(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XXX. Stato delle anime dopo la morte, secondo la Mitologia » pp. 216-231
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(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XXX. Stato delle anime dopo la morte, secondo la Mitologia » pp. 216-231

XXX

Stato delle anime dopo la morte, secondo la Mitologia

Abbiamo veduto nel N. XXVIII che i Campi Elisii erano il soggiorno dei buoni dopo la morte, e il Tartaro, dei malvagi. Secondo gli antichi mitologi, ben pochi andavano in Cielo nel consesso degli Dei supremi e a mensa con essi a gustare il nettare e l’ambrosia ; e questi erano per lo più gli Eroi o Semidei, e non tutti, ma quelli soltanto che furono i più grandi benefattori della umanità. A questi novelli Dei assunti in Cielo ergevansi nel mondo dalla credulità dei pagani, tempii ed altari, offrivansi incensi e voti. Tutti gli altri mortali, per quanto buoni e giusti e pii andavano ai Campi Elisii, soggiorno che gli Antichi, con tutta la loro vigorosa fantasia, non seppero dipingere e rappresentare talmente ameno e beato da preferirsi alle terrestri condizioni di questa mortal vita. Lo stesso Omero ci narra che Achille, quantunque godesse i primi onori nei Campi Elisii, si era potentemente annoiato di quel soggiorno, anche pochi anni dopo la sua morte ; e parlando con Ulisse che era andato a visitare il regno delle ombre,

« Non consolarmi della morte, o Ulisse,
« Replicava il Pelide. Io pria torrei
« Servir bifolco per mercede, a cui
« Più scarso il cibo difendesse i giorni,
« Che del Mondo defunto aver l’impero.
« Su via, ciò lascia ; e del mio figlio illustre
« Parlami invece. »
(Odiss., xi, trad., di Pindemonte).

Non era dunque uno stato felice quello che produceva la noia, e faceva rimpianger la vita mortale e preferire la più meschina condizione di questa. La prescienza del futuro non li allettava quanto la reminiscenza del passato, e principalmente di quei luoghi e di quelle persone che resero loro più cara e gioconda la terrena esistenza. Aggiunsero infatti i mitologi che tutte quelle anime così dette beate si esercitavano nell’altro mondo in quelle stesse arti ovvero occupazioni che erano state per loro più gradite in questo252. Per tal credenza, presso alcuni popoli, gettavansi ad ardere nel rogo del defunto o seppellivansi nella stessa tomba, gli schiavi, i cavalli, i cani ed anche i materiali oggetti che gli furono più cari in vita, non dubitando che per tal via andassero a raggiungere l’anima di lui nell’altro mondo ; e per la stessa ragione anche oggidì tra gl’Indiani adoratori del Dio Brama spontaneamente si ardono vive le predilette mogli di quegli idolatri colla certezza di riunirsi compagne indivisibili ai loro mariti nel soggiorno dei beati.

Questa noiosa monotonia dell’altra vita anche negli Elisii, come la descrivevano gli Antichi, fu un poco interrotta colla invenzione della Metempsicòsi, immaginata dal filosofo Pitagora253.

Metempsicòsi è parola greca che significa trasmigrazione delle anime ; questa dottrina suppone che le anime degli estinti, dopo essere state un certo numero di anni (che i più fissano a mille) negli Elsii o nel Tartaro, ritornino in questo mondo, entrando nei corpi non solo degli uomini nascituri, ma pur anco dei bruti254. E poichè Virgilio, nel dare un’idea generale dello stato delle anime dopo la morte, accenna ancora la dottrina della Metempsicòsi, ne riporterò qui la traduzione di Annibal Caro, e in nota i versi stessi del poeta latino :

