(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XII. La Titanomachia e la Gigantomachia » pp. 60-68
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(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XII. La Titanomachia e la Gigantomachia » pp. 60-68

XII

La Titanomachia e la Gigantomachia

Per intender bene le vere cause di queste guerre convien risalire al patto di famiglia fra Titano e Saturno, la cui violazione produsse nel Cielo la prima guerra fraterna che terminò colla prigionia di Saturno e di Cibele (vedi il n° VI). Ne seguì la guerra di Giove e fratelli contro lo zio ed i cugini con la sconfitta e l’esilio di questi. Ora sono i soccombenti ed oppressi Titani che tentano colla forza di ricuperare il perduto possesso del celeste regno.

Veramente le guerre contro Giove, secondo gli antichi mitologi, furono due : quella dei Titani figli e discendenti di Titano, e quella dei Giganti, cioè dei figli della Terra, come significa questa parola secondo la greca etimologia. Perciò devesi distinguere la Titanomachia dalla Gigantomachia. Ma poichè queste si rassomigliano come due successive ribellioni domate e compresse, furon dai poeti riunite le strane vicende di entrambe in una sola narrazione, e come se fossero una sola guerra. Anzi poichè la seconda fu più terribile e più decisiva della prima, e da quella in poi non corse più pericoli il regno di Giove, fu più celebrata la Gigantomachia ; e della guerra dei Titani poco o nulla si parlò dalla maggior parte dei poeti67. Anche Ovidio così erudito negli antichi miti, come dimostrano tutte le sue poesie e principalmente i Fasti e le Metamorfosi che ne son piene, si era accinto a cantar la guerra dei Giganti, e non dei Titani ; ma distratto da altre più facili poesie, e impedito poi dall’esilio non potè eseguire quel poema che aveva ideato. Claudiano, del quale esiste un frammento di 127 versi della Gigantomachia, non ci fa molto rimpiangere la perdita del rimanente di questo suo mitico poema ; ma il titolo soltanto dimostra che egli cantò dei Giganti e non dei Titani. Anche Dante più tosto che i Titani rammenta i Giganti che fer paura ai Dei, e ne pone un gran numero nel profondo dell’ Inferno da lui immaginato e descritto ; e l’esempio del gran padre Alighier, come lo chiama l’ Alfieri, dà giustamente regola e norma ai maggiori e ai minori nostri poeti68.

Per altro in una narrazione critica dei miti convien distinguere le due guerre e toccar brevemente anche della prima, cioè della Titanomachia.

Il diritto, che ora chiamerebbesi legittimo, al trono del Cielo apparteneva veramente ai Titani come figli e discendenti di Titano, che cedè il regno a Saturno sotto condizione che questi non allevasse figli maschi ; e non essendo adempiuta l’apposta condizione sine qua non, la dinastia divenne da quel momento in poi usurpatrice ; e Giove in appresso fu soltanto un invasore fortunato che fece valere il diritto del più forte (jus datum sceleri) come vera e propria ragione. La famiglia dei Titani privata del trono, prima per frode, e poi per forza 69, esiliata dal Cielo ed oppressa, tenta di riacquistar colla forza ciò che colla forza erale stato tolto70. Ecco la vera causa della Titanomachia : e di questa guerra accenneremo soltanto l’esito finale, che fu la disfatta dei Titani ; dei quali il molto sangue e le diverse e orribili piaghe mossero a compassione la dea Tellùre, ossia la Terra, che irritata contro Giove e gli altri Dei, così spietatamente crudeli, generò dal suo seno immani, fortissimi e mostruosi figli chiamati appunto Giganti, cioè figli della Terra71, e li istigò a vendicare i Titani, a impadronirsi del Cielo e cacciarne gli usurpatori tiranni. Ed ecco l’origine e la causa della Gigantomachia ; la qual guerra è cantata dai poeti preferibilmente alla Titanomachia, perchè parve agli Antichi che in quella il miglior diritto fosse degli Dei che rimasero vincitori, mentre in questa era più veramente dei Titani che furono vinti. Erano infatti i Titani di origine divina, non che di regia stirpe e della linea del primogenito di Urano ; e invece i Giganti, esseri mostruosi e di origine terrestre, erano affatto estranei al fondamento e al titolo della contesa. La prima guerra poteva anche riguardarsi come una collisione di diritti o di pretese fra due famiglie dinastiche ; ma la seconda era stimata, come direbbesi modernamente, una irruzione del Comunismo a distruzione del Gius Costituito, ossia dell’ordine sociale di fatto ; e gli antichi la considerarono come una lotta del principio del male contro quello del bene, e perciò celebrarono la vittoria di questo72.

