(1790) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI « LIBRO X ed ultimo. Teatro Italiano del secolo XVIII — CAPO II. Commedie: Pastorali: Teatri materiali. » pp. 224-253
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(1790) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI « LIBRO X ed ultimo. Teatro Italiano del secolo XVIII — CAPO II. Commedie: Pastorali: Teatri materiali. » pp. 224-253

CAPO II.
Commedie: Pastorali: Teatri materiali.

I.
Commedie.

Tosto che si studiò Moliere, cadde in Italia la commedia romanzesca spropositatamente ravviluppata venutaci d’oltramonte. Il sig. Riccoboni, che avea tradotto anche Tito Manlio tragedia del La Fosse, mostrò tra’ primi in Parigi colle sue giudiziose commedie che la scena comica italiana non si pasce di pure arlecchinate.

Girolamo Gigli Sanese ingegnoso e brillante letterato sin da’ primi anni del secolo consacrò qualche ozio alla poesia comica, insegnando in qual maniera potevano recarsi in italiano le comiche bellezze de’ migliori Francesi, e nel 1704 pubblicò in Venezia i Litiganti, ossia il Giudice impazzito franca ed elegante versione de’ Plaideurs di Racine, e nel 1711 impresse in Roma in tre atti il suo Don Pilone imitata anzi che tradotta dal Tartuffe di Moliere. Egli produsse ancora alcuni piacevolissimi tramezzi, tra’ quali si distinse la sua cantatrice Dirindina.

Contemporaneamente l’erudito Niccolò Amenta Napoletano nato nel 1659 e morto nel 1719 dal 1699 in poi fe recitare ed imprimere le sette sue commedie, la Costanza, la Fante, il Forca, la Somiglianza, la Carlotta, la Giustina, le Gemelle, tutte scritte in bella prosa e con arte comica alla latina, e sul gusto del Porta e dell’Isa. Esse non solo si recitarono con molto applauso in Napoli, ma nel resto dell’Italia, e si tradussero in diverse lingue, e singolarmente quattro di esse in inglese da Dorotea Levermour62.

Isabella Mastrilli duchessa di Marigliano col Prodigio della Bellezza impressa nel 1703, il dottor Annibale de’ Filippi da Serino colla commedia de’ Due Bari pubblicata in Firenze nel 1705, Pietro Piperni Beneventano colla Contadina Marchesa uscita nel 1702, Niccolò Salerno col Gianni Barattiere data in luce nel 1717, mostrarono il valor comico de’ regnicoli anche sull’incominciar del secolo. Ma la grazia inimitabile di Gennarantonio Federico Napoletano morto dopo il 1750, e singolarmente la verità delle dipinture che faceva de’ caratteri e de’ costumi, e la bellezza della patria locuzione, non faranno mai perire le sue commedie li Birbe, e lo Curatore.

Il marchese Maffei con due commedie in versi il Raguet e le Cerimonie regolari e bene scritte combattè due difetti correnti, cioè il corrompimento del patrio idioma coll’ affettato barbaro uso delle formole francesi, e l’importunità rincrescevole de’ molesti complimenti vuoti di verità.

Giulio Cesare Beccelli di lui compatriotto ed ammiratore dal 1740 al 1748 pubblicò in Verona e in Roveredo sette commedie: i Falsi Letterati, l’Ingiusta Donazione, ossia l’ Avvocato, l’Agnese di Faenza in versi, la Pazzia delle pompe, i Poeti Comici, e l’ Ariostista e il Tassista, nelle quali col gusto che richiede la buona commedia si dipingono e si motteggiano graziosamente le ridicolezze e i difetti correnti a’ giorni suoi nella letteratura pedantesca.

Il grazioso Giambatista Fagiuoli compose in Firenze molte commedie in prosa ingegnose e dilettevoli, nelle quali egli stesso solea rappresentare felicemente il piacevole carattere di Crapo contadino Fiorentino. La regolarità, il falso motteggiare, la naturalezza de’ ritratti ne costituiscono il merito, e gli procacciarono gloria ed encomj appo gl’ intelligenti e i volgari.

In prosa dettò pure il dottor Jacopo Angelo Nelli le tre sue commedie impresse in Lucca nel 1751, i Vecchi Rivali, la Moglie in calzoni, e la Serva Padrona, nelle quali con sale comico satireggia alcuni vizj popolari. Son parimente scritte in prosa le quattro commedie ridicole e regolari di Simone Falconio Pratoli, la Commedia in commedia, il Podestà del Malmantile, il Furto onorato, e la Vedova: in prosa scrisse pure Vincenzo Martinelli il suo Filizio Medico commedia mentovata dal Maffei e pubblicata nel 1729: in prosa compose il marchese Girolamo Teodoli la sua Marchesa di Pratofalciato in cui dipinge i costumi correnti, benchè con qualche languidezza nell’azione.