« Primieramente il ciel, la terra e ’l mare
« L’aer, la luna, il sol, quant’è nascosto,
« Quanto appare e quant’è, muove, nudrisce,
« E regge un che v’è dentro o spirto o mente
« O anima che sia dell’Universo ;
« Che sparsa per lo tutto e per le parti
« Di sì gran mole, di sè l’empie e seco
« Si volge, si rimescola e s’unisce.
« Quinci l’uman legnaggio, i bruti, i pesci,
« E ciò che vola, e ciò che serpe, han vita,
« E dal foco e dal ciel vigore e seme
« Traggon, se non se quanto il pondo e ’l gelo
« De’ gravi corpi, e le caduche membra
« Le fan terrene e tarde. E quinci ancora
« Avvien che tema e speme e duolo e gioia
« Vivendo le conturba, e che rinchiuse
« Nel tenebroso carcere e nell’ombra
« Del mortal velo, alle bellezze eterne
« Non ergon gli occhi. Ed oltre a ciò, morendo,
« Perchè sien fuor della terrena vesta,
« Non del tutto si spoglian le meschine
« Delle sue macchie ; chè ’l corporeo lezzo
« Sì l’ha per lungo suo contagio infette,
« Che scevre anco dal corpo, in nuova guisa
« Le tien contaminate, impure e sozze.
« Perciò di purga han d’uopo, e per purgarle
« Son dell’antiche colpe in varii modi
« Punite e travagliate : altre nell’aura
« Sospese al vento, altre nell’acqua immerse,
« Ed altre al foco raffinate ed arse :
« Chè quale è di ciascuno il genio e ’l fallo,
« Tale è il castigo. Indi a venir n’è dato
« Negli ampii elisii campi ; e poche siamo
« Cui sì lieto soggiorno si destini.
« Qui stiamo in fin che ’l tempo a ciò prescritto
« D’ogni immondizia ne forbisca e terga,
« Sì che a nitida fiamma, a semplice aura,
« A puro eterio senso ne riduca.
« Quest’alme tutte, poichè di mill’anni
« Han volto il giro, alfin son qui chiamate
« Di Lete al fiume, e ’n quella riva fanno,
« Qual tu vedi colà turba e concorso.
« Dio le vi chiama, acciò ch’ivi deposto
« Ogni ricordo, men de’ corpi schive,
« E più vaghe di vita un’altra volta
« Tornin di sopra a riveder le stelle 255. »

Da questa celeberrima esposizione di principii filosofici e religiosi, che è la più bella e sublime di quante ce ne son pervenute dai poeti pagani, è confermata la pitagorica dottrina della Metempsicòsi, e ne deriva necessariamente la conseguenza che le pene del Tartaro e le beatitudini dell’Elisio non erano eterne, e che le anime avevano una perpetua rotazione di passaggi alternativi dall’una all’altra vita. Si viene ad accennare ancora una specie di Purgatorio prima di passare ai Campi Elisii ; e vi si trova chiaramente espresso il principio, o vogliam dir la credenza dell’anima del Mondo 256, che fu considerata come la base del Panteismo 257. Appunto perciò la religione dei Pagani è chiamata da alcuni filosofi il Panteismo mitologico.

L’antichissima invenzione dell’ obolo da pagarsi a Caronte fu bonariamente creduta una indubitabile verità nei secoli più rozzi ; e perciò nelle funebri cerimonie ponevasi una piccola moneta di tal nome nella bocca degli estinti258. Vero è che queste stesse monete si ritrovarono anche dopo 100 e 1000 anni nei teschi dei sepolti cadaveri, o fra le loro ceneri, e ne furon trovate anche in bocca alle Mummie egiziane : il che dimostrò che Caronte non era tanto inesorabile quanto gli agenti delle tasse e i riscuotitori dei pedaggi e delle gabelle. Quindi in appresso si cessò dall’insistere sulla necessità del pagamento di quest’obolo, ma si confermò indispensabile la sepoltura del cadavere, affinchè l’anima potesse esser traghettata da Caronte all’altra riva, e non andare errando per 100 anni lungo lo Stige nella penosa incertezza della sede che erale destinata. La qual credenza religiosa rese più pii i superstiti ai mortali avanzi degli estinti. Stimavasi perciò un dovere sacrosanto il seppellire i morti e il serbarne inviolate le tombe e le ceneri259. Anzi per indurne negli animi maggior rispetto e venerazione, le dedicavano agli Dei Mani ; pei quali però non sappiamo con certezza se intendessero le anime stesse dei defunti, o in generale le infernali divinità ; ma nell’un significato o nell’altro, si elevavano e parificavano le tombe alla santità dei tempii e delle are260.

Nella descrizione delle pene del Tartaro l’immaginazione degli Antichi era stata un poco più feconda che in quella delle beatitudini dell’ Elisio, avendo ideato diversi generi straordinarii di pene inflitte ad alcuni dei più famosi scellerati. E qui ne faremo una breve rassegna.

