(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « I comici italiani — article » pp. 432-442
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « I comici italiani — article » pp. 432-442

Rossi Cesare. Da una memoria, scritta a posta per me, del figliuolo avvocato Alessandro, riferisco le notizie dei primi anni di sua vita :

Il povero papà è nato a Fano alli 19 novembre 1829 da Nicola Rossi e Caterina Lombardi, loro decimo figlio. Fece gli studi elementari e di rettorica nel Collegio dei Gesuiti, che allora tenevano il monopolio della istruzione pubblica e privata in queste nostre provincie, e fino da fanciullo, così raccontano i fratelli, diede prova di ingegno pronto ed aperto.

Nelle ore libere dalla scuola, poichè il padre Nicola era un appassionato filodrammatico, e in casa vi era un teatrino per i divertimenti di carnevale, Cesare coi fratelli e le sorelle, tutti filodrammatici impenitenti, metteva in iscena le commediole onorate dall’admittitur della Curia, e nella stagione migliore con i fratelli Vincenzo e Giovanni teneva le sfide al pallone col soprannome di : I fratelli Orasi. Ma benchè uomo Nicola non ci credesse, i tempi cominciavano a mutarsi, e gli Orazi un bel giorno capirono che vi era di meglio a fare che storpiare Cicerone e giuocare alla palla.

Giunsero a Fano le prime voci dei moti di Lombardia e del Veneto, si formò segretamente una compagnia di volontari organizzata dal conte Annibale di Montevecchio, figlio di quel Giulio che fu amico del Foscolo, e i fratelli Rossi, fra i quali era mio padre, scapparono da Fano per recarsi a Vicenza.

Mio padre prese parte alla difesa di Vicenza ; e dopo l’eroico e sventurato assedio, fatta l’onorevole capitolazione, ritornò coi suoi compagni in patria. Qui questi giovani non soffrirono di stare colle mani in mano mentre altrove si levavano ancora le armi ; un gruppo si recò in Ancona a pettinare gli Austriaci, ed un altro andò a Roma ove Garibaldi e Rosselli suonavano a martello. Mio padre fu incorporato nella legione Masi e prese parte alla pugna del Casino dei Quattro Venti ed a quella di Porta San Pancrazio. Al Casino dei Quattro Venti gli cadde a lato il fratello Giovanni colpito da una palla che gli trapassò la gola.

Caduta nel sangue la Repubblica Romana, mio padre ritornò a casa, ma ormai non era più tempo di riprendere in mano il De Amicitia, e la vita a Fano era diventata per lui impossibile, essendo spiato notte e giorno dai Barbacani e Caccialepre, chiuso l’adito ad ogni impiego, sospettato di eresia e scomunicato.

Che fare ?

Era di passaggio una Compagnia di comici, la Compagnia comico-mimo-acrobatica del Paladini, padre dell’attuale Celeste Paladini-Andò.

Mio padre aveva fatto conoscenza con quei comici, palesò i propri guai al capocomico. Breve : con un vecchio soprabito color Nanchino regalatogli dal fratello Sergio, una giacca marrone del babbo, e qualche fazzoletto della mamma, uno di questi fazzoletti fu sempre portato nell’ ultimo atto della Gerla di papà Martin, mio padre scappò ancora di casa e cominciò la sua peregrinazione artistica per l’Italia.

