(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi [3e éd.]. Tomo X, parte 2 pp. 2-245
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi [3e éd.]. Tomo X, parte 2 pp. 2-245

[Épigraphe]

Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore
Metastasio nel Temistocle.

Storia de’ teatri antichi e moderni
parte ii del tomo ultimo

Teatro Italiano.

Capo I

Tragedie Cittadine.

MI affretto a toccare il lido conquesti ultimi tratti del moderno Teatro Italiano, e bramoso omai di riposo mi accingo a deporre la penna ed a prender commiato da’benevoli letterati, che hanno meco veduto il quarto anno del secondo decennio del secolo XIX.

Non ha l’Italia ricusato di accogliere nel suo recinto di simili merci oltramontane, fossero pur di quelle che la sana critica ed un gusto fine riprovano come imbrattate di fangose materie eterogenee. Così le dolorose rappresentazioni di atroci fatti privati di Falbaire, Mercier, Sedaine, Dorat, Arnaud, Beaumarchais ec. o tuttè tragiche o mescolate di tratti comici, si sono alla rinfusa tradotte e recitate dovunque ascoltansi i commedianti dell’alta Italia.

Dietro la scorta di codesti Drammisti francesi hanno i nostri inventate altre domestiche tragedie, e commedie lagrimanti, alcune originali, alcune tratte dalle novelle di Arnaud e Marmontel ricche miniere di scene interessanti e di lugubri pantomimi nojosamente ripetuti. Venezia singolarmente ha vedute varie tragedie cittadine simili a quella del dottor Simoni uscita nel 1787 intitolata Lucia e Melania, più di una commedia lagrimante come Teresa e Claudio di Giovanni Greppi, nella quale il patetico e il romanzesco si vede interrotto dalle buffonerie dell’ improvvisatore Leggerenza e del falso letteralo Pirotè entrambi sorocconi di mestiere.

L’abate Villi occupò per alcun tempo l’attenzione degli spettatori con varii drammi. Dee questo scrittore a’nominati Arnaud e Marmontel la Carolina e Menzicof, l’Amor semplice, la Vergine del Sole, Sidney e Volsan, la Pastorella delle Alpi ecc. Si è puerilmente affermato che la decadenza del credito di tali favole sia derivata dall’essersi divulgato che i loro argomenti provvenivano dalle novelle francesi. Ciò bene avrebbe potuto involare all’autore quella gloria che deriva dall’invenzione ; ma potrebbe togliere a que’drammi l’intrinseco merito di una condotta naturale e di una esecuzione felice ? Euripide e Sofocle senza il vantaggio dell’invenzione ripetevano gli argomenti trattati già da Eschilo, da Carcino, da Platina ecc., ed occupavano i primi onori del coturno. Ciò che suol nuocerè a’moderni scrittori di drammi lugubri, è l’uniformità delle tinte, la lentezza dell’intreccio, un disviluppo sforzato, l’abbondanza ed il gelo delle lunghe moralità e delle sentenze staccate ecc. ecc.

Nel Teatro d’ Alessandro Pepoli lessi tre drammi lagrimosi in prosa : Don Alonso di Zuniga, ossia il Dovere mal inteso, Gernand, ossia la Forza del suo destino, e Nancy ossia la Vanità dell’umana fermezza. Osservai nel Don Alonso molti requisiti che possono giustificare una tragedia cittadina : intreccio condotto e disnodato con verisimiglianza, caratteri espressi con verità e regolarità ed interesse, situazioni patetiche. Aggiungasi il pregio dell’ invenzione el’oggetto morale di distruggersi un reo pregiudizio che sovente si occulta sotto l’aspetto del dovere ; un atto quarto assai teatrale, ed una vera dipintura di Don Alfonso oppresso da’rimorsi nell’atto V. Il dramma è scritto in prosa, ma l’autore vi adopra uno stile immaginoso e poetico che spesso riesce soverchio studiato. Inverisimili non pertanto, anzi che no, pajonmi le angustie della terza, quarta e quinta scena dell’atto III. Un figlio che per una capricciosa debolezza di non abbandonare la casa dell’amata sacrifica la vita di un padre e la propria ; questo padre che per non dissimile capriccio di non partirsi dal luogo dove è sepolto un suo amico da lui ucciso, espone a certa morte se stesso ed un figlio che ama ; questi personaggi, dico, che per soprappiù espongono a mortal pericolo, non che il virtuoso Sancio, la stessa benefattrice ed amante Violante, lasciano nell’anima certa idea d’inverisimiglianza, ed un rincrescimento che si oppone all’effetto della compassione che si vorrebbe eccitare.

Ma nel Gernand raffigurai una commedia lagrimante piena di colpi scenici più che di situazioni, atroce per disegni scellerati che disonorono l’umanità, frammischiata di bassezze comiche de’servi Merville e Ricauld, Aggiungasi che il dimostrare la forza del destino che trascina ad atrocità, non è l’oggetto più istruttivo sulla scena. E quì domandiamo con rispetto al riputato sig. Andres in proposito di Varembon personaggio basso furbo e scellerato di questo dramma, come concilierebbe la sua opinione di bandire dal teatro tutti gli empii e i gran malvagi, coll’ammettere, come egli fa, le favole cittadine e lagrimanti che ne sono piene a ricolmo, o per meglio dire che non possono esserne prive ? Dirà, che intende escluderle dalle tragedie, non da’simili drammi. Ed io dimanderò di nuovo, se più pericolosi gli stimi nelle tragedie che per la loro grandezza riverberano meno sulle persone volgari, o ne’drammi cittadineschi al popolo di fortuna e di pensare più prossimi ? Tornando al Gernand dico che mi sembra più condannabile del Don Alonso, per la mescolanza delle tinte comiche ad un tragico affatto orribile. É ciò in natura, si risponderà col Voltaire ; ma noi sostenghiamo che l’arte sceglier dee fra gli eventi naturali quelli che non distruggono il disegno dell’artista con un altro opposto. Nulla dico del dramma Nancy che non ho mai potuto vedere ; e solo da’ fogli periodici ricavo che esser dee una vera tragedia cittadina che forse non degenera in commedia lagrimante.

Evvi un altro dramma del Pepoli intitolato Ladislao in quattro atti, ch’egli produsse in Venezia sul teatro e per le stampe nel 1796. Noi ne parliamo in questo capitolo dove pare che possa entrare per più ragioni. Ma l’autore gli diede il titolo di Fisedia, cioè canto della natura ristretta agli uomini. Egli pretese farlo passare per un genere nuovo, e ne diede varie leggi da osservarvisi da chi volesse seguirlo nel Ladislao. Affinchè il leggitore che non Pha mai avuto sotto gli occhi, possa giudicarne, ne ripeterò qui succiutamente l’analisi che ne produssi nel 1798.

L’azione di lieto fine passa in Buda sul Danubio e nelle montagne del Crapac nello spazio di più di due mesi. V’intervengono due re, una regina che tratta l’armi, una principessa innamorata di un vassallo, un militare che ama la figlia del suo re, una pestorella che amoreggia e scherza e motteggia, un veterano bevitor di vino interdettogli dall’innamorata, un astrologo sciocco avaro e furbo. Vi si parla in prosa ed in versi in ogni stile da’medesimi personaggi. Varii colpi teatrali ed alcune situazioni che interessano, hanno contribuito a cattare applauso a questo dramma in uno de’teatri di Venezia. Vi è qualche scena nell’atto I, che può lodarsene. Non così di ciò che si tratta nell’atto II. Passi che Rodolfo tornato dal Crapac in Buda, in trenta giorni non ha colta nella reggia l’opportunità di abboccarsi colla regina Adelarda, per dirle che Ladislao suo marito vive. Sorgono però varii dubbii per gli eventi che in esso accaggiono. Sofia nella scena settima senza prenderne consiglio dall’amante si presenta e si fa conoscere ad Adelarda sua madre ; Rodolfo subito propone per prima impresa di salvar l’una e l’altra. Ma perchè renderla doppiamente ardua e pericolosa per la necessità di salvarne due ? Perchè Sofia che non osservata è venuta ed hà in quel punto parlato alla regina, non esce dalla reggia e lascia a Rodolfo la sola cura di salvar la madre che è piena di coraggio virile ? Perchè esporre una tenera fanciulla al pericolo di un precipizio per via scoscesa e per una scala in tempo di notte, quando poteva uscir di giorno, com’ era venuta, dalla porta ? Ecco perchè ; l’autore salvata Adelarda, vuol che Sofia rimanga in potere di Otogare nel pericolo stesso della madre.

Parmi che il Pepoli per bizzarria si prefisse di congegnare una favola che da niun’ altra vinta fosse in istravaganze e spropositi ; e per accreditarla volle darle un nuovo titolo, e venderla come nuovo genere, ed alla perpetua irregolarità che vi semina, dà l’onore di regole per chi voglia esercitarsi in esso. Ma in sostanza questo nuovo genere detto fisedia altro non è che una delle favole più spropositate che uscite sieno dalla Spagna, dall’Alemagna e dall’ Inghilterra, o che possano oggidì affastellare gl’inetti, drammi semiserii di ultima data che scorrono di stranezze in istranezze ora in versi ed ora in prosa. Ecco donde provengono le regole delle fisedie. Il Ladislao occupa due mesi o poco più ; sia dunque la legge. Il fisedica, che non ecceda tale spazio di tempo. E che novità v’è in ciò, se un gran numero di commedie spagnuole non eccedono questo spazio, e talvolta si riducono a soli dieci o dodici giorni ? Spazia il Ladislao per tutta la reggia di Buda, sul Danubio, pe’monti del Crapac lontani dalla capitale dell’ Ungheria più giornate di camino ; il luogo dunque di una fisedia è con simile libertà prescritto nella legge III. E non è questa libertà osservata nelle favole spagnuole vecchie almeno di due secoli ? Il Ladislao bandisce tutto quello che suol farsi avvenire per macchina, e di ciò si forma la legge V. Ma questa legge si trova osservata in più migliaja di vecchie commedie di spada e cappa ed eroiche ancora della Spagna. Il Ladislao si è scritto inversi ed in prosa ad un tempo ; sia dunque la VI legge delle fisedie che così si scrivano. Ma come può darsi per nuova una maniera che si trova praticata da due secoli continuati dal Shakespear, Otwai, Dryden eccnella Gran Brettagna ? L’autore del Ladislao mesce ad arbitrio l’interesse serio al ridicolo, e ne forma la sua legge VIII della fisedia. Ma in tutte le favole inglesi spagnuole ed anche francesi prima del XVII secolo si osserva la medesima legge. Nel Ladislao non si estende il ridicolo all’oscenità, e se ne stabilisce la legge X. Ed è forse nuova cosa che l’oscenità sia proscritta da’ teatri colti ? Il Ladislao termina lietamente ; dunque le fisedie debbono aver lieto fine per la legge XIV. E tutte le favole spagnuole e di altre nazioni non terminano per lo più lietamente ? Ciò basti sul capriccio fisedico del Pepoli.

Non sono del gusto del secolo XVIII le favole pastorali. Appena possiamo nominarne alcuna, benchè di forma troppo diversa dall’ Aminta. Pier Jacopo Martelli compose la Rachele in miglior metro delle sue tragedie, e merita di leggersi come degua di quel letterato. Alessandro Guidi scrisse l’Endimione con ariette musicali, il cui piano ed alcuni versi dicesi che appartenessero alla regina Cristina di Svezia dimorante in Roma. Monsignore Ercolani compose la Sulamitide che è una vaga parafrasi della Cantica. Antonio Bravi pubblicò in Venezia l’Antillide nel 1744, e la riprodusse riformata in Verona nel 1766. Il cardinale Ottoboni diede alla luce l’Amore eroico tra’ Pastori. Il pastore Arcade Panemo Cisseo compose la Morte di Nice del 1754. Appartiene il Paradiso terrestre al conte Giambatista Roberti morto nel 1786.

Capo II

Commedie.

TOsto che si studiò Moliere cadde in Italia la commedia romanzesca spropositatamente ravviluppata venutaci d’oltramonti. Il Riccoboni (che avea tradotto anche Tito Manlio tragedia del La Fosse) mostrò tra’ primi in Parigi colle sue composizioni che la scena comica Italiana non si pasce di pure arlecchinate.

Girolamo Gigli Sanese ingegnoso e brillante letterato sin da’ primi anne del secolo consacrò parte del suo ozio alla poesia comica, insegnando in qual maniera potevano recarsi in italiano le comiche bellezze de’ migliori Francesi ; e nel 1704 pubblicò in Venezia i Litiganti ossia il Giudice impazzito franca ed elegante versione de’ Plaideurs del Racine. Nel 1711 fe imprimere in Roma in tre atti il suo Don Pilone imitata anzi che tradotta dal Tartuffo di Moliere. A lui dobbiamo ancora alcuni piacevolissimi tramezzi, tra’ quali si distinse la sua Cantatrice Dirindina.

A quel tempo l’erudito Niccolò Amenta di Napoli nato nel 1659 e morto nel 1719 fe recitare dal 1699 in poi, ed imprimere le sette sue commedie, la Gostanza, la Fante, il Forca, la Somiglianza, la Carlotta, la Giustina, le Gemelle, tutte scritte in bella prosa e con arte comica sulle tracce della commedia latina, e sul gusto del Porta e dell’ Isa. Esse non solo si recitarono con molto applauso in Napoli, ma in altre città italiane, e si tradussero in diverse lingue. Dorotea Levermour ne trasportò quattro in inglese(a).

Isabella Mastrilli duchessa di Marigliano fe imprimere nel 1703 la sua commedia il Prodigio della bellezza : il dottor Annibale de’ Filippi da Serino fe pubblicare in Firenze nel 1705 la sua commedia i due Bari : Pietro Piperni di Benevento diede fuori nel 1702 la sua Contadina Marchesa. Niccolò Salerno fe uscire per le stampe nel 1717 il Gianni Barattiere. Questi letterati sin dall’ incominciar del secolo XVIII mostrarono gusto ed intelligenza in tal genere di poesia. Ma inimitabile nel dialetto napoletano fu la grazia di Gennantonio Federico Curiale di Napoli morto dopo il 1750. Le commedie li Birbe ed il Curatore in prosa mostrano i suoi talenti comici singolarmente nelle dipinture felici de’caratteri, senza parlare della regolarità che si osserva in queste favole. Anche Pietro Trinchera di professione Notajo intorno all’epoca medesima compose altre due commedie nel dialetto napoletano, intitolate la Gnoccolara e Notà Pettolone che non iscarseggiano di grazia e di salsa dizione in quel dialetto nè di regolarità e di acconce dipinture de’ costumi volgari e de’ caratteri che imita.

Il marchese Scipione Maffei con due commedie in versi il Raguet e le Cerimonie regolari e bene scritte combatte due difetti del suo tempo, i quali pur sussistono in qualche popolazione, eioè il corrompimento del patrio idioma coll’uso delle formole francesi, caricatura che fornisce molti buffoni alle scene ; e l’importunità ristucchevole de’ molesti complimenti voti di sincerità. I versi dilombati e la languidezza della favola le rendono meno accette.

Giulio Cesare Beccelli compatriotto ed ammiratore del Maffei dal 1740 al 1748 pubblicò in Verona e in Roveredo sette commedie i Falsi Letterati, l’Ingiusta Donazione ossia l’Avvocato, l’Agnese di Faenza in versi, la Pazzia delle pompe, i Poeti Comici, l’Ariosista ed il Tassista. In esse col gusto che richiede la commedia si dipingono e si motteggiano le ridicolezze e i difetti della letteratura pedantesca, e i partiti capricciosi intorno a i nostri epici ed a’ poeti comici de’ suoi giorni.

Il grazioso Giambatista Fagiuoli compose in Firenze varie commedie in prosa ingegnose e piacevoli, nelle quali egli stesso rappresentava con plauso il carattere di Ciapo contadino fiorentino. La regolarità, il motteggiar salso, la naturalezza e vivacità de’ ritratti ne costituiscono il merito, e piacque a’ volgari ed agl’ intelligenti.

In prosa scrisse pure il dottor Jacopo Angelo Nelli le tre sue commedie impresse in Lucca nel 1751, i Vecchi Rivali, la Moglie in calzoni e la Serva Padrona, nelle quali con sale comico satireggia alcune debolezze e varii vizii popolari. Sono parimente scritte in prosa le quattro commedie regolari e ridicole di Simone Falconio Pratoli : la Commedia in commedia, il Podestà del Malmantile, il Furto onorato, la Vedova. Scrisse in prosa eziandio Vincenzo Martinelli il suo Filuzio Medico commedia mentovata dal Maffei e publicata nel 1729. La Marchesa di Pratofalciato del marchese Girolamo Teodoli anche in prosa dipinge acconciamente i caratteri che motteggia, ma Pazione procede con non poca lentezza.

Domenico Barone marchese di Liveri, ed il celebre Pasqual Gioseffo Cirillo verso la metà del secolo XVIII si fecero ugualmente ammirare in Napoli colle loro commedie calcando diverso sentiero.

Il marchese di Liveri ebbe la sorte di rappresentare le sue commedie alla presenza di Carlo III Borbone siu da’ primi anni del regnato di lui ; e le pubblicò per le stampe dal 1741 al 1756 in circa. Eccone i titoli : l’Abate, il Governadore, il Corsale, il Gianfecondo, la Contessa, la Claudia, il Cavaliere, gli Studenti, il Solitario, l’Errico. Tutte sono romanzesche nell’intreccio, piene di colpi di scena e di situazioni inaspettate, e terminano con più paja di nozze. Vi si dipingono però con mirabile esattezza i costumi e le maniere correnti del suo tempo, ed il ridicolo, specialmente del ceto nobile poco culto, è rilevato con grazia e maestria. L’imitazione de’ personaggi che parlano nel dialetto napoletano ha somma verità e piacevolezza ; là dove quella de’ personaggi che usano la lingua toscana, ha qualche stento sì per certe trasposizioni aliene dalla lingua e del genere comico, sì per alcune maniere di dire toscane ma poco toscanamente collocate.

Chi però servì di esempio al Liveri, o chi potrà seguirlo nell’imitare con indicibile verisimiglianza e col decoro che caratterizza la sua commedia ? Chi nell’esatta proprietà del magnifico apparato scenico che ne anima l’azione ? Un’adunanza grande di cavalieri, come nella Contessa : un abboccamento di due signori grandi col seguito rispettivo, come nel Solitario : una scena detta del padiglione nell’Errico che metteva sotto gli occhi una corte reale in attenzione di un grande evenimento : i personaggi con tutta la proprietà, e con destrezza pittoresca ma naturale, i quali tacendo e parlando facevano ugualmente comprendere i propositi particolari di ciascun groppo senza veruna confusione, sin anco l’indistinto mormorio che nulla ha di volgare prodotto da un’adunanza polita ; tutte queste cose quando più si vedranno sulle scene comiche ? L’artificiosa veduta della scena era di tal modo congegnata per indicarvi a un tempo diverse azioni e più colloquii, che presentava l’immagine parlante di una parte della città, o di una gran casa, e sbandiva dal palco l’inverisimile desolazione delle gran piazze e contrade ; là dove in ogni altro paese per un ridicolo miracolo poetico veggonsi sempre solo que’due o tre personaggi che piace allo scrittore d’introdurvi. I Greci non cadevano in tale inverisimiglianza col presidio del coro fisso ; ma Domenico Barone che n’era privo, seppe introdurre i suoi personaggi a favellare senza rendere le strade solitarie, la qual cosa dee osservarsi nella lettura delle commedie Liveriane colla descrizione della scena. Il sagace Carlo Goldoni stimò di aver compreso dalla fama che ne correva, la maniera di sceneggiare del Barone, e volle provarsi ad imitarla nel Filosofo Inglese, ponendo alla vista più colloquii in un tempo stesso ; ma non ne fu approvato, e ci avvertì, nell’imprimerlo che niuno gli aveva detto bravo per questo. Narrandoci questa indifferenza dell’uditorio Veneto, volle tacitamente insinuare l’inutilità dell’artificio Liveriano, in vece di dedurne, come dovea, di aver formata una copia esangue di un originale vivace. Si occupò il Goldoni tutto nella posizione esteriore mal motivata, e non si avvide che mancava alla propria imitazione l’essenza, l’anima che dovea renderla interessante. Quest’anima che tutto opera in simili posizioni, consiste in renderle verisimili e necessarie, e tutto ciò mancò all’imitazione che volle farne nel suo Filosofo. E che parte poteva prendere lo spettatore all’insipido giuoco di Lorino con Madama ? Alla cena che fa il di lei marito sul balcone ? Che verità si ravvisa nella collocazione di tali personaggi, senza verun perchè e fuori del consueto lor modo di vivere, a giocare e cenare dove mai ciò non fecero ? E queste azioni poi per se stesse aveano qualche importanza ? Ayeano in oltre qualche rapporto accessorio almeno col fatto del Filosofo ? Quando codesta scempiata posizione di figure non è che semplice disposizione arbitraria, diviene una violenza inutile che si fa alla verità per addormentar lo spettatore in vece di riscuoterne de’bravi.

Il celebre Pasqual Gioseffo Cirillo gran letterato avvocato e giureconsulto sommo, senza la pompa delle favole Liveriane richiamò sulle patrie scene gli artificii comici venutici da Menandro e da Terenzio. Scrisse per quanto io sò, tre sole commedie interamente, il Notajo ossia le Sorelle rimasta inedita, la Marchesa Castracani eccellente pittura della vanità plebea che aspira a sollevarsi dal fango e vi ricade con accrescimento di ridicolezza. S’impresse questa senza saputa dell’autore imbrattata di aggiunzioni di altra mano ; ma si è recitata molte volte con applauso grande per la grazia che vi regna e pe’contrasti de’ben dipinti caratteri. L’altra commedia che neppure si curò l’autore di fare imprimere, è il Politico da me veduta solo accennata a soggetto, come sono tutte le altre ingegnose favole del Cirillo, il Saturno, il Metafisico, i Mal’occhi, il Dottorato, il Salasso, l’Amicizia.

Dopo del Liveri e del Cirillo scrissero altri napoletani sulle loro tracce senza farli dimenticare. Il sacerdote Giovanni Tucci scrisse due commedie la Ragione ed il Dovere, da me vedute rappresentare in case particolari nella mia fanciullezza ; ma non so che siensi pubblicate per le stampe. Gioacchino Landolfo compose Don Tiberio burlato, il Cassettino e la Contessa Sperciasepe che non mancano di buoni colori comici. Giuseppe Sigismondo produsse Donna Beatrice Fischetti ovvero i Figliastri impressa verso il 1770, il Fantasma che è una imitazione del Tamburro Notturno uscita nel 1773, l’Alchimista, ed il Matrimonio per procura stampata nel 1777. In queste regna un ridicolo di parole che spesso procede da idee di schifezze o di oscenità. Anche il valoroso scrittore della Storia Civile e Politica del Regno di Napoli Carlo Pecchia che coltivò pure l’amena letteratura felicemente, compose l’Ippolito commedia pubblicata nel 1770, in cui si rileva con mano maestra il mal costume e le massime perniciose che nascono dall’educazione ; ma le tinte tragiche mescolate alle grazie comiche ne alterano il genere.

Francesco Grisellini veneziano nel 1754 pubblicò in Roveredo che nominò Libertapoli una commedia su i Francs-Maçons intitolata I Liberi Muratori in prosa di Ferling Isac Creus fratello operajo della Loggia di Danzica.

Nel 1739 si pubblicò in Venezia, e si reimpresse in Napoli nel 1740 una favola curiosa che mescola a molti tratti di farsa la piacevolezza comica contro i ciechi partiggiani del linguaggio cruscante. S’intitola il Toscanismo e la Crusca, ossia il Cruscante impazzito tragicommedia giocosa,

Uscì in Firenze nel 1760 i Letterati commedia nuova, in cui un goffo mercante fallito asino in tutti i sensi è costretto dalla fame a passar per filosofo e principe de’letterati, e si millanta unico scrittore d’iscrizioni latine che trascrive all’impazzata, e pompeggia resupino d’un gergo neologico inintelligibile, e di una sciènza libraria per cui distingue al tatto i libri del XV e del XVI secolo. Un mercenario Dottor Falloppa Giornalista antiquario di mestiere, vorrebbe alla prima screditarlo ; ma messer Torchio fautore dell’ignorante fallito guadagna in questa guisa il giornalista :

« Torc. Avreste difficoltà a metterlo nel vostro Giornale de’Letterati ? »

« Fall. Che dite mai, Messer Torchio ! E la buona fede d’un Giornalista ? E l’onore della letteratura ? Non posso certo. »

« Torc. Non potete ? Non occorre altro. »

« Fall. Aspettate, e ditemi per grazia, mi sapreste insegnare dove potrei trovare dodici bottiglie di vin vecchio di Cipro ? che ho finito il mio ! »

« Torc. (Ho inteso) Vi sarà il vino di Cipro. »

« Fall. E sei libbre di ciocolatte ? »

Falloppa persuaso dalle ragioni di Torchio scrive il paragrafo seguente : E arrivato in questa città un gran letterato… possiede varie cognizioni, e particolarmente diverse scienze utili all’umana società. Nel foglio venturo si darà notizia delle sue opere stampate e da stamparsi, che faranno grande onore alla letteratura Italiana . Torchio gli dice : Questo è troppo ; è un ignorante ; cosa volete che stampi ? Non importa , replica Falloppa, queste sono le formalità solite di noi giornalisti.

Agatopisto Cromaziano, ossia il Buonafede volle nel 1754 pubblicare in Faenza in versi sdruccioli i Filosofi fanciulli che chiamò commedia filosofica. Vi adopera tutto il sale aristofanesco e plautino per ridersi de’filosofi di ogni aria e di ogni secolo, come egli dice nel prologo, e soggiugne :

Verran per ora Egizii e Babilonici,

Traci, Milesii, Clazomenii, ed Attici,

E poi verranno ancor su queste tavole

Angli, Germani, Franchi, Ispani, ed Itali.

Gran piacevolezza di motteggi campeggia nell’azione, e tutta l’erudizione seminata nelle Annotazioni.

Terenzio ebbe nel secolo XVIII un ottimo traduttore in monsignor Niccolò Fortiguerra ; e più di un letterato prese a recare in italiano o tutte, o alcune delle commedie di Plauto. L’erudito Angelio tradusse in Napoli tutte le commedie di Plauto con molta intelligenza de’due idiomi. Rinaldo Angelieri Alticozzi ne fece italiane tre, intitolandole il Testone, i Due Schiavi e i Gemelli che uscirono nella Biblioteca Teatrale in Lucca. Aurelio conte Bernieri di Parma tradusse il solo Trinummo chiamandolo i Tre oboli, e vi adoperô un nuovo verso di dodici sillabe, come il seguente

Questa più d’altra leggiadra e più pudica,

ad imitazione di quello che usarono gli Spagnuoli del XV secolo, che Antonio Minturno nel XVI propose agl’Italiani, allorchè i letterati a gara givano in cerca di un verso che equivalesse all’antico giambico.

