(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XXVII. I Mostri marini Mitologici e Poetici » pp. 184-194
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(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XXVII. I Mostri marini Mitologici e Poetici » pp. 184-194

XXVII

I Mostri marini Mitologici e Poetici

Distingueremo subito i mostri marini che avevano in parte figura umana da quelli che erano soltanto animali marini di orribili forme. Tra i primi convien rammentare le Sirene, Scilla e Cariddi. I secondi appartenevano generalmente ai cetacei, o come direbbesi volgarmente alle diverse specie delle balene.

Le Sirene, credute figlie del fiume Acheloo e della ninfa Calliope, erano rappresentate dalla testa ai fianchi come donne e nel rimanente del corpo come mostruosi pesci con doppia coda224. Oltre al dire che erano bellissime, aggiungevano i mitologi ed i poeti, che esse cantavano dolcissimamente, e suonavano egualmente bene diversi strumenti musicali ; e dimorando nel mar Tirreno fra la Sicilia e l’Italia meridionale attraevano col canto e col suono i naviganti, per avere il barbaro diletto di annegarli nel mare o di divorarseli. Ed asserivasi che per quanto le prossime coste dell’Italia e della Sicilia biancheggiassero di ossa umane delle vittime delle Sirene, pur non ostante chi udiva anche da lontano il loro canto non poteva resistere alla tentazione di avvicinarsi a loro per udirle meglio, e non pensava più alla trista fine inevitabile che lo attendeva.

Da circa 3000 anni quasi tutti i poeti, incominciando da Omero, ed incluso anche Dante, hanno parlato delle Sirene ; e raccogliendone tutte le descrizioni e le allusioni se ne formerebbe un volume.

Omero inventò che Ulisse, volendo udire il canto delle Sirene e schivare qualunque pericolo, si fece legare all’albero della nave, avendo otturate prima le orecchie colla cera ai suoi compagni, e detto loro qual direzione tener dovessero per non accostarsi troppo agli scogli ov’esse abitavano. Dante poi ha trovato il modo di parlarne anche nel poema sacro della Divina Commedia. Nel Canto xix del Purgatorio immagina di aver fatto un sogno, nel quale, per quanto parvogli, una donna

« Io son, cantava, io son dolce sirena
« Che i marinari in mezzo al mar dismago,
« Tanto son di piacere a sentir piena.
« Io volsi Ulisse dal suo cammin vago
« Al canto mio ; e qual meco s’aùsa
« Rado sen parte, sì tutto l’appago. »

Con questi detti della Sirena, il poeta ce la rappresenta come l’immagine del vizio che alletta

« Col venen dolce che piacendo ancide.
« Ma così tosto al mal giunse lo empiastro, »

in quanto che subito dopo soggiunge :

« Ancor non era sua bocca richiusa,
« Quando una donna apparve santa e presta
« Lunghesso me per far colei confusa. »

E questa donna santa era la Virtù, che stracciando le pompose vesti che cuoprivano quella immagine del vizio, ne mostrò a Dante la turpitudine,

« E lo svegliò col puzzo che n’usciva. »

Nè al divino Alighieri bastò riferire la lezione di morale che immaginava di aver ricevuta in sogno, ma volle che gliela commentasse il suo duca, signore e maestro, Virgilio :

« Vedesti, disse, quell’antica strega
« Che sola sovra noi omai si piagne ?
« Vedesti come l’uom da lei si slega ?
« Bastiti, e batti a terra le calcagne ;
« Gli occhi rivolgi al logoro che gira
« Lo rege eterno con le rote magne. »

I mitologi pretendevano ancora di sapere i nomi delle Sirene, e ne rammentano tre, cioè Lisia, Leucosia e Partenope ; ed aggiungono che la sirena Partenope andò a morire sulla costa del Tirreno dove fu poi fabbricata una città che in memoria di lei ebbe il nome di Partenope o Partenopea, e che in appresso rifabbricata fu detta, come dicesi ancora, Napoli, che significa città nuova. Scelsero egregiamente gli Antichi per soggiorno delle Sirene un clima incantevole bene adattato agli attributi che a queste assegna la favola.

