(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [A] — article » pp. 203-211
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [A] — article » pp. 203-211

Armani Vincenza. Probabilmente essa fu figlia dell’arte, e nacque a Venezia, ove sua madre, incinta, era a recitare : questo il parere del D’Ancona, il quale cita al proposito i vari comici D’Armano, dei quali si parla più oltre.

Le notizie della sua vita abbiam particolareggiate nell’orazione di Adriano Valerini (V.), della quale discorriamo a lungo, e nell’opera più volte citata del D’Ancona. Il Garzoni ne loda il valore artistico, e Fr. Bartoli prende tutto dal Valerini stesso ; se non che, la fa esordire a Modena, mentre il Valerini non ce ne dice nulla, ed esclude perfino Modena dalle città annoverate, nelle quali essa colse tanta messe di lodi. Dell’Armani, bellissima, s’innamorò uno de’principi Gonzaga ; e Don Antonio Ceruto, giureconsulto e poeta, in un suo passo riportato dal D’Ancona, dice :

heri il signor Federico da Gazuolo venne posta a Mantova per menar seco la comediante Vincenza a solazzo ; ma la cattivella dubitando de non vi lasciare in un punto l’acquisto di molti mesi, fatto con sudore, fingendo di hauer un certo sdegno con lui, si riparò bravamente, e lui a guisa della donna del corso, subito tornò in dietro, bravando et bestemmiando, non essendogli restato altro che la lingua per potersi vendicare.

Nel 1567 a Mantova recitavan due compagnie, una colla Flaminia e l’altra colla Vincenza ; chi lodava questa, chi quella : c’era gran fermento nel pubblico, e il Rogna, citato dal D’Ancona, in una lettera del 6 luglio ne parla assai chiaramente, descrivendo con particolari interessantissimi l’allestimento scenico delle due compagnie.

Non hieri l’altro la Flaminia era comendata per certi lamenti che fece in una tragedia che recitorno dalla sua banda, cavata da quella novella dell’Ariosto, che tratta di quel Marganone, al figliuolo sposo del quale, la sposa, ch’era la Flaminia, sopra il corpo del primo suo sposo, poco dianzi amazzato in scena, per vendetta diede a bere il veleno dopo haverne bevuto anch’essa, onde l’uno et l’altro mori sopra quel corpo, et il padre, che perciò voleva uccidere tutte le donne, fu dalle donne lapidato et morto.

La Vincenza, all’incontro, era lodata per la musica, per la vaghezza degli habiti et per altro, benchè il soggetto della sua tragedia non fosse e non riuscisse cosi bello. Heri poi, a concorrenza e per intermedii, in quella della Vincenza si fece comparire Cupido, che liberò Clori, nimpha già convertita in albero. Si vidde Giove che con una folgore d’alto ruinò la torre d’un gigante, il quale havea imprigionati alcuni pastori ; si fece un sacrificio : Cadmo seminò i denti, vidde a nascer et a combatter quelli huomini armati : hebbe visibilmente le risposte da Febo, et poi da Pallade armata, et in fine cominciò a edificar la città. La Flaminia poi, oltre l’havere apparato benissimo quel luogo de corami dorati, et haver trovati abiti bellissimi da nimpha, et fatto venire a Mantova quelle selve, monti, prati, fiumi et fonti d’Arcadia, per intermedi della Favola introdusse Satiri, et poi certi maghi, et fece alcune moresche, a tal che hora altro non si fa nè d’altro si parla, che di costoro. Chi lauda la gratia d’una, chi estolle l’ingegno dell’altra : et cosi si passa il tempo a Mantova.

L’II luglio, così il Rogna descrive l’allestimento scenico di altra commedia.

L’Ill.mo S.r Cesare è ritornato da Guastalla per il battesimo, o che si è fatto o che si ha da fare, d’un figliolo del genero del S.r Massimiliano Gonzaga, cioè di quello da Tiene vicentino. Esso S.r Cesare Ecc.mo honorò hieri con la presenza sua la commedia della Flaminia, per essere sua vicina, con tutto che fosse invitato a quell’altra, che fu una pastorale bellissima, per quanto si dice, et si vidde Io a convertire in vacca, Giove e Giunone parlarono insieme : venne poi e spari la nebbia, Mercurio col sono adormentò Argo, et poi gli tagliò la testa, una Furia infernale fece venire in furia quella vacca, et infine fu di nuovo convertita in nimpha, et il padre ch’era un fiume, venne ancor lui, versando acqua, a fare la sua parte, et in un istante medesimo i pastori fecero le loro nozze et eccetera. Vi era l’Ill.mo S.r Massimiliano dal Borgo.