Una bella versione inedita abbiano dell’Epidico di Plauto fatta dal già lodato Placido Bordoni, ed a me cortesemente da lui rimessa nel 1796(a). E notabile per una fedeltà signorile che talmente manifesta le grazie latine nelle maniere italiane che pajono originali. Per darne un saggio trascriveremo una parte della scena seconda dell’atto II. Epidico aveva inteso da parte il disegno de’vecchi Apecide e Perifane per la spina della sonatrice che punge il cuore di quest’ultimo ; e sul punto fabbrica la sua macchina e la colorisce bellamente per ismungerne la borsa. S’introduce con avvisare che quelli che andarono alla guerra di Tebe, ritornano alle loro case. Chi può (gli dice Apecide) aver tutte queste notizie ? Io (risponde Epidico) che ho vedute tutte le strade piene di soldati. Prosegue :

« Epid. Quanti prigionieri poi non ho veduto ! Quanti ragazzi ! Quante ragazze ! Chi ne aveva due, chi tre, alcuni sino a cinque. Che concorso, che folla di gente ! I padri vanno ad incontrare i loro figliuoli che vengono dall’esercito. »

« Per. L’impresa non poteva andar meglio. »

« Epid. Non vi dico niente delle cortigiane : tutte quelle che sono in Atene, vedevansi uscite dalle loro case azzimate e linde andar incontro a’loro amanti, nulla obbliando per accalappiarli ; e ciò che mi diede più nell’occhio si fu, che quasi fosser tante pescatrici, avean tutte delle reti sotto le loro vesti. Arrivando al porto vedo tosto quella cara sonatrice che stavasene aspettando, e che avea seco altre quattro virtuose sue pari. »

« Per. Chi è costei ? »

« Epi. Quella che da tanto tempo è amata da vostro figliuolo, per la quale è quasi divenuto pazzo, e per la quale è sul punto di rovinare la sua riputazione, il suo stato ed il vostro. Questa gioja dunque stavalo aspettando al molo. »

« Per. Ah strega maledetta ! »

« Epid. Se l’aveste veduta ! che vestito ! che pompa ! come magnifica, galante, ed aggiustata all’ultima moda ! »

« Per. Dinne, dinne com’era dessa vestita. Era in abito succinto, o con gran falbalà, o avea forse il cortile, giacchè v’è l’uso di dar in oggi ai vestiti de’nomi stravaganti ! »

« Epid. Sì, sì, ma il cortile addosso ? »

« Per. Forse ti meravigli che agli abiti che esse portano, diano il nome di cortile, quasiche non ne veggiamo tutto il giorno che hanno addosso il prezzo di un podere intero ? Il male si è che i nostri zerbinotti che profondono a braccia quadre per le loro signorine, quando si tratta poi di pagar le gravezze, dicono che non sono in istato di metter fuori un quattrino. Ma ei pensino essi. Chi potrebbe poi tener a mente la lista de’nomi ch’esse inventano ogni anno pe’loro vestiti ? L’ermisino, la saja, il linon trasparente, la musolina ricamata, la camicia d’amore, l’abito color d’oro o ranciato, la gonnella, il gonnellino, il velo di testa, il manto alla reale, quello alla forestiera, l’abito color verdemare, il cangiante, il bianco di cera, quello a color del mele. In somma per vedere fin dove giunge il loro delirio, hanno tolto il nome sino ai cani. »

« Epid. In qual maniera ? »

« Per. Chiamano col nome di laconici certi loro vestiti. Queste continue mode, queste eterne novità obbligano gli uomini alla fine a vendere i loro effetti per contentar le loro belle » ecc.

L’istesso prelodato Bordoni fece parimenti varie buone versioni di commedie francesi, la Metromania del Piron, il Bugiardo di P. Corneille, i Litiganti del Racine, il Malvagio del Gresset.

Mentre tante commedie tutte regolari e piacevoli ed ingegnose per lo più componevansi dagli eruditi, il teatro istrionico nell’alta Italia, e singolarmente in Venezia non sapeva privarsi delle mostruosità, e delle maschere. Nato in tal città il celebre avvocato Carlo Goldoni l’anno 1707, sembra che ben per tempo egli fosse tratto alla poesia, teatrale. In età di otto anni fece una commedia. Educato alle lettere per tempo acquistò gusto, e concepì disprezzo per le irregolarità delle rappresentazioni comiche de’commedianti di mestiere. Per buona sorte nell’età di anni diciassette avuta nelle mani la Mandragola del Machiavelli che lesse dieci volte, non tardò molto a desiderare la riforma del teatro patrio(a). Questo buon pittore della natura, come lo chiamò Voltaire, prima di fare assaporare agl’istrioni la commedia di carattere dal Machiavelli sì di buon’ora mostrata sulle scene di Firenze, servì al bisogno, ed al mal gusto corrente. Entrò poi nel camin dritto sulle orme di Moliere ; deviò in seguito alquanto alterando ma con felice errore il genere ; e terminò di scrivere pel teatro, additando a’Francesi stessi la smarrita via della bella commedia di Moliere. Queste sono l’epoche e le differenti maniere delle favole Goldoniane. Amalasunta tragedia lirica, Belisario, Rosimunda, Rinaldo di Montalbano, mostri scenici cari ed utili a’comici, furono da lui in certa maniera rettificati, e l’occuparono intorno al 1734. L’Uomo di mondo ed il Prodigo a soggetto entrambe, la Donna di garbo scritta interamente, ed il Servo de’ due Padroni, argomento sugeritogli dall’eccellente Arlecchino Antonio Sacchi, lasciarono intravvedere il genio che givasi per gradi disviluppando. Il Figlio d’Arlecchino perduto e trovato, il Mondo della Luna, le trentadue disgrazie di Arlecchino, i Cento e quattro Avvenimenti, altro non furono che farse piacevoli destinate a far valere l’Arlecchino, Savie critiche soffersero l’Uomo prudente, i Gemelli Veneziani, il Poeta fanatico, l’Incognita, il Padre di famiglia. La mano del buon pittore dispiegò franchezza ed energia nella Locandiera, nelle Donne puntigliose, nella Vedova scaltra, nel Moliere, nelle Donne curiose, nella Serva amorosa, nella Figlia obediente, ne’ Puntigli domestici, nel Filosofo Inglese, nel Feudatario, nell’Avventuriere onorato, nel Ciarlone imprudente, ed in altre. Ma chi non vede il maestro nella Putta onorata, nella Buona Moglie, nel Caffe, nel Cavaliere e la Dama, nella Pamela, nell’Amante militare, nell’Avvocato Veneziano ? Lasciamo alla rigorosa critica di notare le lunghe aringhe morali de’Pantaloni, i motti talvolta puramente scenici, qualche deferenza per gli attori, la non buona versificazione, le mutazioni di scena in mezzo agli atti ecc. Ecc. Veggiamo noi nell’ultime sette commedie singolarmente i quadri inimitabili de’costumi correnti, la verità espressiva de’caratteri, il cuore umano disviluppato con maestria. L’anno 1753 cercando sempre nuovi argomenti, e nuove vie di piacere coll’accoppiar lo spettacolo alla piacevolezza e all’interesse, compose la Sposa Persiana, e negli anni seguenti Ircana in Julfa, ed Ircana in Ispaan, che ne seguitano la storia romanzesca, tutte e tre in versi martelliani, ed in cinque atti. Comunque debbano esser chiamate o commedie lagrimanti, o drammi, o rappresentazioni tragicomiche (perocchè alle ridicolezze di Curcuma si uniscono situazioni tragiche, gran passioni e contrasti pericolosi) esse riuscirono mirabilmente sulle scene.

Questo fecondissimo scrittore di circa cencinquanta commedie, cui tanto debbono le scene veneziane, e che tanto fe onore all’Italia, era già vicino a conseguire, che i commedianti deponessero per sempre le maschere. Ma soffrì tante guerre suscitate da’partigiani del mal gusto, e dagl’invidiosi calunniatori di mestiere, che annojato dell’ingiusta persecuzione cedè al tempo, e cangiò cielo. L’accolse Parigi nel 1761, e quivi ebbe agio di ritornare alla commedia di carattere, e col Burbero benefico (le Bouru bienfaisant) scritto in francese che gli produsse oro ed onore, col Curioso accidente, e col Matrimonio per condorso, mostrò a quella colta nazione quanto erasi essa dipartita dalla vera commedia colle sue rappresentazioni lugubri. Egli ebbe colà una pensione che gli fu tolta nella grande rivoluzione della Francia ; ma sebbene gli venne poscia restituita, ne godè molto poco, essendo morto a’9 di febbrajo del 1793.

Se l’abate Pietro Chiari avesse, come gli conveniva, secondato le sagge vedute del Goldoni, migliorandolo soltanto nella lingua, nella versificazione, e nella vivacità richiesta nelle favole per chiamar l’attenzione ; il teatro istrionico non sarebbe ritornato agli antichi abusi, e le maschere inverisimili si sarebbero convertite in caratteri comici umani graziosi e piacevoli. Ma egli si appigliò ad incoraggire i comici a conservarle, ed a fornirgli di commedie fatte a tale oggetto, e di drammi romanzeschi pieni di colpi teatrali per cattar meraviglia. Le sue favole il Koulican, e le Sorelle Cinesi si scrissero con tali idee. Egli verseggiava meglio del Coldoni, ma non coloriva col pernello della natura, che l’altro maneggiava con franchezza. Egli scrisse in versi martelliani la maggior parte delle sue commedie che s’impressero, se non m’inganno, in dieci tomi. Un gondoliere Veneziano che cambiò il remo per la penna, e la gondola pel tavolino, scrisse anche commedie in versi martelliani.

Mentre dividevasi il popolo tra Goldoni e Chiari, e sulle loro produzioni comiche si piativa ne’caffe di Venezia, comparve per terzo il conte Carlo Gozzi che finì di ristabilire tutte le passate stravaganze del teatro istrionico. Da prima quest’uomo di lettere pieno d’ingegno quasi scherzando prese a combattere i due competitori ; e si contentò di provar col fatto, che il concorso del popolo non era argomento sicuro del merito de’loro drammi. E per conseguirlo ricorse al solito comune rifugio del meraviglioso delle macchine, e delle trasformazioni, e degl’incantesimi, molla sempre attivissima su gli animi della moltitudine. Riusci dunque nell’intento che si prefisse, e si attenne poi da buon senno al sistema delle sue fiabe. Scrisse il Corvo, il Re Cervo, l’Oselin bel verde, i Pitocchi, i Tre Aranci, il Principe Jennaro, il Mostro Turchino, la Dama serpente. Le perturbazioni tragiche, le piacevolezze comiche, le favole anili, le metamorfosi a vista, un fondo di eloquenza poetica, e di riflessioni filosofiche concorsero a formare i nominati mostri teatrali lusinghevoli a sufficienza che sedussero il popolo Veneziano, sostennero in que’teatri il mal gusto, e distrussero l’edificio che aveva elevato il Goldoni. Il Gozzi ebbe un imitatore in Giuseppe Foppa.

Sembra che a toglier forza al falso argomento del Gozzi patrocinatore delle irregolarità, e stravaganze teatrali, uscita fosse da Bologna una nuova luce per richiamare il popolo alla buona commedia. Il marchese Francesco Albergati Capacelli, oltre alle traduzioni che fece delle tragedie francesi, calcando il dritto sentiero, pubblicò in Venezia in più volumi un Nuovo Teatro Comico composto di favole grandi e picciole, di uno o due atti, in versi ed in prosa. Singolarmente se ne applaudiscono il Saggio Amico, il Prigioniero, l’Ospite infedele, i Pregiudizii del falso onore ecc. . Sulle scene de’comici Lombardi si videro più volte sempre acclamate, e tanto frutto essi ne raccolsero che dovevano guarirli degl’invecchiati abusi che fra essi regnavano. I teatri degli amatori dell’ arte rappresentativa posseduta eminentemente dal marchese Albergati, non han lasciato di risonare delle commedie di questo cavaliere bene intenzionato al pari del Goldoni per la riforma delle scene italiane.

Il conte Pepoli cooperò parimente a conservare alla musa comica il festevole borzacchino. Ne’quattro tomi da me veduti del suo Teatro pubblicò quattro commedie in prosa : l’Impressario di due alti dipintura comica e naturale bene espressa : i Pregiudizii dell’amor proprio in tre atti, i cui caratteri mi sembrano più studiati di quelli che la natura presenta, la Scommessa ossia la Giardiniera di spirito in tre atti, la quale supplisce colla scaltrezza all’effetto che producono Pamela e Nanina coll’amore, e con poco fa perdere la scommessa alla baronessa tirando il Contino di lui nipote a sposarla ; i Pazzarelli ossia il Cervello per amore in due atti con ipotesi alquanto sforzate e con disviluppo poco naturale, che è non pertanto una piacevole dipintura di que’vaneggiamenti, che se non conducono sempre gli uomini ai mattarelli, ve gli appressano almeno. Trovasi nel tomo V che non vidi altre due commedie, il Bel Circolo ossia l’Amico di sua Moglie, ed il Progettista, nelle quali non dubito che vi si abbia ad ammirare la vivacita e l’arte all’autore non ignota di ben rilevare il ridicolo de’caratteri.

Il programma della corte di Parma che produsse cinque tragedie coronate, e ridestò in altri Italiani l’amore per la tragedia, non ha fornito al teatro italiano che sole tre commedie. È ciò forse avvenuto perchè non tutti si adattano a scrivere commedie in versi o senza esser deboli e bassi, o senza elevarsi alla nota tragica ? O perchè maggior difficoltà s’incontra in iscerre i tratti più espressivi dal vastissimo campo della natura come far debbe il comico poeta, che in calcare le orme del picciol numero di scrittori che il tragico prende a modelli ? O perchè i grandi affetti son sottoposti a minor variazione coll’correr dell’ età ; là dove i costumi i caratteri le maniere cangiano si spesso foggia e colore, onde avviene che gli scrittori comici passati possono di poco soccorrere i presenti ? O finalmente perchè, come l’addita Orazio, la commedia porta seco un peso tanto maggiore quanto minore è l’indulgenza con qui è riguardata ?

Ecco le tre commedie coronate in Parma : il Prigioniero già nominato dell’ Albergati onorato colla prima corona del 1774 : la Marcia dell’ abate Francesco Marrucchi che nel 1775 ottenne la seconda corona : e la Faustina di Pietro Napoli-Signorelli cui si assegnò la prima corona del concorso del 1778(a) questa commedia lontana dalle favole di Mercier quanto è dalla sapienza e dalla veracità il fattor Verace di Colpi d’occhio cisposo, è nel genere tenero concesso al comico. L’autore in seguito scrisse una commedia in due atti in versi intitolata la Critica della Faustina di un genere diverso, che pensava di produrre tra’suoi Opuscoli Varii, ma poi si astenne dal pubblicarla.

Nel 1781 compose il Napoli-Signorelli un’altra commedia tenera parimente in versi ed in cinque atti intitolata la Tirannia domestica ovvero la Rachele. Volle mostrare in essa come potevasi satireggiare comicamente l’abuso de’ nobili e de’ricchi che gli contraffanno in tutto, i quali costringono le loro donzelle a chiudersi ne’chiostri per non recare scapito alle sostanze della famiglia destinate a passare a’primogeniti. Simile disegno intrapresero in Francia gli autori della Melanie e dell’Eufemia, ma con mal consiglio e con niun frutto ne fecero due rappresentazioni tragiche e lugubri senza merito e senza fortuna. Rimase la Tirannia domestica inedita sino al 1793 quando si è pubblicata nel terzo volume de’nominati nostri Opuscoli. Il matritense don Leandro Fernandez de Moratin trattenendosi in Bologna dopo i suoi viaggi in Francia, in Inghilterra e in Italia, ebbe in pensiere di tradurre tal commedia in castigliano. Ignoro presentemente se l’abbia eseguito ; ma a’ 14 di maggio del 1796 ne rimise all’autore per saggio alcune scene. Non increscerà per avventura a’leggitori di vederne uno squarcio e notare la corrispondenza della versione coll’originale. È tratto dalla nona scena dell’atto quarto. Il traduttore dà ad Eugenio e Rachele i nomi di Carlos ed Isabel.

originale

Rachele

Oh momento fatal che mi rischiara.

Ma che il rigor del mio destin non cangia !

E come oddio ! tanti anni senza scrivermi,

Senza avvisarmi !

Eugenio

Anzi i miei fogli invano

Al Duca indirizzai per te e per lui.

Alfin risolsi scrivere ad Emilio,

E di Rachele a lui novelle io chiesi,

E l’avvisai del mio ritorno ancora.

Rachele

Oimè, tutto comprendo ! oh tirannia,

Come ben mascherasti il tuo sembiante,

Eugenio

Or che risolvi ?

Rachele

Nulla a me rimane,

Eugenio, più a risolvere.

Eugenio ?

Che dici ?

E abbandonar mi vuoi ?

Rachele

Non per un altro.

Eugenio

Nè mi vedrai mai più ?

Rachele

Per nostra pace.

Eugenio

Pretendi dunque il mio morir ?

Rachele

Non mai.

Anzi quei dì che la mia pena interna,

Che nel sen chiuderò torre mi debbe,

Implorerò dal ciel che a lui gli accresca,

Che fu parte di me… che di mia vita

Esser signor dovea… (sento morirmi !)…

Vivi, e di me ti risovvieni. Equando

Pur (che il dovrai) altra, non già più fida,

Ma più felice, occuperà quel loco…

Eugenio

Ah tu vuoi che a tuoi piedi io versi l’alma !

Rachele

Di : Rachel meritò miglior ventura.

Eugenio

No, non sperar ch’ Eugenio sopravviva

Alla perdita tua.

Rachele

Saprà Rachele,

S’è ver che nel tuo petto ancor comanda…

Ma par che a questa parte i passi volga

La Contessa col padre.. addio…

Eugenio

Mi lasci ?…

Per un capriccio !

Rachele

Per una parola…

E per un tradinento !

Eugenio

Addio …

Rac.)

Eug.)

Per sempre !

Eugenio

Oh chi potesse senza trasgredire

Il comando di lei spirar sul punto !

Rachele

Ê svanita ogni speme !

Eugenio

Io l’ho perduta !

traduzione

Isabel

» Desengafio cruel, que no amenora mi desdicha fatal ? Ay Dios ! y como pasar sin escribirme tantos años, sin avisarme ?

Carlos

» Te escribi mil vezes dirigiendo las cartas à tu padre.

Todo fue inutil ! à tu hermano embio

las ultimas, y en ellas le pedia noticias de Isabel, y le avisaba de mi venida.

Isabel

Ay Dios ! ya lo comprehendo

» Como ha sabido un proceder tirano con astucias cubrir !

Carlos

» Y què resuelves.

Isabel

» En esta situacion nada me queda que resolver.

Carlos

» Ay triste, y me abandonas ?

Isabel

» Por otro no.

Carlos

» Que no he de verte nunca ?

Isabel

» Nuestra quietud lo pide.

Carlos

» Con que debo morir, y tu lo mandas ?

Isabel

» No, no pienses que yo procure tal : antes llegando al punto extremo de mi vida, opresa de este oculto dolor, pedirè al cielo que alargue el curso à la de aquel que ha sido

» dulce parte de mi… que ser debia de mis acciones dueño. Ay vive, y siempre

» de mi te acuerda… Yo fallezco ! y quando

» (que al fin asi ha de ser) otrà dichosa

» mas que yo, no mas fiel, ocupar logre

» a quel lugar …

Carlos

» Ay ! tu quieres que espire de dolor à tus pies !

Isabel

» Dì : la cuitada

» Isabel mereciò mejor destino !

Carlos

» No esperes, no, que si te pierdo, yo viva.

Isabel

» Si algun dominio sobre ti conservo,

» Yo sabrè … Mas parece que à esta parte

» mi padre y la Condesa … A Dios

Carlos

» Me dejas asi por un capricho !

Isabel

» No, por una

» palabra que … por un aleve engaño !

Carlos

» A dios !

Isabel) y para siempre !

Carlos)

Carlos

Oh quien pudiera

» sin ofenderla mas, morir al punto !

Isabel

» No ay esperanza, no !

Carlos

» Yo la he perdido !

Oltre le nominate produsse l’autore in dué atti in prosa la Commedia Nuova tradotta dal castigliano dalla Commedia Nueba del lodato Leandro de Moratin. Il Signorelli segue l’originale, usando solo di qualche libertà nel rilevare vie più i piacevoli caratteri di Donna Rosina e Don Ermogene (a).

I commedianti riceverono un nuovo soccorso dall’esgesuita piemontese Camillo Federici. Commediante infelice a cagione (dicesi) della sua figura, per riparare a i torti di questa con l’ingegno, prese a scrivere commedie di più specie per l’ottima compagnia lombarda di Giuseppe Pelandi, delle quali ancora oggi si vede una parte ripetersi in qualche paese. Nell’edizione prima di Torino del 1793 e 1794 s’impressero in sei volumi, e si reimpressero nel 1794 in Firenze. Non pare che il maggior trionfo dell’autore provenga dalla piacevolezza e dalla forza comica. Conduce però spesso varie situazioni interessanti, rileva con vigore la culta bricconeria e insinua la morale e la virtù. Le sue favole tutte in prosa, eccetto una, sono di genere differenti. Alcune sono lagrimanti, alcuna tragica, altre ripiene di apparenze alla spagnuola, varie romanzesche, e molte comiche. Le lagrimanti sono : 1 il Cappello parlante, ossia l’Elvira di Vitry, in cui trovansi motteggi comici misti a situazioni lugubri e tragiche ; 2 il Ciabattino consolatore de’disperati che prende il titolo da un personaggio episodico, ed ha caratteri comici uniti ad eccessi di disperazione che oltrepassano i confini della commedia, presentando in Carlo Sundler un ritratto di quel padre che nella favola francese l’Umanità si trasporta ad assalire un uomo di notte in una piazza pubblica per procacciar soccorso alla propria famiglia ; 3 il Giudice del proprio delitto fatto per niun conto comico di personaggi famigliari ; 4 Totila, oi Visigoti tratta da alcune commedie spagnuole ed inglesi e dalla Caccia di Errico IV, e vi si osserva con rincrescimento una deflorazione violenta. Lo Schiavo è favola totalmente tragica e scritta in versi ; ma vi si scorgono varii intoppi nella traccia, ne’caratteri e nel piano. Le favole ripiene di apparenze sono : 1 il Tempo e la Ragione, che si chiama allegoria comica, e v’intervengono esseri allegorici come Incostanza, Astrea, Capriccio, Ragione, Tempo, Scrutinio segretario del Tempo, Errore. Vi si vede la reggia di Astrea, quella della Fortuna, la Spezieria del Tempo, l’officina dell’ Errore, il gabinetto della Verità ; 2 di apparenze ed allegorie non è men ricca la favola detta il Dervis o Savio di Babilonia, in cui veggonsi Genii, Ninfe la Disperazione, una Principessa che prende le spoglie della Gratitudine. Vi apparisce la selva de’Magi, ed in uno specchio grande veggonsi gli eventi che stanno accadendo altrove a’ personaggi lontani. Le favole romanzesche sono : 1 la Vedova di prima notte, nella quale chiama l’attenzione la sesta scena dell’atto IV, in cui avviene l’abboccamento della donna con un suo antico amante che in arrivare la trova maritata con un altro, il quale si scopre fratello di lei ; cosicchè il non aver voluto la donna unirsi col marito fortunatamente ha impedito l’incestuoso congiungimento di un fratello con la sorella ; 2 l’Uomo migliorato da’rimorsi, in cui interessa il brigadiere Senval colla sua beneficenza e col ravvedimento de’ suoi passati errori ; 3 la Disgrazia prova gli amici, in cui si trova la dipintura di un buon ministro che esperimenta tutte le umiliazioni da’malvagi che lo credono disgraziato ; 4 l’Udienza ove si dimostra il vantaggio che reca al Sovrano ed a’popoli la benignità de’ principi che ascoltano di presenza le suppliche de’ vassalli, esponendosi alla vista un ministro tiranno ed empio che trattiene il giovane principe in dissipazioni e piaceri, perchè lasci a lui opprimere a sua posta i popoli con enormi ingiustizie ; ma il principe d’ottima indole allo spettacolo di un indigente si scuote, risolve di udire di faccia a faccia i vassalli, e coll’ udienza che stabilisce scopre gli sconcerti dello stato e la malvagità del ministro che vien punito ; 5 il Tempo fa giustizia a tutti favola di due antichi abbandoni e di riconoscimenti, in cui è dipinto un libertino che si colma di delitti per le donne, e che in procinto di eseguire un ratto riconosce l’abbandonata sua amante e suo figlio e si ravvede. Sono poi piacevoli commedie di caratteri le seguenti : 1 i Pregiudizii de’paesi piccioli, nella qual favola si rileva la ridicolezza de’paesi provinciali pieni di nuovi nobili divenuti tali per danaro di plebei che erano, e schivi ed orgogliosi ricusano di ammettere ne’loro casini un uffiziale che non è meno che l’Imperadore ; 2 i Falsi Galantuomini, nella qual commedia anche va incognito un sovrano, e scopre le bricconerie di molti birbanti che prendono il nome di galantuomini, e le ingiustizie e le oppressioni onde tiranneggia un presidente che riduce all’ultimo esterminio un innocente colla speranza di acquistarne la moglie ; 3 l’Avvertimento alle maritate dipintura di un giovane ingannato da un don Geronimo che lo aliena da una buona moglie, l’avvolge in dissipazioni, in debiti, in prodigalità, gli presta con esorbitanti usure sotto un nome supposto, e lo riduce all’orlo del precipizio ; ed a tanti sconcerti ripara la moglie colla propria dote e saviezza ; 4 l’Avviso ai maritati, ossia la Correzione delle mogli capricciose, nella quale una dama vana, indocile, ritrosa, inobediente vien trasformata in umile, rassegnata e modesta negli abiti e nelle maniere da un ricco uffiziale che la sposa, l’allontana da tutto ciò che prima a lei piaceva, e mostrando con forza un apparente rigore alla bella prima, la guarisce ; solo in tal favola si mira come ozioso il personaggio del conte Ippolito, e si fa credere morto, e nulla poi produce per l’argomento ; 5 la Filosofia de’birlanti ripiena, forse troppo, di caratteri comici, fra quali anche si vede incognito un Duca di Borgogna ; 6 Non contar gli anni a una donna si aggira sul risentimento di una giovane innamorata, il cui amante ha avuta l’imprudenza di contraddirla (allorchè ella diceva di avere anni ventidue di età.) e di sostenere che ne contava ben ventisette ; i parenti si adoprano per calmarla, ma in fine prende l’amante a lor consiglio una freddezza ed indifferenza apparente, ella ne smania, vuol ricondurlo al suo amore, e finge di essersi avvelenata ; la menzogna si scopre e n’è derisa, e calmata al fine sposa il suo amante ; 7 la Fanatica per ambizione di quattro atti rappresenta una figliuola d’un ricco negoziante, la quale presa da matta vanità e da superbia intollerabile disprezza chiunque aspira alle sue nozze, dice a tutti sul viso i lor difetti, e se ne concilia l’odio ; uno di essi la tratta con pari alterigia ed insolenza, la rimprovera alla sua volta e la mortifica ; avviene il cangiamento di lei per un fallimento apparente del padre e per l’abbandono e l’alienazione di tutti quelli che la bramavano quando era ricca ; 8 il Matrimonio in maschera è un capriccio di una signora che s’intalenta di sperimentare se un cavaliere che ella ama, saprebbe ravvisarla e distinguerla a viso nudo in una festa di ballo, non avendogli mai parlato senza maschera ; a forza di tali ipotesi condotte con circostanze poco verisimili ella si assicura d’essere amata, si smaschera e lo sposa ; 9 la Cambiale di matrimonio, ossia la Semplicità favola poco vivace e piacevole rappresenta l’avarizia di un negoziante Inglese di Europa, e la semplicità di un Inglese di Europa, e la semplicità di un Inglese di America ; l’Europeo accetta la commissione di trovare all’ Americano una sposa e pensa di dargli sua figlia, la quale è gia prevenuta di un altro ; l’Americano zotico nelle maniere ma semplice e benefice all’ intendere le ripugnanze della sposa per lui a cagione del giovane che ella ama benchè privo di beni, risolve di fornirgli i mezzi da soddisfare l’aivarizia del padre di lei colle proprie ricchezze ; ma uno zio del giovane più ricco dell’ Americano gli dona il suo e tutto si calma. Questo novello scrittore drammatico continuò più anni a provvedere le compagnie comiche lombarde di favole che quando con tinte comiche e quando con apparenze e decorazioni tirò il concorso in Italia.

L’autore delle tragedie del Gerbino e del Corradino volle scrivere anche una commedia che intitolò Emilia, in versi, ed in cinque atti recitata da’commedianti del Teatro de’ Fiorentini in Napoli, che fu solennemente fischiata. S’impresse indi nel 1792 pel Raimondi con doppio epigrafe di due passi di Terenzio, i quali col testimone dell’autore ne comprovano la caduta mortale. L’impressione giustificò il giudizio del pubblico che la derise.

Il conte Alessandro Savioli produsse in Trento nel 1790 il Pregiudizio della Nobiltà commedia in tre atti mentovata nel giornale della Letteratura Italiana di Mantova. Il sig. Gherardo de Ressi Romano, uomo di lettere ben distinto, ha pubblicati quattro tomi di commedie scritte con intelligenza dell’arte. Altre quattro se ne hanno del conte Tommasino Soardi veneziano in prosa ed in versi. Allora che le riferite commedie videro la luce, ed alcuni anni dapoi, non mi permisero di vederle le vicende che mi agitarono ; e così non posso oggi quì rammemorarne altro, e mi attengo alla riputazione letteraria che godono meritamente i loro rispettabili autori.