Domenico Barone marchese di Liveri, e l’insigne Pasqual Gioseffo Cirillo verso la metà del secolo si fecero ugualmente ammirare in Napoli colle loro commedie benchè calcassero contrario sentiero. Il marchese cominciò a fiorire verso il 1740, ed avendo avuta la sorte di rappresentare le sue commedie alla presenza del Gran Carlo III per molti anni, le comunicò al pubblico per le stampe dal 1741 al 1750 in circa. Eccone i titoli: l’Abate, il Governadore, il Corsale, il Gianfecondo, la Contessa, la Claudia, il Cavaliere, gli Studenti, il Solitario, l’Errico. Esse sono tutte romanzesche nell’intreccio, piene di colpi di scena, e di situazioni inaspettate, e terminano con più paja di nozze. Ma vi si dipingono con mirabile esattezza i costumi e le maniere correnti, il ridicolo vi si rileva con grazia e maestria, e la locuzione ne’ personaggi napoletani ha somma piacevolezza e verità, là dove ne’ toscani si vede qualche stento per le frequenti trasposizioni aliene dall’indole della lingua e dal genere comico, e per alcune maniere di dire toscane ma non toscanamente collocate. Chi però fu esempio al Liveri, o chi potrà seguirlo nell’imitare con indicibile verisimiglianza e nel decoro che caratterizza la sua commedia? chi nell’esatta proprietà del magnifico apparato scenico che ne anima l’azione? Un’ adunanza grande di cavalieri, come nella Contessa: un abboccamento di due gran signori col seguito rispettivo, come nel Solitario: una scena detta del padiglione nell’Errico, che metteva sotto gli occhi una corte reale in attenzione di un gran fatto: i personaggi aggruppati con verità e bizzarria pittoresca, che tacendo e parlando facevano ugualmente comprendere i loro propositi particolari senza confusione: fin anco l’indistinto mormorio che nulla ha di volgare, prodotto da una polita moltitudine raccolta insieme: tutte queste cose quando più si vedranno sulle scene comiche? L’ artifiziosa veduta della scena era di tal modo congegnata per indicarvi a un tempo diverse azioni e più colloquj contemporanei che presentava l’ immagine parlante di una parte della città o di una gran casa &c. e sbandiva dal palco l’inverisimile desolazione delle gran piazze e contrade; là dove in ogni altro paese per un ridicolo miracolo poetico si veggono sempre i soli due o tre personaggi che piace allo scrittore d’introdurvi. I Greci non cadevano in tale inverisimiglianza pel coro fisso; ma Liveri privo di simil presidio introduceva i suoi personaggi a favellare senza rendere le strade solitarie, la qual cosa dee osservarsi nella lettura di esse colla descrizione della scena. Il chiar. sig. Carlo Goldoni stimò di aver compreso dalla fama che ne correva, la maniera di sceneggiare Liveriana, e volle provarsi nel suo Filosofo Inglese a porre in vista più azioni ad un tratto; ma nell’imprimerlo ci avvertì che niuno gli avea detto bravo per questo. Narrandoci quest’indifferenza dell’uditorio Veneto, volle tacitamente insinuare l’inutilità dell’artificio Liveriano, in vece di dedurne, come dovea, di aver formata una copia infelice di un buono originale. Si occupò il Goldoni tutto nella meccanica esteriore, e non si avvide che mancava alla sua imitazione l’anima che dovea serpeggiarvi. Quest’anima che tutto opera in simili posizioni consiste in renderle verisimili, naturali e necessarie; e tutto ciò manca all’ imitazione che ne fece nel suo Filosofo. E che parte poteva prendere lo spettatore al freddo giuoco di Lorino con Madama? alla cena che fa il di lei marito sul balcone? Che verità si scorge nel situare tali personaggi, senza verun perchè e fuori del loro consueto modo di vivere, a giocare e a cenare dove mai ciò non fecero? Sono poi queste azioni per se in alcun modo importanti? Hanno alcun rapporto necessario col fatto del Filosofo? Quando questa insipida disposizione di figure non è che semplice disposizione, diviene una violenza inutile che si fa alla verità, per addormentar lo spettatore in vece di riscuoterne de’ bravi.