Ma gli entusiasmi per la commedia a poco a poco andarono scemando : i commedianti cominciarono già, come scrive il Ceruti, a dare in zero, e il pubblico a disertare le due stanze. La Compagnia della Vincenza, visto che ormai denari non se ne facevan più, cedette il campo e se ne andò a Ferrara. Ma il 26 aprile dell’anno successivo, troviam riunite in Mantova le due attrici rivali, come attesta Baldassare de Preti, in queste parole scritte al Castellano di Mantova che trovavasi a Casale, e riportate dal D’Ancona :

S. Ecc.ª ha fatto far comedia da due compagnie : l’una de Pantalone, l’altra deGanaza. Ha voluto S. E. che si unisca in una, et ha tolto li miliori : li era la Sig.ª Vicenza et la Sig.ra Flaminia, quali hanno recitato benissimo, ma tanto ben vestite che non poterìa esser più.

Il resto vedremo nel libretto, omai rarissimo, del Valerini, che prendiamo a esaminar minutamente.

ORATIONE

D’ADRIANO VALERINI VERONESE,

In morte della Divina Signora

Vincenza Armani, Comica

Eccellentissima.

et alcune rime del-

l’Istesso, e d’altri auttori, In lode

della medesima.

con alqvante leg-

giadre è belle Compositioni di detta Signora Vincenza.

In Verona, Per Bastian dalle Donne, &

Giouanni Fratelli

1570***

La data non è del libretto, ma di Fr. Bartoli. (cf.)

È dietro al frontespizio un epitaffio latino del Valerini.

ADRIANI VALERINI

Hic illa eloquio insignis Vincentia, & Ore
Spectanda, & Cantu par tibi Phebe jacet.
Infelix obijt nitido sub flore juventæ
Scenarum asportans orbis, & omne discus.
Flet sine honore nigra velatus lumina vitta
et secum occideret in Deus esset Amor.

Poi la lettera di dedica « al Molto magnifico Signor, il Signor Antonio Prioli, mio Padron singolarissimo, » poi un non brutto sonetto al medesimo, nuova dedica del libricciuolo, poi finalmente l’orazione funebre, che non è altro che un cumulo di lodi sperticate, racchiuse in 19 paginette, ben compatte, in cui l’iperbole raggiunge il massimo grado.

Comincia :

« Tu Mondo, come più mondo potrai chiamarti ? Che se il tuo nome derivi dall’esser di belle cose adorno, io non veggo come più per tale possi esser nomato, essendosi da te ogni ornamento partito ; dunque non più Mondo, ma oscuro, e tenebroso abisso devi chiamarti. »

E di questo passo va innanzi, paragonando, ora che la divina Vincenza se n’è ita, i bei Palagi ad abbandonate spelonche, gli uomini a fiere selvaggie, il giorno alla notte, la primavera all’inverno, e via discorrendo.

E continua :

« Nacque la Divina Signora Vincenza nella famosissima città di Venezia ; ma fu però d’origine di Trento, e di Trento furono i parenti suoi, i quali vennero per diporto a Venezia, e ivi la madre ch’era gravida, e vicina al parto, lasciò del felice alvo il caro peso. Che fosse nobile e ben nata ne poteano le sue belle creanze e i suoi leggiadri costumi Santi dar chiaro indicio…….. Nel cucire, nel ricamare, anzi nel dipinger con l’ago avanzò non solo tutte l’altre compagne, ma quella favolosa Aracne, e Minerva che di si fatti lavori fu inventrice…….. nè avendo i tre lustri dell’età sua toccati appena, possedeva benissimo la lingua latina, e felicissimamente vi spiegava ogni concetto, leggeva tanto appuntatamente, e scriveva cosi corretto nel latino e nel materno idioma, che più non vi scriverebbe chi dell’ortografia diede i precetti e l’arte…. »

E di questa guisa il fervido innamorato va enumerando tutte le grandi qualità della sua morta, additandola ai posteri come

« Retore insigne, musica sublime, la quale da sè componeva i madrigali, e li musicava, e li cantava ; suonatrice soavissima di vari strumenti, scultrice in cera valentissima, faconda e profonda parlatrice, e comica eccellentissima.

