(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — IV. Una Divinità più potente di Giove » pp. 20-24
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(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — IV. Una Divinità più potente di Giove » pp. 20-24

IV

Una Divinità più potente di Giove

Ammessi più Dei, ne vien di conseguenza che nessuno di essi può essere onnipotente, ma ciascuno ha un potere limitato e temperato dalle speciali attribuzioni degli altri. Quindi il Politeismo presenta l’immagine di una federazione di diversi Stati o Principi sotto la rappresentanza di un capo supremo, come sarebbero gli Stati Uniti di America e l’Impero Germanico ; mentre il Monoteismo è il vero modello della monarchia assoluta ; la quale soltanto per analogia o somiglianza di forma, e senza alcun fondamento di ragione, si chiama impudentemente di diritto divino. Non deve dunque recar maraviglia, leggendo il titolo soprascritto, che vi sia nel Politeismo una divinità più potente di Giove, che pure è conosciuto comunemente come il supremo dei Numi, il re del Cielo, il padre degli uomini e degli Dei. E questo Dio più potente di Giove era il Fato.

Il Fato 14, detto altrimenti il Destino, era figlio del Caos e della Notte, e rappresentava, secondo la Cosmogonia degli antichi, la legge generale e immutabile dei fenomeni fisici e delle umane vicende. Non v’è termine nelle lingue moderne europee, che più di questo di Fato o Destino sia comune e frequente sulle labbra stesse del volgo ; e tutti l’usano nello stesso senso di legge suprema inevitabile. In italiano è comune ancora il termine di fatalità nel significato di decreto o effetto di inesorabil destino.

I Pagani rappresentavano cieco o bendato il Destino, e sordo agli umani lamenti ; ma appunto perchè inesorabile, nessun lo pregava o adorava, nè perciò ebbe mai tempii ed offerte. Immaginavano che i suoi decreti, riferibili a tutte le future vicende (ecco la prima idea della predestinazione), fossero contenuti in un’urna o registrati in un libro di bronzo, e consultati dallo stesso Giove per conoscere fin dove potesse estendersi la sua potenza o il suo arbitrio.

Da queste idee pagane del Fato e della predestinazione derivò in filosofia il Fatalismo, il creder cioè e l’asserire che le nostre azioni non sono libere, ossia non dipendono dalla nostra libera volontà, ma da legge irrevocabile e da forza insuperabile del destino, come i fenomeni fisici. Onde che con questo sistema (adottato dai Turchi come principio religioso), si veniva a toglier dal mondo la moralità e l’imputabilità delle azioni. Ma ogni essere ragionevole sente la dignità dell’umana natura e riconosce in sè questa ingenita forza e facoltà di prestare o negare liberamente il suo assenso ; e sotto questo rapporto suol dirsi che si può esser liberi anche nella schiavitù. Perciò Dante, avversando il fatalismo, proclama da par suo il libero volere in questi splendidi versi :

« Lo maggior don che Dio per sua larghezza
« Fesse creando, e alla sua bontate
« Più conformato, e quel ch’ei più apprezza
« Fu della volontà la libertate,
« Di cui le creature intelligenti
« E tutte e sole furo e son dotate. »
(Parad., v, 19.)

E altrove trattando lo stesso argomento aveva detto con non minore eloquenza :

« Color che ragionando andaro al fondo,
« S’accorser d’esta innata libertate,
« Però moralità lasciaro al mondo.
« Onde pognam che di necessitate
« Surga ogni amor che dentro a voi s’accende,
« Di ritenerlo è in voi la potestate.
« La nobile virtù Beatrice intende
« Per lo libero arbitrio ; e però guarda
« Che l’abbi a mente, se a parlar ten prende. »
(Purg., xviii, 67.)

Anche in altri luoghi ritorna il sommo Poeta sullo stesso argomento, o indirettamente vi allude : tanto gli stava a cuore d’imprimer bene nella mente dei suoi lettori questa fondamentale dottrina del libero arbitrio, da cui dipende la moralità delle azioni, e quindi il merito o il demerito delle persone, e la giustizia del conferimento dei premii e della irrogazione delle pene !

A compagne del Fato e ministre esecutrici dei suoi decreti aggiungevansi dagli Antichi la Necessità, la Fortuna e la Morte ; e questa era anche chiamata l’estremo fato o l’ultima necessità.

La Necessità considerata dai Politeisti come una Dea è la personificazione e la deificazione dell’ idea di conseguenza inevitabile di una o più cause destinate a produrre certi determinati effetti ; e poichè la Necessità costringe gli uomini a fare o soffrire, perciò fu-creduta una Dea avversa anzi che propizia agli umani desiderii. Quindi Orazio la chiama sœva Necessitas (crudel Necessità) e la rappresenta in atto di portar colla mano di bronzo lunghi e grossi chiodi da travi, e cunei, ossia biette o zeppe, e uncini e piombo liquefatto, simboli tutti di costrizione o coazione15

La parola Fortuna è di origine latina ; deriva da fors significante il caso ; Fortuna è dunque la Dea delle casuali vicende, ma per lo più buone ossia favorevoli agli uomini ; e perciò Cicerone ne deduce l’etimologia a ferenda ope, dal recar soccorso. In greco era chiamata Tiche, ed aveva gli stessi attributi della Fortuna dei Latini. E poichè credevasi che spesso portasse prosperi eventi, quindi non le mancavano e immagini e tempii e adoratori, tanto in Grecia quanto in Italia, e in Roma stessa più che altrove. Rappresentavasi come una donna stante in equilibrio con un sol piede sopra una ruota o un globo, per indicare la facile sua mutabilità. Le si dava inoltre il cornucopia da cui spargeva inesauribilmente frutti e fiori sopra la Terra, per significar le ricchezze che dispensava ai mortali16.

Dante ha fatto poeticamente dipinger la Fortuna nel Canto vii dell’ Inferno da Virgilio poeta pagano, e perciò quella dipintura ha tinte più proprie del paganesimo che del cristianesimo. Ma se non è accettabile il concetto pagano che la Fortuna sia un essere soprannaturale esistente sin dalla origine del mondo o degli angeli (tra le altre prime creature), quando però ivi si afferma che

« Colui lo cui saver tutto trascende, (cioè Dio)
« Ordinò general ministra e duce
« Che permutasse a tempo li ben vani
« Di gente in gente e d’uno in altro sangue
« Oltre la difension de’ senni umani, »

s’intende facilmente che con questo linguaggio poetico si vogliono significare le occulte disposizioni della Provvidenza, imprevedibili ed inevitabili dai mortali.

Finalmente la Morte, secondo il Paganesimo, era anche essa ministra del Fato e l’ultima esecutrice de’ suoi decreti sull’esistenza dei viventi ; ma fu considerata pur anco ministra di Plutone, perchè essa spinge le anime nei regni di lui. A quest’estremo fato eran sottoposti anche i Semidei, quantunque uno dei loro genitori fosse una Divinità di prim’ordine.

Così fu ristretta fra certi limiti insormontabili non solo la potenza di Giove, ma quella pur anco di tutti gli altri Dei ; i quali spesso nei poeti pagani si lamentano pietosamente della inesorabilità del Destino come qualunque più misero mortale.