La pena generale per tutti i dannati al Tartaro era quella di esser tormentati dalle Furie e gettati nelle flamme del Flegetonte ; e le pene speciali si riferiscono soltanto a pochi, cioè a Issione, a Sisifo, a Tantalo, a Tizio gigante, a Flegia, a Salmoneo e alle Belidi o Danaidi.

Issione re dei Lapiti, per avere tentato di offender Giunone, fu punito nel Tartaro coll’esser legato a cerchio sopra a una ruota che velocemente e continuamente girando rendevagli eterno il tormento261.

Sisifo, figlio di Eolo, infestò l’Affrica e l’istmo di Corinto co’suoi ladroneggi e colle sue crudeltà ; e dopo la morte fu condannato nel Tartaro a spinger sulla cima di un monte un gran masso, che tosto ricadendo a valle rendeva eterna la sua pena. Omero la descrive così :

« Sisifo altrove smisurato sasso
« Fra l’una e l’altra man portava, e doglia
« Pungealo inenarrabile. Costui
« La gran pietra alla cima alta d’un monte,
« Urtando con le man, coi piè puntando,
« Spingea ; ma giunto in sul ciglion non era,
« Che risospinta da un poter supremo,
« Rotolavasi rapida pel chino
« Sino alla valle la pesante massa.
« Ei nuovamente di tutta sua forza
« Su la cacciava ; dalle membra a gronde
« Il sudore colavagli, e perenne
« Dal capo gli salia di polve un nembo262). »
(Odissea, xi.)

Di Tantalo è anche più straordinaria la colpa non meno che la pena. Tantalo era figlio di Giove e perciò ammesso ai segreti degli Dei ; ma egli abusando di tal fiducia, li rivelò ai mortali, e per far prova se i Numi avessero l’onniscenza, li invitò a pranzo e imbandì loro le membra del suo figlio Pelope da lui stesso ucciso. Tutti gli Dei inorriditi si astennero dal mangiarne, ad eccezione di Cerere, che afflitta per la perdita di Proserpina, non si accorse di quella abominevole imbandigione, e mangiò una spalla di Pelope. Si aggiunge ancora che gli Dei resero la vita al figlio di Tantalo ricòmponendone le cotte membra, e facendogli d’avorio la spalla mancante.

Questo strano racconto era così divulgato e creduto, che i Pelopidi, ossia i discendenti di Pelope, portavano un distintivo, o come ora direbbesi, una decorazione, consistente in una piccola spalla d’avorio263). Il padre scellerato ed empio fu condannato nel Tartaro ad una pena che tutti i poeti greci e latini rammentano, ma niuno descrisse meglio di Omero (Odissea, xi.)

« Stava lì presso con acerba pena
« Tantalo in piedi entro un argenteo lago,
« La cui bell’onda gli toccava il mento.
« Sitibondo mostravasi, e una stilla
« Non ne potea gustar : chè quante volte
« Chinava il veglio le bramose labbra,
« Tante l’onda fuggìa dal fondo assorta,
« Sì che appariagli ai piè solo una bruna
« Da un Genio avverso inaridita terra.
« Piante superbe, il melagrano, il pero,
« E di lucide poma il melo adorno,
« E il dolce fico e la canuta oliva
« Gli piegavan sul capo i carchi rami ;
« E in quel ch’egli stendea dritto la destra,
« Vêr le nubi lanciava i rami il vento264). »

Pindaro per altro, secondo l’interpretazione dei moderni grecisti, sembra asserire che Tantalo soffriva quella pena non già nell’Inferno ma nel Cielo, perchè avendo egli gustato il nettare e l’ambrosia, bevanda e cibo degli Dei immortali265), non poteva morire, nè perciò andare al Tartaro. Inoltre lo stesso poeta alla solita pena di Tantalo aggiunge il timore continuo di essere schiacciato da una rupe che sta sempre per cadergli addosso, e il tormento di sapere che egli è immortale, e che perciò la sua pena durerà eternamente.

Orazio assomigliava a Tantalo gli avari266) ; ma le loro privazioni sono spontanee e non forzate come quelle di Tantalo ; perciò più vero e confacente sarebbe l’assomigliarvi i miserabili, i quali, vedendo nelle taberne e nei mercati una vera dovizia di cibi squisiti, non posson comprar nemmeno i più vili per saziar la fame che li tormenta. Dicesi ancora che soffron la pena di Tantalo coloro che non contenti dell’aurea mediocrità, si macerano desiderando in vano ciò che non possono ottenere. Costoro nell’eccesso opposto son più ridicoli degli avari, e meritamente si puniscono da sè stessi delle loro smodate e irrazionali cupidità.