Il celebre sig. Cirillo gran letterato ed avvocato e cattedratico grande senza la pompa delle favole Liveriane richiamò sulle patrie scene le bellezze e gli artifizj comici di Menandro e di Terenzio. Scrisse, per quanto io so, tre sole commedie interamente, cioè: il Notajo o le Sorelle rimasta inedita; la Marchesa Castracani eccellente pittura della vanità plebea che aspira a sollevarsi dal fango e vi ricade con accrescimento di ridicolezza, impressa senza saputa dell’autore e imbrattata con aggiunzioni d’altra mano; ed il Politico rimasta inedita, che io vidi solo accennata a soggetto, come sono tante altre sue favole, il Saturno, il Metafisico, i Mal’ occhi, il Dottorato, il Salasso, l’Amicizia &c.

Ad esempio or del Liveri or del Cirillo scrissero altri Napoletani senza farli dimenticare. Tali sono l’erudito sacerdote Giovanni Tucci autore di due commedie inedite la Ragione, ed il Dovere: Don Gioacchino Landolfi che scrisse Don Tiberio Burlato, il Cassettino, e la Contessa Sperciasepe: Don Giuseppe Sigismondo che ha prodotto Donna Beatrice Fischetti, ovvero i Figliastri impressa dopo il 1770, il Fantasma che è il Tamburro Notturno del 1773, l’Alchimista, ed il Matrimonio per procura del 1777, nelle quali regna un ridicolo di parole che spesso si vorrebbe che non derivasse da idee di schifezze o di oscenità: il degno scrittore della Storia Civile e Politica del Regno di Napoli Carlo Pecchia compose l’Ippolito uscita nel 1770, nella quale si ammira una mano maestra nel rilevare il mal costume e le massime perniciose che nascono dall’educazione; ma le tinte tragiche mescolate alle grazie comiche ne rendono ambiguo il genere.

Francesco Grisellini Veneziano nel 1754 diede alla luce una commedia in Roveredo che nominò Libertapoli, su i Francs-Maçons con questo titolo: I Liberi Muratori commedia in prosa di Ferling Isac Creus fratello operajo della Loggia di Danzica. Nel 1739 si pubblicò in Venezia e si reimpresse in Napoli nel 1740 una favola curiosa, che mescola a molti tratti di farsa la piacevolezza comica contro i ciechi partigiani del linguaggio cruscante. S’intitola il Toscanismo e la Crusca, o sia il Cruscante impazzito tragicommedia giocosa. Uscì in Firenze nel 1760 i Letterati commedia nuova, nella quale un goffo mercante fallito asino in tutti i sensi è costretto dalla fame a passar per filosofo e Principe de’ Letterati in forza di un gergo neologico inintelligibile e di una scienza libraria di distinguere al tatto i libri del XV e del XVI secolo. Un mercenario Dottor Falloppa Giornalista Antiquario vorrebbe alla prima screditarlo, ma M. Torchio fautore dell’ignorante guadagna in questa guisa il Giornalista:

Torc.

Avreste difficoltà a metterlo nel vostro Giornale de’ Letterati?

Fall.

Che dite mai, Messer Torchio? E la buona fede d’un Giornalista? e l’onore della Letteratura ..? Non posso certo.

Torc.

Non potete? Non occorre altro.

Fall.

Aspettate, e ditemi per grazia; mi sapreste insegnare dove potrei trovare dodici bottiglie di vin vecchio di Cipro, che ho finito il mio?

Torc.

(Ho inteso) Vi sarà il vino di Cipro

Fall.

Oh non dico per questo: ma se aveste anche due libbre di caffè puro d’Alessandria . . . .

Torc.

(Che indiscreto!) Vi sarà anche il caffè.

Fall.

E sei libbre di cioccolata” . . . ec.

Falloppa persuaso scrive il seguente paragrafo: È arrivato in questa città un gran letterato . . . . possiede varie cognizioni, e particolarmente diverse scienze utili all’umana società; nel foglio venturo si darà notizia delle sue opere stampate e da stamparsi, che faranno grande onore alla Letteratura Italiana. Torchio gli dice: Questo è troppo; è un ignorante; cosa volete che stampi? Non importa, replica Falloppa, queste sono le formalità solite di noi Giornalisti.

Il chiaro Agatopisto Cromaziano volle nel 1754 pubblicare in Faenza in varj sdruccioli i Filosofi Fanciulli che chiamò commedia filosofica. Vi adopera tutto il sale Aristofanesco e Plautino per ridersi de’ Filosofi d’ogni aria e d’ogni secolo, com’ egli dice nel Prologo, e soggiugne:

Verran per ora Egizj, e Babilonici,
Traci, Milesj, Clazomenj, ed Attici;
E poi verranno ancor su queste tavole
Angli, Germani, Franchi, Ispani, ed Itali &c.