Per compiere la narrazione delle commedie uscite negli ultimi lustri del passato secolo, e ne’due primi del preseute, rimane a parlarsi di due riputati Italiani, cioè del conte Giovanni Giraud romano, e dell’insigne conte Vittorio Alfieri, i quali per sentieri ben diversi colsero non volgari palme dietro la scorta di Talia.

Il Giraud fe imprimere in Roma presso Beurliè nel 1808 in quattro volumi in ottavo le sue commedie dopo di averle vedute in diverse città d’Italia rappresentate, e quasi tutte applaudite e ripetute. L’indicata edizione trovasi dall’ autore arricchita della storia particolare di ciascuna, dell’ esposizione delle critiche sofferte e delle difese, ed oltreaccio di alcune particolari istruzioni agli attori per l’esecuzione di ogni favola.

Ogni tomo contiene due commedie ed una farsa. Trovansi nel I l’Ajo nell’ imbarazzo in tre atti recitata in Roma, il Pronosticante fanatico in tre atti ancora quivi recitata nel 1808, e la Conversazione al bujo in un atto solo seritta nel 1804 per alcuni dilettanti. La continuata riuscita della prima distrusse ogni efimera opposizione de’ criticastri. I caratteri del marchese Giulio, dell’ Ajo. Don Gregorio, e di Gilda tenera moglie e madre hanno un colorito sommamentè espressivo. L’eccellente atto primo è seguito dal secondo, che io trovo importantissimo per l’azione condotta con ogni verisimiglianza, il quale prepara la desiderata catastrofe del terzo. Forte e conveniente al carattere del marchese Giulio, è il colpo di scena che mena una situazione interessante. Il padre trasportato dalla collera alla notizia del maritaggio del figlio è in procinto di maledirlo, e Gilda che stà ascoltando esce impetuosa, e l’impedisce di profferire, e minaccia di trucidare piuttosto il proprio figliuolino. Che fate scellerata ? le dice il marchese atterrito, e siete madre ? E Gilda : E voi che fate ? e siete padre ? Questa risposta inaspettata lo scuote, lo corregge, ed apporta il lieto fine dell’azione, e dell’imbarazzo dell’ Ajo. Il Pronosticante fanatico è una comica sferza contro la ridicola presunzione di taluni che presumono di tutto antivedere come uomini di mondo. Simile ridicolezza si communica in certo modo anche alla figliuola di Gaudenzio pronosticante, e contribuisce a sostenere un equivoco, per cui si conchiudono le nozze del Capitano de Volage venuto ad annunziare la morte di un altro, con cui si erano prima trattate per lettere. Il dialogo proprio e naturale seconda felicemente i caratteri delle persone imitate. La farsetta che accompagna le due commedie, rappresenta la combinazione di sei persone in una stanza introdotte a trattenersi al bujo, che produce tre pajo di nozze. Nulla ha di nuovo, ma non laseia di far ridere.

Uscirono nel tomo secondo le Gelosie per equivoco, l’Ingenua ingannata, l’Innamorato al tormento. È fondata la prima sull’ equivoco del ritratto del Cocu immaginaire di Moliere, tratto per altro da una commedia Italiana del XVI secolo, e maneggiato altresì comicamente dal Fagiuoli. Il Giraud tanti equivoci combinò insième che ad un comico intelligente parvero troppi per tre soli atti, e l’autore che nel 1799 così divisa l’avea, la prolongò sino a cinque ; maturatone poscia di nuovo il piano tornò a riscriverla in tre, e così comparve sulle scene nel 1807, e fu applaudita. L’Ingenua in periglio divisa in cinque atti, si recitò la prima volta in Modena con successo nel 1807, in Bologna però ed altrove fu accolta meno favorevolmente, ed in Roma se ne vietò la rappresentazione, benchè si permise d’imprimersi. L’artificio di un malvagio impostore trascina un giovine nobile ad abbandonar la moglie con una calunuia, ed a tirare nel proprio feudo un villano con dichiararlo suo Intendente per tirarlo colla fanciulla Nannina nella propria casa, cui fa sperare di sposarla. V’ha certo comico che piace, un colorito che interessa ; ma qualche durezza nel corso dell’azione la soggetta a critiche talvolta ragionevoli. Certo è che il pericolo e l’inganno tessuto all’ Ingenua vicina ad esser vittima della seduzione, l’indignazione che produce l’abbandono della virtuosa Teresa e la perversità di Don Bastiano, danno a questa favola un’ aria men piacevole che seriosa. L’autore stesso parmi che la diffinisca sagacemente : io la credo difettosa secondo i principii dell’arte, ma la tengo per una commedia di buon effetto, e scritta con sufficiente artificio e cognizione di teatro. La commedia in un atto che chiude questo tomo, l’Innamorato al tormento, rappresenta una vedova accorta che lusinga uno spagnuolo vanaglorioso per mettere a prova e tormentare un innamorato per cui al fine si dichiara. L’autore adoratore del merito del Goldoni forse potè avere in mira la di lui Vedova scaltra, benchè se n’è per varii riguardi non infelicemente allontanato. Sembra che l’azione si acceleri troppo per farsene vedere lo scioglimento.

Trovansi nel tomo III l’Innocente in periglio, la Capricciosa confusa, commedie, e la farsa il Merlo al vischio. La prima in cinque atti acclamata in Roma, nel 1807 non piacque altrove. Il titolo non manifesta il personaggio innocente in pericolo. È Gerardo o Anicleto ? Il primo in effetto ha ucciso un uomo benchè per difesa di se stesso e dell’onore della moglie : il secondo stolto villano perfettamente innocente è in procinto di esser fucilato. Le critiche che se ne fecero non bene si distruggono per le difese addotte. É una pretta commedia lagrimante, in cui al dire del medesimo autore,sono in contrasto le lagrime e le risa, essendo stata scritta nel furore della lettura de’ drammi sentimentali.

La Capricciosa confusa parimente in cinque atti si scrisse per una particolar società di dilettanti. Tra le commedie di carattere dee contarsi come buona. Il Merlo al vischio. Questo proverbio indica la sostanza della farsetta in un atto che conchiude il tomo III. Un evento famigliare istorico accresciuto con acconci episodii la fe nascere. Non si è mai rappresentata ; ma non displacerà per avventura sulle scene il vedere un merlotto preso dagli artificii di donne intriganti.

Contiene il tomo IV la Ciarliera indispettita o sia il Padre prudente in tre atti, la Frenetica compassionevole, o sia gli Effetti della violenza in cinque, e la Casa disabitata in un atto. Ottima commedia sembrami la prima e piacevole ed interessante nella semplicità e notabile pel carattere di Adelaide in cui l’amore del genitore fa chiudere nell’intimo del suo cuore la passione che la divora per Filiberto. Nè chiama meno l’attenzione di chi legge o ascolta la prudenza di Alessandro che sa rimettere l’ordine in sua casa colla prudenza e la dolcezza. Si recitò con applauso la prima volta nel 1808 in Roma. Ma la seconda recitata in Roma pur nel medesimo anno è una favola lugubre che l’istesso autore esitava, se dovesse nominarla comica, drammatica o neutra ; è uno de’ drammi lagrimanti indeterminati al pianto ed al riso, con l’aggiunta di una pazzia tanto difficile ad ottenersene con pari sollecitudine la guarigione, senza la quale non può seguirne lo scioglimento sperato di lieto fine. La Casa disabitata recitata in Siena con molto applauso merita tra le farse ben congegnate luogo distinto.

Rilevasi dalle riferite commedie che l’Italia in questi ultimi tempi possiede nel conte Giraud uno scrittore comico non volgare e da collocarsi tra’ primi che brillarono fra noi in tal carriera. Non può negarglisi somma conoscenza del teatro e perizia del mondo. Da queste sorgenti nascono i suoi piani con arte e verosimiglianza ravviluppati e disciolti, i caratteri maestrevolmente delineati e coloriti, gli argomenti sempre interessanti. Avvicinandosi al Goldoni nel ritrarre i costumi correnti e le passioni e le ridicolezze della vita privata, non cade mai nel dialogo in tirate istrioniche. Sorpassa il Federici anche allora che costui calza acconciamente il comico borzacchino, nè sulle di lui tracce o del Gozzi ricorre alle apparenze, agl’incantesimi, alle trasformazioni a vista. Gareggia col riputato Albergati nell’imitar dalla natura e ne scansa alcune lungherie. Passiamo alle commedie postume del nostro gran tragico di Asti.

Ne abbiamo sei commedie con la seguente epigrafe,

Giovine piansi, or vecchio ormai vò ridere.

Ma egli ride sul gusto di Aristofane trattando materie politiche, e solo se ne diparte perchè non nomina punto i satireggiati come faceva il comico di Atene. Le prime quattro si occupano dell’oggetto medesimo politico, e s’intitolano : l’Uno, i Pochi, i Troppi, l’ Antidoto. La prima porta per epigrafe il v. 748 dell’ Antigone di Sofocle.

Πόλις γαρ ούϰ έςθ ητις ἁνδρός ἑτθ ΕΝΟ,

Città non è, se l’ ha in balia sol Uno.

Si figura che debba darsi il sovrano alla Persia, e che i Grandi discordino nella scelta del Governo, volendo altri nominare un successore a Cambise e Smerdi, altri creare una oligarchia, altri una democrazia. Dario è il personaggio principale che tira a se i voti discordi per mezzo di un responso che destina per re colui tra’ Grandi che abbia un cavallo che saluti il sol che nasce prima degli altri. Contansi tra gli attori un Indovino, un Gran Sacerdote, uno Stallone e Chesballèno cavallo che parla co’ nitriti. È scritta come le altre in toscano con pienezza di riboboli e idiotismi, e con alcune bassezze e sudicerie. Può vedersene la versificazione nel passo che soggiungo, in cui Gabria parla agli altri Grandi :

Voi tre

Non siete punto di un parer diverso,

Sol di diversa chiacchiera. Lo stesso

Ciascun di voi vorria sotto altra maschera.

Leviamcela. Regnar da Re vuol Dario ;

E da magnate regnar Megabise ;

E regnar vuol da tavernajo Orcane ;

E Gabria vuol (direte voi senz’altro)

Regnar anch’ei. Da che ? Da Liber-Uomo

Sovra me stessò, e sotto niun di voi.

I Pochi. Porta il motto da farsi

Pochi potenti

Molti insolenti.

Vi satireggia l’autore i costumi moderni de’ nobili, de’ pretesi ottimati e de’ plebei ricchi e insolenti, nel dipingere le contese de’ Patrizii e de’ plebei di Roma antica. I Gracchi proteggono un plebeo per farlo riuscir Console. Fabio sostiene se stesso per divenirlo. Al primo incontro Tiberio grande oratore è superato da Fabio che nella seconda contesa è dichiarato Console. Una delle scene più pregevoli è l’abboccamento di Terza moglie di Fabio figlia di un Equite con Cornelia madre de’ Gracchi figlia di Scipione che ad ogni parola scipioneggia.

I Troppi. Intervengono in questa terza commedia Alessandro il Macedone con Statira e Rossane sue mogli, Aristotile, Crito, Efestione, Antipatro, un filosofo Indiano, un Gran Maestro di Cerimonie, e Demostene ed Eschine ed altri otto Oratori Ateniesi. Questi si descrivono sudici, presuntuosi, che si pavoneggiano di esser liberi, e disprezzano gli altri come schiavi ; quando però si tratta di mangiare a spese de’ Persiani, sono intemperanti nel bere e nel mangiare, e rubano due poculi di argento. Eschine gli esorta a disuntar le loro barbacce, ed unguentare i loro capegli, per evitare che in Corte si rida di loro a scherno di Atene eccelsa. Trattandosi di andare all’udienza Demostene fa loro sapere che volendo presentarsi ad Alessandro debbono prosternarsi e adorarlo all’ Asiatica. Prosternarci noi ? Noi Greci a un Re ! Inutilmente Aristotile cerca persuaderli. Si discute in qual modo possano i Greci accomodarsi alla cerimonia senza abbassarsi con vergogna della Grecia. Statira in sì grave frangente prende la parte de’ Greci, mentre Rossane si dichiara contro di loro presso Alessandro. Aristotile propone un mezzo termine, cioè

Che in bel mezzo dell’elmo il Re si appicchi

Tutta armata, e con l’egida una bella

Pallade maestosa.

I Greci introdotti si prostreranno, non al Re, ma alla Dea, e così all’apparenza adempiranno alla cerimonia. A ciò aggiunge Alessandro che a Demostene si diano venti talenti Dorici, conchiudendo che

Noi frattanto

Pomposamente ad onorar pensiamo

La maestà del Popolo d’ Atene.

Demostene palesa la guisa di adempiere all’adorazione senza pregiudizio della Grecia, e gli Oratori se ne dichiarano contenti. Il Cerimoniere porta vasi, barbe, cinture ecc. onde rassettare men porcamente gli Ateniesi. Nella scena quarta dell’atto III si alza un telone, e comparisce Alessandro in trono fralle mogli ed i cortigiani. Al suono delle trombe Demostene si prostra con tutti gli Oratori. Ma nell’elmo di Alessandro in vece di una Pallade si trova un Gufo coll’ali spiegate che volge la coda al volgo. Demostene aringa, ed Eschine aggiugne :

Alta ed eterna,

Esimio Re, sua gratitudin vera

Ti sacrerà per la salvata intatta

Sua libertà la non mai serva Atene

Rossane, Non mai serva ? Efestione,

Che favole ! Antipatro, Impostori !

Efest. Serva sempre dei pessimi. Antipatro. E tiran na

De buoni tutti sempre.

Demostene poi dice ad Alessandro,

Ti fo noto

Che a pieni voti ogni di lei Tribù

Suo cittadin volendoti, eleggevati

Spontaneamente suo perpetuo e primo

Arconte.

I Greci ridono, ed i Persiani tumultuano. Si promulghi, dice Alessandro

Che Atene or fammi e Cittadino e Arconte.

El invita ad un banchetto i due Capi degli Oratori dicendo,

Cola mi avrete e Cittadino e Arconte.

Nell’atto IV dopo un pettegolezzo di Statira e Rossane, siegue il banchetto nel quale esse non intervengono. È ammesso anche Calamo filosofo Indiano ; ma non essendovi donna veruna, Alessandro dice,

Certo noi quì Saggi siam troppi, e spesso

Tanta Sapienza termina in pazzie.

Ma si mangi, sarà quel che sarà.

Clito in mezzo all’ adulazione degli altri lancia de’ motti che feriscono il Re, che lo richiama con dolcezza. Clito non cessa ; tutti con Aristotile applaudono all’ umanità di Alessandro ; Clito sempreppiù imperversa con insolenze a tal segno, che Alessandro lo fa cacciare ; Clito l’insulta e lo chiama tiranno, Alessandro l’insegue, e dentro l’uccide, e se ne pente da poi. Antipatro esclama contro i Sapienti Ateniesi :

Insuperabil sorga

Doppio un muro di bronzo infra i filosofi

E la corte ed il Re. Da noi diverse

Bestie voi siete, e abbiam mestier diverso ;

Banchetto filosofico-reale

Mostro è risibil che finisce in pianto.

Nell’ atto V contrastano Eschine e Demostene ; sono essi invitati alla cerimonia di Calamo che vuole bruciarsi ; s’incaminano, ma si annunzia che egli si è gittato nella pira tre ore prima. Si previene che il Re gli congeda, e che egli stesso si accinge a partire.

Demostene. Oime per dove ?

Eschine. Forse in Atene ei ci precede ? Efestione. Or no,

Ch’ei sconsolato del suo Clito è troppo.

Per ingannare e alleviare alquanto

Il duol profondo suo, spingere or vuole

Su l’infida Persepoli il suo esercito,

Ne omai lasciarvi pietra sopra pietra.

Demostene. Regio è il sollievo.

Tutti si risolvono a partire e gridano uscendo in tumulto, Atene, Atene, Atene. Antipatro dice, Al diavol tutti, Efestione, E al diavol, spero, Atene,

Aristotile. Li fa esser tali il popolar Governo.

Antipatro. Durato han troppo. Efestione. E rei son troppo. Antipatro. E Troppi.

L’Antidoto ha per epigrafe,

Tre veleni rimesta, avrai l’Antidoto.

Vi precede un’ osservazione dell’ editore, che ci fa sapere che l’autore spiega la sua intenzione, con questa commedia, di scegliere il meglio di ogni sistema governativo per creare l’ottimo. Nota altresi che l’Alfieri medesimo scrive nella sua Vita : che sino dal 1800 egli ideò ad un parto le sue sei commedie, delle quali le prime quattro chiama una sola commedia divisa in quattro, perche tendenti tutte ad uno scopo solo ma per mezzi diversi. Spiega in altro l’ Alfieri e per lui l’editore il fine avuto nel comporle, dicendo di aver preso unicamente a dèridere e ad emendar l’uomo, ma non l’uomo d’ Italia più che di Francia o di Persia ; non quello del 1800 più che quello del 1500 o del 2000. Soggiugne specialmente che le quattro commedie prime sono adattabili ad ogni tempo, luogo e costume.

La scena dell’ Antidoto si finge nell’isole Orcadi nelle case di Pigliatutto, di Rimestino Pigliapoco, ed indi nella spiaggia del mare. Intervengono in essa : Pigliatutto, Piglianchella sua moglie, Rimestino e Borione e Tarantella Pigliapoco, e Gonfalona e Graziosina loro mogli, una Levatrice moglie del mago Pigliarello, Impetone Guastatutto, Misach mago dell’ Arabia, e le Ombre di Dario, di Cajo Gracco e di Demostene. Il punto dell’ azione si è l’attendersi il parto di Piglianchella. La fazione Pigliapoco, e freme temendo di esserne sempre più maltrattata. I Pigliatutto sono gonfi del ritrovato della Rete che piglia i pesci a staja, e disprezzano i pescatori d’ame. Graziosina e Gonfalona attendono la loro vendetta da un incantesimo preparato dalla levatrice Saviona. Si fa l’incantesimo con chiodelli e chiodoni conficcando gli sportelli del tabernacolo, e sperano d’impedire il parto di Piglianchella. Nell’ atto II si sente Piglianchella in travaglio per partorire. Si riferisce il naufragio di una nave, da cui si è appena salvato un uomo, il quale parla un linguaggio ignoto, benchè non ignori egli quello delle Orcadi. Nell’ atto III viene quest’uomo che è il Mago Mischach, con Tarantella per vedere Pigliatutto. Dicegli Tarantella che per ora è nell’ imbarazzo del parto difficile della moglie. Mischach se ne mestra inteso come di tutt’altro che passa nell’ isola. Si abbocca con Pigliatutto, cui dice che egli è odiato a cagione del ritrovato della rete, e che la fazione mal’ affetta ha tramato un incantesimo per cui la moglie non può partorire. Di poi l’esorta a sperare, dipendendo da lui stesso il rimedio : sol che tu scelga qual prole più desideri. Se sceglie un maschio, maschio sarà, ma in qualche parte mostruoso. Aggiugne che il padre può scegliere tre varie forme di mostri : I un figlio perfettissimo di mente e anco di corpo, se non quanto gli mancheranno ambe le gambe ; 2 o uno che avrà le gambe, ma avrà tre teste senza le mani ; 3 o un mostro di gran forza di corpo ma senza testa. Gli previene però che il senza gambe farà tagliar le gambe a tutti per adattarsele, onde chi resterà congiurerà contro di lui per ucciderlo ; il mostro senza mani di tre teste non soffrirà che altri abbia mani ; il senza testa infine appiccicherà al suo busto ogni più iniqua testa. Mischach nel quarto atto fa l’evocazione de’ morti per prenderne consiglio. Ordina prima in forza della sua bacchetta che sorga primiera l’Ombra di Dario, e lo prega a dire quale scelta egli farebbe per se stesso. Io scelsi per me il mostro senza gambe ; esorto però Pigliatutto a scerre quel senza testa ; ma nol persuade. Il mago fa venire l’ Ombra di Cajo Gracco, la quale consiglia a scegliere il senza gambe. Finalmente si fa venire l’ Ombra di Demostene che dice : Scegli il Tre teste. Pigliatutto disprezza l’avviso di tutte le Ombre ed ogni loro ragione. Al fine sparite le apparenze Mischach gli dice che delle tre opinioni semivere a semifalse è formata

Già dal destino, o Pigliatutto, e sculta

Ella è in eterno, la tua egregia scelta

Che di lor mista nasce. Ecco sparite

A un tratto l’ Ombre e stritolati i marmi

E uscita in luce la tua esimia prole.

In fatti allo strepito di tuoni e lampi tutti fuggono, e Piglianchella partorisce. In una spiaggia di mare nell’ atto V i Guastatutto ed i Pigliapoco si uniscono per assalir Pigliatutto ; ma vengono fra loro a contesa, ciascuno pretendendo alla rete. Viene la notizia del parto già seguito di una bellissima fanciulla, la quale nascendo, è cresciuta subito in una donzella di venti anni. Nell’ ultima scena viene. Pigliatutto, Mischach e la Neonata. Mischach esorta tutti ad ascoltare la Neonata, la quale spiega a quai patti promette

Felici fargli, prodi, ottimi e giusti.

Ella dice : ristringo, in una le quattro parole. Farvi or prometto lideri. Volta indi al padre lo loda di non aver voluto scerre alcuno de’ tre mostri. Ognuno da se stato sarebbe un terribil malanno, ma frammisti

Immedesmati l’un nell’ altro essi hanno

Or procreato me. Voi dunque omai

Vostre tre classi immedesmando.

Tutti detestano questa mescolanza, ma Mischach minaccia di addoppiare lo scoppió de’ tuoni ec. La Neonata ordina che si acquetino. Voi tutti, lor dice, di mia mano misti, stacciati, rimpastati già state per farvi un Antidoto divino

Contro que’ vizii e sudiciumi stessi

Ch’eran già vostra essenza.

Abbiansi i Guastatutto come poveri l’ uso della rete ; i Pigliapoco la cura di rattopparla e custodirla ; Pigliatutto che l’ ha inventata, ne sarà l’arbitro. E se i miei figli o io vorremo ad arbitrio

Negarle il marchio, o darla a questi e torla

A quelli ? Neonata. Allor te la torrebber tutti.

Pigliatutto è il primo a giurare l’osservanza de’ patti della figlia, e tutti lo seguitano e giurano. Rimane solo, dice Pigliatutto, o figlia, a darti un nome per onorarti, e rendere a tutti nota la tua deità. Neonata ripiglia :

In fin che saggi

Sarete voi di possedermi soli

Voi paghi appien, non m’imporrete nome.

Ma se Opulenza, e la fatal sua figlia

Insolenza, vi fanno ebbri di entrambe,

Me nomerete allora liberta.

Stolti ch’io allor con voi non son già più.

La Finestrina è la V commedia dell’ Alfieri. L’azione passa nella casa di Plutone e negli Elisii. Interloquiscono i tre Giudici dell’ inferno, Mercurio, Maometto, Cadigia sua moglie, ed altre due sue mogli, Confucio, Saturnisco, Lunatina, Ombre varie, fralle quali quella di Omero che solo parle, Coro di Ombre.

Mercurio per comando di Giove viene a spiare la condotta de’tre Gludici infernali ; ne osserva la poltroneria, e ne disapprova l’indulgenza, e la facilità con cui mandano le anime agli Elisii benchè immeritevoli. Minosse si discolpa su gli altri due, e persuade Mercurio ad assistere a qualche giudizio. Si presenta un abitante gigantone di Saturno, e vien giudicato su i fatti, non su i pensieri. Egli era Re su quel pianeta de’ 637 che ve ne sono, ed avea sotto di se 138 milioni di vassalli, i quali giacevano involti in un perpetuo freddissimo bujo ed inverno. Egli pensò di avvicinare al possibile il pianeta al Sole a forza di argani, i quali bastarono appena ad appressarlo per un centinajo di miglia. Ma perchè egli infierì acerbamente contro i sudditi che arganavano, essi si ribellarono e l’uccisero coi suoi ministri e consiglieri. Egli chiede sede distinta negli Elisii. Minosse lo stima anzi meritevole di castigo per la matta impresa ; ma Eaco e Radamanto lo giudicarono degno degli Elisii. Si pose l’affare a partito, e si trovarono due fave bianche ed una nera. Viene un’Ombra Lunatina appartenente alla Luna. Ella pretende sede negli Elisii, perchè sollevò il sesso femminino contro i maschi ; ma pure disertando dalla sua bandiera molte donne che si congiunsero co’maschi, ella fece lo stesso a condizione che ella non dovesse cedere le armi, e lo sposo trattar la conocchia. Si viene allo scrutinio, e Minosse resta solo, e Lunatina è mandata agli Elisii. È finalmente gindicato della stessa maniera Maometto, ed ottiene parimente sede negli Elisii. Ciò nell’atto II. Si vedono nel III i campi Elisii, dove vengono anche due mogli di Maometto, con cui si abbocca Confucio. Sopravviene Cadigia prima moglie di Maometto, e Confucio per essa intende che Maometto è un Capisetta Legislator Profeta Condottiero arricchito da Cadigia. Maometto si abbocca ancora con Omero ; e la loro conferenza forma un bel contrasto di modestia nel Greco e d’arroganza artificiosa nell’Arabo. Mercurio viene eo’Mazzieri e strascina di nuovo Maometto al tribunale, e secolui Cadigia. Nell’atto IV Maometto è giudicato di nuovo. Ma Mercurio prima di ogni altro giudizio propone dì fare colla sua verga una finestrina nel cuore de’giudicandi onde apparisca l’intimo e la sorgente delle azioni. Fatta la finestrina nel seno di Maometto, se ne osserva tutto il sudiciume interiore ; e si vede come egli a Cadigia cui tutto dovea, diede il veleno, per impossessarsi de i di lei beni : vi si vede l’assassinamento de’suoi più intimi, il suo morbo epilettico cangiato in ispirazione divina, il colombo che viene a dar di becco al miglio nascosto ne’suoi orecchi, che egli diede ad intendere essere un paraninfo celeste. Si fa la finestina nel petto di Cadigia sua fida moglie, e si vede che ella era adultera con Maometto vivendo il primo marito, e con lui si accordò ad avvelenarlo ; e moglie poi di Maometto s’innamorò di un Cammeliere, e fregiò la di lui fronte con l’ornamento dei numi Fiumi. Son chiamati Saturnisco e Lunatina, ed esposti alla pruova della finestrina, si vede nel gigantone vanità somma ed un impaziente brama di gloria e di luce, ma non del pubblico bene ; in oltre che gli argani onde servissi formati erano di budella de’popoli soggetti per mezzo di un ministro mago, e quindi sbudello i sudditi a migliaja. Chiamata la Lunatina, non volendo soggiacere allo squarcio, si fugge. Si apre anche a Confucio il petto, ed anche il suo cuore puzza benchè meno degli altri, e stuzzicando un poco più esala maggior puzzo : ambizione, ipocrisia, tirannia mascherata di filantropia, ragione sreligionata ; dunque impostore anche il filosofo Cinese. Segue ribellione delle Ombre condotte da Lunatina e portano secoloro Confucio sventrato. Tornano i Campi-Elisii nell’atto V. I Giudici portano Maometto, avendogli riturata la finestra. Egli promette di placar le Ombre. Mercurio viene a ristabilir la pace negli Elisii, Minosse dice :

Perchè quaggiù la pace si riabbia,

Trionfi pur, se il debbe, quel che pare

Sovra quel ch’è.

e Mercurio :

Che in mio volgar direbbesi,

L’impostura trionfi.

Chiamansi di nuovo le Ombre al tribunale, e ci vengono con Omero. Mercario da parte di Giove promette loro il perdono e l’obblio del passato. Se altro desiderino, il dica per tutte una di esse, e segnatamente Omero, il quale assicura che si vuoterebbero gli Elisii, se rimarrebbe fisso l’uso della finestrina, indi rivolto alle Ombre così conchiude :

Ombre or dunque a me coro risonante

Fate eccheggiando che mai più in eterno

S’abbia a parlar di far le finestrine,

Fuorchè a finestra sua ben spalancata

Venga colui che vorrà aprirle a noi.

