(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [E-F]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 881-887
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [E-F]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 881-887

Fidenzi Iacopo Antonio, fiorentino, celebre per le parti d’innamorato, sotto il nome di Cintio, fiorì nella prima metà del secolo xvii, comico di S. A. il Principe Alessandro Farnese. Delle vicende artistiche del Fidenzi poco possiam dire, per la scarsezza dei documenti fin qui trovati ; ma due lettere di lui che esiston nell’Archivio di Modena, qui riferisco per intero come quelle che ci dànno, se non molte, curiose notizie del nostro artista.

Ill.mo et Ecc.mo Signore

Hò con ogni spirito procurato di superare, e subire, le uiuezze d’alcuni Compagni, ora non si può piu ; ed è forza scoprir quali sono ; l’amicizia che passa, trà Brighella e Leandro, con l’unione di Pantalone, e la moglie di Leandro formano la metà della Compagnia e danno tal caldo al detto Leandro e Brighella, che non si può più uiuere. Brighella con Leandro prima che la Compagnia fosse stata ricompensata dall’Em.º Signor Cardinale Antonio ; han chiesto per loro particolare, un regalo per uno ; e da me risaputo, come capo della Compagnia scrissi al Signor Martinozzi, maestro di Camera di detto Em.º che anch’io pretendeuo, se gli altri domandauano, come quello che ha il carico di regger la Compagnia e metter fuori soggetti ; ma che però non era in costume di far ciò ; Brighella risapendo quanto haueuo scritto, recitando noi, in casa dell’Arcivescovo di Rodi, uno de’ Signor di Nuelara, ad’arte cominciò à motteggiare sopra à detta poliza ; ond’io : gli dissi hauerla scritta ; ma che in quella però io, non l’ingiuriauo, risposeme con tante uillanie, e minacciamenti, ch’io fui sforzato à maltrattarlo di parole, ma non uillane ; Beltrame disse, quetatevi Cintio, che basta solo, che si sappia che un Brighella ui habbia perduto così infamemente il rispetto, ed il detto Signor Arciuescouo ciò risapendo, era d’animo di far poco piacere à Brighella, ed’egli stesso si obliga attestarlo à chi che sia. Il Signor Abate Giouanni Bentiuoglio, mi faceua una riffa, ciò risaputo dall’Aurelia, e sopradetti, l’impedirono che non me la facessi, come succedè. Leandro che da me hà riceuuto l’educatione, commosso da gli entusiasmi dell’ambizione, mi detrae la fama, e doue può mi conculca : tralascio i dispiaceri hauti dalle sue smarciassate, minacciamenti fondati, sù quello ch’io non uoglio scrivere. La pouera Leonora, ricercata da tutti i Comici, che non hà sofferto ? scritture, e quasi detti come libello infamatorio, promulgati frà Cau.ri e quasi affissi sù Cantoni : messo male frà principi acciò che non la regalino, com’è succeduto à fiorenza. queste cose unite insieme, e ’l non ueder subita risposta di V. Ecc.ª cagionarono, che dieci giorni sono, la Leonora ed’io promettessimo al Carpiani, et Cau.ri suoi parziali d’unirsi con esso lui, con altri suoi aderenti e Comici buoni e quieti. Sappia Vostra Ecc.ª che quando i grandi, riconciliano i Comici insieme, per rimaner seruiti ; odesi tallora dà i peggiori, per le piazze, per i ridotti dire, il tal principe mi li fà star per forza, la cui auttorità mi lega, la lingua, e le mani : le quai cose fanno stare in continua discordia le compagnie. Ciò si auera frà trappolino, e Bagolino, uenuti frà loro à rompimento di capo. or ueda Vostra Ecc.ª come poss’io sofferire senza perder il corpo, ell’anima cosi barbara unione. il Signor Duca mio Signore per cui prego ogni giorno, cosi Dio, mi faccia degno d’essere esaudito ; rimarrà da me seruito con ogni affetto, ma non con questi dui, e poi uolendo Trappolino e la moglie, non u’ hà che fare, l’Aurelia. il carpiano oltre l’essere buono nella sua parte, e suauissimo di costumi, e seruirà con ogni spirito, e dà pantalone marauiglioso. u’è buffetto ; dirà Vostra Ecc.ª questo non brama il S.r Duca ; respondole, che ual più la quiete, per gustar i grandi, che l’unione di cento personagi insieme. Beltrame lo sà, lui stesso lo giudica impossibile e dannoso, e che senza ammazzarsi qualcuno, non si possa finir l’anno. or per l’amor d’iddio, come si può gustar un principe con tanti disgusti ? Signor Marchese, non procuri questo per l’amor d’iddio, mancano personaggi ; domandi à tutti i Comedianti, come siano impertinenti questi due : ma caro padrone, non palesi questa lettera ad’altro che al Ser.mo Signor Duca, perche mi conuerrebbe ammazzarmi in Bologna con questi, mi conserui in sua grazia, mostri il mio affetto al Ser.mo Signor Duca, e li mostri in uno l’estreme difficulta nostre mentr’io da chi può auguro à Vostra Ecc.ª il colmo d’ogni bene.

