(1874) La mitologia greca e romana. Volume II « Parte II. Degli dei inferiori o terrestri — XXXV. I Satiri ed altre Divinità campestri » pp. 270-278
/ 108
(1874) La mitologia greca e romana. Volume II « Parte II. Degli dei inferiori o terrestri — XXXV. I Satiri ed altre Divinità campestri » pp. 270-278

XXXV

I Satiri ed altre Divinità campestri

Chiunque ha veduti sculti o dipinti i Satiri avrà notato una gran somiglianza di forme fra essi e il Dio Pane, e riconoscerà quanto graziosamente e concisamente il Redi nel suo Ditirambo intitolato Bacco in Toscana li abbia definiti :

« Quella che Pan somiglia
« Capribarbicornipede famiglia. »

Molti di essi formavano il corteo di Bacco, come dicemmo parlando di questo Dio, ed ivi notammo che per frastuono, stravizii ed ogni genere di follie non la cedevano alle più effrenate Baccanti. E a chi si maravigliasse di sì spregevol razza di Dei diremo soltanto che avendo i Mitologi ammessi anche gli Dei malefici, eran questi di certo peggiori dei Satiri, per quanto poco esemplari. Siccome poi, come dicemmo fin da principio, avevan foggiato i loro Dei a somiglianza degli uomini, così dopo averne ideati dei buoni e dei cattivi, ne immaginarono ancora degli scioperati e dei fannulloni, come da Esiodo son chiamati i Satiri. Se questi eran poco esemplari come Dei, e molestavano le Ninfe campestri e boscherecce, almeno non nuocevano ai mortali. E perciò son rammentati quasi sempre scherzevolmente dai poeti, e per gli aneddoti che se ne raccontano rappresentati come i buffoni e i pagliacci delle divinità pagane. Anche la loro figura e il loro umore bizzarro e petulante si confaceva a tal qualificazione. Con questo concetto e sotto questo punto di vista furono introdotti i Satiri nelle Belle-Arti, quando cioè si volle rappresentare qualche cosa di giocoso e di bizzarro. Gli Artisti per lo più nel rappresentare i Satiri non seguono servilmente le descrizioni dei Mitologi, e studiansi di renderne meno sconcie le figure riducendole presso a poco alla forma ordinaria degli uomini ; ma però con fattezze più proprie della razza etiopica o malese, che della caucasica, e coi lineamenti caratteristici delle persone rozze e impudenti.

Posson vedersi nella Galleria di Palazzo Pitti i Satiri di Tiziano nel suo quadro dei Baccanali ; nella Galleria degli Uffizi il Satirino che di nascosto pilucca l’uva a Bacco ebrio, gruppo di Michelangiolo, tanto lodato dal Vasari e dal Varchi13. Inoltre intorno alla Fonte di Piazza della Signoria si vedono otto Satiri di bronzo fuso, quattro dei quali con piedi di capra e muso caprino, e gli altri quattro col solo distintivo di due piccole corna che spuntano loro sulla fronte di mezzo ai capelli. Talvolta gli scultori pongono le figure dei Satiri per cariatidi ; della qual parola dà una bella spiegazione l’Alighieri nella seguente similitudine :

« Come per sostentar solaio o tetto
« Per mensola talvolta una figura
« Si vede giunger le ginocchia al petto,
« La qual fa del non ver vera rancura
« Nascere a chi la vede ; così fatti
« Vid’io color, quando presi ben cura. »

Due Satiri posti per cariatidi si vedono in Firenze nella facciata di un antico palazzo ora appartenente alla famiglia Fenzi. Nelle antiche Guide della Città, uno di questi due Satiri era attribuito a Michelangelo.

I poeti italiani hanno introdotto i Satiri anche nelle Favole pastorali, ossia in quelle drammatiche rappresentazioni, i cui personaggi erano antichi pastori mitologici. Tra queste sono meritamente celebrate l’Aminta del Tasso e il Pastor fido del Guarini, in ciascuna delle quali Favole trovasi un Satiro, che sebbene parli elegantissimamente, e spesso anche troppo leziosamente, ragiona però bestialmente, come

« …. Semiramis, di cui si legge
« Che libito fe’licito in sua legge. »

I Naturalisti danno il nome di Satiri a certi insetti del genere dei Lepidotteri diurni ; e i Retori o Letterati chiamano Satira un componimento che ha per oggetto la censura più o meno mordace degli altrui detti o fatti14.