La VI commedia postuma dell’Alfieri, s’intitola il Divorzio. Tutta piacèvole si allontana dall’indole delle precedenti. V’intervengono : Agostino Cherdalosi con Annetta sua moglie e Lucrezina sua figlinola, un Conte Ciuffini, un Warton Inglese, uu Piantaguai militare, Settimio Benintendi, con Prosperino suo figlio, Tramezzino prete, un Becchino medico, un Avvotato, Fabrizio Stomaconi, Notajo Radibene che non parla. Nell’atto I si vedono alcuni che frequentano la casa del Cherdalosi per la Lucrezina sua figlia, e mentre se ne disviluppano i caratteri, si vede che Prosperino disposto a fare un viaggio, lo differisce per essere invaghito di Lucrezina. Ciuffini che ama la giovanetta e n’è amato, va tastando l’acqua per leggere nel suo cuore. Tramezzino prete maestro di Lucrezina reca a Prosperino una di lei lettera amorosa, che egli mostra a suo padre Settimio. Ne parlano all’Inglese loro amico, il quale senza approvare, dice che si rivedranno in casa Cherdalosi. Sempre più nell’atto II si disviluppano i caratteri di Annetta ed Agostino che sempre taroccano tanto sull’educazione di Lucrezina, quanto sul Medico Becchini che assiste la moglie senza vedersi migliorare. Agostino le rimprovera anche il prete Tramezzino preso per maestro, ed il poco buono esempio che dà alla figlia, stando sempre in conversazione e servendosi di lei per zimbello, ed il conte Ciuffini che disturba qualunque partito si presenti per la figlia. Venendo poi Ciuffini e Piantaguai li saluta e parte. Viene Lucrezina che da questi due è accolta con adulazioni. Viene Warton cui Annetta chiede di Prosperino che sopraggiunge col padre che domanda per suo figlio Lucrezina, ed Agostino che arriva a tempo conchiude l’affare stabilendole 10 mila scudi di dote. Nell’atto III si trattengono sul matrimonio stabilito Annetta e la figlia. L’avvertisce che Settimio non le lascerà fare, com’ella pensa, quello che fan tutte. Le rimprovera la civetteria e parte, lasciando il prete Tramezzino in guardia di Lucrezina. Ella li ripete i discorsi tenuti colla Madre sul genio di Settimio. All’arrivo di Ciuffini Lucrezina manda via Tramezzino dicendo che vada ad ordinare il cioccolatte pel conte. Ciuffini le rimprovera lo sposalizio. Lucrezina dice di avere acconsentito per uscire da quella casa, e per poter trattar lui. Ma Ciuffini prendendo il cioccolatte risolutamente le dice che non vuole che sposi Prosperino. Lucrezina lo promette. Viene Prosperino, cui Lucrezina risponde sempre dispettosamente per disgustarlo. Alfine lo conceda e l’esorta a riprendere il viaggio. Parte Lucrezina ed anche Ciuffini. Prosperino rimane stordito ; e venendo il padre con Warton palesa loro il trattamento ricevuto da Lucrezina. Essi secolui si congratulano. Beato voi, gli dice il padre, figlio, mio caro figlio, abbracciami, sei salvo. I tre risolvono l’esecuzione del viaggio. Warton dice che gli accompagnerà. Sopraggiunge Annetta, cui Settimio dice :

La Crezina non vuol del figlio mio,

E gliel’ha detto a lettere di scattola.

Ed ei se ne consola, ed ei ne gode,

E partiam tutti. Addio, signora Annetta.

Agostino nell’atto IV fa del romore per le nozze rotte con Prosperino. Lucrezina ne incolpa Prosperino, Annetta il di lui padre. Agostino invia Tramezzino da Settimio, e minaccia un ritiro alla figlia. Torna Tramezzino, e dice che Settimio ed il figlio sono già lontani molte miglia fuori di Genova, e consegua ad Agostino una lettera di Settimio. Annetta propone un nuovo partito per la figlia, il signor Fabrizio Stomaconi. Lucrezina acconsente, ed acconsente altresì Ciuffini che soprarriva. Viene Piantaguai con lo stesso vecchio Stomaconi. Si conchiudono le nozze anche con Agostino che le assegna seimila scudi in dote. Comincia l’atto V rilevandosi la spilorceria di Agostino, e la generosità dello Stomaconi che ha fatti alla Lucrezina 12 mila scudi di sopraddote. Viene Stomaconi che è assai bene accolto. Si firmano i capitoli, senza che Stomaconi ne sappia il contenuto. L’istromento è rogato. L’Avvocato legge gli articoli 28 in esso stabiliti. Tra’quali : spillatico alla sposa mensuale di scudi cento ; servizio di carrozza e cavalli a parte per essa ; palco in tutti i teatri, libertà di cacciar via ed ammetter servi, cameriere ecc. a di lei voglia ; tavola a parte volendo, ed invitarvi chi vuole ; venendo figli si porranno i maschi in collegio e le femmine in convento ; libertà piena alla signora di ricever tutti nel suo appartamento in ogni ora ; avrà tre cameriere ; ogni pajo d’anni un viaggio a’bagni o a sentir opere dovunque ; cicisbei quali e quanti ne vuole ; un servente in capite scelto a volontà pienissima della signora, il quale avrà di fisso tavola in casa ; la scelta del servente primo, in capite e fisso si farà dalla sposa, e si dichiarerà e si scriverà ne’capitoli dov’è in bianco. Lucrezina è astretta dalla madre a scriverne il nome ; ella dunque scrive, Primo servente in capite Ciuffini. Annetta quì va in collera, perchè Ciuffini è il sue primo in capite ; ma poi vuole scegliere Piantaguai per suo primo, e questi si dichiara di far da secondo presso Ciuffini. Annella fugge arrabbiata tutti maledicendo. Agostino rimane, e dice ;

Oh fetor de’costumi Italicheschi

Che giustamente fanci esser l’obrobrio

D’Europa tutta, e che ci fan persino

De’Galli stessi reputar piggiori.

Oh qual Madre ! oh che scritto ! oh che marito !

Ed io qual padre ! Meraviglia fia

Che in Italia il Divorzio non si adoperi,

Se il Matrimonio Italico è un Divorzio.

Spettatori, fischiate a tutto andare

L’autor, gli attori, e l’Italia, e voi stessi ;

Questo è l’applauso debito a’vostri usi.

Intanto l’Italia non cessa di produrre ne comici componimenti. In Torino il signor Alberto Nota coltiva la comica poesia non senza felicità. Nel primo decennio del secolo corrente ha pubblicate varie commedie in Torino, in Milano, in Bologna. La commedia intitolata I primi passi al mal costume, fu bene’accolta in Torino, ed in Milano nel 1807 quando si rappresentò la prima volta. Appartiene al medesimo sig. Nota il Filosofo Celibe. Alcun’altra fu men bene accolta, e fra le altre l’Ammalato nell’immaginazione.

In Napoli si occupa da più anni dalla scenica poesia il signor Barone di Cosenza, ed in propria casa rappresenta i suoi componimenti con dilettanti amici, e non poche volte con invidiabile concorso. I commedianti sovente le hanno ripetute con plauso ed utilità.

Nella medesima nostra città lo stimabile gentiluomo signor Tommaso Correale ha convertito la galleria della propria abitazione in un teatrino, ed in ogni anno colla pregevole sua famiglia, e conbuoni amici, vi espone varie rappresentazioni, delle quali la maggior parte appartiene al signor Emmanuele Missiretti napoletano, il quali oltre dell’intendere l’arte rappresentativa, nel corso drammatico del passato anno ottenne la prima corona comica per la sua commedia in cinque atti in prosa intitolata la Donna Esemplare, e l’onore dell’accessit per l’altra del medesimo titoloma in tre atti.

Capo III

Teatri Materiali.

TRa’ primi teatri costruiti nel secolo XVIII contasi quello di Mantova magnificamente eretto nel 1706 con disegni del rinomato architetto Francesco Galli da Bibiena ; ma sventuratamente a’19 di maggio del 1781 s’incendiò.

L’istesso architetto sotto la direzione del marchese Scipione Maffei eresse il teatro di Verona che senza dubbio presenta diversi vantaggi sopra molti teatri moderni. La curva che forma la periferia interiore della platea, si va allargando a misura che si avvicina alla scena : i cinque ordini di palchetti sono disposti in modo che i più lontani dalla scena sporgono più in fuori ; idea che il Galli Bibiena tuasse da Andrea Seghezzi scolare del Brizio e del Dentone(a). Ora è chiaro che tanto la curva della platea quanto l’artificio de’palchetti contribuiscono a vedere e ad udir bene. L’orchestra divisa dalla platea allontana dalli spettatori la molestia dello strepito vicino delli stromenti. Le porte onde si entra in teatro, sono laterali, e non dirimpetto alla scena, la qual cosa produce il doppio vantaggio di non indebolire la voce, e di non togliere il miglior sito da godere la rappresentazione.

Il teatro inalzato in Venezia nel secolo XVIII è quello di San-Benedetto, al cui interiore comodo e decente mal corrisponde la figura che si allontana dalla regolare degli antichi.

Antonio Galli Bibiena figliuolo di Ferdinando architettò il teatro di Bologna terminato l’anno 1763. La sua figura di una sezione di campana non a torto vien chiamata infelice nell’opuscolo del Teatro. Gl’intelligenti disapprovano questa campana chiama fonica. Una falsa analogia (nota l’Algarotti) ha sugerito un peusiero si mal fondato. Deriva da questa figura le avantaggio di restringersi lo spazio della platea e d’impedire a parecchi palchetti la veduta della scena. La lunghezza della platea è di piedi 62 e la larghezza nel proscenio di 50 in circa. Vi sono cinque ordini ciascuno di 25 palchetti, oltre a un recinto intorno alla platea alto quattro scalini riparato da una balaustrata. Nella stessa città al cominciar del secolo XIX si è costruito l’anno 1805 un altro teatro nella strada del Corso antica che si tornò a frequentare. Non avendone le misure dirò solo che l’edificio di figura ellittica è ben ampio con comodi accessorii e conveniente alle rappresentazioni decorate di un’opera seria in musica. Si aprì in quell’anno con una Ifigenia e col ballo di Andromeda del sig. Gioja.

Imola ha un teatro edificato colla direzione del cavalier Cosimo Morelli, la cui figura ellittica contiene il palco e la platea che occupa uno spazio doppio del palco, ed ha quattro file ciascuna di diciassette palchetti.

Uno de’famosi teatri Italiani è il Reale di Torino edificato nel 1740 dal conte Benedetto Alfieri. La figura è ovale, e contiene sei ordini di palchetti, nel secondo de’quali era il palco del Sovrano, e la platea ha 57 piedi di lunghezzu e 50 di larghezza. Sotto l’orchestra si fece un voto con due tubi all’estremità che sorgendo sino all’altezza del palco scenario serve a diffondere i suoni degli stromenti e delle voci più rotonde e sonore. Gl’ingressi, le scene, i corridoi sono magnifici.

Il teatro degli Aliberti in Roma costruito da Ferdinando Bibiena, e quello di Tordinona eretto da Carlo Fontana, appartengono al secolo XVII, benchè quest’ultimo siesi restaurato sotto Clemente XII. Ma il teatro di Argentina appartiene al XVIII, e si eresse dal marchese Girolamo Teodoli con sei ordini di palchetti. La figura è irregolare, cioè a ferro di cavallo, il cui diametro maggiore è di 51 piedi, ed il minore di 46. L’antico teatro di Marcello che in parte sussiste ancora, nulla, al dir degl’intelligenti, ha influito alla costruzione de’moderni teatri Romani.

Esistono in Napoli diversi teatri tuttochè siensi convertiti nel secolo XVIII quello di San-Bartolommeo in una chiesa, ed il teatrino detto della Pace o del Vico de la lava in un collegio. Il più antico degli esistenti è quello detto de’Fiorentini per la chiesa di San Giovanni de’Fiorentini che gli è dappresso. Sconcia da prima n’era la figura di un arco congiunto a due lunghe rette laterali sproporzionatamente più lunga che larga ; e tutto il rimanente scale, ingressi, corridoi, retrostanze, tutto indicava meschinità. In seguito verso il 1779 si rifece dall’architetto Giovanni Scarola napoletano e tutto divenne decente e ragionevole. Egli ne migliorò la figura rendendola semicircolare ; ed acquistò luogo per ogni cosa necessaria coll’industrioso partito di cangiare il sito della scena, collocandola sulla retta che faceva la larghezza della prima platea, là dove allora era posta sulla lunghezza quadupla almeno dell’antica larghezza.

Il Teatro Nuovo chiamato, costruito al disopra della strada Toledo alle vicinanze della chiesa di Monte Calvario, fu opera nel suo genere mirabile del napolitano Domenico Antonio Vaccaro figlio dell’eccellente scultore ed architetto Lorenzo. Chi avrebbe creduto possibile quel che pur si vede, che in una pianta di soli palmi 80 in circa per ogni lato si costruisse un teatro con cinque ordini di palchetti di tal simetria e di forma sì propria che da per tutto vi si godesse acconciamente lo spettacolo ? L’industria dell’abile architetto supplì all’augustia del sito, e vi si accomodano agratamente mille spettatori. Dicesi che il romano architetto Antonio Canevari avendo veduto quest’edificio al di fuori non voleva credere che fosse un teatro, e come vi fu entrato, disse che quell’opera sola bastava al credito del Vaccaro, per aver saputo rendere possibile l’impossibile. Mache disse di questo teatro il dotto architetto Vincenzo Lamberti(a) mortonel 1789 ? Che non compieva gli oggetti essenziali di un teatro, Vedere ed Udir bene, la qual cosa fu lanciata con sì poco fondamento, che gli fu detto : andate a vedere ed udire, e tacerete. Anche questo teatro nel secolo innoltrato si abbellì e si miglforè nelle seale e ne’corridoi.

Un miracolo opposto a quello del Vaccaro fece nel 1779 l’architetto Siciliano Francesco Seguro innalzando, in faccia al già in parte diroccato ed atterrato con fabbriche Castello Nuovo nella strada spaziosa che mena al Molo, un teatro che prese il nome dal Fondo di Separazione de’lucri, cui insensibilmente è restato solo il nome di teatro del Fondo. Con una piena liberta d’immaginare ed eseguire a suo modo, con un sito sgombro d’ogni intorno di ostacoli ed abitazioni, con facoltà di spendere facendosi per la corte, formo un teatro che presenta una facciata pesante oltre modo, non ampio, non magnifico, non comodo a vedere ed esservisto, non armonico ad udire malgrado l’eccellenti note de’Sarti e de’ Paiselli che vi perdono due terzi della propria squisitezza. Gl’interpilastri che dividono i palchetti, gl’intagli, le centinature, la propria costituzione in somma lo rendono sordo. E quando sortirà un architetto circostanze più propizie per segnalarsi ?

L’ultimo teatro edificato nel secolo XVIII, e forse il migliore de’piccioli teatri napoletani, è quello che si costruì nel sito detto Ponte nuovo terminato nel 1791 che ebbe il nome di San-Ferdinando. Camillo Leonti ingegnere napoletano ne fu l’architetto ; il toscano Domenico Chelli lo dipinse. La figura della platea è ellittica, nel maggior diametro ha palmi quaranta di larghezza, quarantadue di lunghezza, e quarantatre e mezzo di altezza dal pavimento alla finta volta ; la scena che in faccia agli spettatori ha un orologio, di lunghezza è palmi ventisette. Vi sono cinque file di palchetti, ciascuna fila di tredici ognuno di otto palmi di altezza. La facciata regolare non offende il gusto con tritumi, e l’atrio ha due stanzini laterali, ed i corridoi sono comodi e proporzionati al concorso. L’oggetto di ben vedersi ed udirsi è pienamente adempiuto in questo edificio. Nulla gli manca per essere in ogni stagione frequentato, eccetto che l’esser collocato men lontano dagli altri teatri, dal centro della città, e dalle vicinanze della reggia(a).

Rimane a parlare del Reale Gran Teatro detto di San-Carlo costruito co’disegni del brigadiere Giovanni Medrano nel 1737. Edificio magnifico eretto in soli sei mesi per l’attività di Angelo Carasale, dopo tanti gran teatri innalzati in Europa nel secolo XVIII, conserva ancora sopra tutti il primato. La sua figura è di un semicircole, i cui estremi si prolungano in linee quasi rette, che si stringono avvicinandosi alla scena. Il diametro maggiore dell’uditorio è di piedi parigini 73 in circa, ed il minore di 67. Vi sono sei ordini di comodi magnifici palchetti al numero di 28 nel quarto e quinto ordine, e di 26 ne’ tre primi, e nel bel mezzo del secondo ordine si eleva il gran palco del Re. Edificato tutto di pietra, tutto nelle ampie scale e ne’ corridoi e ne’ tre ingressi spira grandezza e magnificenza. Il proscenio corrisponde a tanta splendidezza, ed auche il gran telone o sipario dipinto a sughi d’erba fece per lungo tempo uno spettacolo anch’esso degno di ammirarsi, che il tempo negli ultimi anni ha obbligato a cambiare.

Secondo me nuoce all’illusione la giunta fatta dall’architetto Fuga ne’lati della bocca della scena di alcuni palchettini, da’ quali comincia a rubarsi una parte delle voci prima di spandersi pel teatro. Nè anche è da approvarsi che il palco scenario sporga in fuori nella platea per molti piedi, convenendo allo spettacolo che gli attori, come pur riflettè Algarotti, si rimangano al di là dell’imboccatura del teatro, a linea delle scene, per far parte anch’essi del dolce inganno a cui il tutto è ordinato. In oltre con mal consiglio sono alquanti anni che si aggiunse un altro splendido ornamento che piace al vedere e nuoce all’udire. Un voto di tanta ampiezza, arricchito di spaziosi corridoi, compartito in tanti palchi che equivalgono ad altrettanti comodi stanzini, per se stesso è poco favorevole alle voci umane che non sieno tramandate per mezzo di qualche tromba ; or perchè se ne aumentò la difficoltà con vestirlo interiormente di cristalli e festoni pendenti di dipinta tela e di cartoni ? Specialmente nelle serate di triplicata illuminazione que’ cristalli, que’ festoni, quelle indorature, que’ torchi senza numero, i copiosi lumi de’ palchetti riverberati e in mille modi raddoppiati dalle scintillanti gemme che adornano tante dame, cangiano la notte nel più bel giorno, e l’uditorio in una dimora incantata di Circe o di Calìpso superiore allo spettacolo del palco scenario. Ma nel tempo stesso le voci e le delicatezze musicali non incontrano in que’ festoni la necessaria elasticità e la resistenza che la rimandi e diffonda ; e la prodigiosa quantità de’ torchi del palco e della platea consuma tant’aria e tanta ne rarefà che si minora e s’indebolisce la causa del suono e della voce, e quindi si perde una gran parte delle più squisite inflessioni armoniche. Verso gli ultimi anni del passato secolo si tolsero questi ostacoli al corso della voce, ed ai cristalli, alle dorature e a’ festoni indicati si sostituì la pittura fattavi dal toscano Domenico Chelli. Ma l’esteriore di questo edificio e singolarmente la facciata ha sofferto notabili alterazioni, e vi si è alzato un solido sopportico su di cui un magnifico loggiato ed un grande appartamento per la conservazione de’ grandi materiali del teatro. Con simile protuberanza si è tolta veramente parte dell’ampiezza e l’antico allineamento della strada San-Ferdinando che mena al Largo del Castello Nuovo. L’architetto è stato il sig. Nicola Niccolini toscano.

I difetti notati ne’ più grandi teatri moderni mostrano la difficoltà della soluzione del problema, far un teatro che compiutamente soddisfaccia a i due sostanziali oggetti, veder comodamente e conservar la voce nell’interiore del teatro. Se ne occuparono di proposito e scientificamente il conte Enea Arnaldi vicentino nell’ Idea del Teatro pubblicata in Vicenza nel 1762, un Anonimo nel trattato del Teatro impresso in Roma nel 1772, e Vincenzo Lamberti nella Regolata costruzione de’ Teatri stampata in Napoli nel 1787. Chi di loro meglio giunse a risolverlo ? E permesso a chi non è di professione architetto l’avventurare il proprio avviso, in pro dell’ Anonimo ?

Capo IV

Delle scene liriche e dell’ Opera buffa.

I
Scene Liriche.

NOn ebbe nè esempio nè seguaci, ch’io sappia, il capriccio di quell’ Italiano del secolo XVII mentovato nella Drammaturgia, che con un solo personaggio condusse una favola intera di tre atti. Io non ho vedutò che uno scherzo del grazioso Gabriele Cinita in Madrid, il quale solo in tre picciole scene buffonesche che chiamava atti, rappresentava un’azione mimica. Ma tali capricci non ebbero verun presidio musicale.

Il celebre Gian Giacomo Rousseau che volle dare a’ moderni l’idea della greca melopea, mostrò in qual maniera poteva una bizzarria non nuova convertirsi con verisimiglianza in una scena sublime interessante secondando le passioni e i pensieri coll’armonia e compose il Pigmalione. Molti in Francia e in Alemagna vollero imitarlo ; niuno, se m’appongo, ha fatto conservare le loro scene liriche.

In Italia tentò di calcare l’orme del gran Ginevrino il conte Alessandro Pepoli e scrisse Pandora favola lirica divisa in cinque scene, in cui intervengono Pandora, Prometeo, Epimeteo. In buono stile si vedono sentimenti appassionati, singolarmente nel monologo di Prometeo e nell’ultima sua disperazione. Nelle altre scene però non veggo chiaro, in qual maniera aspettandosi p. e. con impazienza una risposta possa sempre con proprietà di rappresentazione darsi luogo alle battùte musicali che debbono precedere.

Si provò il fu infelice Francesco Mario Pagano a produrre in Napoli una scena simile prendendo per oggetto Agamennone che intitolò monodramma, benchè in esso intervengano tre personaggi.

II
Opera buffa.

CEntauri, sfingi, gorgoni, scille, chimere, arpie, e quante mostruose larve pose Virgilio nella sede de’ sogni sull’ingresso degli Elisii, rappresentano una pretta e pur non compiuta immagine delle fantastiche stravaganze dell’odierna opera buffa. Per propria natura essa sarebbe una commedia musicale, cui al più si permette che si avvicini alla farsa, ma non già a’ vaneggiamenti di pazzie d’infermi, come sono i tanti malcuciti e sconnessi centoni che corrono per l’Italia e più oltre ancora.

Nacque in Napoli e nacque sobria, ogni poeta essendo persuaso sin dall’incominciar del secolo XVIII di non aver dalla musica ricevuto facoltà verune di allontanarsi dalle discrete regole del verisimile. Furono dunque commedie vere le opere buffe di Francesco Antonio Tullio : le Fenziune abbentorate del 1710, il Gemino Amore del 1718, le Fente Zingare, lo Viecchio Avaro ecc. Commedia fu l’Elisa di Sebastiano Biancardi detto Lalli in Venezia cantata colla musica del Ruggieri nel 1711, e fu la prima vera commedia in musica veduta su quelle scene. Commedie e ben graziose furono le opere di Bernardo Saddumene morto qualche anno dopo del 1732 : lo Simmele, la Carlotta, li Marite a forza, la Noce de Beneviento, e singolarmente la piacevole dipintura del Paglietta geluso. Andrea Belmuro autore de’ due intermezzi recitati felicemente in Venezia nel 1731 la Contadina ed il Cavalier Bertone posti in musica il primo del famoso Sassone, e l’altro dal non meno chiaro maestro Francesco Mancini, fece pur fra noi diverse opere buffe che non eccedono l’indole della commedia. Ne fecero altresì il Palma ed il Viola. Ma chi pareggiò in Italia la grazia delle commedie musicali del nostro Gennaro Antonio Federico inimitabile pel colorito veramente tizianesco de’ suoi ritratti comici ? Il suo Finto Fratello in cui si dipinge un affetto che non eccede la commedia e dà motivo alla musica, fu animato dalle note di Giovanni Fischetti nel 1730 ; lo Frate Nnammorato nel medesimo genere nel 1732 riscosse l’ammirazione degl’intelligenti colla musica squisita in tutte le sue parti del Raffaele dell’armonia Giambatista Pergolese. Altre opere del Federico non meno copiose di grazie sono le seguenti : la Rosaura del 1736 colla musica del riputato Domenico Sarro ; Da un disordine nasce un Ordine del 1737 colla musica di Vincenzo Ciampi a que’ di maestro accreditato ; l’Alidoro del 1730 posta in musica dall’abile maestro Leonardo Leo ; l’Alessandro del 1742 del medesimo Leo ; la Lionora che si rappresentò nel medesimo anno colla musica del Ciampi per le parti chiamate serie, e del celebre Niccolò Logroscino per le buffe. Commedie pur furono, benchè di assai minor bellezza, le opere di Pietro Trinchera autore dell’opera la Vennegna cantata la prima volta colla musica di Gaetano Latilla nel teatro detto della Lava e poi più volte replicata altrove ; dell’ Abate Collarone quivi parimente cantata colla musica di Domenico Fischetti, che si ripetè poi nel teatro de’ Fiorentini nel 1754 col titolo le Chiajese Cantarine, ma con alcune alterazioni fatte alla musica del Fischetti dal nomato Logroscino. Scrisse il Trinchera moltissime altre opere buffe di varia fortuna, e singolarmente la Tavernola abbentorata cagione di ogni sventura dell’autore, in cui fece una dipintura vivace di un Fra Macario equivalente ad un Tartuffo recitata colla musica di Carlo Cecere.

Commedia fu il Carlo e qualche altra prima opera di Antonio Palomba, da cui poscia cominciò la stravaganza illimitata che bandì la commedia dalle scene musicali napoletane. Le disgrazie di questo autore avendolo allontanato da Napoli, la commedia fu di bel nuovo stabilita sul teatro musicale colla farsetta intitolata la Canterina colla musica di Niccolò Conforto, coll’ Astuto Balordo posto in musica dal celebre Niccolò Piccinni, coll’ Innamorato Balordo colla musica in gran parte del Logroscino, e singolarmente colla Furba burlata fortunatissima opera buffa, la cui musica appartiene per la maggior parte al prelodato Piccinni.

Tornato il Palomba in Napoli vi ricondusse fra molte stranezze qualche opera fortunata, e specialmente si accolsero con applauso popolare la Donna di tutti i caratteri e lo Sposo di tre e marito di nessuna poste in musica da Pietro Guglielmi. Il Palomba fini i suoi giorni con varie mostruosità sceniche, che servirono di esempio e di guida ad un folto sciamo di nojosissime cicale, fino a tanto che piacque al sagace Giambatista Lorenzi noto poeta del secolo XVIII di scrivere opere buffe.

Perito nell’arte dotato di natural piacevolezza facile ne’partiti e felice ne’motteggi, testimone dell’alterazione del gusto avvenuta per le ultime mostruosità, sceglier seppe il Lorenzi la maniera più idonea per riuscire, cioè eccedere nel comico popolare alternandolo con quasi tragiche situazioni. Nelle opere Tra’due litiganti il terzo gode del 1766, in cui pose in opera il sacco di Bertoldo e di Scapino ; nella Luna abitata più artificiosa e teatrale del Mondo della Luna del Goldoni ; nell’ Idolo Cinese, in cui un buffone Napolitano è creduto un idolo nella China ; nella Corsala del 1771, il Lorenzi si attenne totalmente alla farsa, che per altro ad una specie dell’opera buffa non disconviene. Nella Gelosia per gelosia del 1770 ; nelle Trame Zingaresche del 1772 ; nel Tamburo notturno del 1773 ; nel Duello ; nella Fuga ; ne’ Tre Eugenii, nella Scuffiara ecc., calcò più le tracce della naturalezza comica. Ne incresce nel Furbo mal accorto ed in alcune altre l’abuso delle tinte troppo tragiche per la scena comica. Ma che mai può increscer nella piacevole farsa del Socrate Immaginario che vivamente e con la più ridente satira comica rappresenta l’immagine di un Calabrese che sona l’arpa tra’suoi discepoli, loda la musica greca che non conosce, ha una moglie da cui è bastonato, ch’ei chiama Santippe, e un Mastro Antonio suo barbiere che egli ha istallato a Platone, e che beve la cicuta per rassomigliare in tutto l’antico Socrate ? Le armoniche note del Paisiello (il quale pose in musica la maggior parte delle opere del Lorenzi) sono in tutte le parti nel Socrate inarrivabili. L’autore inimitabile dell’ Ammalato Immaginario oh quanto invidierebbe a Napoli quest’ Immaginario Socrate, che al pari del di lui Tartuffo, fu alla prima proibito come indiscreto dopo tre sere di recite, per aver servito di limpido specchio ad un avvocato che vi si raffigurò e se ne dolse. Onde ciò avvenne ? Esisteva per avventura al tempo del Lorenzi un vero Socrate della Magna Grecia all’immaginario rassomigliante, come esisteva per nostro vanto un Aristofane Napoletano ? Che che sia di ciò il Socrate tornò poi sulle scene e ritornerà ancora e muove graziosamente il riso, e se ne cercò sempre con gli occhi l’originale sino a che il figurato non cessò di vivere.