La Compagnia era divisa in due parti : una di mimi-acrobatici, l’altra di comici. Questi rappresentavano le commediole prima e dopo la pantomina. Il Paladini era un agile Arlecchino, e la Celestina, me lo ricordò sovente il povero papà, essendo allora una bambinella molto carina, faceva l’Angiolo liberatore. Papà si rammentava dello spavento avuto una sera quando si ruppe il congegno, e l’Angiolo restò a mezz'aria. Così accadde anche a me, molti anni dopo, quando facevo il bambino nella Preghiera dei naufraghi, e mi pare di vedere ancora il povero Bellotti, che doveva essere affogato sotto una tela in tempesta, scappar fuori e gridarmi a braccia aperte : Sandrino buttati giù ! mentre mio padre figurandosi che io corressi un gran pericolo si struggeva. Ciò mi ricorda un altro aneddoto mio. Tu sai che il povero papà piangeva davvero sulla scena, e faceva dei goccioloni strazianti. Una sera negli Spazzacamini della Valle d’Aosta del Sabatini, al Gerbino di Torino, io ero Gino e papà il nonno. Nella famosa scena del ritrovamento, mio padre mi prese in braccio con tale commozione, che io vedendo mio padre piangere tanto furiosamente mi misi a urlare e a piangere anch'io in modo così inconsolabile, che per farmi capire la ragione, non valse che mio padre si ricomponesse, si mettesse a ridere, fra le risate del colto e dell’inclita, ma si dovette calare la tela, e non pensarci più.

Nell’anno 1853 mio padre, dopo essere stato con le Compagnie Calamai e con quella del Tassoni si trovava in Corsica in Compagnia Coltellini (la De Medici prima attrice, Pescatori, suo marito, primo attore). In quell’anno si uni in matrimonio con Carolina De Medici nipote della Pescatori attrice della Compagnia, la quale poverina morì dando alla luce mio fratello.

Ma quegli anni erano stati troppo tristi e dolorosi per il giovane comico. Egli sosteneva il ruolo di amoroso, che con quella voce e con quel naso, non era proprio fatto per conciliargli la benevolenza del pubblico. I fischi erano stati più assai degli applausi, e questi per quanto scarsi erano stati più assai dei guadagni.

Alla fine di quell’anno, stanco, sfiduciato, povero, ammalato, desolato per la morte della moglie, mio padre decise di dare un addio alle scene, e col figliuolo in braccio, ritornò a Fano, ove la madre Caterina aveva già ottenuto il perdono del marito per quel figlio che ritornava da lontano, avendo fatto il viaggio più a piedi che in diligenza, e portando tutto il suo bagaglio, dentro una calsetta.

A Fano lo colse una febbre violenta, causata dai disagi patiti, e la convalescenza fu lunga. Guarito, pareva che egli avesse perduto la gioventù ed il buon umore. I tempi erano tristi. A motivo dei figliuoli liberali, il padre Nicola era stato allontanato dall’impiego, gli amici erano stati parte esiliati, parte arruolati in Piemonte, qualcuno anche nelle carceri di Sua Santità, come il cugino Getulio Lombardi, che scontava nell’ergastolo, e ci stette dieci anni, una ribellione contro una pattuglia di papalini. La malinconia prese il mio povero papà, ed il dottor Claudio Tommasoni, quello stesso che tenne a battesimo Claudio Leigheb, lo consigliò di ritornare al teatro, se non voleva languire di nostalgia.

Nell’inverno di quell’anno 1855 mio padre lasciò per la terza volta la propria casa, e fu scritturato in Compagnia del Calamai ; però siccome i precedenti insuccessi lo avevano persuaso, così lasciò le parti di amoroso e prese il ruolo di brillante.

Anche quell’anno 1855 non fu lieto. Lo stipendio era meschino e l’impegno di vestiario assai costoso. A Firenze mio padre, me lo ricordano spesso, dovette fare un debito di 300 svanziche con un sarto, e per pagare quel debito, avendo avuto dal fratello Sergio un sussidio di sessanta papetti, dovette vivere un mese mangiando pane e mele sotto la loggia degli Uffizi, e bevendo il vino del Biancone in piazza della Signoria.

Non è a dire però che la volontà di studiare, di fare, di togliersi col proprio ingegno da quelle angustie venisse meno in lui. Dotato di una fibra d’acciaio, sempre di buon umore, gioviale, ardito, coraggioso, sentiva in sè l’avvenire, vedeva la mèta e lottava per raggiungerla.

Già cominciava il suo nome ad essere conosciuto nella cerchia limitata dei comici, già qualche successo aveva sorriso. In una farsa : Le disgrasie di un bel giovane, egli era applauditissimo.