« Volse il cielo che la signora Vincenza, forse per purgar de’ vizj la corrotta gente, si desse al recitar comedie in scena, dove degli uomini, come in uno specchio, rappresentando il vivere, e d’essi riprendendo i perduti costumi e gli errori, a vita lodevole gli infiammasse, il che fatto di leggiero avrebbe, quando il mondo non fosse al suo bene cosi incredulo, etc. etc. »

e qui tien dietro la solita predica in difesa delle commedie e contro coloro che le aborriscono, e che « come odono nominar comici, par che sentano qualche cosa profana e sacrilega. »

Ma eccoci all’arte sua.

« Recitava questa signora in tre stili differenti : in Comedia, in Tragedia, e in Pastorale, osservando il decoro di ciascuno tanto drittamente che l’Accademia degli Intronati di Siena, in cui fiorisce il culto delle scene, disse più volte che questa donna riusciva meglio assai parlando improvviso, che i più consumati autori scrivendo pensatamente. Nella comedia era giocosa secondo le occasioni, mordace nel riprendere i vizj, arguta nelle subite risposte, mirabile nei bei discorsi d’amore ; e non era alcuno che le potesse, parlando, stare al paro.

Ognuno fuggiva di venir con lei a disputa, e se alle volte sostentava il falso, lo faceva parere a chi l’udiva, il vero. Diventava pallida a qualche avviso strano che le era dato, di vermiglio colore tingea le guancie alle nove liete, nel timore avea si bene accomodata la voce, e nell’ardir medesimamente, che i nostri cuori or timidi, or arditi facea ; aggirava gli animi come le parea ; se d’odio, di sdegno o de’suoi contrarj parlava, accompagnava le parole con gesti si appassionati al soggetto, che più esprimeva col gesto solo, che gli altri con le parole.

………………………..

« Si trasformava come un novo Proteo a i diversi accidenti della favola, e se nella comedia facea vedere quanto ornamento abbia un dir famigliare, dimostrava poi differentemente nella tragedia la gravità dell’eroico stile, usando parole scelte, gravi concetti, sentenze morali, degne d’esser pronunziate da un Oracolo : e se occorreva sopra di qualche suo Amante o parente di vita spento, lamentevolmente ragionare, trovava parole e modi si dolorosi, che ognuno era sforzato a sentirne doglia vera, e ben spesso anche lagrimare, benchè sapesse certo le lagrime di lei esser finte…..

« Si vestiva, finita la favola, in abito lugubre e nero, rappresentando la istessa tragedia, e cantava alcune stanze che succintamente del Poema tutto contenevano il soggetto, ed era come di quello un argomento ; e cosi, data la licenza al popolo, e finito il canto, si sentiva un alto grido, un manifesto applauso che andava sin alle stelle, e le genti stupite ed immobili non sapeano da qual luogo partirsi. Che dirò delle pastorali da lei prima introdotte in scena, le quali di cosi vaghi avvenimenti intesseva, che di troppa meraviglia e dolcezza ingombrava gli ascoltanti ?

………………………..

« Andava in abito di Ninfa si vezzoso, che si poteva a Diana assimigliare, quando per piacere all’amato Endimione sen gìa più del consueto adorna e lasciva. Nelle Pastorali interseriva alcuni favolosi intermedj, or da Mercurio, or da Venere, or da Apollo, e or da Minerva vestita, e mentre questi Dei rappresentava, d’eloquenza, di bellezza, d’armonia e di sapienza gli era superiore. Qual Esopo, qual Roscio …. etc. etc. »

E qui fa una lista de’ grandi comici, attori e autori, greci e romani ; i quali tutti, s’intende, sono zero appetto a lei : nè ai comici si ferma, chè, nemmeno Teocrito, Esiodo e Virgilio seppero esprimere tanto artificiosamente la vita e i costumi dei pastori……. Oh ! amore !… amore !…

« Ha recitato in Roma, in Fiorenza, in Siena, in Lucca, in Milano, in Brescia, in Verona, in Vicenza, in Padova, in Venezia, in Ferrara, in Mantova, in Parma, in Piacenza, in Pavia, in Cremona e in altre città, nelle quali tutte è rimaso il nome delle sue virtù impresso nelle umane menti, e i dolci accenti della sua voce risuonano ancora nell’orecchie di ciascuno…. Nell’arrivar che faceva in molte città, si sparava l’artiglieria per allegrezza della sua giunta, o del suo ritorno, e i principali della terra le venivano all’incontro, e i dotti venivano da lei come da un vivo sole….. I musici, i poeti, i pittori, e gli scultori cercavano con ogni sforzo e industria delle lor arti renderla immortale. »

Poi, venendo alle bellezze fisiche, dice :

