Barbara e di Ferdinando VI.

Nel teatro detto de los Caños del Peràl sin dal 1730 si rappresentarono opere buffe, ma dopo alquanti anni vi si recitarono commedie spagnuole, le quali pure erano cessate nel 1765 quando io giunsi in Madrid. Qualche concerto ed opera buffa vi si eseguì di passaggio l’anno stesso in cui si sospesero le rappresentazioni de’ siti reali. Oggi vi si tornano a rappresentare le opere musicali ripigliate sin dal 1786.

In Aranjuez, nell’Escurial, in San Ildefonso e nel Pardo in tempo che vi dimorava la Corte dal 1767 s’introdussero le opere buffe con balli, le quali alternavano colle rappresentazioni francesi tradotte in castigliano eseguite da una compagnia di commedianti Andaluzzi. Ma l’ uno e l’altro spettacolo cessò nel 1776 per divieto sovrano.

In Cadice, in Barcellona, in Saragoza, in Cartagena e talvolta nel Ferol, si è rappresentata ancora alcuni anni l’opera italiana. Anche in Bilbao qualche volta se n’è cantata alcuna ma tradotta in castigliano. In Lisbona sotto il Padre dell’attuale regina fedelissima Maria Francesca l’opera italiana fece le delizie di quella corte.

III.
Teatri materiali.

Iteatri di Barcellona e di Saragoza da me veduti nella fine del 1777 erano più regolari e più grandi di quelli che oggi esistono in Madrid, ma sventuratamente in diverso tempo entrambi soggiacquero ad un incendio che gli distrusse. Sussistono quelli di Lisbona e di Codice.

Madrid ha quattro teatri, cioè quello della Corte nel Ritiro, l’altro de los Caños del Peràl, e quelli detti Corràl del Principe e Corràl de la Crüz.

Del real teatro che prende il nome dal Ritiro su l’architetto Giacomo Bonavia; ma il Bolognese Giacomo Bonavera in compagnia del Pavia lo ridusse nella forma presente tanto per farvi maneggiare le mutazioni delle scene non sopra del palco ma sotto di esso nel comodo e spazioso piano che vi soggiace; quanto per agevolare l’apparenza delle macchine ch’egli inventava. La sua forma è circolare alla foggia moderna con platea e con palchi comodi e nobili, e quello del re sommamente magnifico fu arricchito di belle pitture del fu Amiconi pittore Veneziano assai caro a Ferdinando VI. Non è grande l’ uditorio, perchè si destinò solo a’ ministri, agli ambasciadori, a’ grandi e a’ dipendenti della corte. Ma la scena, eccetto quella di Parma e di Napoli, è una delle più vaste dell’Europa. Essa ha di più il vantaggio singolare di poter far uso del gran giardino del Ritiro che le stà a livello, e dà spazio conveniente alle lontananze e alle apparenze di accampamenti e simili decorazioni. Vi si osservano tuttavia le macchine che servirono per la rappresentazione della Nitteti, cioè un gran sole, la nave che si sommergeva, le macchine che imitavano la grandine, un gran carro trionfale &c.

Il teatro de los Caños si costrusse anche alla foggia moderna con platea e palchetti per rappresentarvisi opere buffe; ma nel 1767 se ne cangiò la forma interiore dall’architetto spagnuolo Don Ventura Rodriguez per uso de’ pubblici balli in maschera. Per acquistar luogo senza alzarne il tetto o ingrandirlo in altra forma, l’architetto pensò a profondarne il pavimento in guisa che per andare alla platea dovea scendersi. Ciò si disapprovò da i più, tra perchè si tolse a chi entrava la prima vaga e dilettevole occhiata di tutta la gran sala illuminata e abbellita dalle maschere, tra perchè il luogo ne divenne assai freddo, umido e nocevole alle maschere vestite di leggiera seta. Oggi ha ripigliata l’antica divisione di scenario ed uditorio per le rappresentazioni musicali.