Fatta una tal distinzione, resta ora da accennare soltanto i fatti e le vicende principali della Gigantomachia.

E prima di tutto, com’eran fatti i Giganti ? L’idea generale che ciascuno suol farsene si è che fossero uomini di grandezza e di forza straordinaria ; e i mitologi aggiungono che molti d’essi erano anche di struttura mostruosa. Alcuni ci narrano che Encelado, o, secondo altri, Gige aveva cento braccia, e perciò maneggiava cinquanta scudi e cinquanta lance ; che Briarèo scagliava enormi massi e interi scogli a sì prodigiose distanze da perdersi di vista dove andassero a colpire o cadere ; che Tifèo o Egeòne aveva una lunghissima coda di serpente ed era tutto coperto di scaglie come un coccodrillo o un armadillo. Ma Dante, che ci assicura di aver trovati parecchi di questi Giganti nel fondo dell’inferno, non ne vide alcuno di quelli più mostruosi. Eran tutti però molto alti e grossi, talchè da lontano tra la caligine infernale li aveva presi per torri, quantunque non apparissero che per metà, cioè dai fianchi in su ; e Virgilio lo disingannò dicendogli :

« Acciò che il fatto men ti paia strano,
« Sappi che non son torri, ma giganti. »

Per quanto Dante ci confessi sinceramente ch’egli ebbe una gran paura al primo vederli, non lasciò per questo di guardarli bene e di misurarne a occhio le dimensioni ; e a forza di perifrasi e di confronti ci fa capire che quelli che vide dovevano essere alti in media più di venticinque braccia, ossia circa quattordici metri ciascuno, e di grossezza proporzionati all’altezza come nella specie umana. Alcuni per altro di quelli che Dante non accenna di aver veduto nel suo viaggio all’Inferno, eran molto più lunghi e più grossi, come per esempio il gigante Tizio che si estendeva per nove jugeri, ed Encelado che era lungo quanto la Sicilia, e Tifeo che toccava il cielo col capo. Gli antichi mitologi aborrivano le minuzie aritmetiche e geometriche, e spacciavano tutto all’ingrosso ; e ci danno un’idea, secondo loro, sublime della grandezza e forza dei Giganti dicendo, che per dar la scalata al cielo posero tre monti uno sopra l’altro, cioè sul monte Olimpo il monte Ossa e su questo il monte Pelio 73). Il teatro della guerra fu dunque nella Grecia continentale sui confini della Macedonia colla Tessaglia ; e l’immane combattimento ebbe il nome di pugna di Flègra 74) dalla prossima antica città di questo nome, poi chiamata Pallène.

Il caso più strano di questa guerra si fu che tutti gli Dei, non che le Dee, ebbero una gran paura dei Giganti, e la massima parte fuggirono vilmente dal Cielo ; e per celarsi meglio e non esser riconosciuti, invece di travestirsi da plebei come fanno i principi fuggiaschi del nostro globo, si trasformarono in bestie ed alcuni anche in piante, e si ricovrarono quasi tutti in Egitto. Ecco, ci dicono i mitologi, perchè gli Egiziani adoravano come Dei tante bestie, ed anche qualche vegetabile75). Giove rimase a combattere con due figli soltanto, cioè con Apollo e con Bacco ; e tutto al più con quattro, secondo altri poeti, e tra questi anche Dante, che vi aggiunge Marte e Minerva. L’altro figlio Vulcano insieme coi Ciclopi si affaticava a fabbricargli in gran copia i fulmini nelle sue sotterranee fucine, e l’aquila glieli portava. A furia di fulmini i Giganti furono atterrati, feriti, trafitti, sotterrati vivi o cacciati all’Inferno.