Vi campeggia gran piacevolezza di motteggi e tutta l’erudizione abbondevolmente seminata nelle Annotazioni.

Terenzio ha avuto nel nostro secolo un ottimo traduttore in mons. Niccolò Fortiguerra; e più d’un letterato ha preso a recare in italiano o tutte o parte delle commedie di Plauto. Il nostro sig. Angelio tutte le ha tradotte in Napoli con particolare accuratezza ed intelligenza de’ due idiomi. Il sig. Rinaldo Angelieri Alticozzi ne fece italiane tre, intitolandole il Testone, i Due Schiavi, e i Gemelli impresse nella Biblioteca teatrale di Lucca. Il sig. conte Aurelio Bernieri di Parma ne ha tradotto il solo Trinummo chiamandolo i Tre oboli, in cui adoperò un nuovo verso di dodici sillabe, come il seguente

Questa più d’altra leggiadra e più pudica,

ad imitazione di quello che usarono gli Spagnuoli del XV secolo, che Antonio Minturno nel XVI propose agl’ Italiani, quando a gara si cercava un verso che equivalesse all’antico giambico.

Mentre tante commedie tutte regolari e piacevoli ed ingegnose per lo più componevansi da’ letterati, il teatro istrionico in Lombardia e singolarmente in Venezia non sapeva privarsi delle mostruosità e delle maschere. Nato in tal città il celebre sig. avvocato Carlo Goldoni l’ anno 1707, che in età di otto anni fece una commedia, convinto in seguito delle irregolarità delle compagnie comiche Lombarde, educato dalle lettere a miglior gusto, ed avendo per buona sorte sin dall’età di 17 anni avuta nelle mani la Mandragola del Macchiavelli che lesse dieci volte, non tardò molto a desiderarne la riforma63. Questo buon pittore della natura, come a ragion veduta l’ appellò Voltaire, prima di fare assaporar agl’ istrioni la commedia di carattere da Macchiavelli sì di buon ora mostrata sulle scene di Firenze, servì al bisogno ed al mal gusto corrente: entrò poi nel camin dritto sulle orme di Moliere: deviò in seguito alquanto alterando ma con felice errore il genere: e terminò di scrivere pel teatro additando a Francesi stessi la smarrita via della bella commedia di Moliere. Queste sono l’epoche delle favole Goldoniane. Amalasunta tragedia lirica, Belisario, Rosimunda, Rinaldo di Montalbano, mostri scenici cari ed utili a’ comici, furono da lui alla meglio rettificati, e l’occuparono intorno al 1734. L’Uomo di mondo ed il Prodigo a soggetto entrambe, la Donna di garbo scritta interamente, ed il Servo de’ due Padroni argomento suggeritogli dall’eccellente arlecchino Antonio Sacchi, lasciarono intravedere il genio che per gradi si andava disviluppando. Il Figlio d’Arlecchino perduto e trovato, il Mondo della Luna, le Trentadue Disgrazie di Arlecchino, i Cento e quattro Avvenimenti non furono che farse piacevoli destinate a far valere l’Arlecchino. Savie critiche soffersero l’Uomo prudente, i Gemelli Veneziani, il Poeta Fanatico, l’Incognita, il Padre di famiglia. La mano del buon pittore si vede nella Locandiera, nelle Donne Puntigliose, nella Vedova Scaltra, nel Moliere, nelle Donne Curiose, nella Serva amorosa, nella Figlia obediente, ne’ Puntigli domestici, nel Filosofo Inglese, nel Feudatario, nell’Avventuriere onorato, nel Ciarlone imprudente &c. &c. Ma chi non vede il maestro nella Putta Onorata, nella Buona Moglie, nel Caffè, nel Cavaliere e la Dama, nella Pamela, nell’Amante Militare, nell’ Avvocato Veneziano? Lasciamo alla rigorosa critica di notare le lunghe aringhe morali de’ Pantaloni, i motti talvolta scenici, qualche deferenza agli attori, la non buona versificazione, le mutazioni di scena in mezzo agli atti ec. e veggiamo noi in queste i quadri inimitabili de’ costumi correnti, la verità espressiva de’ caratteri, il cuore umano disviluppato. L’anno 1753 cercando sempre nuovi argomenti e nuove vie di piacere coll’ accoppiar lo spettacolo alla piacevolezza e all’interesse, compose la Sposa Persiana, e negli anni susseguenti Ircana a Julfa ed Ircana a Ispahan che ne seguitano il romanzo, tutte e tre in cinque atti ed in versi martelliani. Comunque debbano esser chiamate o commedie lagrimanti o rappresentazioni tragicomiche (perocchè alle ridicolezze di Curcuma vi si congiungono situazioni tragiche, gran passioni e pericolosi contrasti) esse riuscirono prodigiosamente sulle scene. Questo fecondissimo scrittore di 150 commedie cui tanto debbono le scene Veneziane e che fa tanto onore all’Italia già vicino a smascherare e a guarire i comici, ebbe a soffrire tante guerre suscitate da’ partigiani del mal gusto e dagl’ invidiosi di mestiere, che annojato dell’ingiusta persecuzione cesse al tempo e cangiò cielo. L’accolse Parigi nel 1761 ove tuttavia mena in tranquillità i dì che gli rimangono di vita. Quivi ebbe agio di ritornare alla commedia di carattere e col Burbero benefico (le Bouru bienfaisant) che gli produsse oro ed onore, col Curioso accidente e col Matrimonio per concorso mostrò a quella culta nazione quanto erasi dipartita dalla buona commedia colle sue rappresentazioni lugubri.