Dopo molti anni di silenzio il medesimo Lorenzi diede al teatro de’ Fiorentini l’anno 1795 la Pietra Simpatica colla musica di Silvestro di Palma eccellente maestro napoletano. In quest’altra piacevole farsa in due atti si motteggiano i filosofi falsi naturalisti e vulcanici. Comicamente si rilevano in essa le ridicolezze di coloro che vogliono dare ad intendere di studiare le dozzine di anni la natura de’ragni e de’gatti. Vi si provverbia la filosofica eredulità di chi sostiene che nuvoloni gravidi di sassi vulcanici cadono poi giù lontanissimi da’paesi dove si generano. Con una pretesa pietra simpatica, detta altrimenti cornea, si conchiude un matrimonio conteso dal naturalista zio della giovane destinata ad un ridicolo suo discepolo, il quale è preso a sassate, e gli si fa credere che sieno cadute dal cielo. Per farne comprendere lo spirito e la piacevolezza, ne adduco qualche squarcio. Una finta dama oltramontana che si millanta studiosa de’vulcani, si presenta al naturalista Macario, il quale l’invita a veder la sua casa.

Mac. Vedrà gatti in famiglia,

Serpenti in società, ragni in amore,

Studii profondi e varii

Di noi naturalisti

Che siam della natura i segretarii.

Errighet. Ma voi da questi studii

Che ricavate poi ? Macar. Molto, Madama.

Primieramente apprendo

Il linguaggio de’gatti,

Per poi darne alle stampe

Un dizionario a comodo

Delli studiosi. Ne’serpenti poi

Noto il talento, come

Nel darli da mangiar, dalle stantive

Distinguon le uova freche.

Errighet. E ne’ ragni ? Macar. Rifletto,

Che per essi potrebbe

Fiorire un altro ramo di commercio.

Errighet. Da’ragni ? Macar. Sì, da’ragni ; ed ecco il come.

Moltiplicando per le case il numero,

E raccogliendo poi li ragnateli,

Cardarli, e poi filati

Farne vaghi lavori :

E in tante balle poi mandarli fuori.

Un altro squarcio è dell’ultima soena dell’atto I. I congiurati contro i due sciocchi naturalisti a favore degli amanti, fanno piovere una tempesta di sassi sulle spalle di Don Sossio destinato sposo della nipote di Don Macario suo maestro. I letterati stimando che tali pietre siano cadute dalle nuvole, vogliono indagare la sostanza di esse. Sossio obbliando il dolore risponde,

Soss. Io porlando con creanza

L’ho per pietre piritose…

Corrad. Oh che porco ! Soss. Mi perdoni :

Piritose concrezioni

Son… cioè… mi spiego…

Mac. Taci.

Cachelonie le credo io…

Corrad. Peggio peggio. Mac. Padron mio,

Cachelonie son chiamate,

Perchè intorno al fiume Cach

Ne’paesi de’ Calmuchi

Son trovate… e vengon quà.

Errigh.) Corrad.) Cachelonie ah ah ah !

Questi son mattoni cotti

Errigh. Son vulcanici prodotti.

Si risolve di farsene l’analisi. E mentre si recano i reattivi, i carboni ecc. vengono dul giardino i servi dicendo epaventati che non solo tutti i gatti sono fuggiti pel giardino, ma che i serpenti rotta la rete che gli chiudea, sono scappati ; e tutti fuggono atterriti. La sorgente di questa farsa è la novella le Connoisseur del Marmontel. La musica piena di armonia di verità e di novità si accordò colla grazia comica esagerata e propria della farsa, e la riuscita fu piena, e si recitò per moltissime sere con gran concorso, e nel 1796 si ripetè col medesimo diletto e con frequenza di ascoltatori. Quest’abile scrittore è mancato nel 1807 avendo oltrepassati gli anni ottantasei della sua età. La collezione delle Opere buffe del Lorenzi s’incominciò da più anni, e si è da non molto ricominciata ad imprimere nella stamperia del Flauto.

Apostolo Zeno e Pietro Pariati pubblicarono insieme il Don Chisciotte ed altri drammi giocosi che meritano conoscersi. Carlo Goldoni compose il Mondo della Luna ed altre farse musicali ; ma la sua Cantatrice, la Birba, la Pupilla intermezzi piacevoli, e singolarmente il Filosofo di Campagna posto in musica dal Buranelli, e la Cecchina dell’inimitabile Piccinni, sono vaghe commedie musicali ripetute sempre ed imitate. Tali mi sembrano parimente le Donne son sempre donne, e qualche altra opera buffa di Pietro Chiari, e le Pazzie di Orlando del Badini cantata in Londra ove egli da più anni è morto. Piacevoli opere italiane da non obbliarsi, sono parimenti, e riuscite in Vienna, in Parigi e per l’Italia il Trofonio ed il Re Teodoro posto in musica dal Paisiello, appartenenti all’autore pregevole degli Animali parlanti il canonico Casti di Montefiascone.

Capo V

Opera eroica.

L’Opera eroica che può chiamarsi istorica che incominciò nel secolo XVII, in cui ebbe una lunga fanciullezza, ebbe nel secolo XVIII una felice adolescenza ed una applaudita virilità. Si osserva la prima nella Dafni di Eustachio Manfredi, nell’ Arsace di Antonio Salvi, nel Polifemo di Paolo Rolli, nel Farnace e nel Farasmane ed altre del Biancardi o Lalli napoletano, e specialmente nell’Eraclea, nel Tito Sempronio Gracco, ne’Decemviri, nel Turno Aricino ed altri drammi del romano Silvio Stampiglia poeta Cesareo dell’imperadore Carlo VI. Le favole dello Stampiglia sono doppie e piene d’intrighi amorosi simili a quelli delle tragedie galanti francesi, e lo stile abbonda di pensieri soverchio lirici. Tutte poi sono di lieto fine, ed alcuna risale agli ultimi anni del XVII secolo, come la Partenope cantata in Napoli sin dal 1699 e replicata altrove più volte. Sono adunque alcuni de’suoi drammi anteriori a quelli di Apostolo Zeno. Non bene perciò il sig. Eximeno attribuì ad Apostolo Zeno l’usanza osservata indi costantemente nello scioglimento de’melodrammi istorici di far mutare di sinistra in prospera la fortuna dell’eroe. Le ariette dello Stampiglia furono meno musicali di quelle dell’epoca seguente ; ma da alcuna si vede che sapeva farne, come si vede in questa del melodramma l’Eraclea.

Incominciai per poco,
E poi m’innamorai
Quanto potesse mai
Innamorarsi un cor.

Ma la virilità dell’opera eroica incominciò senza dubbio col prelodato Apostolo Zeno nobil veneto, e si perfezionò con Pietro Trapasso detto Metastasio. Il signore Zeno poeta ed istorico Cesareo succeduto a Silvio Stampiglia, fu di lui più regolare, più naturale, più maestoso, più vivace. Ebbe più invenzione, più arte di teatro, più verità e più forza nel maneggio delle passioni, più grandezza ne’suoi eroi. La lingua è pura, lo stile ricco e proprio degli argomenti e della drammatica. A lui non manca se non quel calore, quella precisione, quell’armonia, quella scelta che costituiscono il merito del gran poeta che gli succedette. Notabili sono i melodrammi di Apostolo Zeno per la varietà de’caratteri e degli argomenti, essendosi arricchito nelle storie greche, romane e barbare a lui famigliari. Dovunque incontrò (disse il Conti valendosi delle parole dello stesso Zeno) o matuturità di consiglio ne’dubbii affari, o magnanimità di perdono nelle offese sofferte, o moderazione ne’tempi prosperi, o fortezza ne’casi avversi, costanza di amicizia e di amor conjugale, man forte a sollievo degl’innocenti, cuor generoso a ristoro de’miserabili, atti di beneficenza, di giustizia, di temperanza ed altre virtù, tutti n’espose, n’ingrandì e illustrò gli esempii in teatro. Ciò che ne dinota bene il carattere è l’aver saputo in ciascun atto delle favole preparare una scena vistosa, popolare, interessante che tiene svegliata l’attenzione dello spettatore. I drammi onde trasse onor maggiore, sono : Lucio Papirio, Cajo Fabricio, Andromaca, Merope, Mitridate, Ifigenia, Nitocriec. Non minor gloria gli recarono i sacri Oratorii musicali pieni di entusiasmo profetico e di sacra erudizione, tra’quali si distinguono : Sisara, Davide amiliato, Daniele, Giuseppe, Erechia. L’autore stesso ha data la più giusta idea di tali sacri componimenti. In essi (ei dice) studiai di far ragionare le persone e in particolare i Patriarchi, i Profeti e gli Apostoli collo stile delle scritture e co’sentimenti de’ Padri e de’ Dottori della Chiesa ; stimando che quanto meno fossevi frapposto del mio, tanto più di compunzione e di diletto avesse a destarsi negli animi degli uditori. Tutte le opere drammatiche di Zeno comprendonsi in dieci volumi in ottavo, ma gli ultimi due contengone quelle che compose in compagnia di Pietro Pariati.

Ed eccoci a’più lieti giorni della virilità dell’opera eroica, ai giorni rischiarati del corso del più bell’astro della poesia drammatica musicale. Il romano Pietro Trapasso, il cui cognome dal celebre calabrese Gian Vincenzo Gravina che l’educò nelle lettere per lo spazio di dieci anni, cangiato in greco suono divenne Metastasio, e riempì l’Europa, nacque nel 1698, e passò parte della gioventù in Napoli esercitandosi nel foro. Succedette ad Apostolo Zeno nel 1729 nell’onorevol carica di Poeta Cesareo, e caro agl’imperadori Carlo VI, Francesco I e Giuseppe II, e alle imperatrici Elisabetta e Maria Teresa, fiorì in Vienna sino all’anno 1782, in cui mancò con lutto universale della Virtù, del Sapere e della Poesia.

Che diremo noi di si raro e felice ingegno che corrisponda alla sua grandezza ? Che egli era si eccellente che ha ispirato ne’contemporanei la disperazione di appressarlo nel suo sistema, ed in taluno il partito di torcere dalle sue vestigia ? Che gli splendidi suoi difetti stessi, i quali appartengono agli abusi musici anzichè a lui, il rendono rispettabile anco agli orgogliosi che volgono altrove il capo per non mirarne l’odiata luce che gli umilia ? Le Grazie sole potrebbero convenevolmente encomiarlo, le Grazie amiche di Anacreonte che mercè del Metasiasio ridenti a’nostri giorni passeggiarono le musiche scene, e che tacquero com’egli tacque. E quando ripiglieranno l’ilarità ed il riso ? Quando e chi le rimenerà sulle armoniche scene ? Possono forse supplirvi i partigiani delle furie e de’demoni ballerini ? o i Semiserii scarabbocchiatori di pasticci musicali in versi ed in prosa in un solo sciapito componimento ?

La musa di questo grand’uomo si distingue per molti pregi, e singolarmente per la grazia, la facilità, la naturalezza dell’espressione, la precisione, la chiarezza e l’armonia dello stile, per l’eleganza e la sublimità. Gli contese gran parte di tali doti e forse tutti il famoso Saverio Bettinelli, e pretese che Metastasio sia prosaico, inelegante, privo di lingua poetica ecc. Aggiugne di aver provato egli stesso il difficil tragico dello stile de’drammi ne’cori del Gionata ed in una Cantata : di più che l’armonico Frugoni colle sue Cantate potrebbe servir di modello al vero stile drammatico : che Zeno è più di Metastasio elegante ne’suoi drammi si bene scritti ec. Noi vogliamo credere a questo acuto osservatore, il quale trovò spessissimo mancare di eleganza e di stile poetico fin’anche la Gerusalemme ; ma non vorremmo che prendesse per eleganza anche lo stile contorto ed oscuro, in cui egli stesso talvolta è caduto ne’suoi Sciolti. Vorremmo poi che il mondo che si trasporta e si riempie di dolcezza all’udire o leggere i drammi di Metastasio, fosse rapito ugualmente alle Cantate ed ai Cori dell’elegante censore Bettinelli e dell’armonico Fragoni, in vece di averle obbliate sì presto. Vorremmo per sottoscriverci alla sua decisione che questo mondo culto e sensibile si commovesse più spesso ai drammi sì bene scritti di Zeno, e non già soltanto allor che egli canta alla maniera Metastasiana così :

Guarda pure, o questo o quello
È tua prole, è sangue mio
Tu nol sai, ma il so ben io,
Nè a te, perfido, il dirò.
Chi di voi lo vuol per padre ?
V’arretrate ? Ah voi tacendo
Sento dir, tu mi sei madre,
Nè colui mi generò.

A chi cede mai Metastasio, sia che alla maniera di Sofocle migliori i grandi uomini dell’antichità nel ritrarli, ovvero sia che gareggi di sublimità col gran Corneille dipingendo Greci e Romani, e di delicatenza coll’armonioso Racine, facendo nelle passioni che maneggia riconoscere a ciascuno i movimenti del proprio cuore ? A quanti anzi egli non sovrasta per la particolar magia del sno pennello che anima quanto tocca, e l’ingentilisce colla grazia del Correggio e coll’espressione di Raffaello ? Difficile sarebbe (dice il dotto Carmmignani(a) determinare nel melodramma di Metastasio le ragioni per le quali lo stile ha quell’incanto che tutte le anime delicate vi trovano ; altro non può dirsi se non ch’ei piace. Voltaire, egli aggiugne, per corredare di commentario le tragedie di Racine, diceva non doversi far altro che scriver sotto ad ogni pagina, bello, patetico, armonioso, ammirabile ! Ecco (a ciò aggiugne il Carmignani) il commentario di Metastasio.

Si vuole esser dotato di gusto fine, di acuto aguardo per ravvisare nel Metastasio il gran maestro, allorchè (nel tempo stesso che prestasi al duro impero dell’uso e del canto introducendo amori subalterni) c’interessa pel solo protagonista agitato di un amor forte imperante disperato, qual si richiede nella severa tragedia. Zenobia, Siroe, Arbace, Timante, Megacle, Demetrio, Ipermestra ecc. personaggi tormentati da grandi passioni contrastate dal dovere e dall’eroismo, sono personaggi perfettamente tragici.

Con quanta maestria non colorisce i caratteri ? Quel fandi fictor Ulysses non è dipinto al vivo nell’Achille in Sciro ? l’energia e l’impeto del vincitor di Troja non si vede quasi nasorante nella finta Pirra ? Ezio arroganté che parla di se e delle sue gesta, ma nobile, prode, magnanimo, virtuoso, non rappresenta appunto la bontà conqualche debolezza richiesta nel personaggio tragico ? Or perchè il Bettinelli derise quegli Ezii millantatori e paladini ? È forse un carattere inverisimile ? Tito, Temistocle, Catone, Regolo, quando comparvero più grandi sulla scena ? e qual tesoro di filosofia non vi profondono. E perchè il Bettinelli confuse con quegli Ezii millantatori que’Catoni e que’Regoli ? Non sono essi ritratti istorici ? Regolo parvegli millantatore e paladino ? Regolo anzi (doveva avvertire il Bettinelli) punto non discorda dall’avviso stesso del capriccioso censore, e con sobrii detti ma gravi, giusti e ben espressi spiega la virtù ed il valore in azioni, e non in gran parole. Per convincersene il giovane studioso subito dopo la strana critica del Bettinelli legga almeno una scena del Regolo ; legga il suo arrivo in senato (sc. 7 del 1) ; ogni parola smentirà l’invida ingiusta capricciosa censura. L’idea di rappresentar gli affetti di una madre in Merope fu più di una volta felicemente eseguita. Ma chi può soffrire il paragone del colorito inimitabile di Mandane nel Ciro riconosciuto ? Chi fece Egisto più interessante di Ciro sotto il nome di Alceo ? Per altra parte quanta erudizione sacra, nobiltà di dire, interesse tragico ed unzione negl’ impareggiabili Oratorii Betulia, Gioas, Giuseppe, la Morte di Abel, la Passione di Gesù Cristo ! Qual ricchezza di filosofia e d’immaginazione e di splendidezza di decorazioni nelle Serenate Enea negli Elisii. Astrea placata, il Parnasso accuscito e difeso, l’ Asilo d’ Amore ecc. !

Pieno di erudizione di ogni maniera egli imita gli antichi ma con tal maestria che par nato or ora quel che dissero venti secoli indietro. E chi saprà più dare agli altrui pensieri quella naturalezza che si ammira in Metastasio allorchè imita ? Tito si vale delle parole del Gran Teodosio quando abolì la legge che dichiarava rei di morte quelli che profferivano parole ingiuriose contro del principe(a). V’è, gli dice Publio, chi lacera anche il tuo nome, e Tito,

E che perciò ? Se il mosse
Leggerezza, nol curo,
Se follia, lo compiango :
Se ragion, gli son grato : e se in lui sono
Impeti di malizia, io gli perdono.

È prosa, dice l’invidia sotto la maschera di gran poeta ; ma il più meschino nomo che professa lettere, non cercherà gran poesia nel teatro, dove non si richiede, a meno che comprenda poco la differenza de’ generi. Di prosa così bella son pieni Sofocle ed Euripide. La bella prosa (se così voglia dirsi) Metastasiana quante e quante migliaja di versi sciolti specialmente ha fatti da gran tempo obbliare !

Servesi Metastasio di un gran numero di sentenze di Seneca, ma con tale arte che le spoglia di ogni affettazione nativa. Quel Dubiam salutem qui dat afflictis, negat, è un aforismo in Seneca, e diviene una ragione ben naturale in Fulvia :

Non dir così ; niega agli afflitti aita
Chi dubbiosa la rende.

È una ruvidezza pedantesca la risposta di Megara ad Anfitrione, Quod nimis miseri volunt, hoc facile credunt, la quale acquista semplicità e naturalezza in Metastasio :

E poi quel che si vuol, presto si crede.

Dal Petrarca, dal Zeno e da’ Francesi trasse del mele ; ma chi nol fa ? chi nol fece ? Importa saperlo convertire in proprio sangue e sostanza, ed è questo uno de’ rari pregi del Metastasio. Questo traffico de’ letterati è antichissimo. Quanto da Omero, da Teocrito e da Esiodo trasse Virgilio ; quanto da’ nove lirici Greci Orazio ; quanto da Callimaco e dagli altri Greci Catallo con gli altri poeti elegiaci Latini ! quanto Menandro dagli altri comici, e Terenzio e Plauto da Menandro ! Distinguasi però il plagio vergognoso dalla lodevole imitazione. Bisogna posseder critica e principi solidi per comprendere ancora quando gli autori s’incontrano per ventura, e quando si seguono a bello studio. Aretade presso i Greci fece un volume de’ pensieri degli scrittori che s’incontrano senza seguirsi (a).

Il calore della contesa che ebbe in Londra col Martinelli trasportò son già molti anni Carlo Francesco Badini esgesuita ad affermare nella Bilancia di Pandolfo Scornabecco, che Metastasio tolse varie favole da’ Francesi, senza avvertire quante e quante dagl’ Italiani ne trassero i Francesi. Dall’ Ines de Castro, egli dice, Metastasio ricavò il Demofoonte. E perchè questo dramma non può metter capo nella eccellente Semiramide del Manfredi, in cui le occulte nozze di Nino e Dirce che si scoprono fratelli, rassomigliano meglio alle avventure di Timante e Dircea ? Non conosceva poi il Badini altra Inès anteriore a quella del suo ingegnosissimo La Mothe ? Ei si lasciò indietro immensi spazii non percorsi.

Dall’ Ambigu Comique di Montfleury (disse lo stesso mordace esgesuita) Metastasio tirò la sua Didone. Che cosa fu quest’ Ambigu di cui si cibava il Badini ? Una stravaganza eterogenea uscita nel 1671 in tre atti, ognuno de’ quali contiene un argomento differente ed in uno si rappresenta in iscorcio l’avventura di Didone. Quell’ ambigu fu dunque il modello del Metastasio ? Il Badini non conobbe tragedie vere della regina di Cartagine del secolo XVI ? Metastasio non sapeva leggere la divina Eneide ? Gran ritico che fu quell’esgesuita !

Anche l’Attilio Regolo (afferma l’ esgesuita) venne da’ Francesi. E da chi mai venne ? Forse dal Regolo dell’insipido Pradon tanto screditato nelle Satire del Boileau e nell’ epigramma di Giovanni Racine ? Ma l’esgesuita sapeva che il Regolo del Pradon è un petit-maitre colla sua bella accanto (a) ? Poteva nascere da sì molle e melenso padre l’eroico, il romano Attilio Regolo Metastasiano ?

E Badini ed altri ancora dissero che dal Cinna formò il Poeta Cesareo la sua Clemenza di Tito. Il lettore soffrirà che ci trattenghiamo alquanto su questa critica. Chi può ignorare il capo d’opera del teatro di P. Cornelio ? La Clemenza di Tito nulla perderebbe quando anche fosse del Cinna una esatta imitazione. Ma per istruzione della gioventù e per rendere giustizia al vero, osserviamo in qual maniera si condussero que’ due grandi ingegni nel maneggiare in generi diversi due congiure e due perdoni tramandatici dalla storia.

Cinna è tragedia destinata a commuovere ; Tito è melodramma fatto per commuovere ed appagare i sensi. Per riuscire nel primo disegno Cornelio si vale di un’azione importante ma semplice per dar campo al dialogo, in cui, come non a torto giudicò Rapin, consiste il nerbo dell’entusiasmo tragico. Metastasio componendo pel teatro musicale abbisogna di maggiore attività varietà e rapidezza nella favola, per servire al disegno di allettare i sensi senza lasciar di commuovere, e quindi soggettare il dialogo alla più rigorosa precisione per disporre colpi di scena e situazioni che rendano lo spettacolo accetto all’udito ed alla vista. Cornelio e Metastasio soddisfecero al loro intento, e vi avrebbero mancato se il primo serviva più ai colpi di scena ed alle situazioni che al dialogo, ed il secondo più a questo che a quelli, ed avrebbe fatto il Francese un’ azione propria per la scena musicale, e l’ Italiano avrebbe di una buona tragedia fatto un’opera fredda e nojosa(a)

Profuse perciò Metastasio nel suo argomento maggior ricchezza d’invenzione che si scorge ne’ nuovi colpi teatrali e ne’ bei quadri prodotti da’ contrasti di situazione ; ricchezza che non potè trovare nella tragedia francese che non ne abbisognava. Trasse dunque tutte dal proprio fondo le fila necessarie per la sua tela. Non basta a Metastasio che Sesto ami Vitellia che lo seduce e lo precipita nella congiura ; ma ha bisogno che questa aspiri a una vendetta non di un padre, quale è l’oggetto di Emilia nel Cinna, ma di un’ attiva ambizione delusa nella speranza di regnare. Ha bisogno che Tito faccia uno sforzo e rimandi Berenice per risvegliare la spenta speranza di Vitellia ; e che poscia egli elegga per consorte Servilia sorella di Sesto che ama Aunio nobile virtuoso e degno della di lei tenerezza. Ha bisogno che Sesto strascinato dalla passione alla congiura e richiamato da un resto di virtù e dalla gratitudine a salvar Tito, nel tempo stesso che contro di lui cospira, corra a difenderlo : che chiamato da Tito non ardisca presentarglisi col manto macchiato di sangue : che Annio gli dia il suo : che quest’ amico col manto di Sesto segnato colla divisa de’ congiurati arrivi alla presenza dell’ imperadore in tempo, che la virtuosa Servilia ha scoperto il segreto del nastro e che il suo amante all’apparenza risulti colpevole, e ponga in confusione l’inconsiderato Sesto, ed Annio nella necessità di comparir reo o di accusar l’amico. Queste angustie teatrali fanno riescire il melodramma italiano diversissimo dalla tragedia francese per la ricchezza e l’economia dell’azione(a).

I caratteri poi di Augusto Emilia e Cinna differiscono da quelli di Tito, Vitellia e Sesto. Augusto si dimostra clemente la prima volta stanco dalle famose proscrizioni : e la clemenza è la caratteristica della vita di Tito delizia del genere umano ; caratteri che esigono un colorito differente. Emilia innamorata di Cinna intraprende lo sconvolgimento dello stato contro del suo benefattore, per vendicar la morte del padre, nel che si scorge cert’aria di romanzo, perchè l’affetto filiale narrato non iscuote tanto lo spettatore quanto i beneficj presenti di Augusto, e la di lei passione per Cinna esposta agli sguardi. Ma Vitellia è un ben dipinto carattere somministrato dalla natura e da’costumi de’grandi, superiore forse alla stessa Ermione di Racine da cui deriva. Perchè dunque questo verissimo attivissimo carattere che la natura presenta e l’arte ha introdotto con felice successo sulla scena tragica e musicale ; perchè mai quest’ambiziosa Vitellia che ondeggia tralla vendetta e l’amore, increbbe a Giovanni Andres, che vorrebbe cacciarlo via dalla scena, non che dall’opera di Metastasio ? La critica ha principii, precetti ed esempi. Se fu perchè così a lui piacque, piace a noi con sua pace di anteporre al suo dettato la natura l’arte e l’esempio de’ Greci, di Racine e di Metastasio, e tener l’ambizione Vitellia per teatrale. Ella è una Romana ambiziosa che più non isperando di conseguire colla mano di Tito l’imperio, si prevale della debolezza di un suo amante per tramar la rovina dell’imperadore ; e l’ondeggiamento delle di lei mire comunica all’azione un continuo patetico movimento. Cinna poi e Sesto sono veramente due ingrati per cagione di una donna ; ma Cinna sempre considera Augusto come un tiranno, ed i suoi rimorsi dell’atto III non provengono dalla conoscenza dell’ingiustizia del suo attentato, benì da’beneficii ricevuti da Augusto. Sesto al contrario personaggio incomparabilmente più tragico di Cinna (a) è combattuto dalla conoscenza delle virtù di Tito, dall’amicizia da lui oltraggiata, dall’immagine di un gran tradimento senza discolpa, dalla virtù cui non ha del tutto rinunziato. Per comprendere appieno la diversità de’due caratteri, pongasi nella scena dell’ abdicazione di Augusto Sesto in luogo di Cinna, e la tragedia non potrà andare avanti, perchè a Sesto non converrebbe la parte che vi sostiene Cinna d’ipocrita e di traditore determinato.

Personaggi così diversi producono situazioni ancor più differenti. Senza dubbio eccellente è la prima scena dell’atto V tra Cinna ed Augusto. Ma dopo scoperta la congiura, benchè ne sembri troppo famigliare l’incominciamento, Cinna, prendi una sedia e ascoltami, il discorso di Augusto si va gradatamente elevando finchè conchiude quella famosa interrogazione.

Cinna, tu t’en souviens, et veux m’assassiner ?

Cinna però a guisa di ogni reo ordinario si risolve a negare il delitto,

Moi, Seigneur, moi que j’eusse une ame si traitresse !

Ma Augusto lo riempie di confusione mostrandosi inteso di tutta la congiura ; ed allora Cinna convinto si appiglia al partito di mostrar coraggio,

Vous devez un exemple à la posteritè,
Et mon trepas importe à votre suretè.

Tutto è detto con saviezza e proprietà, ed ancor con grandezza ; ma nulla è straordinario. Nel nostro melodramma però che cosa produce lo scoprimento della congiura ? Due incontri originali inimitabili. Nella scena quarta dell’atto II Tito sa che si congiura contro la sua vita, ma ignora che Sesto sia il reo principale ; perciò vedendolo venire va a lagnarsi con lui medesimo, con l’amico, dell’ingratitudine de’ Romani :

Tito

Sesto, mio caro Sesto, io son tradito.

Sesto

(Oh rimembranza !)

Tito

Il crederesti amico ?