Questa vittoria di Giove fu rammentata e celebrata da tutti i più illustri poeti antichi e moderni. Lo stesso Dante la rammenta più e più volte nel suo poema sacro, e fa nascere l’opportunità di parlarne perfino nel Purgatorio, immaginando che ivi esistessero dei bassirilievi rappresentanti i fatti veri o allegorici di superbia punita. Così troviamo nel Canto xii :

« Vedeva Briareo, fitto dal tèlo
« Celestïal, giacer dall’altra parte,
« Grave alla terra per lo mortal gelo.
« Vedea Timbrèo76), vedea Pallade e Marte,
« Armati ancora, intorno al padre loro,
« Mirar le membra de’ giganti sparte. »

I mitologi greci e latini inventarono, a proposito della disfatta e della punizione dei Giganti, molte e strane vicende. Una delle più impossibili ed incredibili era tanto famigerata, che la eternò nei suoi mirabili versi lo stesso Virgilio. Si riferisce ad Encelado seppellito vivo nella Sicilia col capo sotto il monte Etna, coi piedi che giungevano sino al promontorio Lilibeo e le mani sotto agli altri due promontori Pachino e Peloro. Ne riporto qui la traduzione del Caro, e in nota l’originale :

« È fama che dal fulmine percosso
« E non estinto sotto a questa mole
« Giace il corpo d’Encelado superbo :
« E che quando per duolo e per lassezza
« Ei si travolve o sospirando anela,
« Si scuote il monte e la Trinacria tutta ;
« E dal ferito petto il fuoco uscendo
« Per le caverne mormorando esala,
« E tutte intorno le campagne e ’l Cielo
« Di tuoni empie, di pomici e di fumo77). »

Ed è questo uno dei più evidenti esempi a dimostrazione del modo con cui gli Antichi trasformavano in racconti mitologici la descrizione dei naturali fenomeni. Infatti Virgilio, che Dante scelse per suo maestro 78), e. che egli chiama il mar di tutto il senno, dovendo come poeta pagano raccontar questa favola, le fa precedere una dottissima e splendida descrizione delle eruzioni del monte Etna, così egregiamente tradotta dal Caro :

« ….. Esce talvolta
« Da questo monte all’aura un’atra nube
« Mista di nero fumo e di roventi
« Faville, che di cenere e di pece
« Fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse
« Vibrano ad ora ad or luride fiamme,
« Che van lambendo a scolorar le stelle ;
« E talvolta le sue viscere stesse
« Da sè divelte, immani sassi e scogli
« Liquefatti e combusti al Ciel vomendo,
« Infin dal fondo romoreggia e bolle79). »

E Dante gareggiando col maestro, e, com’è suo stile, distinguendosi da esso e da qualsivoglia altro scrittore per insuperabile concisione, accenna con un solo verso l’opinione mitologica e dà la spiegazione della causa de’ vapori sulfurei dell’Etna, dicendo nel Canto iv del Paradiso, che la bella Trinacria, cioè la Sicilia, caliga, ossia cuopresi di caligine, fra Pachino e Peloro (ove appunto è situata l’Etna),

« Non per Tifeo, ma per nascente zolfo. »

Vedano ora i moderni geologi e chimici (se pure taluno di loro ha tempo di studiare il Dante), come il nostro divino poeta parlava cinque in sei secoli fa, secondo le loro odierne teorie ed analisi chimiche, accennando che lo zolfo nasce e si forma nei sotterranei abissi dei vulcani, e ne vengon tramandate le esalazioni nell’aria circostante ai crateri. Non troverà nulla da opporre neppure lo stesso sir Carlo Lyell, il principe dei geologi, con tutta la sua nuova teoria dei vulcani. I chimici poi che riconoscono coll’analisi l’esistenza del solfo nativo nei terreni vulcanici, specialmente in Sicilia e nella solfatara presso Pozzuoli nelle vicinanze di Napoli, troveranno, nella espressione dantesca di nascente solfo, indicata l’elaborazione e la fabbrica naturale di quello zolfo che essi, alludendo alla stessa origine, chiamano nativo 80).