Il nome di Sirena è usato figuratamente a significare ’ allettamento ai piaceri e ai divertimenti ; e Orazio in uno di quei momenti in cui indossava la ruvida veste dello stoico e del moralista, lasciando quella effeminata, e per lui più abituale, dell’epicureo225, chiama Sirena anche la pigrizia e l’infingardaggine, ossia il dolce far nulla degli Italiani226.

Alcuni naturalisti (specialmente fra gl’Inglesi) danno ancora il nome di Sirene ai cetacei erbivori, detti comunemente Lamentini (Manatus), che formano la transizione fra le balene e le foche, e la cui forma, nelle parti superiori del corpo, si discosta meno di quella degli altri cetacei dalla figura umana, mentre poi vanno a finire in una coda orizzontale, come una gran parte dei pesci227. Da sì lieve causa e somiglianza, che doveva sembrare anche più grande alla robusta e sbrigliata immaginazione degli Antichi, ebbe origine la favola delle Sirene, abbellita dall’arte dei poeti nel modo che abbiam detto.

Non si può parlar di Scilla senza che ricorra alla mente anche Cariddi, essendo questi due termini collegati fra loro nel detto proverbiale : trovarsi fra Scilla e Cariddi, e collocati fronte a fronte geograficamente. La favola dice che Scilla era figlia di Forco divinità marina e di Ecate dea infernale, e che in origine era bellissima, ma poi per gelosia di Amfitrite, o, secondo altri, della maga Circe, fu cangiata in un orribile mostro con 6 teste e 12 braccia, e di più alla cintura una muta di cani latranti. Cariddi poi, benchè creduta figlia di Nettuno e di Gea, ossia della Terra, fu detto che si dilettava di assaltare i passeggieri e i naviganti, e di annegarli nel mare ; e che, fulminata da Giove, cadde nello stretto o faro di Messina, e vi formò una pericolosa voragine. La geografia ci dice che Scilla è una scogliera sulla costa della Calabria ulteriore I228, ove le onde si frangono romoreggiando con un suono che sembra un latrato : quindi la favola dei cani alla cintura di Scilla ; e che Cariddi è un vortice poco distante, sulla opposta costa di Sicilia presso il faro di Messina. L’antico volgo esagerò i pericoli che v’ erano a passar lo stretto fra Scilla e Cariddi ; e i poeti, incominciando da Omero229, abbellirono con straordinarie invenzioni favolose le fantastiche ed esagerate paure del volgo. E poichè stimavasi difficile schivare l’un pericolo senza incappare nell’altro, ne derivò il proverbio : trovarsi fra Scilla e Cariddi 230. Se qualche pericolo v’era anticamente, o perchè il vortice e i flutti fossero più impetuosi, o per la imperizia degli antichi navigatori, certo è però che nei tempi moderni nessun più ne teme, anzi di pericoli non se ne parla nemmeno.

Dante rammenta Cariddi, non già secondo la favola, ma secondo la geografia, come un vortice, qual è veramente, prodotto da due opposte correnti di acqua del mare :

« Come fa l’onda là sovra Cariddi,
« Che si frange con quella in cui s’intoppa,
« Così convien che qui la gente riddi. »
(Inf., C. vii, 22.)