Roma li 12 feb.º 1638.

Di Vostra Ecc.ª Ill.ma

Deumo. seruitore d’antico affetto

Cintio Fidenzi Comico.

Ill.mo Signor et padron mio Col.mo

In Bologna dal S.r Francesco Toschi, riceuei comandamento à nome del Ser.mo Signor Duca, ch’io non m’impegnassi, con nessuna Compagnia di Comici, intendendo Sua Altezza di seruirsi di me, per il Carneuale, et unirmi, con Beatrice, Trappolino et altri Comici. or’io, per guarire d’un mio male, uenni à padoua, e mi couenne recitare in una Compagnia che uiue sotto la prottetione del Signor Marchese Obizij. questa Compagnia si è obbligata per l’Autunno, è Carnouale al Signor Almoròzane ; la quale non à che far di me, mentre il Carnouale non possa essere con essi loro. et essendomi stato acertato, che Beatrice, con altri Compagni se ne ua per il Carnouale à Roma ; e che l’Angiolina si è obligata in altra stanza à Venetia ; non ueggo forma di Compagnia per seruir cotesta Altezza, et à me non istà bene, essendo pouer huomo uiuer sù l’incertezze. perciò suplico Vostra Signoria Ill.ma à fauorirmi d’insinuar nel Ser.mo il mio bisogno ; qual’è di sapere, s’io ho da seruirlo il Carnouale ; e non havendo l’Autunno Compagnia come mi hò da sostentar quattro e più mesi ; poi che essend’io pouer’huomo, non ho modo da sostentarmi senza il mio esercitio questo tempo, si che, hauendo da seruir cotest’ Altezza, la supplico d’alcun aiuto di costa, acciò ch’io mi possa intrattenere fin’al tempo del Carnouale ; e non uolendo seruirsi di me, darme, con sua buona gratia, licenza, acciò ch’io possa promettere à questa Compagnia ò altra la mia persona per l’Autunno, e Carnouale. ne hò scritto al Signor Toschi : ne di ciò ne hò mai hauto risposta. ricorro à Vostra Signoria Ill.ma che ne saprà il uero, ond’io possa aquetar l’animo mio, co ’l quale riuerentemente la inchino.

Padoua li 30 Juglio 1650.

Di Vostra Signoria Ill.ma

Humiliss.º e diuotissimo Seruitore

Jacom’ Antonio Fidenzi detto Cintio Comico.

Iacomo o Iacopo Antonio Fidenzi era dunque il direttore della compagnia ; e il male accennato nella seconda lettera, che lo fe’andare a Padova, doveva certo esser quello degli occhi, di cui discorre in una delle sue poesie (pag. 70), nella quale sono anche i segni della più profonda gratitudine verso i suoi generosi Padroni.

Il Brighella è rimasto fin qui ignoto.

Leandro poteva essere il Ricci figlio del Pantalone.

Beltrame era Niccolò Barbieri, che nella Supplica più volte citata, chiama il Fidenzi onor delle scene, e amico delle muse.

Aurelia era la Brigida Bianchi.

Leonora era la Castiglioni.

Il Carpiano era Marcantonio Carpiani detto Orazio.

Trappolino era Giovan Battista Fiorillo, figliuolo del Capitan Matamoros.

Bagolino è rimasto fin qui ignoto.

Buffetto era Carlo Cantù.

Beatrice era la moglie di Fiorillo.

Angiolina. Chi si nascondesse sotto questo nome non sappiamo di certo. Forse l’Angiola D’Orso, allora giovinetta, che vediamo nel ’50 moglie di Fabrizio e chiamata nella lista dei comici col diminutivo di Angiolina per essere distinta dall’ Angiola, ch’era la Nelli, prima donna della compagnia ?

Il Fidenzi, oltre all’essere stato attore preclaro, fu preclaro poeta ; e pubblicò un volume di versi a Piacenza del ’52, ch’egli intitolò Poetici Capricci, e dedicò ad Alessandro Farnese, in cui sono, se non sempre, vivezza e semplicità di imagini, tanto più rare e pregiate, in quantochè apparse in mezzo al dilagar delle strampalerie del tempo, e di cui metto qui come saggio il principio del vigoroso canto :

I fifgli famelici della Vedova Ebrea assediata

Di Sion l’alte mura

Tito ricinte havea di genti armate :
E gli assediati Ebrei,
Con dolorosi omei,
Chiedean pietade a l’indurato Cielo :
E di viveri affatto impoveriti
Con lagrimosi inviti
De la Morte chiedean l’orrida falce.
Cadean turbe infelici
Sotto il flagello di rabbiosa fame ;
Via più, che a i colpi de le spade ultrici.