Se l’ab. Pietro Chiari già morto da più anni avesse, come gli conveniva, secondato le sagge vedute del Goldoni migliorandolo soltanto nella lingua, nella versificazione e nella vivacità dell’azione; il teatro istrionico non sarebbe ritornato agli antichi abusi e le maschere inverisimili si sarebbero convertite in comici caratteri umani graziosi e piacevoli. Ma egli volle incoraggire i comici a non deporle fornendoli di commedie fatte a tale oggetto, e di rappresentazioni romanzesche piene di colpi teatrali per cattar maraviglia. I suoi drammi di Koulican, le sue Sorelle Cinesi sono scritte su queste idee. Egli verseggiava meglio del Goldoni, ma non avea il di lui pennello. Un gondoliere Veneziano che cambiò il remo colla penna, la gondola pel tavolino, scrisse anche commedie in versi martelliani.

Mentre dividevasi il popolo tra Goldoni e Chiari comparve il conte Carlo Gozzi che finì di ristabilire tutte le passate stravaganze del Veneto teatro istrionico. Da prima questo letterato pieno d’ingegno quasi scherzando prese a combattere i due competitori, e si contentò di provar col fatto che il concorso del popolo non era argomento sicuro della bontà de’ loro drammi. E per conseguirlo ricorse al solito comune rifugio del maraviglioso delle machine e trasformazioni e degl’ incantesimi molla sempre attivissima su gli animi della moltitudine. Riuscì dunque nell’intento che si prefisse, e si fissò poi seriamente alle sue Fiabe. Scrisse dunque: il Corvo, il Re Cervo, l’Oselin bel verde, i Pitocchi, i Tre Aranci, il Principe Jennaro, il Mostro Torchino, la Dama Serpente. Notabile è l’arte adoperatavi dall’industre autore, imperciocchè le perturbazioni tragiche, le piacevolezze comiche, le favole anili, le metamorfosi a vista, un fondo di eloquenza poetica e di riflessioni filosofiche concorsero a formar que’ mostri lusinghevoli che seducevano il popolo Veneziano, ed ebbero un imitatore nel sig. Giuseppe Foppa.

Sembra che a toglier forza al falso argomento del conte Gozzi patrocinatore delle irregolarità e stravaganze, uscisse da Bologna una nuova luce per richiamare il popolo alla buona commedia. Il chiar. sig. marchese Francesco Albergati Capacelli, oltre alle pregevoli traduzioni delle tragedie francesi, calcando il dritto sentiero ha in più volumi pubblicato in Venezia un Nuovo Teatro Comico composto di favole grandi e picciole in versi ed in prosa. Singolarmente se ne ammirano il Saggio Amico, il Prigioniero, l’Ospite infedele, i Pregiudizj del falso onore &c., dalle quali i comici Lombardi hanno colto tanto frutto che dovea guarirli da’ loro invecchiati pregiudizj; e l’Italia prende da esse nuova speranza di vedere ristabilito e condotto a perfezzione il sistema del sig Goldoni.