« Era di corpo bellissima, e di rado avviene che ad un bel corpo non sia bell’alma unita, essendo il bello e il buono un’istessa cosa. Era la signora Vincenza di statura piuttosto grande che no, e con tanta proporzione e conveniente misura eran situate le belle membra, che cosa si ben composta, altrove non fu vista mai. Aveva del virile nel volto e nei portamenti, onde se talora in abito di giovanetto si mostrava in scena, non era alcuno che donna l’avesse giudicata. Aveva i capei lunghi di finissim’oro ; alcuni in treccie avvolti, alcuni negletti ad arte givan vagando nei margini della fronte, e benchè fosser sciolti, legavan però più fortemente i cuori. La fronte come alabastro lucida e tersa sembrava quella parte di puro argento che nella luna si vede, quando la circonferenza non ha ben compita ancora ; le sottili e nere ciglia da giusto intervallo divise, facevan sopra l’uno e l’altro occhio un arco che a loro sguardi avventava fiamme e foco….. Nasceva il profilato naso dai confini delle ciglia, scendendo per mezzo il volto con debita convenienza, fiammeggiavano gli occhi a guisa di Zaffiri, nei quali irraggi il sole….. Le guancie nella calda ed animata neve rosseggiando senza artificio alcuno, eran da vaghi fioretti dipinte ; la bocca, anzi il Paradiso, chiuso da due preziosissime porte di rubini e di perle, non solo alla vista porgeva contentezza estrema, ma all’udito ancora, mentre le accorte parolette e l’angelica armonia del canto mandava fuori. Ma quella cosa da che più l’alme eran percosse, e maggior virtute aveva in noi, furono le rilucenti perle uguali, che qualora dal grazioso riso erano scoperte abbagliavano co’i suoi raggi la vista dei riguardanti.

E per giunta poi :

« …. avea bellissime…. virtuose mani, le cui dita coronavano gemme orientali, dalle quali usciva tanto splendore, che quanti gesti delle mani accompagnavan le parole, tanti parevan lampi che balenasse il cielo. »

E dopo tante altre e più vive e artifiziose parole, passa alla descrizione della morte, alla quale si lascia andare con l’anima fortemente, sinceramente, per quanto iperbolicamente, addolorata.

L’Armani si chiamava Lidia nelle commedie e Clori nelle pastorali, e sotto questi nomi fu ancora celebrata in versi. Il Valerini le dedicò vari sonetti, e vari glie ne dedicarono Giacomo Mocenigo, l’Accademia degl’Intronati, Antonio Sottile, Niccolò Pellegrino, Fulvio Urbino, Giovanni Saravalle, Nicola Cartari, Giovan Battista Gozzi, Luzio Burchiella, comico geloso (V.), Francesco Mondella, e l’Accademia degli Ortolani ; ed ebbe stanze da Giovanni Acciajoli e da altri : rime tutte che seguono l’orazione del Valerini ; alle quali tengon dietro le rime dell’Armani stessa al Duca di Mantova, a Lucrezia D’Este, alla Città di Vicenza, al Duca di Ferrara, e un’ode tutta sensuale in memoria certo de’suoi amori. A parte le iperboli del Valerini, la Vincenza Armani doveva essere davvero un essere eccezionale.

Pubblichiamo qui un sonetto dell’Accademia degli Intronati e uno di Gio. Battista Gozzi. Quelli di Adriano Valerini e di Luzio Burchiella troveremo ai nomi di questi due comici valorosi.

DELL’ACCADEMIA DEGL’INTRONATI

Dolce angelico riso, onde costei
che ha del mortale e del terren si poco,
accender può d’inestinguibil foco,
gli uomin gelati, e i più superbi Dei.
Qualor cortese in aprir gli occhi sei,
le belle labra ove hanno Amore, e Gioco
più caro seggio, e scopri a poco a poco
perle, qual non han gl’Indi, o i Nabatei.
Tacciono intorno le tempeste e i Venti,
s’aprono i cieli, e ne’profondi Abissi
Sisifo e Tizio al suo dolor han pace.
Così di te, che i tenebrosi Ecclissi
da ogn’alma sgombri, noi spesso contenti,
Amor, che in tua virtù sè stesso sface.

DI GIO. BATTISTA GOZZI

Non più s’adorni il Re de’Fiumi altero
di fronde umili il crin, ma lauri, e rose
tengan le tempie, e le chiar’onde ascose
poi che ha onor tale, e tanto nel suo impero.
Quel che il Tebro, Arno, Mincio, e il Ren non fero
nelle cui belle rive il piede pose
lasciandole al partir meste e pensose,
ben potrà il Pò, che può tropp’egli in vero.
Felice Pò cui si dolce aura spira
sovra le sponde, acque beate voi
dove cigno novel cantando gira.
Ma quel d’ognun più fortunato poi
che dolcemente del suo amor sospira,
che Vincenza il Sol vince, e i lumi suoi.