Tito è l’odio di Roma. Ah tu che sai

Tutti i pensieri miei : che senza velo

Hai veduto il mio cor : che fosti sempre

L’oggetto del mio amor, dimmi se questa

Aspettarmi io dovea crudel mercede.

Sesto

(L’anima mi trafigge e non sel crede.)

Che contrasto sommamente interessante fa quell’aspetto franco e amichevole di Tito, e quella confusione di Sesto lacerato da’rimorsi ! E chi non invidierà all’Italia questa scena impareggiabile ? Nella scena sesta del III non si conosce meno il maestro. Tito più non ignora che Sesto è un traditore e che il Senato l’ha convinto e condannato alla morte ; ma vuol parlargli, e quando Sesto si appressa, si sforza di mostrar nel volto la rigorosa maestà offesa. Sesto si avanza sbalordito affatto dal delitto palese. L’uno osserva la mutazione dell’aspetto dell’altro, e lo spettatore ammira in essi un quadro degno del Raffaello della scena tragica :

Sesto

(Numi ! E quello ch’io miro

Di Tito il volto ? Ah la dolcezza usata

Più non ritrovo in lui ! Come divenne

Terribile per me !)

Tito

Stelle ! Ed è questo

Il sembiante di Sesto ? Il suo delitto

Come lo trasformô ? Porta sul volto

La vergogna, il rimorso e lo spavento !)

Tali scene non si leggono nel Cinna nè in altri drammi ch’io sappia. Bellezze originali sono parimente, e fatte per l’immortalità, le vie tentate da Tito per sapere il segreto di Sesto : le angustie di questo infelice posto nel caso o di accusar Vitellia o di commettere una nuova ingratitudine verso il suo buon principe : l’ammirabile combattimento di Tito nel soscrivere la sentenza nella scena settimà del III che meritò l’ammirazione di Voltaire. Deggio, dice Tito, una vendetta alla mia clemenza sprezzata….

Vendetta ! Ah Tito, e du sarai capace
D’un sì basso desio, che rende uguale
L’offeso all’offensor ? Merita in vero
Gran lode una vendetta ec…
Eh viva… Invano
Parlan dunque le leggi ? Io lor custode
L’eseguisco così ? Di Sesto amico
Non sa Tito scordarsi ? Han pur saputo
Obbliar d’esser padri e Manlio e Bruto.
Seguansi i grandi esempi : ogni altro affetto
D’amicizia e pietà taccia per ora.
Sesto è reo, Sesto mora ec…
Or che diranno
I posteri di noi ? Diran’ che in Tito
Si stancò la clemenza,
Come in Silla e in Augusto
La crudeltà ec…
Che Tito al fine
Era l’offeso, e che le proprie offese,
Senza ingiuria del giusto
Ben poteva obbliar… Ma dunque faccio
Sì gran forza al mio cor, nè almen sicuro
Sarò ch’altri m’approvi ? Ah non si lasci
Il solito camin. Viva l’amico,
Benchè infedele, e se accusarmi il mondo
Vuol pur di qualche errore,
M’accusi di pietà, non di rigore.

Ed ecco in qual guisa gl’ingegni sublimi anche con argomenti già maneggiati diventano originali. Virgilio e Tasso prendendo per modello Omero, ci arricchirono di nuove fogge di poemi eterni. I sommi drammatici della Grecia scrissero molte volte su di un medesimo argomento componimenti che non si rassomigliano. Chi sa imitat migliorando, nasce per essere successia vamente imitato. Quindi è che il nostro poeta imperiale ha prodotta un folta schiera d’imitatori Italiani che lo seguono senza raggiungerlo ; ed è stato tradotto ed imitato in Francia da molti poeti, dal marchese le Franc de Pompignan, Collè, Belloy, Le Miere, Dorat. Egli è vero che ne’suoi drammi possono notarsi alcuni difetti, ne’quali incorse a cagione del sistema che trovò introdotto, del genere stesso, degli esempi passati, e soprattutto degli abusi musicali, come sarebbero tante arie di paragoni troppo lirici per se stessi eccellenti, e certi amori subalterni, e qualche espressione studiata più che alla scenica non si conviene. Ma che perciò ? Metastasio è pur tutto insieme l’Euripide, il Cornelio ed il Racine italiano. Metastasio è pur tale che se di mezzo il togli, senti che si forma nella melica poesia un orrido voto che niuno più riempie ; là dove se altro moderno poeta, ed ancor non ignobile, tu ti fingi di non avere esistito, nulla sentirai mancare all’Italico Parnasso. Sel soffrano dunque tanto que’critici che non mai corsero la carriera di Metastasio e che perciò non ne compresero l’arduità ; quanto quegli altri che nel provarvisi rimasero indietro spossati e senza moto a segno che si perderono di vista nelle loro cantate e cori e tragedie musicali, e sfogarono criticandolo la loro invidia ed un odio impotente per vendicare le loro cadute.

Non per tanto intorno a lui non si ascoltino gli elogii del giovine Piccinni, di Michele Torcia, del sig. Cordara ; nè il sig. Franceschi, nè l’Algarotti, nè il Calsabigi, quando dimorava in Parigi, nè Carlo Vespasiano, nè il professor Carmignani, nè il Napoli-Signorelli. Odansi gli esteri. Questo vero figlio della natura (disse il dotto scrittore sulla Musica il sig. Eximeno) ha accordati insieme estremi che niun filosofo avrebbe mai pensato di potersi combinare, quali sono le dolcezze della lira greca co’ sentimenti comuni. Il suo stile è chiaro, netto, conciso, le parole piene di sugo e di grazia, i periodi di giusta misura per penetrare nell’ animo. E quantunque il Metastasio non sia stato posto nella lista degli autori del conciossiacchè, egli sarà non per tanto l’originale che si proporranno ad imitare i poeti filosofi. La sua rima e discretissima ed esente di legge, i versi, in quanto lo permette la lingua, sono pieni di ritmo, e però facili ad adattarsi alla musica. Se Anacreonte rinascesse, dubito che scrivesse in italiano un’ode nè più armoniosa, nè più dolce di questa :

« Oh che felici pianti,
Che amabili martir,
Pur che si possa dir,
Quel core è mio.
Di due bell’alme amanti
Un’ alma allor si fa ;
Un’ alma che non ha,
Che un sol desio.

Voltaire parlando della scena 6 dell’atto III della Clemenza di Tito, e del suo monologo diceva : » Queste due « scene sono comparabili, se non le superano, alle più belle produzioni della stessa Grecia : sono degne di Cornelio quando non è declamatore, e di Racine quando non è debole », Lascio quel che si è altrove citato di Gian Giacomo Rousseau quando nel dare idea della voce Genie favella di Metastasio e Durante. L’istesso Giovanni Andres, che forse per far ecco al suo confratello Bettinelli riprese i caratteri di Vitellia e di Sesto, parlò con somma lode del poeta romano, assicurando che Metastasio non ha di che temere il confronto di alcuno. La sublime anima (soggiunse) di Cornelio ha ella saputo immaginare Greci e Romani come Temistocle, Regolo e Tito ? E il dolce cuor di Racine avrebbe avuto bastevole tenerezza e sensibilità per formare i Timanti, i Megacli, le Dircee, le Zenobie… ? Tratti più nobili e grandi, più rilevati ed energici, sentenze più sublimi e giuste, più chiare e precise, pezzi più teneri e toccanti, espressioni più piene di sentimenti ed affetti, non si troveranno facilmente nel Cornelio, nel Racine, nel Voltaire… e il solo Metastasio potrà… far fronte a tutto il più bello e grande del teatro francese ec.. Dopo ciò, studiosi giovani che amate la poesia scenica e Metastasio, ben vi potrete consolare del molesto ronzio delle critiche cicale che mostrano rincrescimento e ribrezzo di approvare i vocaboli usati da Metastasio. Ridetevi pure di coloro che chiamano svenevoli le tenerezze metastasiane, de’ quali da quì a poco avrete piena contezza : sprezzate le vendute tirate di certi automi periodici che respirano coll’altrui fiato velenoso, e l’affettata severità de’ Petrarchisti e Dantisti e le filippiche de’ Versiscioltai. Udite per vostro meglio e per gloria dell’ Italia, di cui oggi ancora Metastasio è il più caro ornamento poetico, udite gli esteri, gli emuli stessi oltramontani ; udite soprattutto il vostro cuore, e coll’Algarotti

a piena man spargete
Sopra lui fiori, e del vivace alloro
Onorate l’altissimo poeta.

Seguaci ebbe nell’opera istorica quest’ingegno raro Marco Cortellini livornese che scrisse l’Almeria e l’Antigone pel teatro imperiale di Pietroburgo, e Vittorio Amadeo Cigna torinese autore di Enea nel Lazio e di altri melodrammi. Mancò veramente ad essi buona parte della delicatezza, del patetico e del calore di Metastasio. I loro disegni non furono sì ricchi e giudiziosi, non originali o quasi tali le invenzioni. I loro colpi di scena poi speriscono a fronte del vigoroso colorito di Apostolo Zeno, come i loro quadri languiscono accanto a quelli di Metastasio. Decaddero in seguito per lo stile in faccia al Cortellini ed al Cigna la Disfatta di Dario e l’Incendio di Troja del duca Morvillo, ed i melodrammi di Domenico Perrelli impressi in Napoli nel 1777, e poi reimpressi, la Circe, Cesare in Armenia, Lisimaco, Adolfo. L’Armida abbandonata del De Rogatis rappresentata nel 1770 in Napoli riuscì nel teatro di San-Carlo per le decorazioni e per la musica dell’esimio Jommelli che si ammira come un capo d’opera. Luigi Serio improvisatore ed avvocato morto a piedi del Torrione del Carmine l’anno fatale 1799, scrisse una Ifigenia in Aulide collo scioglimento naturale del Racine che si cantò nel teatro di San-Carlo colla musica del valenziano Vincenzo Martin, l’Oreste che si rappresentò colla musica del napoletano Domenico Cimarosa nell’ agosto del 1783.

Non è mancato qualche altro melodramma istorico in Italia, come il Pirro del toscano Gamerra, il Creso del cav. Pagliuca ed il Socrate del esgesuita Antonio Galfo, che suppongo ançor vivente in Modica sua patria. Il primo si cantò nel teatro reale in Napoli, e piacque ; intesi che il secondo non ebbe il medesimo destino ; il terzo non si è mai rappresentato. Trovasi il Socrate impresso in Roma nel 1790 nel tomo IV del Saggio Poetico del Galfo. Il Metastasio in una lettera che gli scrisse, n’encomia lo stile come robusto e lusinghiero, la ricchezza de’ pensieri, la vivacità delle immagini. Queste veramente abbondano oltre il bisogno in qualche situazione. Le moralità in copia non disconvengono al filosofo. Quasi tutte le arie contengono studiate comparazioni sulle tracce di qualche splendido difetto del Metastasio. Quelle di passioni non oltrepassano le sette, altrettante sono le parlanti, e ben quindici quelle di comparazioni, fralle quali una ve n’ ha fin del cavallo trojano che entra in Troja col manto della pietà. L’economia e la traccia dell’azione forse richiedevano più artificio ed incatenamento, e situazioni più tragiche in siffatto argomento.

Il conte della Torre Cesare Gaetani nato nel 1718, s’egli pur vive, in Siracusa sua patria conterà oggi anni 95 di sua età, e nel 1794 non avea tolto congedo dalle muse sceniche, e pubblicò le Nozze di Ruth cantata, e nel 1795 il Giudizio di Salomone, entrambe per l’anniversario di Santa-Lucia. Notabili singolarmentè sono i caratteri di Giosaba madre falsa del bambino conteso e di Bersabea madre vera che co’ palpiti materni chiama l’attenzione. Rilevo da una lettera a me scritta nell’ottobre del 1796 che egliha scritte molte altre produzioni sceniche, come il Trionfo di Giuditta, Mosè bambino al fiume, il Sacrifio di Jefte, l’Eccidio di Sisara, la Scala di Giacobbe ecc.

Antonio di Gennaro già duca di Belforte morto in gennajo del 1792 lasciò tralle altre poesie alcuni componimenti drammatici da cantarsi verseggiati con eleganza e capaci di armonia musicale. Nel volume terzo dell’edizione nitida che se ne fece nel 1796 trovansi varie cantante, ed un oratorio per musica nella liquefazione del sangue di san Gennaro del maggio del 1795. Vi si legge ancora la Primavera critta pel solito omaggio di fiori e di frutta che si presentò a’ sovrani nel primo di maggio del 1775, in cui si trova un bell’ elogio fatto dalla Primavera personificata ai pregi naturali del sito di Partenope. Vi sono altresi due favole boscherecce musicali, l’Isola incantata, e l’Amor vendicato, delle quali s’ignora l’epoca. É però noto che la prima si scrisse e si pose in musica a privato trastenimento di una brillante compagnia di dame napoletane che dettavano allora leggi al gusto e alle maniere. Vi si trovano introdotte quattro cacciatrici vivi ritratti di quelle dame, e gli evenimenti ideati adombrano il vero col velo misterioso della poesia. L’Isola incantata che seduce le ninfe, e la pianta che al cadere rompe l’incanto, discendono dall’isola e dal ponte incantato di Rinaldo e dalla pianta recisa nella selva incantata della Gerusalemme. Si osservino le istantanee mutazioni cagionate dal troncarsi la pianta fatale, che servirà per saggio dello stile :

Ma che… s’oscura il giorno !…
S’addensano nel ciel nubi improvvise !
Fischian orridi i venti !… impetuosa
La grandine si scaglia… il suol si scuote…
Dalle radici immote
Par che l’orbe vacilli ! e par che avvampi
L’isola tutta allo strisciur de’ lampi !

L’altra favola si aggira sulla vendetta presa contro di Apollo da Cupido col rendere schiva a’suoi prieghi Dafne figlia di Peneo. L’autore ingentilisce la favola rendendola di lieto fine con mostrar Dafne restituita alla vita, ed Apollo placato e sol contento di cingersi la fronde dell’amata pianta.

Ma nel declinar del secolo XVIII di molto erano cresciuti gl’inconvenienti teatrali che incepparono tal volta il genio stesso di Metastasio. Erasi giunto al segno di dover sacrificare gran parte della poesia e della verità al furore de’ gran pantomimi, mercè de’ quali ormai s’ignora, se il melodramma sia parte accessoria o principale dello spettacolo.

L’umana incostanza che mena sovente il rincrescimento dello stato attuale ed il desiderio di cambiare, fe pensare a rivolgere lo sguardo indietro, ed a vedere in lontananza l’opera mitologica rifiuto delle scene italiche ed imperfetta ancor nelle mani del dilicato Quinault. Come seguir nel suo sistema Pietro Metastasio, e non rimanergli di grande spazio indietro ? In vece di rettificar quel sistema si penso a torcere da quel sentiero.

Ed ecco sorgere in Vienna in faccia al Metastasio stesso il Giudizio di Paride, l’Orfeo e l’Alceste animati dalle note immortali di Gluck. Ranieri Calsabigi cui fu interdetta la Francia, ricoverò in Vienna, e portò su quelle scene lo spettacolo che corse oltre l’Olimpo e travalicò le rive d’ Acheronte. Il Migliavacca scrisse per quelle scene stesse la Tetide e l’Armida, ed ebbe la destrezza di congiungere agl’incantesimi, ai sisons delle furie e ai bilancè de’personaggi allegorici di Quinault il vivo interesse dell’inimitabile Armida del gran Torquato ed una felice imitazione del seducente stile Metastasiano Marco Cortellini avea richiamata la pompa di Amore e Psiche gia sceneggiata dal Moliere, e mostrata in Vienna nel 1767, un nuovo spettacolo di Amore e Psiche colla selva de’destini coll’antro degli oracoli, coll’ Acheronte colla caverna d’ Averno. Il nomato Luigi Serio nel 1780 la riprodusse in Napoli spogliata di tali decorazioni per dar luogo a’balli di Zemira e Azor ed al Convitato di pietra. Psiche ed Acheronte, Zemira e don Giovanni Tenorio tutto in un fascio.

L’anno 1782 (ed è questo un altro fatto che smentì il non mai Verdce gazzettiere Colpo d’occhio) il Sovrano di Parma, sempre continnando nell’intento di promuovere la poesia drammatica, fe rappresentare splendidamente Alessandro e Timoteo scritto dall’erudito conte Gastone della Torre Rezzonico e posto in musica dall’ egregio Giuseppe Sarti.

Invano tutto ciò si produsse per allontanare l’opera istorica e secondare i disegni del Calsabigi. Fermo egli nel proposito di raddrizzare il trono giacente dell’ opera mitologica impiegò tutto l’apparato de’demoni e delle furie danzatrici e della descrizione del Tartaro nelle sue Danaidi che fe porre in musica dal nostro valoroso Millico. Questo spettacolo che abbisognava, si disse, di quindicimila scudi per rappresentarsi, non comparve sulle scene. Il conte Pepoli che lo seguiva a quel tempo e ne adorava i dettati, pubblicò nel 1789 il suo Meleagro accompagnato da una lettera sul melodramma serio ad un uomo ragionevole ; ma l’uomo ragionevole egli non dovea trovare se non nel Calsabigi, ed il Meleagro al pari delle Danaidi sospirarono invano di comparire. Così le nuove vesti delle anticlie furie de’numi infernali, delle ombre e delle parche perpetuo corteggio delle opere mitologiche si rimasero a rodere se stesse nel gabinetto de’loro campioni.

Dopo gli ultimi vani sforzi impiegati in pro dell’opera mitologica, si scredettero quasi tutti i di lei partigiani e si rivolsero di bel nuovo all’opera che fa parlar gli uomini giusta le insinuazioni di Gian Giacomo Rousseau. Convertito il Pepoli nel 1790 fece imprimere in Venezia la Morte di Ercole spiegandovi la pompa delle decorazioni naturali che abbelliscono sempre variamente lo spettacolo. Egli v’introdusse pantomimi di soldati, un’entrata solenne di Ercole, un’ecclissi repentina, sacrificii decorati e l’apparenza del rogo ardente sull’ Oeta.

Ranieri stesso de’Calsabigi disperato di non aver potuto più sostenere l’opera de’demoni danzanti e delle trasformazioni a vista, si rivolse all’istorica e scrisse due melodrammi che chiamò tragedie in musica, Elfrida ed Elvira che potè far rappresentare nel real teatro di Napoli nel 1793 e 1794. Questo letterato che in Vienna ed in Napoli non fu quello che era stato in Parigi rapporto al gran Metastasio, ne insultò la memoria per le stampe villanamente combattendo l’ Arteaga. La gioventù vedrà volentieri i progressi che egli fece nel seguire il sistema istorico di colui ch’egli maltrattava indegnamente.

L’istoria d’ Inghilterra de’bassi tempi somministrò al Calsabigi il soggetto della prima. Edgar succeduto a Edwy udì celebrare l’estrema bellezza di Elfrida (Elfthryth) figlia del ricco conte di Devon, e pensò di sposarla nel caso che sì bella fosse qual si decantava ; e per esserne sicuro spedì Athelwold suo favorito a Devon dal di lei padre. Preso il messo dalla bellezza di lei riferì al re che il di lei volto era di fattezze comunali e poco di lui degno. Il re se ne svogliò, e permise al favorito di ottenerla per se stesso. Ebbe poi notizie diverse da quelle che Adelvolto gli avea recate, e portatosi in provincia trovò Elfrida più bella ancora che non si diceva, ed uccise di propria mano il favorito in una caccia e sposò Elfrida. Il Calsabigi formò su tal soggetto il suo dramma migliorando il carattere di Elfrida facendola innamorata del marito, e quello di Edgar dandogli spiriti di generosità che contrastano colla sua passione. Eccone la traccia.

Atto I. Elfrida impaziente si trattiene a parlar con Evelina sua confidente sull’assenza del marito. Il dialogo è proprio e naturale. Ma se dovessero valere le censure del Bettinelli fatte contro lo stile Metastasiano, potrebbe dirsi altrettanto contro lo stile del Calsabigi. Sopravviene Orgando padre di Elfrida in abito di cacciatore. Elfrida nol ravvisa, e s’inselva, Orgando le va incontro :

Org.Nobil donna… Elfr. Straniero

(Oh importuno !) che vuoi ?

Org. Dì, non è quello

Il romito castello

Del felice Atelvolto ?… Amico io sono

Del signore di queste

Remote solitudini, e confido…

Ed in tutto ciò il padre non riconosce la figlia, nè questa il padre, perchè è vestito da cacciatore. Ciò è ben duro ed inverisimile. Evelina lascia Elfrida col padre, e dopo cinque versi ritorna ; ma perchè parte ? perchè ritorna ? Forse Evelina parte per ispiare se giunga Adelvolto, e torna per dire che giugne, la qual cosa non è punto vera, nè appare altronde che cosa ella voglia ricavarne in vantaggio di Elfrida. Si ravvisano al fine il padre e la figlia e si abbracciano, e co’rispettivi confidenti che hanno alla mano cantano un quartetto poco veramente vantaggioso per la musica, perchè gli affetti non sono punto riscaldati al giusto segno, dicendo appena Elfrida

in quest’ amplesso

Perchè cosi adombrato,

Severo sei con me ?

ed Orgando

Nella mia figlia io trovo

Un non so qual timore,

dal che pare che nascer non potessero le tetre espressioni de’ confidenti,

Minaccia il ciel turbato,

S’ammanta a nero il giorno,

Mormora il tuono intorno.

Si vede che il poeta vorrebbe, in grazia della musica, elevare il tuono del quartetto che non può essere che parlante. Questo pezzo concertato abbraccia 34 versi, e conchiude così :

Org. Torni d’ Elfrida al core…

Elfr. Torni del padre al core…

Evel. Torni nel nostro core…

Osm. Torni d’un padre al core…

a 4 La calma che perdè.

Quattro personaggi che interrompono il proprio sentimento o per volontà, o per inciviltà reciproca, che attendono ciascuno alla sua volta il parlar dell’altro a metà, che conchiudono in coro con un sol verso comune venuto in mente a tanti ; rassembra quello appunto che si riprende in certe scene finali degli Spagnuoli del secolo XVII. Si dirà che altri ancora l’ha fatto ; ma si domanda, se con ragione e proprietà drammatica ? Si dirà che la musica anche oggi astringa la poesia a tradir se stessa e la verità ; ma dunque nel sistema musicale presente vi sono pure ostacoli all’imitazione del vero ? e v’inciampano tanti baldanzosi censori severi di Zeno e Metastasio ? Cessino dunque codesti censori che non sanno far meglio, e piggiorano ad occhio, cessino di riprendere chi tanto e tanto ha meritato.

Viene Atelvolto nella scena quarta e s’incontra con Elfrida, e prima che nel recitativo si snervi la passione dopo cinque soli versi spezzati a vicenda esprimono i loro affetti in un duetto non male. Atelvolto si mostra agitato per la venuta del re. Elfrida lo rincora. Ti perdo, Elfrida, dice Atelvolto. Ed ella : Come ! minacci me con tal funesto presagio più che te stesso. Le dice al fine

Non ti smarrir, son tua, voglio esser tua… Non so morire ?

Atto II. Il re Edgar palesa ad Atelvolto di voler passar seco alquanti di, e veder la sposa. Orgando che ito era, al dir di Evelina, sin dalla scena settima dell’atto I ad ossequiare il re ; giunge un poco tardi. Il re l’invita con sua figlia a desinar con lui. Adelvolto si allontana per prevenire Elfrida ; ma dopo otto versi recitati dal re che parte, egli ritorna senza perchè nel medesimo luogo prima di parlare colla sposa. Il poeta però voleva trarre partito dal loro incontro alla presenza dello spettatore, e non seppe meglio farli trovare insieme. La loro scena è appassionata, malgrado di un terzetto che vi si trova alla prima, il quale colle sentenze e le ripetizioni della musica serve anzi a stancar Elfrida, e lo spettatore per le troppe esitazioni del marito. Ciò che rende la scena importante è il segreto che a lei palesa dell’inganno fatto al re. L’uditorio resta sospeso sulla deliberazione che prenderà Elfrida.

Segue altra mutazione di scena nella quinta scena, in cui il re si trattiene, come ha pur fatto nella prima, a far riflessioni di antiquario dicendo, che probabilmente le regine colà vissero un tempo remote. Elfrida dando voci di dentro, e contrastando col padre vien fuori con impeto dopo di aver chiamate in soccorso (poderoso al certo !) contro del padre Evelina e le compagne, nella guisa che fanno le ninfe fuggendo da’satiri. La bellezza di Elfrida incanta il re, il quale ordina che si chiami Adelvolto, cui rimprovera il tradimento ; egli chiedo la morte. Orgando lo sfida a duello, ed Adelvolto l’accetta con disegno di morire per le mani di lui. Elfrida affannata prega il re perchè non permetta la pugna. Il re duro risponde, questa è la legge. Quartetto finale, in cui Elfrida prega tutti l’un dopo l’altro e nulla ottiene. Forse in alcune espressioni si desidererà più precisione, e idee meno generali.

Atto III. Anfiteatro boscareccio.

Siede il re con suo seguito. Vengono i combattenti. Orgando dice ad Adelvolto, se il cielo abborre i rei, e ne fa vendetta, io lascerò nel tuo scempio un tremendo

Della giustizia sua celebre esempio.

Adelvolto risponde che si difenderà sol per onore di Orgando. Il re dice,

Non più, si dia della battaglia il segno,

verso di Metastasio nella Semiramide,

Olà, si dia della battaglia il segno.

È vero che le parole che lo compongono appartengono a tutti ; ma così infilzate son del poeta picciolo tanto e spregevole agli occhi del Calsabigi.

Sopravviene Elfrida con armato seguito alla barriera, e protesta contro l’ingiustizia della pugna. Edgardo dice, questa è la legge, ed ordina che le s’impedisca il passo. Elfrida che finora ha mostrato affetto e virtù, ma non già prodezza guerriera, divenuta un’amazzone impone al suo seguito che spezzi la barriera, e si avanza sino alla loggia dove stà il re, seguita poi da chi ? forse da’ vassalli del marito. Ma questi vassalli essere altri non possono che villani del ritiro campestre di Adelvolto. Or pare verisimile che dovessero osar tanto in faccia al re circondato da’ soldati, da’ cavalieri ec., ribellandosi manifestamente ? E tanto ardisci ! le dice il re ; ed impone alle guardie, le quali non han saputo resistere all’attentato della barriera, di circondare i combattenti. Ma che pro ? Elfrida è già sulla carriera delle Camille ; chiama barbaro il sovrano, urta, dissipa le guardie, si scaglia verso Adelvolto, e gli strappa di mano la spada. Poteva giunta a tal segno l’azione restare oziosa e sospesa ? E pur così avviene. Elfrida dee esigere dal re, dal padre, dalle guardie tutto l’agio per cantare un’aria di diciotto versi, la quale arresta la rapidità che quì l’azione richiedeva, e fa rimanere il re e tutti come ascoltatori oziosi indifferenti in un’ accademia di musica. In fine Elfrida approfittandosi del letargo universale conduce via fieramente il marito ad onta del re e del padre. Adelvolto è condannato all’esiglio. Egli però rapito dalla sposa si è ritirato alle sue stanze, quasi potesse rimanere ozioso in tal punto. L’azione naturalmente richiedeva che Elfrida dopo il suo attentato avesse atteso senza indugio a ritirarsi altrove con lui, non già che si fermasse nelle sue stanze. Ciò che non ha fatto per iscelta, è obbligata a proporlo, perchè il re ha esiliato il marito. Ella vuol seguirlo. E se, dice Adelvolto, ne impedisce il re ed Orgando ? Ella magnanimamenet risponde :

Schernir possiamo

Il padre, il re… per sempre

Essere inseparabili… Rimira…

Rifletti… questo acciaro

É mio… tuo se lo vuoi… Ti basta il core

D’impugnarlo e imitarmi ? Ah questo solo

Dalle sciagure estreme

Liberarci potrà… Morremo insieme.

Ciò parmi patetico e nobile. In vece però di dirsi che un marmo istesso in un eterno amplesso gli chiuderà, ed in vece di quell’urna sola che confonderà le loro ceneri, espressioni fredde, consuete, poco energiche, questa scena poteva forse produrre un duetto più appassionato e più utile alla musica. Poteva p. e. esprimersi con calore il pensiero che dee angustiare Adelvolto per aver egli formata l’infelicità di Elfrida : e questa poteva corrispondere riflettendo di aver ella coll’infausta sua heltà ridotto a quel punto l’amante. Ciò avrebbe senza dubbio somministrato alla musica un oggetto più capace di vere espressioni, in cambio di quell’eterno amplesso nel marmo e di quell’urna che vale la stessa cosa esangue ed alla musica infruttuosa.