Sileni dicevansi i Satiri quand’eran vecchi ; e il più celebre di questi è quel Sileno che fu Aio e compagno di Bacco in tutte le spedizioni di proselitismo enologico. In pittura e in scultura neppur Sileno si rappresenta mezzo capro, ma con forme ordinarie d’uomo, e solamente vi si aggiunge qualche distintivo, come l’ellera, i corimbi, l’uva, i pampini, il tirso, ecc. Tale è l’antica statua di Sileno col piccolo Bacco nelle braccia, che trovasi nella villa Pinciana, e di cui una copia in bronzo esiste nel primo vestibolo della Galleria degli Uffizi in Firenze ; e come vedesi pure nel quadro dei Baccanali di Rubens, che è parimente nella stessa Galleria.

Il Dio Momo è da porsi vicino ai Satiri pel suo umor satirico ed impudente. Il greco nome Momos datogli da Esiodo significa disdoro ossia disonore. Era in fatti spregevolissimo come fannullone e maldicente ; e molto a proposito fu creduto figlio del Sonno e della Notte. Da prima era stato ricevuto nella corte celeste come buffone degli Dei, ma poi ne fu scacciato per la sua soverchia insolenza. Poco o nulla hanno scritto di lui i Classici latini ; e tra i Greci, dopo Esiodo che creò questo bel tipo di maldicente, gli fece le spese Luciano ne’suoi dialoghi a schernire gli Dei ; ma gli fa dire tante freddure che sono una miseria e uno sfinimento a sentirle. Era rappresentato con un berretto frigio coi sonagli, un bastone ed una maschera in mano, distintivi significanti che egli con sfrenata licenza plebea e con modi da pazzo censurava tutti, pretendendo di smascherarne i vizii.

I Fauni erano antiche divinità campestri d’origine italica15 : in appresso si confusero coi Satiri, ma non furon mai rappresentati colle gambe e colle corna di capra16. I Naturalisti per altro sin dal tempo di Linneo pare che li considerassero più bestie che uomini, poichè usarono a guisa di nome collettivo la Fauna per indicare complessivamente tutti gli animali che vivono in una data regione, nel modo stesso che dicono la Flora per significare tutti i fiori che si trovano nella regione medesima.

Anche i Silvani appartenevano alla stessa classe di campestri divinità, e l’etimologia della parola li manifesta di origine latina (a silvis). Virgilio nelle Georgiche invoca Silvano tra le divinità protettrici delle campagne, e accenna che per distintivo portava in mano un piccolo cipresso divelto dalle radici17.

Pale era la Dea dei pascoli e dei pastori18. Anticamente, e molto prima della fondazione di Roma, la festa di questa Dea celebravasi soltanto nelle campagne dai pastori e dagli agricoltori, per implorare la protezione di essa ; ed oltre le usate libazioni e le offerte di sacre focacce e di latte accendevansi fuochi di paglia, a traverso le cui vivide fiamme saltavano quei villici, credendo con tal atto di espiare le loro colpe. Questa placida Dea, come la chiama Tibullo19, e queste rozze e semplici cerimonie sarebbero rimaste ignote o presto obliate, se non fosse avvenuto che nel giorno stesso di quella festa avesse Romolo incominciato la fondazione di Roma, tracciando coll’aratro la prima cinta dell’eterna città. Quel giorno che fu il 21 di aprile divenne poi celebre e festeggiato solennemente anche in Roma come l’anniversario della fondazione di essa20, e tuttora si celebra e si solennizza, ma in altro modo, dai moderni Romani dopo 2628 anni.