Il Real Programma di Parma che coronò cinque tragedie ed in tanti altri Italiani ridestò lo spirito tragico, non ci ha prodotte che tre sole commedie. È ciò forse avvenuto perchè non tutti si adattano a scrivere commedie in versi o senza esser deboli o bassi, o senza elevarsi alla nota tragica? O perchè maggior difficoltà s’incontra in iscerre i tratti più espressivi dal vastissimo campo della natura, come dee fare il comico, che in calcare le orme del picciol numero de’ buoni scrittori che il tragico prende a modelli? O perchè i grandi affetti son sottoposti a minor variazione col correre dell’età, là dove i costumi, i caratteri, le maniere, cangiano sì spesso foggia e colore, ond’è che gli scrittori comici passati possono di poco soccorrere i presenti? O finalmente perchè, come l’addita Orazio, la commedia porta seco un peso tanto maggiore quanto minore è l’indulgenza con cui è riguardata? Ecco intanto le tre commedie coronate in Parma: il Prigioniero già mentovato del marchese Albergati onorato colla prima corona del 1774: la Marcia del sig. ab. Francesco Marrucchi che nel 1775 ottenne la seconda corona: e la Faustina di Pietro Napoli-Signorelli cui si assegnò la prima corona del concorso del 177864. Questa commedia lontana dalle favole di Mercier quanto è dalla sapienza e dalla veracità l’autor del Colpo d’occhio, è nel genere tenero concesso. al comico. L’autore scrisse in seguito nel medesimo genere la sua Rachele ovvero la Tirannia domestica un anno dopo, ma che rimane ancora inedita riserbata a veder la luce da quì a poco insieme colla Faustina e con la Critica della Faustina, commedia di un altro carattere.

Terminiamo il racconto de’ nostri poeti comici col fecondo prelodato sig. conte Pepoli che ha saputo conservare alla musa comica il festevole borzacchino. Ne’ quattro tomi da me veduti del suo Teatro ha publicate quattro commedie in prosa, l’Impressario di due atti dipintura molto comica e naturale in ciascun personaggio introdotto: i Pregiudizj dell’amor proprio in tre atti, i cui caratteri sono più studiati di quelli che presenta la natura: la Scommessa, ossia la Giardiniera di spirito parimente in tre atti, la quale supplisce colla scaltrezza all’effetto che fanno Pamela e Nanina coll’ amore, e con poco fa perdere la scommessa alla Baronessa tirando il Contino di lui nipote a sposarla: i Pazzarelli ossia il Cervello per amore in due atti con ipotesi alquanto sforzate e con disviluppo non troppo naturale, che però è una piacevole dipintura di que’ vaneggiamenti che se non conducono gli uomini a’ mattarelli, ve gli appressano almeno. Havvi nel tomo V altre due commedie di questo illustre autore, il Bel Circolo ossia l’Amico di sua moglie, ed il Progettista, nelle quali ben presto ci auguriamo di potere ammirare, come nelle precedenti, la vivacità, il salso motteggiare, e l’arte di ben rilevare il ridicolo de’ caratteri.

II.
Pastorali.

Non sono del gusto del nostro secolo le favole pastorali. Appena possiamo nominarne alcuna benchè d’indole troppo diversa dall’Aminta. Pier Jacopo Martelli compose la Rachele in miglior metro delle sue tragedie: Alessandro Guidi l’Endimione con ariette musicali, il cui piano ed alcuni versi dicesi appartenere alla famosa regina Cristina di Svezia: la Sulamitide di monsignor Ercolani vaga parafrasi della Cantica: l’Antillide di Antonio Bravi pubblicata in Venezia nel 1744, e poi in Verona riformata nel 1766: l’Amore eroico tra’ Pastori del cardinal Pietro Ottoboni: la Morte di Nice del Pastore Arcade Panemo Cisseo del 1754: il Paradiso terrestre del conte ab. Giambatista Roberti morto nel 1786.

III.
Teatri materiali.

Tra’ primi teatri costruiti in questo secolo contasi quello di Mantua edifizio magnifico eretto nel 1706 con disegni del rinomato architetto Francesco Galli Bibiena; ma sventuratamente a’ 19 di maggio del 1781 s’ incendiò.

Il medesimo architetto sotto la direzione del marchese Maffei eresse il teatro di Verona, che senza dubbio ha diversi vantaggi sopra molti teatri moderni. La curva che forma la periferia interiore della platea, si va allargando a misura che si avvicina alla scena: i cinque ordini di palchetti sono disposti in modo che i più lontani dalla scena sporgono più in fuori; idea che il Galli Bibiena trasse da Andrea Sighezzi scolare del Brizio e del Dentone65. Ora è chiaro che tanto la curva della platea, quanto l’artificio de’ palchetti contribuiscono a vedere e ad udire. L’orchestra divisa dalla platea allontana dagli ascoltatori la molestia dello strepito vicino degli stromenti. Le porte onde si entra in teatro, sono laterali e non dirimpetto alla scena, la qual cosa produce il doppio vantaggio di non indebolire la voce, e di non togliere il miglior luogo da godere la rappresentazione.