Resta Elfrida, e viene il re, cui ella dice che seguirà lo sposo. Edgardo risponde che nol permetterà Orgando ; e le offre il trono e la mano. Si sdegna Elfrida, e non a torto, al sentirsi da un re, il quale ha sempre in bocca, questa è la legge, proporre che ella diventi sposa di due mariti. Viene il padre, e la riprende del volere accompagnare Adelvolto. Ma (osserviamo) Orgando come ciò sa ? Ella ha manifestato il suo disegno al marito nella scena quinta ; è venuto il re che è presente, ed ella col re se n’è spiegato nella scena sesta ; or chi l’ha detto ad Orgando che arriva nella settima ? Il poeta che il sapeva. Il re contristato rimprovera Elfrida, e dopo un’aria di diciotto versi verbosa certo e con ripetizioni che potevano risparmiarsi, parte. Nella scena 8 la stessa premura di Orgando, la stessa resistenza di Elfrida, che produce un duetto. Ma il padre ? dice Orgando,

Elfr. Oh Dio ! s’io l’amo,

Se più di me l’amai

Sa il ciel, lo sa il mio core,

Padre, e il tuo cor lo sa.

Anche quì Calsabigi ha onorato un pensiero del Metastasio trascrivendolo dall’Artaserse,

Se fedele a te son io,

Se mi struggo a’ tuoi bei lumi,

Sallo amor, lo sanno i numi,

Il mio core, il tuo lo sa.

Vegga poi il leggitore, se il Calsabigi l’ha piggiorato, o reso meno armonico. Que’ critici poi che riprendono lo stil metastasiano come prosaico ed inelegante, e si dichiarano ammiratori del Calsabigi, osservino il seguente passo di Elfrida, e dicano se prosa simile trovisi in Metastasio : Soltanto mi sgomenta, padre, che un giorno avrai del barbaro mio stato pietà rimorso e orror . Mentre Elfrida vuol partire, arriva Edgardo che ne impedisce la fuga, ed Orgando che torna per rimproverare alla figlia il poco amore che ha per lui, e vuol separarla dal marito, la cui nullità in tale occasione vie più si manifesta e rincresce, Elfrida con uno pugnale minaccia di svenarsi. Quì si trova un pezzo di musica concertato, in cui Adelvolto risnonde appena da parte che è smarrito l’imbelle suo cor, ed Ormondo e Siveno altri due personaggi egualmente nulli (che nol dicendo il poeta è da credere che sien venuti fuori col seguito di Edgardo) articolano la sola parola tremo. Edgardo in grazia dì Elfrida accorda che Adelvolto resti, ma lo sottomette al giudizio de’ Pari che ben sa Elfrida che sia giudizio di sangue. Ma che grazia è questa che l’esenta dall’esiglio e gli fa correre un pericolo di morte ? Adelvolto condotto via dice fra se (quasi andasse a chiudersi alla Trappa) addio mondo, addio consorte, non respiro che morte. Con ciò il poeta vuol che s’intraveda il disegno che egli ha di morire. Or non era bene di prepararsi un poco più tal determinazione, dando maggiore energia al di lui carattere ? Adelvolto non dove a pignersi cosi melenso. Ne rimane atterrita Elfrida, si lascia cadere a’ piedi di Edgardo, ed il vivace suo pregare ottiene al fine il perdono al marito. Hai vinto, dice il re, e con nobil sentimento contrario al primo suo scandaloso pensiere di sposare la moglie di un altro che ancor vive, aggiugne,

Superbo
Son io di averti amato, e più che t’amo,
Più apprezzo me : di te non sono indegno ;
Tel prova il mio perdono. In quante pene,
Quante amarezze ha involto
Quel crudele. Siven. Ah Signor, morì Adelvolto.

Ed in una breve strofetta da cantarsi si accenna che Adelvolto avea un pugnale ascoso, che gridò, Elfrida, se l’immerse nel seno, e spirò. Elfrida vuol seguirlo, Orgando la trattiene ; ella tramortisce.

Lodevole in tale dramma si è che non vi sono freddi episodici amori subalterni, non arie di concetti e comparazioni liriche, non scelleratí che precipitano gli eroi nell’infelicità. L’azione va al suo fine, malgrado di qualche ripetizione, e qualche scena inutile. Vi trionfa il carattere nobile e appassionato di Elfrida. Il disviluppo segue acconciamente con que’ pochi versi che dal canto possono ricevere espressione e calore.

Nel fine del dramma si trova impresso un estratto di una lettera dall’autore attribuita al signor Herbert, cui è dedicato. Costui lo loda, e trova in esso (parole che gli presta l’autore) più estro, più calore che in qualunque altro scritto all’età dell’autore da due altri celeberrimi poeti defunti pochi anni scorsi, cioè a dire di Zeno e di Metastasio. Con ciò il signor Herbert fa gran torto a se stesso, se non comprende l’immensa non mensurabile distanza dell’ Elfrida dal Temistocle, dall’Olimpiade, dalla Zenobia, dall’Achille in Sciro, dal Catone ; dal Ciro, dal Regolo, dalla Clemenza di Tito ec. ec : come ancora dal Luciò Papirio, dal Cajo Fabricio, dal Mitridate, dall’Andromaca, dalla Merope, dalla Nitocri ec. Ec. Non vi sarà un solo che ponga accanto, non dico alle nominate, ma all’ultima opera di Zeno e Metastasio, l’Elfrida, nè anche se vivessero Bettinelli e Vanetti encomiatori del vivente Calsabigi e disprezzatori di professione di Metastasio. La catastrofe dell’Elfrida è nova (dice pure il decisore Herbert, o per meglio dire Calsabigi sotto il di lui nome) naturale, preparata e condotta non si può meglio. Io vò fargli grazia del preparata e condotta che non si può meglio, a dispetto di quanto se n’è osservato. Ma come passargli che sia nuova la catastrofe ? Calsabigi finse ignorare che il far trovar morto il reo dopo la grazia ottenuta appartiene all’autore della Inès de Castro ? Finse ignorare che fu ripetuta nell’Agnese dal Colomès ? Finse ignorare che il Pagano la trascrisso ancora nel Gerbino ? Or come la chiama nova l’anno 1793 nell’Elfrida ?

L’altra tragedia in musica del Calsabigi è l’Elvira che si recitò nel carnevale del 1794. Il pubblico disaprovò quest’ opera per ragioni diverse da quelle per le quali l’autore se ne dichiarò malcontento nell’ edizione fattane a proprie spese. Egli disse che la sua opera fu pregiudicata nella condotta e nell’ interesse e trascurata nell’ apparecchio abbellimento e decorazione convenevole alla scena. Egli volle scusarne la solenne caduta con asserzioni non vere. Si vedrà dal parlarne che faremo sulla stessa edizione dell’autore, e recando in note le variazioni che vi si fecero nel rappresentarsi.

Si aggira su gli eventi de’bassi tempi quando i Mori dominarono in una parte della Spagna, ed eravi certa promiscuità e connessione di affari, costumi ed interessi fralle popolazioni Spaignuole ed Arabe. In Granata per ipotesi della favola domina Odorico prepotente colla sua fazione spagnuola, di cui fa parte Ricimero scelto da Oderico per consorte di Elvira sua figlia bellissima e piena di maschio valore trattando le armi alla maniera delle Marfise. La fazione opposta inclina agli Arabi, ed è spalleggiata dalle milizie di Adallano principe moro, cui Elvira ha segretamente data fede di sposa. Intervengono nel dramma quattro personaggi e tre confidenti.

Atto I. Notte avanzata. Elvira colla confidente Selinda attende Adallano. Prega la notte a coprir ben di tenebre il cielo, affinchè non esca sì sollecita l’aurora col rosato suo colore, l’ augellino non saluti il nuovo dì, l’argentea luna non la importuni col suo candido chiarore. I drammi musicali prima di Zeno e Metastasio si riempivano di siffatte espressioni liriche, e si ripresero in Metastasio stesso alcuni tratti lirici e certe ariette bellissime ma disdicevoli alla verità richiesta nel linguaggio drammatico ; or si concederanno le additate figure e tinte liriche al Calsabigi che ci promette per là musica tragedie vere ?

Nella scena 2 viene Osmida secondo confidente, che dopo questa scena sparisce, e solo interviene nella decima per dire, vuoi guerra e guerra avrai, e poi in coro accompagna Sclinda negli ultimi tre versi del finale. Valeva ciò la pena di moltiplicare i personaggi con un Osmida inutile che parla in una sola scena ? Tratto tragico. Egli è stato mandato avanti da Adallano per esplorar tutto nel giardino. Elvira mostra impazienza amorosa, ma una scena sì lunga di lei coll’ esploratore Osmida tira a se poco l’attenzione dello spettatore che brama l’incontro degli amanti. Verte poi siffatta scena su fatti tutti noti a i due confidenti ; a che dunque rivangarli ? Per informarne l’uditorio con tale scarsezza d’arte. Ma già arriva affrettato Adallano, cui il chiaror della luna ha sinora impedito di venire. Gli amanti dirigono i loro voti alla notte,

Prolunga, o notte amica, il mio contento ;

e poi ? e poi si allontanano e si perdono nel boschetto, per dar luogo ai confidenti di seguitare a porgere alla stessa notte divote preghiere. Tutte tinte tragiche, chi nol vede ? Lo spettatore pero curioso investigatore di quanto fanno o non fanno in iscena i personaggi, fa mille giudizii sull’inselvarsi de’ due fervidi amanti, involandosi agli occhi de’ loro confidenti stessi, e di mala voglia vedesi tenuto a bada da personaggi subalterni, i quali continuano ad orar nell’orto. Nojosità stomachevoli ! Gli amanti tornano a farsi vedere, e benedicono il giorno che si videro. Elvira dice, ne’ fati è scritto il nostro amor, e Adallano

A eterni
Caratteri di stelle
Segnata fu l’union nostra.

Che roba, caro Calsabigi ! dirò valendomi della gentile esclamazione che usaste in disprezzo dell’ altissimo poeta Metastasio. Lasciam da parte che ciò dee parer prosa a chi la trova ne’ drammi del Romano poeta : lasciam pure che lo stile tragico schiva simili leziosaggini ; come si menerà buona al tragico musicale Livornese quell’unione segnata a caratteri di stelle, contrabando da secentista ? Non anderemo mai innanzi a voler cercar gnavità tragica in queste prime scene, tutto essendo imbrattato di maniere liriche tutto al più da pastorale. Questi amoreggiamenti sono interrotti da un all’ armi, di cui poi non si dà altra ragione. Seguitano gli amanti ad invocare i genii benefici del cielo in compagnia de’ confidenti. Di maniera che queste prime scene possono acconciamente chiamarsi preghiere notturne e matutine.

Partito Adallano viene Ricimero a domandare ad Elvira, perchè sia colà notturna e ascosa, e se altri sia con lei. Elvira parte dicendo dispettosamente,

Non mi seguir… Festeggia
Nelle ricerche tue, sogna, vaneggia.

Veramente quel festeggia nelle ricerche è un poco strano, quel sogna vaneggia un poco forte ; ma si passi alla guerriera Elvira, tuttochè nulla di cio sia tragico e grave.

Ricimero resta lagnandosi dell’ odio di lei con Almonte terzo confidente, e parte seco niun altro rimanendo in iscena. Aggiorna e si muta la scena, e l’istesso Ricimero che parlava nel giardino, si trova in discorso inoltrato con Odorico ne’ suoi appartamenti. Se non vogliano contarsi tra’ personaggi i falegnami che eseguiscono le mutazioni, la scena è rimasta vota come avviene ad atto finito ; ovvero se in Ricimero non voglia fingersi rinnovato il miracolo della presenza fisica in due luoghi di Apollonio Tianeo(a). Mentre parlano Ricimero e Odorico, che l’ esorta a non disgustar la figlia, e quegli ripete, ma quanto ho da soffrir, viene Almonte a presentare ad Odorico un foglio sospetto che dice di aver trovato in terra. È un foglio amoroso di carattere di Elvira. Grave principio di mirabil viluppo tragico. Odorico la fa chiamare, e le rinfaccia il foglio come da lei scritto. Elvira innocente nega di esser suo colla franchezza della verità che basterebbe a dissipare ogni dubbio nel padre, put chè non avesse cattivo concetto della figlia, e non la credesse raffinata nella furberia. Ma in certi drammi suppongono gli autori un patto tacito, per cui si accorda che un innocente accusato dee tenersi per colpevole, per andare avanti. Senza di simile supposizione poetica quanti drammi caderebbero come mal tessuti ? Contal diploma Odorico rimprovera la figlia qual rea convinta di alto tradimento (ed è poco un bigliettino tenero creduto di lei ?) e le dice,

Tu non hai del tuo delitto
Nè vergogna nè pudor.

A quest’ aria sì ben fondata si appicca una coda di rimproveri, onde ardiscono insultarla Ricimero ed Almonte. Terzetto, in cui crucciata Elvira ingiuria que’ due malvagi a buon dato, e poi con impeto li discaccia inseguendoli ; e ciò vorrà dire che se essi non son presti a farsi indietro, ella tragicamente gli discaccerà a urtoni, a spinte, a calci ad un bisogno, nè ciò sarebbe senza esempio di autori tragici, avendo anche la Cleopatra di Jodelle preso pe’ capegli un suo vassallo seguitandolo a calci per la scena, ed in questo senso Calsabigi avrà ben saputo trasformarè il dramma in musica in vera tragedia. Buon per essi che Odorico, senza saper perchè, torna in tempo, ed Elvira si ritira con modestia. Tutto ciò che canta Odorico ed Elvira si vuol leggere nel dramma per ammirarsene l’eleganza, la forza, e la precisione Calsabigiana. Partito il padre ella dice piangendo, vedete mirate (che debbono essere due azioni distinte) godete… esultate ; non vi turbate, non vi avvilite ? e torna come prima a discacciarli con impeto e minacciante, benchè senza armi, se pur non pensi ad imitar Cleopatra. Rimasta padrona della campagna si trattiene a cantar quattro versicoli, per dar tempo ad Almonte di fuggire, di passare alla sala delle udienze, di veder Adallano che viene a parlar solennemente a Odorico, e di recargliene l’avviso.

Adallano nella scena decima propone l’unione degli Spagnuoli, e de’ Mori in Granata, e per se le nozze di Elvira. Odorico risponde di aver di lei già disposto. Adallano chiede che Elvira disponga di se stessa : sfida Ricimero, e canta un’ aria imitata da un’ altra di Metastasio. Scitalce dice nella Semiramide,

Se in campo armato

Vuoi cimentarmi,

Vieni che il fato

Fra l’ire e l’armi

La gran contesa

Deciderà.

Adallano nell’ Elvira,

Se generoso
Vuoi contrastarmi
D’Elvira il core,
Meno orgoglioso
Fra l’ire e l’armi
Il mio valore
Ti renderà.

Per chi tiene l’udito armonico trova fra le due strofe qualche divario, nè la tagliacantonata di preconizzare il proprio valore di Adallano trovasi in Scitalce. Comunque sia commendiamo l’imitazione di Calsabigi ; quella al certo, se avesse avuto più tempo, era la maniera di formarsi lo stile dolce e preciso, seguir le vestigia de’ grandi ; ma bisognava adorarle nel tempo stesso nel calcarle, in vece di mordere il piede che le stampa. Calsabigi però nella seconda parte perde la sua scorta, cade in una specie di freddura :

E se la sorte
Nella contesa
Questa vittoria
M’involerà,
Dell’alta impresa
Almen la gloria
M’illustrerà.

In prima qui nella contesa è pura borra ; di poi Adallano in tutt’altro Moro orgoglioso e fiero quì diviene modesto, e decanta per alta impresa quella di porsi a fronte di Ricimero, il quale privo di ogni rinomanza non può recare a chi osa affrontarlo gloria tale do illustrarlo, quando ancor vincesse. Gli automati imitano l’uomo e non lo sono.

Atto II. Odorico volendo leggere nel cuore di Elvira le dice con maniere di padre, che vorrebbe che ella si determinasse a scegliere lo sposo tra Ricimero e Adallano,

Fru lor decidi, a qual tu vuoi ti appiglia.

Elvira di ciò si meraviglia, dubita, indi si tien ferma in celare il suo cuore. Odorico prende, che più ? il carattere di falso e finto e mostra di credere che ella a Ricimero s’inclini. Elvira al fine cede e mostra di determinarsi ad Adallano. Il padre allora tutto austerità impallidendo ed infiammandosi di rossore, Lo proferisci !… Tu ! figlia d’Odorico ! L’ingenua Elvira stupisce con ragione dell’astuzia comica del padre, ricusa apertamente Ricimero, e alle minacce di Odorico, se non con gravità da coturno, almeno non a torto, gli dice,

Padre, un bel core hai per Elvira in seno.

Segue un duetto del padre e della figlia, e poi una cavatina di Elvira(a).

In fine segue una scena inutile di ciarle con Selinda !

Nella quarta scena viene Adallano a proporre ad Elvira una fuga. Ripiego eroico, nuovo, ingegnoso e di sommo effetto ! Elvira ricusa. Duettino fra i due di espressioni generali che ben remoto attaccamento hanno col soggetto della scena. Veggasi poi quanto naturali sieno gli avvolgimenti di concetti che non possono raccapezzarsi che all’ultimo verso comune a due. Veggasi se verisimilmente due persone s’incontrino a dire e a sospendere i loro sentimenti nella guisa esposta nel duettino :

Elv. No, mai non frangerà

Sdegno, non crudeltà,

Non odio, non furor…

Ma ella non può conchiudere, perchè convien che attenda il parlar di Adallano pronto già ad interromperla poco civilmente per altro :

Adal. No, mai non spezzerà

Celeste altra beltà,

D’un trono lo splendor…

Quì convengono in conchiudere a due

Le mie di un puro ardor
Care ritorte

Fralle note della musica e la distanza de’ verbi, all’udirsi questi due versi, non si saprà se reggano o sone retti. Lascio che questi nienti di pura galanteria riempiono tutta la sedicente tragedia di Elvira.

Odorico nella scena quinta dalle sue logge si accinge all’armi. Commette la custodia delle mura a Ricimero ; ma prima, senza nuovo motivo che affretti la sua deliberazione, vuol che si congiunga con Elvira di cui non ignora le ripugnanze. Ad ogni modo egli perde il tempo a prescrivere a Ricimero (cui avea incaricata la custodia delle mura) di recarne ad Elvira il comando. Odorico non mostra nè saviezza nè costanza in ciò che delibera ; e queste nozzecosi a buon tempo affrettate hanno l’aria sguajata, anzi la maschera (e nulla più di maschera) delle nozze di Marzia con Arbace nel Catone. Ma qual distanza infinita trall’importanza del motivo che spinge Catone a richiederle, ed il puro capriccio, che muove Odorico ! Uno scimione differiscemeno dall’uomo. Ricimero ne parla ad Elvira che lo discaccia co’ soliti rimproveri. Talvolta l’azione in questo dramma sembra che retroceda in vece digire innanzi, o che avanzi a passi di testudine(a).

Scena 7. Sera. Odorico fralle ruine di un antico Circo, luogo arbitrario poco dipendente dall’azione. Era egli andato nella 5 ad animar le sue squadre. Or come di sera, in quel luogo co’ suoi domestici ? A che vi è ito egli ? Più. Quando lo spettatore attende notizie dollo stato delle armi, gli sente dire alla bella prima,

– Ed ancora ostinata al mio volere

– Non si arrende la figlia ?

E nol prevedeva ? Ma qual mondo giva a perire se le sue nozze non si conchiudono a momenti ? Azione grande e grandemente condotta !

Vengono Almonte e Ricimero ad annunziare che non si trova Elvira, aggiungendo colle loro solite note critiche, che forse è fuggita con Adallano. Correte… andate… venite… di quà di là, grida Odorico alla maniera di un Messer Lattanzio, o di un Pantalone. Non so però se lo spettatore avvezzo alle furbesche trame comiche di que’ due vili, presti loro o non presti fede, e se possa commuoversi col padre. Si sente altro suono di guerra, dal bosco ; e neppur di questo faràcaso chi ascolta, perchè non mai simili all’armi indicarono in siffatto dramma cosa alcuna importante.

Prima di passar oltre si osservi che nella scena quarta facendo Adallano premura perchè Elvira fuggisse seco, ella ricusò di assentire, e solo profferì che Elvira sarebbe di Adallano, se il padre si facesse tiranno. Tal caso di tirannia, a dritto dire, non è seguito, perché Odorico ha soltanto detto a Ricimero che la voleva sposa di lui, e che gliene recasse il comando. Ricimero ciò disse ad Elvira, e di suo aggiunse che il padre minacciava, e compiangendola dice di più :

A qual crudel sorte
Ti esp ne l’orrore
Che mostri per me !

Questa prevenzione fattale in generale è minor cosa ancora delle minacce e de’ rimproveri uditi dalla bocca stessa del padre. Ma sia pure ciò una vera tirannia, udendolo da un traditore a lei noto, se ne dovea spaventare una donna forte ? Ora di qual tirannia positiva poteva ella lagnarsi e addurla come certa per sua giustificazione ? Dovea ella per un romore venuto da bocca immonda determinarsi ad una criminosa comica fuga ? All’altra. L’ultimo verso profferito da Elvira, peggior non v’è, precede la scena 7, in cui Odorico oziosamente si va dondolando fra macchie e cespugli di negletto bosco, e recita dieci solì versi interrotti dall’avviso della fuga di Elvira. Questi dieci versi han dato a lei tempo per vestirsi di tutte armi, ingannare i vigili soldati, fuggire ad Adallano ed istruirlo dell’occorso ? Vedrà il lettore se pertali operazioni basti il tempo che s’impiega in profferir quaranta parole.

Ma già si appressano i grandi i tragici evenimenti dell’Elvira. Dopo il suono di guerra del bosco viene un guerriero sconosciuto tutto coperto, che dice ad Almonte e Ricimero, fermate. Chi sei ? gli è domandato. Io non venni a dire il moi nome, son cavalier, vi basti.

Voi malvagi accusasti
Ed offendesti Elvira.

È questa veramente una discordanza, voi due malvagi discorda in numero con accusasti e offendesti. E vero che con idiotismo fiorentino si dice volgarmente a una persona sola voi parlasti, voi offendesti. Ma i Fiorentini usano forse tale idiotismo quando si parla di più persone ? Chi sa ! l’autore era toscano ; fidiamci di lui. L’usano poi in bella prosa decentemente ? L’userebbero in una elegante e grave tragedia ? L’userebbe chi rimprovera Metastasio di stile inelegante e prosaico ? Ed a codesto scrittore disprezzatore di Metastasio tributarono i loro alti encomii Vannetti e Bettinelli ? Pace alle ombre onorate.

Il cavaliere sconosciuto sfida que’ due i quali bravamente si ritirano alla parte opposta. Giugne Odorico sempre pronto in lor difesa con soldati. Ed allora il tragico Ricimero vedendosi sicuro minaccia e trasoneggia sul gusto di Capitano Spavento della moderna commedia istrionica. Per punto cavalleresco egli dice di non accettar la disfida di un ignoto. Conoscimi dunque, dice il cavaliere, sono Adallano… Che ne risulta ? Fulmini, duelli, sangue ? No, un quartetto ; qual più tragico scioglimento in sì perigliosa contesa ! Rimproveri scambievoli, soverchieria degli Spagnuoli, arrivo de’ Mori alla chiamata di Adallano, il quale poco esperto generale si fa circondare. Ricimero vuol ferirlo ; ma eccoti un altro gnerriero sconosciuto che ne ribatte il colpo, gli fa cader la spada, e gli si avventa. È la stessa Elvira. Odorico la trattiene e la rimprovera ; Elvira si discolpa dichiarandosi moglie di Adallano. Torna dunque a lui, dice il padre in una cavatina in tre, e la discaccia.

Almonte con fretta viene a riferire che morì Adallano. Ma Almonte è un noto impostore ; sarà vera la notizia ? Ciò non si esamina punto. Smanie e semisvenimenti di Elvira. Altro quartetto, in cui per riempitivo entrano Ricimero ed Almonte che dicono

Quale di nere tenebre
Sole offuscato e torbido
Si va inoltrando in ciel !

pronostico puro di campagna, perchè essendo sera nel nostro emisfero, non si vede in Granata il sole nè offuscato nè chiaro ; la rassomiglianza dunque e l’espressione mal si adatta. È poì una vera povertà quel non saper mai altrimenti spiegarsi lo scompiglio imminente in qualunque incontro se non con tempesta oscura, con manto nero del giorno, col cielo annerito per essere il sole apparso di notte offuscato. Del resto essendo questa una delle consuete imposture de’ due compagni nelle menzogne, come si vedrà, il loro terrore è una pura ipocrisia. Odorico dice

Le blanche chiome avvolgere
Mi sento in fronte  ;

maniera veramente che non plenamente esprime il diriguere comae Virgiliano. L’orrore secondo l’uso de’ buoni Toscani fa arricciare o rizzare i capegli, ma l’avvolgere, parlandosi di capegli irti per l’orrore riesce troppo attillato, ed i dotti nella lingua lo riserbano col gran Toscano ad una studiata coltura di essi,

Che in mille dolci nodi gli avvolgea.

E quando pur tal voce potesse indicare l’arricciarsi de’ capegli, il sollevarsi de’ capegli per l’orrore, sempre sarà miglior vocabolo l’ arricciarsi in poesia, perchè particolareggia, là dove l’avvolgere azione inderminata rende l’idea troppo generale.

Atto III. Neri veli intorno ad Elvira, neri panni intorno al letto, altri neri panni (forse più leggieri) svolazzanti che pendono a festoni dalla volta, lampada unica che dà debol lume lugubre sinfonia. Tutto questo apparato si è fatto nell’intervallo degli atti, e va ottimamente. Ma si è usata la convenevole diligenza da chi è amante, cioè l’assicurarsi della funesta notizia annunciatà da un manifesto impostore ? No, altrimente si sarebbe trovato vivo Adallano, e perduta la spesa del funereo apparato. Passiamo oltre. Elvira co’ capegli sparsi distesa sul letto piangente

Sustinet in vidua tristia signa domo.

Più, parla ad uno spettro sanguinoso, scena nuova ; ma passi ancora. Ella dice,

Spettro che pallido
E sanguinoso,
Prendi l’effigie
Del caro sposo,
Parlami… accennami,
Che vuoi da me ?
La tua di lagrime
Bagnata Elvira,
Di sangue a tingersi
Anch’essa aspira,
Per esser simile
Morendo a te.

Se ad altro ella non aspira che ad imbrattarsi di sangue, non è la cosa più polita, ma in fine non è nè la più difficile nè la più funesta del mondo. Ella vuol dire che si accinge a versare il proprio sangue ed a seguir lo sposo ; ma per ciò la nostra lingua fornisce modi più veri, più individuali per meglio e non equivocamente particolareggiare le immagini giusta l’uffizio della vera poesia. Ma perchè poi aspira a tingersi di sangue ? Affinchè morendo rassomigli lo spettro ? capriccio curioso ! Questa illusione della sua fantasia è ben lunga occupando tutta la scena ; e non finirebbe mai se non passasse ad un pensiero eterogeneo che la fa discendere dall’ immaginazione alla realità del basso mondo. Ella dice allo spettro : Tu non ci sei (nel mondo) e va bene ciò ; ma che luogo può avere in tali suoi pensieri quel che si legge ne’ seguenti sette versi ?

Io non somiglio a tanti
Vili, perfidi, altieri
Mortali abbominevoli. Non sono
Fra quell’ iniqui che una dolce calma
Godono fra’delitti : ed han saputo
Formarsi un volto, un core
Che non sente pietà, non ha rossore.

Queste idee potevano con verisimiglianza sopravvenire ad Elvira occupata d’uno spettro sanguinoso che rappresenta l’ucciso marito ? Hanno esse nulla che si affà colla morte di Adallano, col dolore di Elvira ?(a).