Nell’anno successivo il 1856, mio padre passò, sempre come brillante in Compagnia Asti, prima attrice Alfonsina Aliprandi, primo attore Giovanni Aliprandi, generico primario Salvatore Benedetti, la Vergani madre nobile, Vergani mezzo carattere, Bordiga amoroso. In quell’anno sposò mia madre Giuseppina Rocchi, nipote di quella Antonietta Rocchi, milanese, che era stata guidata sulle scene dalla Tarandelli antica prima attrice, e fu moglie del Robotti ; ed era allora prima attrice della Compagnia Reale-Sarda, attrice di merito non comune.

A Torino la Compagnia Asti si aggregò Ernesto Rossi, che poi la segui a Vercelli e, il carnevale, a Milano al Teatro Re.

Per mio padre quella stagione del Teatro Re era la prova del fuoco, e puoi immaginare con quanto zelo egli si mettesse all’opera. Ma pur troppo anche allora i suoi sforzi non furono fortunati, ed il pubblico rimaneva indifferente ai suoi lazzi ed alla sua parlantina. Il Coltellini per incoraggiarlo dopo poche recite mise sul cartellone : Le disgrasie di un bel giovane, e mio padre si tenne sicuro di scuotere finalmente l’indifferenza del pubblico. Quale delusione !

Nella scena culminante, quella dell’andata via colla giacchetta rovesciata, la platea scoppiò in una fischiata così unanime e clamorosa da farla credere tramutata in un cantiere di locomotive.

Papà se ne ammalò e per più giorni non escì di casa, egli credeva di essere rovinato, aveva perduto ogni fiducia in sè stesso e già pensava ad un secondo addio, quando una mattina Ernesto Rossi andò a trovarlo a casa, lo incoraggiò, lo rianimò e lo persuase di ritornare al Teatro. Ritornare al Teatro Re ?

Ripresentarsi innanzi a quel pubblico feroce ? Era presto detto, ma come averne il tupè dopo quel ciclone, e specialmente dopo avere esaurito tutti i propri cavalli di battaglia ?

L'eloquenza di Ernesto Rossi e la sua autorità furono fortunatamente più forti delle paure del giovane deluso, e fu deciso che la sera dopo egli sarebbe ripresentato nella farsa : A tamburo battente. Una farsa che mio padre non aveva studiato, che non aveva visto fare da nessuno, nella quale non aveva sgambetto, nessun lazzo, nessun trucco. Mio padre andò in teatro sicuro di non uscire vivo dalle mani del pubblico. Mutamento a vista ! Sia che il pubblico fosse pentito della propria ferocia, sia che sapesse l’affare della malattia, sia che mio padre non sapendo quella sera le norme altrui recitasse a modo suo e apparisse un attore diverso, fatto è che dopo la prima scena cominciarono gli applausi, gli applausi continuarono, e calata la tela mio padre si trovò fra le braccia di Ernesto, che era felice quanto lui, perchè Ernesto Rossi era buono.

Per la primavera di quell’anno 1857 Ernesto Rossi doveva formare una Compagnia drammatica di primo ordine per incarico di alcuni capitalisti triestini. Mio padre fu scritturato da lui, ma per di lui consiglio abbandonò il ruolo di brillante per prendere quello di promiscuo, ed accettò il posto di secondo promiscuo, dopo la scelta di Gattinelli.

Da questo punto comincia la fortuna di Cesare Rossi, e la sua vita artistica gloriosa.

La Compagnia di Ernesto era formata pel triennio 1857-1860.

Come ti ho detto mio padre aveva un ruolo secondario, inferiore, cioè quello del Gattinelli, come era inevitabile, cominciarono presto le emulazioni fra il giovane attore e l’artista, che godeva già meritamente molta fama.