Passando ora a parlare dei mostri marini che erano soltanto animali viventi nel mare, e le cui specie son tuttora esistenti, convien notare primieramente che gli Antichi davano loro il nome generale di Orche ; e quanto meno ne conoscevano la struttura e gl’istinti, con tanto maggior sicurezza lavoravano di fantasia. Perciò supposero che fossero animali carnivori che divorassero gli uomini e tanto più volentieri le donne ; e credettero che talvolta uscisser dal mare, e sulle terre vicine facessero stragi e devastazioni. Tali ci furon descritte le più terribili Orche dagli antichi poeti, quella cioè che devastò la Troade ai tempi dello spergiuro Laomedonte, e l’altra da cui Perseo liberò Andromeda : e di queste dovremo parlare lungamente a suo tempo. Per altro si capisce che quelle così terribili Orche non erano altro che Balene. Ma oggidì può chiunque sa leggere sapere dai libri di Storia Naturale, o aver sentito raccontare da chi li ha letti, che la vera e propria Balena,231 senza pinna dorsale e con due sfiatatoi, mentre è il più grosso degli animali viventi, non è vero che sia un animale carnivoro, perchè i suoi stromenti masticatorii sono atti appena a maciullare una meschina aringa, e il suo esofago non è più largo di 4 pollici inglesi, ossia dieci centimetri circa ; e quindi non può trangugiare nè uomini nè donne e neppure un bambino appena nato : di fatti suo cibo prediletto sono i molluschi del genere Clio Borealis, non più grossi di un dito, non più lunghi di 2 pollici. Inoltre la Balena con tutta la sua gigantesca statura, che quando alza l’enorme sua testa perpendicolarmente fuori dell’acqua, l’illuso marinaio la crede uno scoglio ; e per quanto sia straordinaria e tremenda la sua forza, che quando flagella furiosamente le onde colla potente sua pinna produce una piccola tempesta e ne rimbomba il suono per le solitudini dell’artico Oceano come il romor del cannone, pur tuttavia ben lungi dall’avere spiriti guerreschi e sanguinarii, è assolutamente priva di coraggio ; per cui se anche un uccelletto marino le si posa sul dorso, le cagiona grande inquietezza e paura.

Queste e simili notizie sulle Balene non potevano averle non solo i più antichi mitologi greci e latini, ma non le avevano neppure i poeti classici e i dotti del secolo di Augusto232, e neppure lo stesso Plinio il Naturalista che morì l’anno 79 dell’era cristiana il 2° giorno della prima eruzione del Vesuvio. E quantunque i poeti che scrissero dopo le prime spedizioni dei Baschi alla pesca delle Balene, e dopo la scoperta dell’ America dovessero saperne molto più degli Antichi, continuarono non ostante ad imitare le loro fantasticherie e a gareggiare con loro nelle invenzioni e nelle descrizioni di immaginarii mostri marini.

Tra i più eccellenti poeti d’ingegno divino e di mirabile fantasia l’Ariosto principalmente si dilettò di questo genere d’invenzioni ; e nel suo poema dell’ Orlando Furioso troviamo Cetacei a dovizia :

« Pistrici, fisiteri, orche e balene
« Escon dal mar con mostruose schiene. »

E tra queste descrive il poeta più particolarmente

« …… una balena, la maggiore
« Che mai per tutto il mar veduta fosse :
« Undici passi e più dimostra fuore
« De l’onde salse le spallacce grosse :
« Caschiamo tutti insieme in uno errore,
« (Perch’era ferma e giammai non si mosse),
« Ch’ella sia un’isoletta ci credemo ;
« Così distante ha l’un dall’altro estremo. »

Mirabile è poi sovra le altre la descrizione del modo con cui Orlando libera Olimpia dall’ Orca che stava per divorarla :