Del gigante Tizio che offese Latona, udiremo da Omero qual fosse la pena nel Tartaro :

« Sul terren distendevasi e ingombrava
« Quanto in dì nove ara di tauri un giogo ;
« E due avvoltoi, l’un quinci e l’altro quindi,
« Ch’ei con mano scacciar tentava indarno
« Rodeangli il cor, sempre ficcando addentro
« Nelle fibre rinate il curvo rostro »267).
(Odissea, xi.)

Flegia, benchè figlio di Marte e padre di Coronide che partorì Esculapio, fu empio contro Apollo, e ne incendiò il tempio di Delfo. Perciò fu punito nel Tartaro col perpetuo timore di essere schiacciato da un masso che gli pendea sulla testa. Virgilio aggiunge che Flegia

« Va tra l’ombre gridando ad alta voce :
« Imparate da me voi che mirate
« La pena mia : non violate il giusto,
« Riverite gli Dei »268.

Ma questa predica è inutile nell’Inferno ; e perciò Dante non ha imitato in questo il suo Maestro, ed ha fatto di Flegia un nocchiero della palude che cinge la città di Dite.

Salmoneo, fratello di Sisifo, era sì pien d’orgoglio per aver conquistato l’Elide,

« Che temerario veramente ed empio
« Fu di voler, quale il Tonante in cielo,
« Tonar quaggiuso e folgorare a prova.
« Questi su quattro suoi giunti destrieri,
« La man di face armato, alteramente
« Per la Grecia scorrendo, e fin per mezzo
« D’Elide, ov’è di Giove il maggior tempio,
« Di Giove stesso il nome e degli Dei
« S’attribuiva i sacrosanti onori.
« Folle ! che con le fiaccole e co’bronzi
« E con lo scalpitar de’suoi ronzini,
« I tuoni, i nembi, i folgori imitava,
« Che imitar non si ponno. E ben fu degno
« Ch’ei provasse per man del padre eterno
« D’altro fulmine il colpo e d’altro vampo
« Che di tede e di fumo ; e degno ancora
« Che nel baratro andasse »269.
(Virgilio, Eneide, vi.)

Delle Danaidi o Belidi è alquanto più lungo il racconto. Esse erano precisamente 50, tutte figlie di Danao re di Argo e nipoti di Belo ; dai quali nomi del padre e dell’avo derivarono i loro appellativi o patronimici di Danaidi e di Belidi. Per caso raro, forse a bella posta inventato, un fratello di Danao, chiamato Egitto, aveva 50 figli ; e perchè del regno di suo fratello non andassero in possesso generi estranei alla famiglia, propose che i suoi 50 figli sposassero le 50 figlie di Danao. Questi avrebbe acconsentito, se l’oracolo da lui consultato non avesse risposto che egli sarebbe stato ucciso da un genero suo nipote. Ma Belo coll’insistenza e colle ostilità lo costrinse a cedere ; e Danao allora per tentar di assicurarsi la vita macchinò un misfatto, che 49 delle sue figlie eseguirono, qual fu quello di uccidere i loro sposi la prima sera del loro matrimonio. La sola Ipermestra salvò la vita al suo sposo Linceo ; e questi poi compì quanto aveva predetto l’oracolo, uccidendo il suocero in battaglia. Le 49 Danaidi micidiali dei loro mariti furon condannate nel Tartaro ad empir d’acqua infernale una botte pertugiata, o come altri dicono sfondata, con l’ironica e beffarda promessa che sarebbe cessata la loro fatica, quando la botte fosse piena.

Questa favola è delle meno antiche, e non si trova in Omero. La rammentano però i poeti posteriori, e principalmente Ovidio nelle Metamorfosi e nelle epistole ; come pure altri poeti del secolo di Augusto270.