In questa rivalità certo mio padre in quel tempo avrebbe trovato molti ostacoli se tra Ernesto Rossi e Gattinelli non si fosse manifestata una incompatibilità di carattere molto favorevole per il giovane attore. A lui giovò molto anche l’amicizia fraterna di quel gran galantuomo e buon attore, faceva il generico primario, che fu Salvatore Benedetti, il quale caso raro, era lietissimo di cedere all’amico Cesare le sue parti e di vederlo a lui preferito.

Un giorno a Trieste nel carnevale del 1858 scoppiò aperto il dissidio fra mio padre e Gattinelli, a proposito di una parte. Erano alle prove, e poichè pareva che Ernesto Rossi desse ragione quella volta al Gattinelli, mio padre se la prese anche con lui, fece baruffa, protestò il contratto, e andò a casa infuriato dicendo a mia madre, servetta nella Compagnia, che facesse su la poca roba, perchè voleva andar via.

Puoi immaginare lo scompiglio, tutta la casa per aria, agitazione, trambusto, ma…. c’era Benedetti. Egli nel frattempo aveva calmato gli animi, aveva parlato con Ernesto e con lui andò a casa del papà per dirgli di non fare sciocchezze, che nel nuovo triennio egli sarebbe succeduto in omne et qualibet parte al Gattinelli, e tanto fu fatto che la tiara di Achimelek rientrò nei cassoni, insieme alla cotta di Lanciotto.

Nel 1859, allo scoppiare della guerra, la Compagnia di Ernesto Rossi si trovava in Austria, e si sciolse. Ernesto, con la famiglia Job e mio padre noleggiarono a Trieste un barigozzo e sciolsero le vele per Fano. Ohimè ! la bonaccia tenne la barca circa un mese sul piano dell’Adriatico, e quando i naviganti giunsero a Fano, la guerra volgeva già al suo termine. Nel settembre di quell’anno liberate le Marche, Ernesto Rossi raccolse la propria Compagnia per riprendere i propri viaggi, e senza maggiori avvenimenti le cose procedettero così sino al 1860, quando essendosi ammalato improvvisamente Gaetano Vestri, che sosteneva il ruolo di promiscuo nella Compagnia di Bellotti-Bon, a mezzo anno il Bellotti si rivolse ad Ernesto Rossi pregandolo di cedergli l’attore Cesare Rossi.

Anche in quella occasione Ernesto Rossi si mostrò buon amico di mio padre, e senza farsi troppo pregare accettò di sciogliere il contratto con lui e di permettergli di entrare nella Compagnia Bellotti nel ruolo importante lasciato dal Vestri.

Anche quello fu un gran passo pel mio povero papà, che non solo andava ad affrontare un ruolo di grande responsabilità, ma raccogliere l’eredità pericolosa e quindi il confronto di un grande artista.

L'andata in scena nel nuovo ruolo e nella nuova Compagnia doveva aver luogo a Milano al Teatro Re. Dopo lunga discussione, alla quale presero parte il Bellotti ed il compianto Tebaldo Ciconi, fu scelta per prima recita : Il papà Goriot di Balzac.

Anche questa scelta era ardita perchè Papà Goriot aveva ormai una tradizione sulla scena, una tradizione formata da Gattinelli, Vestri, Taddei, ma il confronto non fu dannoso.

Ernesto Rossi nel primo volume de' suoi Quarant’anni di Vita Artistica, dopo di avere parlato degli attori che componevan la sua nuova Compagnia, così ci descrive il passaggio di Cesare Rossi dal ruolo di brillante a quello di caratterista e promiscuo, che doveva farlo salire in breve a tanta altezza :

