(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XXV. Bacco » pp. 161-172
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(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XXV. Bacco » pp. 161-172

XXV

Bacco

I mitologi greci avevano una fantasia inesauribile per inventar cose strane e fuori dell’ordine naturale, che perciò appunto si dicono prodigiose, e più veramente favolose. Sulla nascita di Bacco venner fuori a dire ch’egli ebbe due madri. I poeti classici greci diedero perciò a Bacco il titolo di Ditirambo, e i poeti latini di Bimater, cioè figlio di due madri, che meglio direbbesi due volte nato, perchè la così detta seconda madre non era una femmina, ma un maschio. Convien dunque darne la spiegazione.

Raccontano che Giunone essendosi accorta che Giove prediligeva Semele, figlia di Cadmo re di Tebe, volle vendicarsi della medesima, e trasformatasi nella vecchia Beroe nutrice di Semele, suggerì a questa di farsi promettere con giuramento da Giove di comparirle innanzi con tutta la maestà e tutti i distintivi con cui si mostrava in Cielo agli Dei. La maligna astuzia di Giunone sortì pienissimo effetto ; e Giove avendo promesso non potè mancar di parola, e comparve a Semele armato di fulmini, uno dei quali gli uscì di mano, incendiò la reggia Tebana e uccise e incenerì Semele195 ; e sarebbe perito del pari il non ancor nato figlio, se Giove non lo salvava supplendo all’ incompleto sviluppo di esso e rendendolo vitale196. Dopo di che lo consegnò alle figlie di Atlante perchè lo allevassero.

Il piccolo Bacco cresceva vivace ed allegro ; ed ebbe per custode della sua giovinezza (o come ora diremmo per aio o educatore) un vecchio satiro chiamato Sileno, a cui molto piaceva il vino, e che ne istillò il gusto al suo allievo, cosa molto più facile che istillare il gusto delle belle lettere e delle scienze. E Bacco divenne il Nume protettore non solo dei viticultori e degli enologi, ma pur anco dei bevitori e dei gozzovigliatori ; e trovò facilmente adoratori devoti e ferventi non solo fra gli uomini, ma ancor fra le donne. Accompagnato da una turba magna di zelanti seguaci di ambo i sessi percorse la terra sino alle Indie, e conquistò facilmente al suo culto anche questa regione.

Egli aveva sempre l’aspetto di giovane197, con volto reso più rubicondo dalle copiose libazioni di vino ; in testa una corona di ellera e di corimbi, ed anche di pampini con grappoli d’uva pendenti ; in mano un tirso (cioè una verga a cui era attortigliata l’ellera, oppure i pampini) ; una pelle di tigre o di pantera gli ricuopriva in parte le membra, nude in tutto il resto ; e viaggiava in un carro tirato da animali feroci, per lo più tigri o pantere. Tutti questi distintivi ed emblemi di Bacco lo manifestano chiaramente come il Dio del vino e della intemperanza. Il volto giovanile e rubicondo, i pampini e l’uva non hanno bisogno di spiegazione ; l’ellera colla sua freschezza era stimata dagli Antichi un. sedativo ai calori ed ai fumi del vino ; e gli animali feroci significavano il furore e la brutalità cui produce l’abuso di questo liquore. Anzi per indicare non tanto la forza del vino che dà alla testa, quanto ancora l’impudenza che ne deriva in chi ne abusa, si aggiungevano sulla fronte di Bacco le corna198 ; e i poeti dicono che egli non sempre le portava, il che significa che non era sempre ubriaco. Coloro però che vogliono attribuir dignità o importanza a questo Dio dicono che le corna son simbolo della potenza di lui, ossia della forza del vino.

Il nome stesso di Bacco, o che si faccia derivare da un greco vocabolo che significa favellare, ed accenni al vaniloquio dell’ubriachezza, o da altro termine greco significante urlare, e indichi perciò il frastuono dei gozzovigliatori, è pur sempre espressivo dei principali attributi di questo Dio. I Latini intendevano la parola Bacco in questo secondo e peggior senso, poichè ne formavano il verbo bacchari che significa infuriare, e in più mite accezione abbandonarsi a smodata allegria. In italiano poi dal nome di Bacco è derivata la parola baccano che significa rumore strepitoso e selvaggio di gente che sembra impazzata. E questo era il rumore che facevano i seguaci di Bacco, e specialmente le donne che furon chiamate Baccanti ; e in tal modo clamoroso e impudente celebravansi in Roma le feste di questo Dio che furon dette Baccanali, di cui gli eccessi giunsero anticamente tant’oltre in Roma che il Senato dovè proibirle. L’immagine e similitudine dei Baccanali si è conservata e riprodotta sino a noi nel nostro carnevale, che in altri tempi più antichi dicevasi ancora carnasciale 199.