Il teatro inalzato in Venezia in questo secolo è quello di San Benedetto, al cui interiore comodo e decente non corrisponde la figura che si allontana dalla regolare degli antichi.

Antonio Galli Bibiena figliuolo di Ferdinando architettò il teatro di Bologna terminato l’anno 1763. La sua figura di una sezione di campana non a torto vien chiamata infelice nell’opuscolo Del Teatro. Gl’ intelligenti disapprovano questa campana chiamata fonica. Una falsa analogia, come notava l’Algarotti, ha suggerito un pensiero sì mal fondato. Deriva da questa figura lo svantaggio di ristrignersi lo spazio della platea e d’ impedire a parecchi palchetti la veduta della scena. La lunghezza della platea è di 62 piedi e la larghezza nel proscenio di 50 in circa. Vi sono cinque ordini ciascuno di 25 palchetti, oltre a un recinto intorno alla platea alto quattro scalini riparato da una balaustrata.

Imola ha un teatro costruito dal cavalier Cosimo Morelli, la cui figura ellittica contiene il palco e la platea, la quale occupa uno spazio doppio del palco, e vi si veggono quattro file ciascuna di 17 palchetti.

Uno de’ famosi teatri italiani è il Reale di Torino edificato nel 1740 dal conte Benedetto Alfieri. La sua figura è ovale, contiene sei ordini di palchetti, nel secondo de’ quali è il palco di S. M., e la platea ha 57 piedi di lunghezza e 50 di larghezza. Sotto l’ orchestra vi si è fatto un vuoto con due tubi all’estremità che sorgendo sino all’altezza del palco scenario serve a spandere i suoni e le voci più rotonde e sonore. Gl’ ingressi, le scale, i corridoi sono magnifici.

Il teatro degli Aliberti in Roma costruito da Ferdinando Bibiena, e quello di Tordinona eretto da Carlo Fontana, appartengono allo scorso secolo, benchè quest’ultimo siasi restaurato sotto Clemente XII. Il teatro di Argentina eretto nel nostro secolo dal marchese Girolamo Teodoli ha sei ordini di palchetti. La sua figura irregolare, cioè a ferro di cavallo, ha 51 piedi nel maggior diametro, e 46 nel minore. L’ antico teatro di Marcello che in parte sussiste ancora, dicono gl’ intelligenti, nulla ha influito nella costruzzione de’ moderni teatri Romani.

Esistono in Napoli diversi teatri, tuttochè siensi convertiti quello di San Bartolommeo in una chiesa ed il teatrino detto del Vico de la lava o della Pace in un collegio; e tuttochè non sia ancor terminato quello che sin dallo scorso anno 1789 si stà edificando nel sito detto Ponte Nuovo. Il più antico degli esistenti è quello de’ Fiorentini così detto per la vicinanza della chiesa di San Giovanni de’ Fiorentini. Sconcia n’era la figura di un arco congiunto a due lunghe rette laterali sproporzionatamente più lunga che larga; e tutto il rimanente scale, ingressi, corridoi, camere dietro la scena indicava meschinità. Oggi tutto è decente e ragionevole sin dal 1779 che si rifece dall’architetto Napoletano Scarola. Egli ne migliorò la figura rendendola semicircolare, ed acquistò luogo per ogni cosa coll’ industrioso partito di cangiare il sito della scena, collocandola sulla retta che faceva la larghezza della prima platea, là dove allora era posta sulla lunghezza quadrupla almeno dell’antica larghezza.

Il Teatro Nuovo chiamato, costruito al di sopra della strada di Toledo alle vicinanze della chiesa di Monte Calvario, fu opera nel suo genere mirabile del Napoletano Domenico Antonio Vaccaro figlio dell’eccellente scultore ed architetto Lorenzo Vaccaro. Chi avrebbe creduto possibile quel che pur si vede, che in una pianta di soli palmi 80 in circa per ogni lato, si costruisse un teatro con cinque ordini di palchetti di tal simetria e di forma sì giusta che da per tutto vi si godesse acconciamente lo spettacolo? L’ industria dell’abile architetto supplì all’angustia del sito, e vi si accomodano agiatamente mille spettatori66. Oggi si vede abbellito e migliorato ne’ corridoi e nelle scale.