….. Si poteva azzardare di recitare la commedia, il dramma, e la tragedia ! e che tragedia ! quella di Shakespeare, che in quei tempi era come un tema di algebra dato per esame dal ministro Bonghi : e credo che anche in oggi vi sieno molti scolari, che torcono il muso a certi temi del signor Shakespeare. Cosa originale ! erano appunto quei temi là, che i miei attori risolvevano meglio : Cesare Rossi specialmente : di modo che, un giorno lo chiamai a casa mia e gli dissi : – Scusi, ma lei crede proprio di avere la vocazione per fare il brillante ? — Sicuro ! – mi rispose di botto, senza lasciar tempo a riflettere sulla mia domanda. — Mi permette, che le parli chiaro e tondo ? come la penso ? — Faccia pure ! – mi rispose con un accento fra il toscano ed il marchigiano. — Ella – ripresi io – può essere chiamato a fare di tutto, fuori che il brillante : ella non ha nè la figura, nè l’eleganza adatta per disimpegnare quella parte : guardi là ! c’è uno specchio : si guardi ! Quella testa avrebbe bisogno di essere posta sopra un altro paio di spalle ; e allora lei sarebbe un gigante proporzionato : vede ? come le sue spalle sono strette ? e le sue braccia lunghe ? eppoi osservi bene una cosa che è rispettabilissima, e che caratterizza tutti gli uomini che sanno il conto loro : guardi il suo naso : le pare un naso ragionevole ? ammissibile per un giovinotto, che vuole interessare la sua bella ? Venga qua : si lasci fare : le metto questa parrucca grigia : poi questo giubbone ; poi prenda : metta questo cravattone : prenda questa canna nella destra : questo cappellone nella sinistra : si guardi di nuovo allo specchio : e veda che bel caratterista promiscuo che è lei ! eh ? che gliene pare ? e poi, vuole e pretende recitare le parti serie e tragiche ? a lei ! studi Lanciotto nella Francesca ; le proveremo insieme, e vedrà che lei sarà quel tipo per cui Francesca può scusarsi colpevole. — Io avevo toccato proprio nel suo debole : le parti tragiche. — Io tragico ? – disse a sè stesso – convengo di tutto, signor Rossi, lascerò le parti brillanti, farò il generico, il caratterista, il promiscuo e il tragico, ma non mi dica che io sono sproporzionato. Farò tutto quello che vuole, purchè mi faccia recitare. — Non dubiti, non avrà mai un riposo. — E così fu. Cesare Rossi, disimpegnò benissimo le parti tutte, che io lo preferii sempre più nel serio che nel ridicolo : perchè nel comico ebbe la disgrazia di imitare Gattinelli : e le copie sono sempre peggiori degli originali : nel serio…. lo guidai io, e non volli che mi imitasse, ma che mi studiasse…..

Cesare Rossi perchè era studioso, zelante e infaticabile, si è formata una posizione che non a tutti nell’arte è dato conseguire.

Se col suo glorioso omonimo, Cesare Rossi vide chiara a sè davanti una mèta da toccare, immediatamente dopo con Bellotti-Bon la toccò, e altissima, in quella indimenticabile compagnia, della quale eran prime parti il Bellotti stesso, Ciotti, Lavaggi, la Pezzana, la Campi, la Fumagalli…. Il primo ricordo ch'io serbo intatto del glorioso artista, è della primavera del '65 al Teatro Comunale di Ravenna, nel Vero Blasone di Gherardi Del Testa, e nel Figlio di Giboyer di E. Augier. Oh ! quel Marechal ! Quel monologo in cui egli si esercita alla improvvisazione e recitazione del discorso…. Il fumo…. Il fumo !!… Il secondo è del '68 al Niccolini di Firenze, in quel carnevale magnifico, in cui si rappresentaron diciotto volte I Mariti di Torelli. Quel Duca D'Herrera, che noi giovani di Liceo, ricordo come fosse ora, somigliavamo nella truccatura del Rossi al Duca di Sermoneta ! Che nobiltà, che grandezza, nelle scene aspre col figliuolo ! Che arte somma in quella finale col servo, poi colla Duchessa !…

Quattro anni dopo Cesare Rossi era il Direttore, Primo attore da parrucca, Caratterista, Promiscuo, della Compagnia di Fanny Sadowski, nella quale anch'io stetti un anno, lieto oggi di poter discorrere di tutte le grandi qualità del mio primo maestro.