Quando Vedova Ebrea,

Che su vedove piume agiava il fianco,
Mancar vide, dolente,
L’usato cibo, ond’ havean vita i figli,
Rivolta lagrimosa a quei dolenti,
O affamati, e teneri Bambini
Lagrimosa proruppe in questi accenti :

Figli, viscere mie,

Più del mio stesso core amati figli,
Che chiedete piangendo ?
Ah che nel vostro pianto
Come in ispecchio, io veggio
Il vostro innocentissimo desìo,
Figli cibo non ho, vi do il cor mio.

Apritemi le vene,

Delibate il mio sangue,
Pur che viviate voi
Poco a me cale il rimanermi esangue ;

Barbaro insidiatore

Di nostra libertade,
Tu con funesto orrore
D’armi hai ricinte di Sion le mura.

Se Padre fossi tu, com’io son Madre,

Da paterna pietà forse commosso
Disarmeresti le nemiche squadre.

Figli, care pupille

Di questi occhi piangenti,
Figli, i vostri lamenti
Mi trafiggono il core,
Voi morite di fame, io di dolore.
………….

Prima di questi Capricci aveva inserito del 1613 a Venezia alcune rime nella Raccolta funebre per la morte della comica Maria Rocha Nobili detta Delia (V.), poi pubblicato, sempre a Venezia, del ’28, un Effetto di Diuozione, consacrato al merito indicibile de i due famosi in amicizia, e per sangue e per l’opere Illustrissimi Nicolò Barbarigo e Marco Trivisano, composto di tre sonetti e un’ode in quartine.

Francesco Bartoli fa nascere il Fidenzi intorno al 1596. Quando stampò le rime in morte della Delia, avrebbe avuto dunque soli diciasette anni. E nel Baschet, a pag. 165, si legge come la Compagnia, che doveva recarsi a Parigi il 1607, avesse stabilito di partire il 30 novembre, ma fosse trattenuta a Torino per un ritardo nell’arrivo degli abiti di Cintio, e non giungesse alla gran Capitale che nei primi di febbraio del 1608. La data del Bartoli è dunque erronea. Il Sand annovera Cintio Fidenzi tra i comici che furon nella Compagnia dei Gelosi dal 1576 al 1604. Ma allora avrebbe dovuto nascere intorno al 1580, o poco più. E in tal caso, come poteva trovarsi in compagnia non solo come Direttore, ma come attore ? Ammettiam pure che a Parigi avesse diciotto anni ; a Roma e a Padova ne avrebbe avuti sessantaquattro o sessantacinque. – Dunque non faceva più gli amorosi : forse non recitava già più. O recitava le parti caratteristiche in vernacolo fiorentino sotto il tipo di Ceccobimbi ?

Il Bruni, nato nel 1580, e che pubblicò le sue Fatiche comiche del 1623 a Parigi, dice di lui nell’introduzione :

A questo (Gio. Paulo Fabri) come ad Adriano Orazio (il Valerini) si può contrapporre Cintio Fidenzi, che grazioso, ma insieme anche studioso, adorna le scene, diletta a chi l’ascolta, non forma parola, non esprime concetto che non sia accompagnato da quel moto che gli è proprio, onde meritamente da più di un Principe accarezzato, fa conoscere non esser del numero di quelli che poco curandosi dell’onore, recitano per vivere, e vivono per impedire il luogo di un galantuomo.

E il Cinelli nella Scansia XI della sua Biblioteca volante (Modena, 1695) :

Fu il Fidenzi di bello e gioviale aspetto, di faccia che tondeggiava, di capello castagno, di bianca carnagione, e maestoso nel portar la vita. Fu pieno di carni, ed anzi maggior del giusto, ed in somma appariscente, e proporzionato alla parte d’Innamorato, che rappresentava. Faceva ancora egregiamente la parte di Ceccobimbi in lingua gretta fiorentina, intitolandosi Mercante di fichi secchi da Poggibonzi, con gran diletto degli uditori, e parmi ch’esso ne fosse l’inventore. (V.Andreini Virginia).

Fineschi Giuseppe, fiorentino. Dal Prologo da recitarsi dalla Compagnia accademica-toscana addetta al regio teatro degl’Intrepidi di Firenze, principiando le sue recite in Livorno l’estate dell’anno 1790 (Siena, Rossi), possiam trarre molte notizie riguardanti la vita di questo attore che recitava nella Compagnia Roffi, al tempo di Francesco Bartoli, con aggiustato sentimento, conosceva l’interesse e la situazione de’scenici fatti, e con zelo si adoperava nell’esatta esecuzione del suo proprio dovere. Imparziali erano quelle lodi, che dal Pubblico gli venivano concesse, sapendo colla fatica e lo studio plausibilmente farne l’acquisto.