Un miracolo opposto a quello del Vaccaro ha fatto nel 1779 don Francesco Seguro architetto Siciliano, inalzando in faccia al già in parte diroccato Castello Nuovo nella strada che mena al passeggio del Molo un teatro che ha preso il nome dal Fondo di separazione de’ lucri. Con una piena libertà d’immaginare ed eseguire a suo modo, con un sito ampio e d’ogni intorno sgombro di ostacoli e di abitazioni, con la magnificenza di un Sovrano come Ferdinando IV che ne forniva la spesa, ha formato un teatro con una facciata pesantissima, non ampio, non magnifico, non comodo per vedere ed esser visto, non armonico all’ udire; mentre la più eccellente musica de’ Sarti e de’ Paiselli perdevi due terzi della nativa squisitezza, anche per gl’ interpilastri che dividono ciascun palchetto, e per tanti intagli e centinature. E quando avrà un artista più fortunate circostanze per segnalarsi?

Ma il Real teatro di San Carlo costruito col disegno del brigadiere Giovanni Metrano nel 1737, edifizio magnifico in soli sei mesi fatto eseguire per l’attività di Angelo Carasale, dopo tanti teatri eretti in Europa nel nostro secolo conserva ancora sopra tutti il primato. La sua figura è di un semicircolo, i cui estremi si prolungano in linee quasi rette, che si accostano avvicinandosi alla scena. Il diametro maggiore dell’uditorio è di piedi parigini 73 in circa, ed il minore di 67. Havvi sei ordini di comodi magnifici palchetti al numero di 28 nel 4 e 5 ordine, e di 26 ne’ tre primi, e nel bel mezzo del secondo ordine si eleva il gran palco veramente reale e degno del Sovrano per cui si fece, e dell’Augusta Coppia che oggi forma la felicità de’ nostri paesi, e l’ornamento più caro de’ nostri scenici spettacoli. Edificato tutto di pietra, tutto nelle ampie scale, ne’ corridoi, ne’ vestiboli, ne’ tre ingressi, spira grandezza e magnificenza. Il proscenio corrisponde a tanta splendidezza, e sino il gran telone che copre la scena prima d’incominciar l’opera dipinto a sughi d’erba su per lungo tempo un grato spettacolo anch’esso. Nuoce intanto all’ illusione la giunta fatta dal Fuga ne’ lati della bocca della scena di alcuni palchettini, da’ quali comincia a rubarsi una parte delle voci prima di spandersi pel teatro. Nè anche è da approvarsi che il palco scenario sporga in fuori nella platea per molti piedi, convenendo allo spettacolo che gli attori, come diceva l’Algarotti, stiano, al di là dell’imboccatura del teatro, dentro alle scene, lungi dall’occhio dello spettatore, per far parte anch’essi del dolce inganno a cui il tutto è ordinato. In oltre con mal consiglio sono alquanti anni che vi si è aggiunto un altro splendido ornamento che diletta al vedere e nuoce all’udire. Un vuoto di tanta ampiezza ed arricchito di spaziosi corridoi e compartito in tanti palchi che equivalgono a comodi stanzini, è per se poco favorevole alle voci umane che non sieno tramandate per mezzo di qualche tromba parlante; or perchè aumentare le difficoltà da formontarsi? Ciò si fece con abbellirlo interiormente tutto di cristalli e di festoni pendenti di dipinta tela o di cartoni che siansi. Nelle serate specialmente di grande illuminazione que’ cristalli, que’ festoni, quell’oro, que’ torchi senza numero, i lumi copiosi de’ palchetti riverberati e in mille guise moltiplicati dalle scintillanti gemme di tanta nobiltà, cangiano la notte nel più bel giorno, e l’uditorio in una dimora incantata di Circe o di Calipso superiore allo spettacolo del palco scenario. Ma nel tempo stesso le voci e le delicatezze musicali non incontrano ne’ riferiti festoni la necessaria elasticità e resistenza che la rimandi e diffonda, e la prodigiosa quantità de’ torchi dell’illuminazione del palco e della platea consuma tant’aria, e tanta ne rarefà che si minora e s’ indebolisce la causa del suono e della voce; e quindi si perde grandissima parte delle più squisite inflessioni armoniche.

I difetti notati ne’ più gran teatri moderni mostrano la difficoltà della soluzione del problema, far un teatro che compiutamente soddisfaccia a i due sostanziali oggetti, comoda veduta e conservazione della voce nell’interiore del teatro. Se ne sono occupati di proposito e scientificamente il conte Enea Arnaldi Vicentino nell’opera Idea di un Teatro nelle principali sue parti simile a’ teatri antichi all’uso moderno accomodato in Vicenza 1762: l’Anonimo nel trattato Del Teatro impresso in Roma del 1772: il nominato Vincenzo Lamberti nella Regolata Costruzione de’ Teatri stampata in Napoli nel 1787. Chi di loro l’ha meglio risoluto? É permesso a chi non è architetto l’ avventurare il suo avviso in pro del teatro dell’ Anonimo?