È notabile che nell’Inferno dei Pagani le pene non hanno una evidente correlazione ai delitti, nè vi si scorge una opportuna proporzione fra questi e quelle. In tal graduazione Dante si manifesta superiore non solo a tutti i poeti, ma pur anco ai legislatori ed ai criminalisti. Nel Canto xi dell’Inferno espone i principii filosofici su cui è basata la classificazione dei delitti e la proporzionale graduazione delle pene relativamente alla qualità ed alla quantità, o vogliam dire intensità, non potendovi esser differenza alcuna relativamente al tempo, poichè nell’Inferno dei Cristiani son tutte eterne. Notabilissimi sono i principii filosofici dai quali deduce la reità dei motivi a delinquere, o come dice il Romagnosi, la spinta criminosa, considerandola in ragion composta coll’ingiuria che risulta dal commesso delitto, ossia colla violazione dei doveri morali verso Dio, verso sè stesso, e verso il prossimo. Son queste le sue parole :

« D’ogni malizia ch’odio in cielo acquista
« Ingiuria è il fine ; ed ogni fin cotale
« O con forza o con frode altrui contrista.
« Ma perchè frode è dell’uom proprio male,
« Più spiace a Dio ; e però stan di sutto
« Gli frodolenti, e più dolor gli assale.
« De’violenti il primo cerchio è tutto :
« Ma perchè si fa forza a tre persone,
« In tre gironi è distinto e costrutto.
« A Dio, a sè, al prossimo si puone
« Far forza ; dico in loro ed in lor cose,
« Come udirai con aperta ragione. »

Procede infatti con lo stesso metodo a render ragione delle diverse categorie di dannati che egli ha posti in tre diversi cerchi, gironi o bolge infernali sottoponendoli con giusta proporzione a pene diverse per qualità o intensità. Mirabile è poi in sommo grado, e al tempo stesso di tutta evidenza, l’argomentazione con la quale dimostra che usura offende la divina bontade ; e perciò gli usurieri son condannati alle pene dell’Inferno. Egli finge che sia Virgilio che gli dà tale spiegazione da lui richiesta :

« Filosofia, mi disse, a chi la intende,
« Nota non pure in una sola parte,
« Come natura lo suo corso prende
« Dal divino intelletto e da sua arte :
« E se tu ben la tua Fisica note,
« Tu troverai non dopo molte carte,
« Che l’arte vostra quella, quanto puote,
« Segue, come il maestro fa ’l discente,
« Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote.
« Da queste due, se tu ti rechi a mente
« Lo Genesi dal principio, conviene
« Prender sua vita ed avanzar la gente.
« E perchè l’usuriere altra via tiene,
« Per sè natura e per la sua seguace.
« Dispregia, poichè in altro pon la speme.

Perciò quando egli nel Canto xix con devota ammirazione esclama :

« O somma sapïenza, quanta è l’arte
« Che mostri in Cielo, in Terra e nel mal mondo,
« E quanto giusto tua virtù comparte ! »

ci costringe ancora ad ammirare che di tanta sapienza, arte e giustizia la sua mente sia un così splendido riflesso e la sua parola il più eloquente interprete.

Non tutti i dannati celebri dei Pagani introdusse Dante nel suo Inferno, perchè non volle che gli mancasse lo spazio per cacciarvi tanti storici personaggi dell’èra cristiana ed anche suoi contemporanei, di ogni classe e condizione, laici e cherci, poveri e ricchi, e perfino re e imperatori, e papi e cardinali.

Di alcuni di quei dannati che Dante non rammentò raccolsero i nomi gli Scienziati per formarvi certe particolari denominazioni scientifiche. Gli Zoologi chiamaron Tantalo un uccello della classe dei Trampolieri, simile all’Airone ed all’Ibi. I Chimici da Tantalo denominaron Tantalio un nuovo elemento o corpo che partecipa della natura dei metalli per le sue proprietà fisiche, ma se ne scosta per varii caratteri chimici ; e inoltre ne formarono i derivati o composti Tantalite, Tantalati, ossido di Tantalio, acido tantalico, ecc.

Delle Danaidi fu dato il nome dagli Zoologi a certe farfalle che hanno nera la testa e il corpo con alcuni punti bianchi, e le ali di color di fulvo o biondo, contornate di nero e sparse esse pure di punti bianchi ; e dai Botanici si chiamò Danaide un genere di piante rampanti della famiglia delle rubiacee, con fiori rossi che spandono piacevole odore.

Anche in Meccanica ha il nome di Danaide una specie di ruota idraulica che serve a convertire il movimento rettilineo di una corrente d’acqua in un movimento di rotazione continua ; e si fece così una felice allusione al continuo attinger dell’acqua, che era la pena delle Danaidi.