Egli adunque si ritirò per alcun tempo dall’arte, e in questo prologo si finge la Dea Melpomene che venga a scuoterlo dall’ozio vile in cui placido posa, per tornarlo alle scene. E il Fineschi sotto nome di Corimbo risponde :

Diva, che dici mai ? da quanto ascolto
Difficil cosa all’esser mio richiedi.
Lasciai, nol niego, in quell’età che rende
Fermo l’Uomo in pensar, l’onore, e il premio
Dei comici lavori………….

Fu cinque anni fuor del teatro, e, stanco la mente, fuor d’esercizio, non più potendo apparire quel che fu altra volta, rifiuta l’invito. E qui alla nuova insistenza di Melpomene si aggiungon poche parole di Mercurio (Brunacci) che racchiudon le lodi del nostro artista.

……. E di che temi alfine ?
Non sei tu quel che cento volte e cento
Dal plauso universal vide distinta
La sua virtù ? Di te parlano ancora
Il doppio Reno, il Po, l’Arno ed il Tebro.
Liguria, Insubria, e tutto il suol Germano
Sospiran rivederti, e tu potrai
Avvilirti cosi ? Ah no, nol credo !…

Poi c’è un fervorino per la città di Livorno detto da esso Fineschi il quale anche ci apprende essere lui stato quivi ben quattro volte, onorato e festeggiato.

Fineschi Giuseppa, milanese, fu moglie del precedente. Fece le sue prime prove sceniche ne’ teatri accademici di Firenze, e riuscì attrice pregiata. Quando il Direttore Salvoni risolse di formare una Compagnia stabile pel Teatro Ducale di Parma, chiamò a sè i coniugi Fineschi, ma l’impresa ebbe poca durata, ed essi tornarono a Firenze, ove, al Teatro della Piazza Vecchia e del Cocomero, ella recitò alcuni anni acquistandosi buon nome in ogni genere di lavori, e specialmente nella tragedia francese Giulietta e Romeo, tradotta dall’abate Bonucci. Fu poi col marito nella Compagnia di Giovanni Roffi, sempre applauditissima, a Milano, a Torino, a Genova, a Livorno.

Si sa dal Bartoli, suo contemporaneo, ch’ella aveva

una graziosa figura, una retta pronunzia, una voce flessibile, ed affettuosa, che penetrava e invadeva l’animo degli attenti spettatori…… La dolcezza della fisonomia e degli espressivi e significanti suoi sguardi, or dimostranti allegrezza, ora dolore, ora un affetto intenso ed amoroso, erano in lei quei doni a pochissime Comiche dalla natura e più dall’arte concessi. La sua non ordinaria abilità nel canto finiva di coronare i suoi meriti, ond’è ch’ella, e per lo studio indefesso, e per la natural grazia, e per una allettatrice avvenenza, poteva essere elevata ad un grado distinto in mezzo al numero limitato delle valorose giovani attrici.

Metto qui il sonetto d’incerta penna pubblicato dallo stesso Bartoli :

Nell’erto giogo ove ha Virtù la sede
Stavasi assiso il Dio, che il Mondo irraggia,
Quando a lui presentossi quella saggia
Dea, che non mai l’etade abbatte, o fiede.
Signor, (dicea) colei, ch’è al vostro piede
Implora alto favor : giammai non caggia
Di Giuseppa la gloria. Non s’oltraggia
(Ei rispose) di te chi è degno erede.
Anzi (soggiunse) all’ Apollineo Coro
Oggi vo’impor di coronar sua fronte
Del nostro eterno, ed onorato alloro.
Qui le Sceniche Muse al cenno pronte
Di verde serto ornarla ; e all’Indo e al Moro
Le virtù di Giuseppa andar più conte.

Fini Luigi, cortonese, fu attore generico, trovarobe e capocomico. Formò società coll’Assunta Perotti pel 1822-23-24, ma se ne sciolse per mancanza di buon accordo. La morte della moglie fu a lui fatale. Nel mio libro degli Aneddoti, sono i Ricordi di un comico, il fiorentino Bellagambi, che racchiudono tutti i raggiri, i sotterfugi, le cabale a cui dovea lasciarsi il povero Fini e coi comici e cogli albergatori e coi barcajuoli per veder di tirar avanti la baracca alla meglio. Nel ’29 era trovarobe con la società Vedova e Colomberti, e il ’30 con quella Internari e Paladini. La mala condotta d’un unico figliuolo, Cesare, condotto anzi tempo al sepolcro, finì di atterrarlo. Si ritirò il 1832 nella nativa Cortona, ove morì poco dopo, miserissimo.