Viene Ricimero a gettarsi a’ suoi piedi, e le avvisa che il padre è ferito, ma lievemente da uno strale, che tutto a lui perdona, tutto obblia, e la vuole con se negli estremi suoi giorni. Incresce ad Elvira, che sia egli di ciò il messaggiero. Ricimero affetta dolore da disperato e vuol morire per le mani di lei. Morire (risponde bene Elvira) non sai tu stesso ? Giugne Odorico sostenuto da due domestici con un braccio involto di fascia. Il poeta sembra essere in dubbio del suo disegno. Da una parte vorrebbe dalla ferita dí Odorico trarre partito e commuovere Elvira per determinarla a sopravvivere alla perdita di Adallano ; quindi fa che comparisca bisognoso di appoggio, tutto intento a intenerirla : I miei raccogli (le dice) moribondi respiri . Dall’ altra parte egli dà tal ferita quasi come lieve salasso. Comunque sia, benchè colle parole la chiami ferita lieve e col fatto la dimostri grave, non reggendosi il ferito senza esser sostenuto, Elvira se ne intenerisce, gli si getta a’ piedi, e, per tutti, dice, Elvira è morta, vivrà per te ecc. Ella conchiude,

Ah qual contrasto avrò
Di vivere e morir
Misera ! da soffrir
Vegliante in sen.

La lontananza dell’ avrò dal da soffrir per cosa musicale, mostra lo stento del poeta, e cagiona equivoco e sospensione, non potendosene raccapezzare il senso, se non si conchiuda. Il sentimento poi è tutto spiegato ne’ tre primi versi, e quell’infelice vegliante in sen ben può dirsi che stiavi a pigione, benchè comprendo che l’autore avrebbe voluto dire che quel contrasto sarà perlormentarla incessantemente(a).

Odesi risonar di nuovo tumultuoso clamore, ed ecco Adallano bello e sano e vivo che conduce Almonte legato. Tutti stupiscono ; egli rassicura la sposa, e mostra a Odorico Almonte reo di quel foglio fatale, e di avere ad arte forse annunziata la di lui morte. Aggiugne che Ricimero è morto e che forse Almonte lo svenò per occultare le sue frodi ; accusa senza verisimiglianza, perchè Almonte tutto ha tramato per servir Ricimero.

Adallano è bene asccltato da Odorico allorchè implora il suo consenso perchè Elvira diventi sua moglie. Ed il buon vecchio mentendo un poco gli dice che del primo suo rifiuto fu causa un cieco errore ; e dice ad Elvira che Adallano sia suo consorte e di lui figlio, illustre figlio e degno di me, di te, degli avi miei. Adallano in verità avrebbe potuto dire ad Odorico che a lui stesso (sc. Io ut. I) egli avea negato il suo assenso con asprezza, indignazione e disprezzo. Ed Elvira altresi poteva dir sottovoce al padre che si ricordasse di averlo chiamato barbaro e che la scelta di lei offendeva l’onoré degli avi (sc. 2 at. 77). Il dramma termina con questi armonici concenti a tre voci :

Più chiaro il sole già ci apparì,
Più puro il sole già ci apparì,
Più bello il sole già ci apparì.

E quel già ci, già ci, già ci in coro colle repliche musicali avrà partorito un grazioso effetto.

A quanto ne abbiamo divisato, e al più che per fuggir noja omettiamo, si scorge che l’Elvira non rivedrà mai più le scene. Il piano è assai mal congegnato, l’economia ad ogni passo difettosa, lo scioglimento insipido puerile comunale e mal rattoppato. I caratteri di Ricimero e Almonte, neri, vili, inetti e comici ; quello di Odorico ineguale, un poco finto anche nel volersi mostrar tenero ; Elvira ed Adallano innamorati da commedia, o al più da pastorale, poco convenienti per una tragedia, non animati da veruno eroismo che gli elevi. Ripetizioni di pensieri, di situazioni, espressioni liriche a sovvalle, stile non preciso, molle e smaccato, niuna moralità, non rilevandosi nè amor di patria, nè magnanimità, nè virtù veruna contrastata, al contrario esponendosi un’ azione di cattivo esempio di una fuga da commedia triviale, consigliata, eseguita e premiata con tutto il buon successo. Tutto ciò è l’Elvira che morì nascendo ad onta delle note eccellenti del cav. Paisiello. Chi avrebbe mai creduto che nel cader del secolo XVIII le scene di Napoli dovessero veder sostituita a Didone, ad Ipermestra, a Dircea, a Zenobia, ad Aristea, a Berenice, a Mandane madre di Ciro, il guazzabuglio delle tragedie in musica del Calsabigi !

Vuolsi rammemorare tra’poeti melodrammatici del passato secolo il giureconsulto di Lanciano Domenico Ravizza scrittore di varii Oratorii sacri impressi in Napoli nel 1786, i quali senza esitanza son da registrarsi dopo quelli di Apostolo Zeno, e di Pietro Metastasio. Essi cantaronsi e replicaronsi più volte in Lanciano, in Sulmona, in Chieti, in Atri dal 1740 al 1753. Eccone i titoli : Sisara, Adamo, la Peste d’Israele, il Martirio di san Pietro, Mosè nel Roveto, Gedeone, Tobia, Ezechiele, Daniele, il Passaggio del Mar Rosso, i Pastori del presepe di Gesù bambino. Chi volesse ravvisare in un immaginoso componimento poetico i pregi de’ riferiti Oratorii del Ravizza, legga l’Inno indirizzato al di lui figlinolo Vincenzo, dall’insigne oratore sacro e poeta esimio Bernardo Maria Valera cappuccino di Lanciano, che si legge nel I tomo delle di lui Poesie impresse in Napoli nel 1759. Anche il lodato di lui figliuolo Vincenzo produsse in seguite alcuni Oratorii cantati con plauso in più luoghi. Nel Vasto l’anno 1760 si cantò l’azione sacra intitolata Abigaille, che fu nel medesimo anno impressa in Chieti. Otto anni dopo nella stessa città s’impresse Mosè pargoletto che si recitò colla musica dell’esimio di lui compatriotta Fedele Finaroli. Altri non se ne sono rinvenuti ; ma Vincenzo Ravizza erasi felicemente incamminato per le orme paterne.

Nel nostro Gran Teatro reale di San-Carlo, che sventuratamente è ben lontano dal più rivedere i melodrammi dell’immortale Metastasio, si è pur veduta la rappresentazione de’ Pitagorici del riputato poeta Vincenzo Monti nel marzo del 1808, festa teatrale tragica di un atto animata dalle note del non meno illustre nel suo genere Giovanni Paisiello Tarentino maestro napoletano. Passiamo alla Danza, ed alla Musica.

La Danza che oggi forma una parte non indifferente dell’Opera, e la Musica che la costituisce tale insieme colla Poesia, nel XVIII secolo hanno ricevuto da varii eccellenti artisti novello gusto e splendore.

La Danza teatrale ha cessato di essere un’arbitraria filza di pantomimi eterogenei serii o grotteschi con pieni senza oggetto concatenato. Anch’essa rappresenta co’soli gesti in cadenza favole compiute comiche o tragiche. Il toscano Angiolini espose in Italia, in Alemagna, in Pietroburgo varii balli eroici e giocosi, tra’ quali riscossero applausi particolari Solimano II, Errico IV alla Caccia, Ninetta in Corte, il Convitato di pietra, il Disertore con lieto fine ec. In una lettera scritta da Vienna nel 1759 a m. Arnard lodavasi il ballo di Flora eseguito da madama Angiolini. In Parigi ed in Vienna si distinsero nell’esecuzione intorno al medesimo tempo la Bugianl e la Paganini. Il Fiorentino Vestris singolarmente si è segnalato in Parigi nel serio e gentile, e Viganò in Italia nel grottesco. Gennaro Magri napoletano per leggiadria e leggerezza riscosse generali applausi in Venezia, in Torino, in Napoli, e vi espose di propria invenzione diversi balli. Un suo trattato teorico-pratico del ballo in due volumi con trenta rami egli produsse per le stampe nel 1779. Prima dell’efimera repubblica napoletana, ed ancor dopo, si fece ammirare per varii balli da lui inventati Gaetano Gioja napoletano. Si ripete sovente per l’Italia, e si pregia con distinzione l’Andromeda. Dentro del lustro secondo del corrente secolo XIX nella precipitosa decadenza attuale de’ melodrammi specialmente croici, non è mancato al reale Gran Teatro il concorso sostenuto col ballo migliorato da Titus e dalla Chiari. L’accrebbero in seguito i pantomimi Otello, e Paolo e Virginia eseguiti eccellentemente da Luigi Henry, e dall’espressiva sua compagna Queriau. Con Amore e Psiche pantomimo di Gardel diretto in Napoli da Hus spiegò il ballo tutte le sue pompe rappresentandovi l’agilissimo Taglioni da Amore Henry da Zeffiro, Giraud da Marte. Nel Sansone altro pantomimo a prova spiegarono i loro talenti Titus tornato, Taglioni con la sorella e la moglie, Henry e la Queriau.

Il più riscaldato, il più burbero, il più preoccupato nemico del nome Italiano, non contrasterà alla nostra nazione il primato sopra le altre nell’arte incantatrice della Musica. Dalle nostre contrade uscirono i primi musici legislatori, e i più celebri maestri che insegnarono a congiungere con verità sulle scene la Poesia e la Musica. Vero è che i Tedeschi vantansi meritamente di Hayden, Huber, Cramer, Schmit esimii maestri di musica istrumentale, e dell’ insigne Hass pregevole allievo de’ Conservatorii di Napoli detto il Sassone, e del mirabile Gluck e dell’armonioso Back, del fecondo e vivace Mayer, e del Vogler che si distinse nel Demofoonte. Ma gli spagnuoli che ebbero già un Ramos e un Salinas e un Morales, non parmi che contarono altri riputati maestri dopo che Rodriguez de Hita pose in musica la meschina Briseida del poetillo La-Cruz. Il signor Martino di Valenza ben presto uscì dalle Spagne e compose alcune musiche in Napoli ed altrove. Pregiansi a ragione i Francesi de’ dottissimi scrittori teorici di musica, particolarmente di Mersenio, di Burette e di Alembert. Ignoro però se altro moderno maestro abbia sormontate le Alpi almeno col nome, ad eccezione del difficile Rameau, e degli applauditi Grety e Mehul, de’ quali non sono sconosciuti i pregi. Non è però certo che essi abbiano potuto gareggiare co’ maestri Italiani ; benchè in seguito (dopo essersi fondate in Parigi le scuole de’ Sacchini e de’Piccinni) vanno dalla Senna uscendo compositori modellati sul gusto italiano, e se ne attendono sempre più eccellenti.

Ma ci si permetta di dire che la copia de’ maestri musici che dalle nostre regioni inviaronsi oltramonti, è stata prodigiosa. Bologna, Firenze, Venezia, Milano, Napoli, dir si debbono reggie perpetue e sorgenti perenni di scienza musica. Da esse uscirono Scarlati, Vinci, Leo, Porpora, Corelli, Veracini, Tartini, Bucarini, il nobile Marcello, l’eccellente storico e maestro Martini, il Buranelli, il Sarro, il Durante gran maestro di maestri grandi, l’impareggiabile Pergolese, il maestoso Gaetano Latilla, l’armonico Logroscino, l’immortale Jommelli, il celebre Piccinni che produsse la felice rivoluzione nella musica in Parigi dal Napoli-Signorelli predetta sin dal 1777, il dotto Cafora, l’armonioso Majo, il pieno il grande Sacchini, il felice Traetta, l’egregio Guglielmi, l’espressivo Sarti, l’insigne Cimarosa, il copioso Paisiello, il valoroso Palma. Ma come venirne a capo, se vogliasi mentovare almeno una gran parte de’ figli di Partenope ? Contentiamoci di ciò che confessò l’Inglese autore del Parallelo della condizione e della facoltà degli uomini, che la perfezione di sì bell’arte è confinata nella parte più occidentale dell’ Europa. Glorioso singolarmente è per la patria il testimone per ogni riguardo onorevole del gran Cittadino di Cinevra : « Giovane artista, vuoi tu sapere, se qualche scintilla di questo fuoco divoratore serbi nell’anima ? Corri, vola a Napoli ad ascoltar le opere maestrevoli di Leo, Durante, Jommelli, Pergolese. Se ti riempiono gli occhi di lagrime, se ti palpita il cuore, se tutto ti commovi, e ti senti ne’ tuoi trasporti opprimere, soffocare ; prendi allora Metastasio e componi ; il suo genio riscalderà il tuo, col suo esempio tu saprai creare ; e gli occhi altrui ti renderanno ben tosto il pianto che ti avranno fatto versare i tuoi maestri. Ma se le grazie incantatrici di questa grande arte ti lasciano in calma, se non hai nè delirio nè trasporto, se in ciò che dee rapirti tu non trovi che del bello ; osi tu domandare che cosa è Genio ? Uomo volgare, non profanar questo nome sublime ; e che t’importerebbe il conoscerlo ? Tu nol sentiresti ; và, componi musica francese(a).

Capo VI ultimo

Stato presente degli spettacoli teatrali.

Il nostro secolo filosofico calcolatore non permette che s’ignorino in angolo veruno dell’ Europa le principali regole del verisimile, nè che si sprezzino se non da’ mentecatti. Chi in tanta luce ardirebbe presentar sulle scene nell’atto primo un eroe nascente in Bisnagar e nel terzo canuto nel Senegal ? Chi proteggerebbe simili scempiatagini senza aver perduto il senno ? Ma questa filosofia, questo spirito giusto esatto accurato, basta a dar l’esistenza ad opere grandi nella poesia, nell’eloquenza, nelle arti del disegno e nella musica ? Al contrario dove lo spirito filosofico semplicemente predomini e tutta riempia la mente per modo che paga del metodo e dell’ analisi non attenda ad arricchir la fantasia e a fomentar l’ardor poetico che d’immagini si nutre, questo spirito compassato agghiaccia l’entusiasmo, snerva gli affetti, irrigidisce il gusto. Non so se quindi solo derivi quella rincrescevole decadenza che non può negarsi che si osservi nelle belle arti ; certo agli occhi oggi salta meno l’abbondanza de’ grandi artisti che de’ calcolatori, degl’invidi sofisti, de’ falsi-letterati e gazzettieri senza biscotto.

Nel settentrione continuano i drammi regolari, e si rifiuta in generale la buffoneria grossolana che una volta viregnava. Ma Weiss, Klopstoch, Lessing, Iffland hanno emoli che gli superino, che gli rettifichino, che gli si appressino ?

Una manifesta decadenza osservava sono alquanti lustri nel teatro di Londra il dotto abate Arnaud. » Non vi si rappresentano (diceva) che le antiche favole, alcune insipide imitazioni delle commedie e novelle francesi scritte senza ingegno e senza spirito, ed un gran numero di farse satiriche ». La stessa cosa scriveva Linguet.In fatti la satira sotto quel cielo non rispetta nè particolari nè ministri, nè governo, e porta spesso il suo fiele sulle scene. Una farsa contro il ministero sotto Giorgio II fu denunziata alla Camera de’ Comuni, che propose un bill per soggettare gli scenici componimenti all’ispezione di un ciambellano. Il Conte di Chesterfield pronunziò un eccellente discorso contro il bill che però passò in legge. Contuttociò sul teatro di Foote e poi di Drurylane si rappresentò una farsa col titolo di Escrocs, in cui si motteggiano i Metodisti setta fondata da non molto da Withefield. Il mare aperto ne fa sperare più fresche notizie de’teatri della Gran Brettagna.

Nella Spagna ecco quello che si è osservato sinora in ciascun anno ne’téatri di Madrid. Apresi il corso alle rappresentazioni dopo la quaresima colle composizioni del XVII secolo conservate nelle due compagnie come proprii fondi. Inoltrasi la state e si sospendono le recite di giorno, e cominciando la sera si cantano le sarsuole nazionali, o le traduzioni delle nostre opere buffe, e talora vi compariscono tradotte alcune commedie francesi ed italiane. In tale stagione si videro su quelle scene tradotte la Sposa Persiana, il Cavaliere e la Dama, il Burbero Benefico di Carlo Goldoni. Nel mese di agosto del 1786 (quando più fremevano gli Huertisti e i Lampigliani contro del Napoli-Signorelli) chi avrebbe potuto immaginare che vi si rappresentasse senza interruzione di sainetti e tonadiglie la Faustina ? E rappresentata chi avrebbe sperato che si ripetesse seguitamente sette volte nel teatro del Principe con applauso e con profitto della cassa avendo dato ai comici di entrata de’ nostri ducati 1230(a) ? Come poi incomincia l’ottobre, torna a rappresentarsi di giorno, spariscono le buone commedie, le nazionali stesse di Moreto, Solis, Roxas, Calderòn ; ed allora si scatenano i demonii, le trasformazioni, gl’incantesimi, le macchine, ed i Sette Dormienti azione di più centinaja di anni, e l’Origine dell’ Ordine Carmelitano di Antonio Bazo che contiene un titolo che non finisce mai, e un’azione di 1300 anni, cioè dagli anni del mondo 3138 sino a i tempi di papa Onorio III. Ed Ormesinda ? e Sancio Garcia ? E le commedie di Tommaso Yriarte ? e quelle di Leandro de Moratin ?

Dopo Crebillon e Voltaire havvi più qualche degno tragico in Francia ? Dopo Regnard e Des-Touches e qualche altro de’primi anni del secolo, havvi più un solo comico ? Monache disperate, gelosi arrabbiati che danno a mangiare alle spose i cuori de’loro amanti, uomini dabbene che vanno a rubare in istrada e son destinati al patibolo,

le sombre Falbaire,

Et Beaumarchais, et l’ennua yeux Mercier,

(diceva Carlo Palissot), e Diderot col suo Figlio Naturale in prosa

Dans le grand goût du larmoyant comique,

come scherzando cantava Voltaire ; eoco i tragici e i comici successori degli autori di Alzira, di Radamisto, del Giocatore. Ma fra questi comparisce forse sovente in iscena a farli arrossire l’autore del Misantropo e del Tartuffo ? Pensatelo voi !

De Moliere oubliè le sel est affadi,

E gli armoniosi versi di Racine hanno perduto l’impero de’cuori ? Laudantur et algent. Cedono ad una lugubre prosa soporifera ; ond’ è che Voltaire scriveva all’ Imperadore della Cina, che oggi in Francia

Le tragique ètonnè de sa metamorphòse
Fatiguè de rimer ne va parler qu’en prose.

Tutto, se ascoltate i medesimi nazionali, tutto è divenuto un tessuto di tirade, di epigrammi, di definizioni metafisiche, di antitesi stentate ; tutto il bello è sparito a fronte della smania di mostrar de l’esprit a costo del buon senso, e quel che è peggio, una certa chiamata filosofia armata come un’istrice di aguzzi motti enigmatici e di lamenti neologici scagliati con intrepidezza per insultare o coprir di ridicolo tutto ciò che non sa d’empietà dichiarata. Or come rompersi questa folla impenetrabile da Chenier, da Arnaud, da Carion de Nisas, che apparve e sì ascose, e da Collin d’Harleville e Picard ?

Quanto all’ Italia, lasciando a parte que’melici allori colti da Apostolo Zeno e da Pietro Metastasio figlio dell’armonia e delle grazie emulo illustre di Racine e di Euripide, a i quali invano si ardirono levar le mani rapaci per involarglieli ; non manca nè di tragedie nè di commedie. E vero che la gallica peste lagrimante spazia ed infetta i commedianti Lombardi che la portano intorno, ed illude qualche elegante scrittore innocente e qualche lavorator periodico che in essa giurano alla cieca. Ma invano si affannano. Il Varano, il Conti, il Marchese, il Granelli, e soprattutto, il Maffei, Ipolito Pindemonte, l’illustre Alfieri, non pochi altri, sostengono l’impero di una Melpomene Italiana, mentre il Goldoni, l’Albergati, il Giraud e qualche altro militano gloriosamente sotto il vessillo di Talia. Egli è vero che ci manca un degno seguace di Metastasio ; ma il tesoro de’suoi drammi musicali non è ancora obbliato o morto, e non morirà mai dove s’intende gusto, armonia, grazia e ragione. Surse contro di lui la demonomania del furiofilo Calsabigi, ma spari ; e le Danaidi furono condannate a marcire nella di lui tomba, e sou piombate in braccio dei Silfi e delle Barbe turchine e delle Fiabe anili.

Conchiusione

ED eccovi il vasto grandioso edifizio della scenica poesia per la stessa antichità varietà ed ampiezza in ogni sua parte ammirabile. Esso appartiene ad una immensa famiglia sparsa per la terra conosciuta e dilatata in tanti rami la quale l’ha posseduto successivamente, e guasto ed acconcio a suo modo giusta il genio di ciascun possessore Ognuno vi ha lasciato il marco del proprio gusto or semplice or pomposo or bizzarro or saggio : Specioso dove per bei pezzi Corintii e per sodi fondamenti Toscani : dove maestoso ancora per certa ruvida splendidezza di colonnati ed archi Gotici. Diviso in grandi appartamenti altri nobilitati da greche pitture o da latine pompe, altri ricchi di bizzarri ornati di tritoni, egipani, sfingi e sirene a dispetto della natura, Delizioso in mille guise ne’boschetti, ne’ romitaggi, ne’compartimenti diversi de’ giardini ; là vaghi per naturali bellezze di olenti rose, garofani, gelsomini e mammolette, là ricchi di fiori Olandesi, e di cocco, ananas ed altri frutti oltramarini ; là pomposi per verdi viali coperti, giuochi d’acque, fonti idraulici, labirinti e meandri. Tale da Pekin a Parigi è il prospetto vario e vago, orrido talvolta e capriccioso, della Drammatica.

Gli Eschili i Sofocli gli Euripidi e gli Aristofani, gli Alessidi i Filemoni i Menandri della Grecia : gli Azzii i Pocuvii gli Ennii i Vari e i Cecilii i Nevii i Plauti i Terenzii del Lazio : i Trissini i Rucellai i Giraldi Cintii i Torquati i Manfredi e un Aminta e un Pastorfido che furono senza esempio e i Macchiavelli gli Ariosti i Bentivogli dell’Italia del XVI secolo onde risorgendo ella insegnava a risorgere : i Lope de Vega i Calderòn i Moreti della Spagna : Shakespear Otwai e Wycherley e Congreve dell’Inghilterra : Cornelio Racine Crebillon Voltaire e Moliere e Regnard della Francia emula della Grecia e dell’Italia e norma gloriosa ai moderni a dispetto degli Huerta e de’ Sherlock : Weiss Lessing Klopstock nella Germania che dopo un lungo spazio si risveglia al fine e mira indecisa or verso la Senna or verso il Tamigi. Massei, Varano, Machese, Pindemonte, Alfieri e Goldoni ed Albergati e Giraud e Zeno e Metastasio in una carriera in cui tanti gli seguirono e niuno diè speranza di raggiungerli. Tutti, dico, questi grandi uomini trovansi le troppo iperbolicamente ammirati quà senza conoscimento di causa o livorosamente biasimati. Chi giudicherà di loro, il pedantismo o la leggerezza ? l’amor cieco e la maligna invidia, o gli apologisti con occhiali colorati ? o i gazzettieri che militano alla Svizzera de’ passati tempi ? o i plagiarii di mestiere che aspirano a un nome vivendo di ritagli mal rubati, o i verseggiatori ciclici e dozzinali ?

Alla Storia ed alla sola storia scortata da una sincera filosofia chiaroveggente e sgombra di ogni parzialità, al cui sguardo solo quel sì mirabile edifizio forma un tutto ch’essa come dall’alto d’una collina tranquillamente contempla. A questa sola storia, dico, appartiene il giudicar di tanti grand’ingegni che vi hanno lavorato da tanti secoli ; ed il suo giudizio schietto ed imparziale additerà agli artisti nascenti il sentiero che mena senza tortuosi giri alla perfezione drammatica. E chi se non questa schietta storia e questa serena filosofia sa discernere quel che può esser bello per un popolo solo e quello che lo sarà per molti ? È questa che non ignora che ciò che si chiama buon gusto dipende unicamente dalla conoscenza di questo bello. In Pekin e Costantinopoli, in Parigi e Firenze si pretende con gli spettacoli scenici correggere e divertire la società mediante una imitaziòne della natura rappresentata con verisimiglianza a doperandovi le molle della compassione e del ridicolo. Ma v’ha chi per riescirvi si vale di troppe ipotesi, mostrando in un sol luogo differenti paesi e iu due ore di rappresentazione il corso di molti lustri e talvolta di secoli interi come avviene in Madrid e in Londra ; e chi all’ apposto se ne permette pochissime, come usavasi anticamente in Atene e in Roma ed oggi usasi in Italia e in Francia e in Alemagna. Senza dubbio i drammi Cinesi Spagnuoli e Inglesi contengono parlando in generale un’arte men delicata, ma pel gusto di que’ popoli hanno un merito locale. I drammi poi de’ Greci e de’ Latini e de’ moderni Italiani e dei Francesi e di qualche Inglese Alemanno e Spagnuolo, avendo acquistato dritto di cittadinanza nella maggior parte delle nazioni culte, non temono gl’insulti degli anni, e posseggono una bellezza che si avvicina all’ assoluta. Or non son questi gli esemplari che dee raccomandare il gusto ? Visono poi certe farsacce buffonesche che costano poco e giungono talvolta a far romor grande sulla scena. Per simile stranezza potrebbero gl’ inesperti dedurre una falsa conseguenza (e la deducono in fatti e ne fanno pompa) e fuggir la fatica necessaria per mettersi in istato di scrivere componimenti degni di approssimarsi all’ Atalia e al Misantropo, perchè non furono questi la prima volta ricevuti favorevolmente dagli spettatori. Ma la Storia pronta a diradar ogni nebbia, gli avvertisce che le facili farse romanzesche e i mostri scenici semiserii (semiversi e semiprosa e tutti demenza) non allettano se non l’ultimo volgo e dopo una vita efimera corrono a precipitarsi nell’ abbisso dell’obbio ; là dove il Misantropo e l’Atalia e i componimenti che a questi si appressano, non solo sforzano alla per fine il pubblico a vergognarsi del primo giudizio ; ma ricreano la parte più pura e illuminata della società, che sono i dotti ben costumati, e possano indi a’ posteri insieme con quelli che scritti furono nella Caverna di Salamina. Ora si può esitare un sol momento a scegliere tra il restar tosto sepolto nella propria terra in compagnia di tante migliaja di scheletri mostruosi, e tra il convivere con Euripide ne’ gabinetti de’savii di tutti i tempi e di tutti i paesi ?

[Errata]

ERRORI CORREZIONI
Nel Tomo X P.e I
Pag. 146, lin. 17 18
Flaminio Scarpelli Flaminio Scarselli
Nel Tomo X PeII
Pag. 97, lin. 14 conceda congeda
100, 5 Annella Annetta
137, 14 Fragoni Frugoni
202, 8 Lo proferisci ! Lo preferisci !

Avviso a’benevoli leggitori.

Per una delle non rare avventure tipografiche essendosi smarrito un foglio del manoscritto di questo volumetto, si è stimato collocare in una Nota che si aggiugne alla pagina 129, linea 15 ciò che esso foglio conteneva registrandone la sostanza tralle correzioni. Eccola.

(a) Sparita la grazia comica ed i sali felici del Lorenzi, si videro con rincrescimento tornar fra noi le Opere buffe nel primo decennio del corrente secolo in braccio ai mostruosi verseggiatori dozzinali. Nondimeno non mancarono talvolta di sostenere gli andati pregi delle comiche bellezze musicali i celebri maestri che tuttavia ci rimangono, Paisiello, Palma, Fioravanti, altri. Singolarmente l’autore della musica additata della Pietra Simpatica arricchì delle armoniche sue bellezze qualche farsa che niuna speranza per se stessa prometteva nè per dipintura di caratteri, nè per artificio di favola, nè per grazia di stile. Lo Scavamento recitato nel teatro de’ Fiorentini l’anno 1810 si ripetè più di settanta sere sempre a teatro pieno. Nè poco contribuì all’ invidiabile riuscita l’arrivo in Napoli della giovani esimia cantatrice Margherita Chabrand, che ha continuato più anni ad essere la delizia di questo pubblico, e lo scopo de’ plausi generali per la rarità della voce e per la felicità e delicatezza dell’ espressione che le presta l’intelligenza che possiede de’ prodigi della melodia.