Per dare un saggio dello stile poetico dell’Armani, trascriverò anch’io intera (cf. Fr. Bartoli) la citata ode amorosa, la quale a me pare mirabile e strana per l’efficacia, la verità e la passione, ond’è formata.

Eccola :

Notte felice e lieta
prescritta al piacer mio,
onde l’alma s’acqueta
del suo dolce desio,
notte in c’ho ferma spene
por fine alle mie pene.
Pur fugge or, mentr’io canto,
il tempo, e già s’appressa
l’ora bramata tanto
ch’oggi è a mercè promessa
della mia lunga noja,
principio alla mia gioja.
Placido, amico sonno,
deh, yieni, occupa i sensi
di quei che sturbar ponno
i miei piaceri immensi,
tal ch’io senza sospetto
goda il mio ben perfetto.
Ecco : pur giunta è l’ora
prefissa a piacer tanto ;
ond’io, senza dimora,
prendo il notturno manto,
ed al luogo m’invio,
dove alberga il cor mio.
L’uscio ch’io tocco appena,
mi sento aprir pian piano,
poi cheta indi mi mena
una invisibil mano :
io con tremante passo
lieto guidar mi lasso.
Giunto al felice loco
ch’è al mio piacer parato,
dove risplende il foco,
ripiglio alquanto il fiato,
e poi, la lingua sciolta,
io parlo, ed ella ascolta.
— Dunque è, ben mio, pur vero
ch’io sia da voi degnato,
qui dov’esser già spero
felice, anzi beato ?
Son desto, o pur sogn’io ?
Troppo contento è il mio !
Non merta la mia pena
sofferta, e il mio tormento,
una, di mille appena
gioje che per voi sento,
e, mercè vostra, ottegno
oggi ch’io sono indegno.
Ella per la tua fede
e per tuo merto dice :
d’amor ti si concede
quel che ad altri non lice ;
e coglier è a te dato,
quel ch’è a ciascun vietato.
Dolce io l’ammiro, e insieme
con lei ringrazio amore
che in gioje alme e supreme
bear voglia il mio core….
poi nel piacer perduto
la miro, e resto muto.
Dolc’ella sorridendo,
mentre mi legge in viso
l’alto desio che ardendo
tien me da me diviso,
rende all’alma il vigore
che per dolcezza more.
E con le belle braccia
mi cinge il collo e tace :
e’l cor con l’alma allaccia
che di desìo si sface ;
ond’io di piacer pieno,
le bacio il petto e il seno.
E da sua bocca bella
poi colgo il cibo grato !
io muto e tacit’ella,
liet’ella, ed io…. beato
partiam l’alte faville
coi baci a mille a mille.
Quel che succede poi,
amor solo il può dire,
perch’ebbri ambedue noi,
nel colmo del gioire
perdiam ne’gaudi immensi
l’alma, gli spirti, i sensi !

Ecco che cosa scrive di cotesta donna il Garzoni nella sua Piazza universale.

Della dotta Vincenza non parlo, che, imitando la facondia ciceroniana, ha posto l’arte comica in concorrenza coll’oratoria : e, parte con la beltà mirabile, parte con la grazia indicibile, ha eretto un amplissimo trionfo di sè stessa al mondo spettatore, facendosi divulgare per la più eccellente commediante di nostra etade.

Il Sand inesattamente fa nascere l’Armiani (sic) a Vicenza, anzichè a Venezia, come abbiamo dal Valerini stesso, e dice che nel 1570 ella divien celebre per tutta Italia ; mentre sappiamo ch’essa rese l’anima al Creatore il dì 11 settembre l’anno 1569 ; e che « un Gandolfo, del quale rimane sconosciuto il cognome, a’15 settembre così scriveva al Castellano di Mantova : « La Vicentia comediante è stata atosegata in Cremona. » E ciò forse fu opera di qualche amante spregiato, che non poteva perdonarle l’affetto verso il suo compagno di scena, Adriano Valerini, veronese, dottore e comico rinomato nelle parti d’amoroso, e che per la Vincenza aveva abbandonata l’altra bella e valente attrice, Lidia da Bagnacavallo. » (V. D’Ancona, op. cit., pag. 461).