Nel corteo di Bacco e a celebrare i Baccanali, secondo le favole, v’era pur anco la

« Capribarbicornipede famiglia »

dei Satiri, come scherzevolmente, con parola significante la forma dei Satiri, la chiama il Redi ; e tra i Satiri v’era l’aio di Bacco, cioè il vecchio Sileno, che dall’essere continuamente ubriaco non reggevasi in equilibrio neppur sulla groppa del suo asinello. Ma qui cederò la parola al Poliziano, che maravigliosamente in due sole ottave di versi endecasillabi sdruccioli non solo descrive, ma dipinge il corteo di Bacco :

« Vien sopra un carro, d’ellera e di pampino
« Coperto, Bacco il qual duo tigri guidano ;
« E con lui par che l’alta rena stampino
« Satiri e Bacche ; e con voci alte gridano.
« Quel si vede ondeggiar ; quei par che inciampino ;
« Quel con un cembal bee ; quegli altri ridano ;
« Qual fa d’un corno, e qual della man ciotola ;
« Qual move i piedi in danza, e qual si ruotola.
« Sopra l’asin Silen, di ber sempre avido,
« Con vene grosse, nere e di mosto umide,
« Marcido sembra, sonnacchioso e gravido ;
« Le luci ha di vin rosse, enfiate e fumide ;
« L’ardite ninfe l’asinel suo pavido
« Pungon col tirso ; ed ei con le man tumide
« A’crin s’appiglia, e mentre sì l’aizzano,
« Casca nel collo, e i Satiri lo rizzano. »

Bacco aveva diversi altri nomi e titoli. In greco chiamavasi Dionisio, parola composta da Dios, uno dei nomi di Giove suo padre, e dall’isola di Nisa o dal monte Niso, dove Bacco nacque e fu allevato. I Latini non adottarono questo nome, ma bensì l’aggettivo che ne deriva, e davano l’appellativo di Dionisie 200) alle feste di Bacco, che quando proruppero in eccessi ributtanti, oltre che Baccanali furono dette anche Orgie da un greco vocabolo che significa pur esso furore. Anche in italiano si dà elegantemente il nome di Orgie ai notturni stravizii di gozzoviglie e bagordi. I Latini bene spesso davano a Bacco il nome di Libero per indicare che il vino ispira libertà, ma però eccessiva, che allora equivale a licenza o impudenza. Gli altri nomi eran questi : Lenèo, Tionèo, Jacco, Bromio, Bassareo, Evio, tutti derivati dal greco, e molto in uso anche nei poeti latini, e qualcuno di questi, benchè più raramente, nei poeti italiani.

Convien qui rammentare il grido di allegrezza e di evviva a Bacco, che ripetevasi frequentemente nelle feste di lui ; ed era la greca voce Evoe, che in latino s’interpreta Euge fili ! e nel nostro volgare corrisponde a Bravo figlio ! parole di approvazione e d’incoraggiamento che i mitologi suppongono dette da Giove a Bacco suo figlio, allorchè questi sotto la forma di leone combatteva contro i Giganti. La qual voce Evoe fu adottata come esclamazione e nello stesso senso tanto dai poeti latini201) quanto ancora dagl’italiani, come troviamo, per esempio, nell’Orfeo del Poliziano, e nel Ditirambo202) del Redi, intitolato Bacco in Toscana.

Anche le Baccanti avevano altri nomi, cioè di Menadi, Tiadi, Bassaridi ; il primo dei quali significa furenti, il secondo impetuose, ed il terzo è derivato da uno degli appellativi di Bacco accennati di sopra.

Le Baccanti erano rappresentate come donne furibonde colla testa alta e piegata indietro, colle chiome scarmigliate e svolazzanti, in atto di far passi concitati o salti, e perciò colle vesti che formavano obliquamente molte pieghe ; e in mano il tirso o il cembalo o il crotalo 203), il flauto o le nacchere ; ed anche talvolta la spada o il pugnale. Generalmente hanno pur anco il mantello o la veste di pelli di daino o di cervo, le quali pelli diconsi nebridi con voce greca adottata da alcuni poeti latini204) e italiani. Cosi cantò il Chiabrera, v. 46 :

« E di nebridi coperto
« Nel deserto
« Vo’cantar tra le Baccanti. »

E il Redi nel Ditirambo di Bacco fa dire a questo Nume :

« Al suon del cembalo,
« Al suon del crotalo,
« Cinte di nebridi,
« Snelle Bassaridi,
« Su su mescetemi
« Di quella porpora, ecc. »

I poeti pensarono ancora a dar moglie a Bacco, e inventarono un modo sbrigativo, franco e alla buona, senza tante sicumere e accordature d’orchestra. Finsero che Bacco nei suoi viaggi di proselitismo enologico avesse trovato nell’isola di Naxo Arianna figlia di Minos re di Creta, abbandonata dal perfido Teseo che a lei doveva la sua salvezza dal labirinto e dal Minotauro. Quel Nume gioviale e nemico della malinconia la consolò subito facendola sua sposa e conducendola sempre seco in continua festa ed allegria. Arianna (per chi non lo sapesse) significa molto piacente ; e Bacco a cui piaceva il bello ed il buono se ne trovò molto contento, e le regalò come dono nuziale una preziosissima corona d’oro e di gemme, opera egregia di Vulcano, la quale poi fu cangiata in una costellazione che porta ancora il nome di corona di Arianna. Tre figli nacquero da questo matrimonio di Bacco, ed ebbero nomi relativi alla vite, all’uva ed al vino, cioè Evante, che significa fiorente ; Stafilo, nome derivato da staphis che era una specie di vite e d’uva anticamente chiamata stafusaria ; ed Enopio, che vuol dire bevitor di vino.