Si è detto che Cesare Rossi era attore di maniera, attore barocco. È vero. Ma quando ? Quando al suo metodo di recitazione la giovane critica ebbe da contrapporre giovani forze, il cui metodo, fatto tutto di verità, era dal suo tanto discosto. Verità ! Verità ! Verità assoluta o verità relativa ? Assoluta no, perchè la verità senza il soccorso dell’arte si muta in isciatteria, in volgarità e peggio. Dunque relativa : ma allora tanto è verità quella d’oggi, quanto fu quella d’jeri e dell’altr'jeri, e magari di tre secoli fa a' bei tempi degl’incomparabili Gelosi, i quali apparivan veri allora oltre il confine, e a' quali, probabilmente, i giovani tirerebber oggi con poca riverenza le panche. Barocco ! Sicuro : Cesare Rossi fu barocco ! Un barocco, che produsse figure non mai superate, nè uguagliate, di cui la parte superficiale, esteriore, mutabile, era già, nel languor dell’età e mutar de'tempi, tramontata, ma di cui l’arte animatrice permane nella nostra memoria immortale.

Giudicar Cesare Rossi nel periodo estremo dell’arte sua, quando le poche figure che ancor presentava, tra le tante che lo poser sì alto, eran già sbiadite, alternate con le figure nuove, a mostrar le quali il vecchio metodo e il vecchio spirito non eran capaci, è, per lo meno, ingiusto. Io vorrei che i giovani potessero, per forza di miracolo, tornare a dietro di quarant’anni, e seguir sera per sera, anno per anno, l’opera varia, forte, grandiosa di Cesare Rossi ! Maestro Andrea del Ghiacciajo del Monte Bianco, Don Ambrogio della Celeste, Conte Sirchi del Duello, Marechal del Figlio di Giboyer, Papà Martin della Gerla di Papà Martin, Filiberto del Curioso Accidente, Geronte del Burbero benefico, Risoor di Patria, Palchetti della Vita Nuova, Gaspero di Moglie e buoi de' Paesi tuoi, Papà Remigio di Claudia, Bernardino di Oro e Orpello, Croci del Gerente responsabile, Lamberto della Famiglia, Pietro Branca di Spiritismo, Don Marzio della Bottega del Caffè, Simonaza di Convincere, Commuovere, Persuadere, L'Abate Costantino e Rabagas…. Oh ! Quel Rabagas al Fondo di Napoli con Cesare Rossi a soli quarantatrè anni ! Quale maniera ! E quale barocco ! Bernini puro sangue !!!… Gran peccato davvero che codesti astri di prima grandezza non abbian la forza di togliersi dalla loro sfera, non appena veggano attenuarsi la vivezza della lor luce ! Dopo quello della Sadowski, egli ebbe ancora un grande periodo : del Teatro Carignano, della Duse con Andò. Se la Duse, con la sua recitazione singolare arrecò più tosto danno all’attore, grandi vantaggi arrecò al capocomico, che finì poi col diventar socio della nuova stella. Dalla quale staccatosi, riformò compagnia con la Mariani prima attrice, ch'egli rivelò e sviluppò. Ebbe di poi la Glech, la Quaglia, la Riccardini, l’Udina, la Violante….

E volgeva lento, lento alla sua fine.

Lunedì 1° novembre 1898, egli doveva recitare a Bari Il Curioso Accidente del suo Goldoni, e alle 2,45 di quel giorno si spense quasi d’improvviso per congestione. I funerali furono una imponente testimonianza di affetto e di ammirazione sì a Bari, come a Fano, dove fu traslata la salma. « Non dimenticare che amò i giovani attori e li protesse, che fu buono, onesto e glorioso, e che a punto per la sua rettitudine preferì sempre l’arte sana, le persone buone, pochi ma sinceri amici. » Con queste parole il figliuolo chiude la sua memoria, ed io le metto qui come chiusa dell’articolo, chè non saprei trovarne di migliori.