« Tosto che l’Orca s’accostò, e scoperse
« Nel schifo Orlando con poco intervallo,
« Per inghiottirlo tanta bocca aperse,
« Ch’entrato un uomo vi saria a cavallo.
« Si spinse Orlando innanzi, e se gl’immerse
« Con quell’àncora in gola, e, s’io non fallo,
« Col battello anco ; e l’àncora attaccolle
« E nel palato e nella lingua molle.
« Sì che nè più si puon calar di sopra,
« Nè alzar di sotto le mascelle orrende.
« Così chi nelle mine il ferro adopra,
« La terra, ovunque si fa via, sospende,
« Che subita ruina non lo cuopra,
« Mentre mal cauto al suo lavoro intende.
« Da un amo all’altro l’àncora è tanto alta,
« Che non v’arriva Orlando, se non salta.
« Messo il puntello, e fattosi sicuro
« Che’l mostro più serrar non può la bocca,
« Stringe la spada, e per quell’antro oscuro
« Di qua e di là con tagli e punte tocca.
« Come si può, poi che son dentro al muro
« Giunti i nimici, ben difender rocca,
« Così difender l’Orcá si potea
« Dal paladin che nella gola avea.
« Dal dolor vinta, or sopra il mar si lancia,
« E mostra i fianchi e le scagliose schiene ;
« Or dentro vi s’attuffa, e con la pancia
« Muove dal fondo e fa salir l’arene.
« Sentendo l’acqua il cavalier di Francia
« Che troppo abbonda, a nuoto fuor ne viene :
« Lascià l’àncora fitta, e in mano prende
« La fune che dall’àncora depende.
« E con quella ne vien notando in fretta
« Verso lo scoglio, ove fermato il piede,
« Tira l’àncora a sè, che in bocca stretta
« Con le due punte il brutto mostro fiede.
« L’Orca a seguire il canapo è costretta
« Da quella forza che ogni forza eccede,
« Da quella forza che più in una scossa
« Tira, ch’in dieci un argano far possa.
« Come toro salvatico che al corno
« Gittar si senta un improvviso laccio,
« Salta di qua, di là, s’aggira intorno,
« Si colca e lieva, e non può uscir d’impaccio ;
« Così fuor del suo antico almo soggiorno
« L’Orca tratta per forza di quel braccio,
« Con mille guizzi e mille strane ruote
« Segue la fune, e scior non se ne puote.
« Di bocca il sangue in tanta copia fonde,
« Che questo oggi il mar Rosso si può dire,
« Dove in tal guisa ella percuote l’onde,
« Che insino al fondo le vedreste aprire :
« Ed or ne bagna il cielo, e il lume asconde
« Del chiaro Sol : tanto le fa salire.
« Rimbombano al rumor che intorno s’ode
« Le selve, i monti e le lontane prode.
« Fuor della grotta il vecchio Proteo, quando
« Ode tanto rumor, sopra il mare esce ;
« E visto entrare e uscir dall’Orca Orlando,
« E al lido trar sì smisurato pesce,
« Fugge per l’alto Oceano, oblïando
« Lo sparso gregge : e sì il tumulto cresce,
« Che fatto al carro i suoi delfini porre,
« Quel dì Nettuno in Etiopia corre.
« Con Melicerta in collo Ino piangendo,
« E le Nereidi coi capelli sparsi,
« Glauci e Tritoni, o gli altri, non sappiendo
« Dove, chi qua, chi là van per salvarsi.
« Orlando al lito trasse il pesce orrendo,
« Col qual non bisognò più affaticarsi ;
« Che pel travaglio e per l’avuta pena
« Prima morì che fosse in su l’arena »233.

Dopo questa arditissima e veramente omerica invenzione, ornata di tante belle similitudini, di bene adattate idee classiche e mitologiche e di tutto lo splendor dello stile ariostesco, chi potrà legger pazientemente nel Ricciardetto la secentistica e plebea descrizione di

« Una balena larga dieci miglia
« E lunga trenta,……… »

avente nelle interne cavità delle sue viscere terreni arborati e seminativi, un ampio lago ed un mercato di grano con gente che compra e vende, e inoltre una chiesa con le campane che suonano a festa, un convento di frati cappuccini ed altre simili stravaganze ?

Monsignor Forteguerri mise pegno d’inventarle, come egli diceva, più grosse e più straordinarie di quelle dell’Ariosto, e gli riuscì soltanto di presentarci, goffamente delineate, volgarissime caricature delle mirabili immagini ariostesche.

Dante rammenta le balene nel fare una sapiente e filosofica osservazione, che cioè la Natura non ha da pentirsi di aver creato animali marini e terrestri di dimensioni e di forze tanto più grandi e potenti di quelle dell’uomo, perchè non avendo loro accordato l’argomento della mente, vale a dire l’intelligenza e il raziocinio, l’uomo che ne è fornito può non solo difendersi da essi, ma vincerli e dominarli, facendoli servire o vivi o morti ai suoi proprii vantaggi234. Infatti l’uomo ha saputo ridurre l’elefante alla condizione del più umil somiero, e uccider balene di più di 20 metri di lunghezza, di dieci o undici di larghezza e del peso di più di 100 mila chilogrammi ; e così dimostrar coi fatti che non già la forza brutale, ma l’intelligenza, madre delle arti e delle scienze, è la dominatrice dell’Universo.