Il nome di Vertunno, che davasi al Dio delle stagioni e della maturità dei frutti, colla sua latina etimologia a vertendo, (cioè dai cangiamenti operati dalle stagioni sui prodotti della terra) dimostra l’origine italica e romana di questo Dio. Le sue feste si celebravano nell’ottobre quasi in ringraziamento della già compiuta maturità dei più utili frutti dell’anno. Opportunamente gli era data per moglie la Dea Pomona protettrice dei pomi, ossia dei frutti degli alberi.

Anche i fiori avevano la loro Dea, e questa chiamavasi Flora ad indicarne col nome stesso l’ufficio. Era la stessa che la Dea Clori dei Greci, il qual vocabolo fu tradotto con alterazione di pronunzia in quello latino di Flora come asserisce Ovidio21. Sposò il vento Zeffiro e ottenne da esso l’impero sui fiori. Le feste Florali cominciavano in Roma il 28 di aprile e duravano sino a tutto il dì 1° di maggio, nei quali giorni v’era un gran lusso di fiori, di cui tutti facevano a gara a cingersi la testa e ornarne le mense e perfino le porte delle case. L’immagine della Dea Flora è simile a quella della Primavera : ha mazzi di fiori in mano, una corona di fiori in testa, e fiori spuntano sul terreno ov’ella posa le piante.

Di mezzo alle più graziose fantasie poetiche degli antichi Mitologi ne spunta di tratto in tratto qualcuna non egualmente felice, ed inoltre poco dignitosa per una divinità, qual fu l’invenzione del Dio Priapo. I Greci lo dissero figlio di Venere e di Bacco e gli attribuirono l’ufficio di guardian degli orti, e perciò di spaventare i ladri e gli uccelli. Ma gli aneddoti sconci ed abietti che raccontano di lui servono tutti a ispirar dispregio anzi che venerazione per esso. Aveva culto pubblico soltanto in Lampsaco, città dell’Asia Minore presso l’Ellesponto, e perciò i poeti lo appellano Lampsaceno e Nume Ellespontiaco ; ed eragli immolato l’asino, vittima che si credeva a lui gradita, in soddisfazione di uno sfregio che egli ricevè dall’asino di Sileno, quantunque la pena ricadesse sugli altri asini innocenti22. I Romani ponevano la statua di Priapo nei loro orti o giardini, ma per far soltanto da spauracchio agli uccelli ; e a tal fine ed effetto nell’alto della testa gli piantarono una canna con stracci in balìa del vento. Molti poeti latini, tra i quali Orazio e Marziale, si sbizzarrirono a dileggiar talmente questo Dio, che peggio non avrebbero fatto nè detto contro il più vil dei mortali23.

Un Nume di origine romana, e simbolo vero e proprio della romana costanza, fu il Dio Termine. Non era altro che un masso, o uno stipite di pietra rozzamente squadrata, un parallelepipedo rettangolo, come direbbesi in geometria, il quale ponevasi per confine del territorio dello Stato e dei campi dei cittadini. Se ne attribuisce l’invenzione a Numa Pompilio, che volle così santificare con una idea religiosa il diritto di proprietà e renderlo inviolabile coll’attribuire la rappresentanza di una Divinità tutelare di tal diritto a un segno materiale dei legittimi confini di esso. Gravissime pene eran minacciate anche dalle Leggi civili a chi rimuovesse il Dio Termine dal suo posto per estendere i proprii possessi a danno di quelli dei vicini. Oltre l’esecrazione religiosa, corrispondente alla scomunica maggiore, v’era la pena della deportazione in un’isola e la confisca del bestiame e di una terza parte dei beni del condannato.

Il Dio Termine aveva in Roma una cappella a lui sacra nel tempio di Giove Capitolino, il quale era situato, come affermano gli archeologi, ove ora esiste la chiesa di Ara Coeli. Le Feste Terminali eran celebrate agli ultimi di febbraio, che fu per lungo tempo l’estremo mese dell’anno, poiché quando Numa vi aggiunse i mesi di gennaio e di febbraio, fece precedere il gennaio e seguire il febbraio ai dieci mesi dell’anno di Romolo. Con tali feste terminavano anticamente il loro anno i Romani ; e queste coincidevano in appresso con quelle della cacciata dei re24. Così solennizzavano contemporaneamente i più preziosi diritti del cittadino, la proprietà e la libertà.