Rimane a far parola de i due corrales destinati alla commedia nazionale, la cui struttura si allontana da i nostri teatri. Corràl propriamente significa una corte rustica dietro di una casa, e talvolta comune a più casucce di famiglie plebee, ed un tal luogo servì talora nella Spagna per le rappresentazioni sceniche, quando ancora non eranvi teatri fissi. Era natural cosa che le famiglie che abitavano in simili case, avessero il diritto di affacciarsi alle loro finestre, logge, o balconi, e godere dello spettacolo. Quando poi si costruirono gli edifizj chiusi addetti unicamente agli spettacoli scenici, essi presero la forma di quelle case e di quelle corti nella costruzione sì de’ palchi superiori che della platea e dello scenario inferiore, e ritennero il nome di corrales. Madrid ne ha due che appartengono al corpo politico che rappresenta la Villa, come in Napoli la Città, e dalle strade ove essi sono del Principe e della Cruz, chiamaronsi Corral del Principe, Corràl de la Cruz. Ignoro il tempo in cui essi edificaronsi, nè l’autore del Viaggio di Spagna cel fa sapere. Si sa solo che quello de la Cruz più difettoso dell’altro, fu il primo a costruirsi. Entrambi sono un misto di antico e di moderno per la scalinata anfiteatrale e per li palchetti che hanno. La figura di quello del Principe si scosta meno dall’ellittica: dell’ altro è mistilinea, congiungendovisi ad un arco di cerchio due linee che pajono rette perchè s’incurvano ben poco, onde avviene che da una buona parte de’ palchetti vi si gode poco commodamente la rappresentazione. La scena dell’uno e dell’altro è di una grandezza proporzionata agli spettacoli. L’apparato di essa sino a venti anni fa consisteva in un proscenio accompagnato da due telai o quinte laterali, e da un prospetto con due portiere dette cortinas, dalle quali solamente entravano ed uscivano gli attori con tutti gl’ inconvenienti che nuocono al verisimile e guastano l’illusione. Per antico costume compariva in siffatta scena con cortinas un sonatore di chitarra per accompagnar le donne che cantavano, raddoppiandosene la sconvenevolezza, perchè tra’ personaggi caratterizzati secondo la favola e vestiti p. e. da Turchi, da Mori, da Selvaggi Americani, si vedeva dondolar quel sonatore alla francese. Oggi las cortinas hanno ceduto il luogo a varie vedute ben dipinte e convenienti alle azioni rappresentate, ed alla chitarra sparita dalla scena è succeduta una competente orchestra di buoni professori posta, come negli altri teatri moderni, nel piano della platea. I più distinti o ricchi spettatori occupano dopo l’ orchestra quattro file ciascuna di diciotto comodi sedili, e questo luogo chiamasi luneta. Altri spettatori seggono in alcuni scaglioni posti in giro l’uno sopra l’altro a foggia di anfiteatro, che si chiamano la grada. Circonda la fascia superiore di questa scalinata un corridojo oscuro che anche si riempie di spettatori, ed a livello del primo scaglione inferiore havvi un altro corridojo, nel quale v’è gente in parte seduta in una fila di panche chiamata barandilla (ringhiera) ed in parte all’erta. Il rimanente del popolo assiste parimente senza sedere nel piano dopo la luneta chiamato patio (cortile). Le donne di ogni ceto separate dagli uomini coperte dalle loro mantillas seggono unite in un gran palco dirimpetto alla scena, chiamato cazuela che congiunge i due archi della grada. L’uno e l’altro teatro ha tre ordini di palchetti simili a quelli de’ teatri italiani per le dame e altra gente agiata; l’ultimo de’ quali men nobile è interrotto nel mezzo da un altro gran palco chiamato tertulia perpendicolare alla cazuela, dal quale gode dello spettacolo la gente più seria e singolarmente gli ecclesiastici. Attaccati al proscenio havvi due spezie di palchi laterali a livello del corridore della barandilla, chiamati faltriqueras, ovvero cubillos, i quali, in vece di avere il punto di vista verso la scena, girano di tal modo per non impedire la vista a i corridoj, che riguardano al punto opposto, cioè alla cazuela 33.

La capa parda ed il sombrero chambergo, cioè senza allacciare, ancor di cara memoria a’ Madrilenghi, un uditorio con tante spezie di ritirate di certa oscurità visibile, e un abuso di mal intesa libertà, facilitava le insolenze di due partiti teatrali denominati Chorizos y Polacos, simili in certo modo ai Verdi e a’ Torchini dell’antico teatro e del circo di Costantinopoli. Les Chorizos erano i partigiani del teatro della Croce, los Polacos del Principe; ma di tali nomi non potei rintracciare la vera origine, tuttochè ne richiedessi varj eruditi amici che frequentavano i teatri. Alcuno mi disse che il nome di Polacchi venne da un intermezzo, o da una tonada di personaggi Polacchi rappresentata con applauso nell’ultimo teatro; ma nulla di positivo avendone ricavato non mi curai d’insistere più oltre in simili bagattelle. La famosa Mariquita Ladvenant morta son circa ventiquattro anni degna di nominarsi tralle più sensibili e vivaci attrici antiche e moderne rappresentava nel teatro della Croce, e los Chorizos suoi fautori furono da lei distinti con un nastro di color di solfo nel cappello, mentre i partigiani opposti ne presero uno di color celeste. Qualche sconcerto nato tralle due fazioni, e l’ animosità che ne risultava, determinò la prudenza di chi governava a troncare questa scenica rivalità, formando delle due compagnie un solo corpo, una sola cassa e un solo interesse. Rimane oggi di cotali partiti di Chorizos y Polacos appena una fredda serena parzialità, che ad altro non serve se non che a sostenere un momento di conversazione ne’ caffè senza veruna conseguenza34.