Si attribuivano a Bacco diversi miracoli. Cangiò in delfini alcuni marinari che si opponevano al suo culto. Fece sì che Licurgo, re di Tracia, il quale aveva ordinato che si tagliassero tutte le viti dei suoi Stati, nel volerne recidere alcune di propria mano si tagliasse da sè stesso le gambe. Penteo re di Tebe che voleva abolire il culto di Bacco fu ucciso dalla propria madre Agave, che insieme con altre Baccanti venuta in furore lo aveva creduto una fiera ; e questa favola contiene il più grande esempio degli eccessi a cuipuò condurre l’ubriachezza. Le figlie di Mineo re di Tebe, conosciute comunemente col patronimico di Mineidi, ricusando di prender parte alle feste di Bacco per attendere alla loro occupazione di tesser le tele, fu detto che furono cangiate in vipistrelli 205) e i loro telai in ellera per castigo del disprezzo mostrato pel culto di Bacco.

Fu poi generosissimo co’suoi devoti cultori, ma i suoi doni erano pericolosi per la sovrabbondanza stessa con cui li accordava, talchè divenivano facilmente dannosi, come avvenne a Mida figlio di Gordio re dei Frigii. Avendo questo re lietamente e sontuosamente accolto in ospizio Bacco con tutto il suo corteo, gli fu data in premio dal Nume la facoltà di scegliere un dono di suo piacere. Mida, che era avarissimo, chiese di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava, e Bacco gliel’accordò ; ma presto egli ebbe a pentirsi di avere ottenuto una tal grazia, poichè quando si pose a mensa trovò con suo grande spavento che si cangiavano in solido oro non solo i vasellami e le stoviglie che egli toccava, ma pur anco tutti i cibi e le bevande che mettevasi in bocca, e presto sarebbe morto di fame in mezzo all’oro, se non avesse ottenuto da quel Nume benigno la cessazione di sì funesto dono. Bacco gli ordinò di lavarsi nel fiume Pattolo ; e i poeti aggiunsero che le acque di quel fiume contrassero in parte la proprietà che Mida perdè, trasportando nella loro corrente alcune pagliuzze o arene d’oro. Così sostituirono un miracolo mitologico al miracolo fisico della natural formazione delle pepiti e delle auree vene nel sen della terra. Questa favola di Mida fu raccontata dall’Alighieri nel Canto xx del Purgatorio, in quel cerchio ove son puniti gli avari :

« E la miseria dell’avaro Mida
« Che seguì alla sua dimanda ingorda
« Per la qual sempre convien che si rida. »

Ma non meno risibile divenne Mida, allorquando Apollo gli fece crescere le orecchie d’asino per aver giudicato bestialmente che all’armonia dell’apollinea cetra fosse preferibile il suono della rusticana sampogna del Dio dei pastori.

Come si usa poeticamente per metonimia il nome di Cerere a significare il grano ; di Minerva o Pallade, la sapienza ; di Marte, la guerra, ecc. ; così il nome di Bacco ad indicare il vino. E Bacco in origine era simbolo soltanto del vino ; ma dopo tutte le favole che si raccontarono di lui, e specialmente dopo i fatti storici pur troppo veri degli stravizii ed eccessi dei Baccanali in onore di questo Dio, il nome di Bacco fu adoprato ancora come sinonimo di crapula e di gozzoviglia. In questo senso l’usò anche il Petrarca in uno dei suoi più celebri sonetti :

« L’avara Babilonia ha colmo il sacco
« D’ira di Dio, e di vizii empi e rei
« Tanto che scoppia ; ed ha fatti suoi Dei
« Non Giove e Palla, ma Venere e Bacco. »

Alcuni mitologi antichi confusero Bacco con Apollo, cioè col Sole, o almeno lo fecero suo compagno ed amico ; e questi mi sembrano più ingegnosi e più filosofi naturali che gli altri. Imperocchè poco vale il piantare e il coltivar le viti dove i raggi del Sole non conducono le uve a maturità e non ne cangiano in vino il primitivo acido umore. Il regno di Bacco è finito dove Febo non lo favorisce colla forza dei suoi raggi calorifici e chimici. Testimoni i Germani, i Batavi, i Britanni e gli Sciti, e in una parola tutti i popoli nordici, bevitori di cervogia ossia birra, odiosissima a Bacco206.

Tutti seppero e sanno, e gli antichi e i moderni, o storicamente o per pratica che le uve non maturano nei luoghi freddi ed esposti al nord, e generalmente in nessuna posizione ed esposizione al di là del grado 50 di latitudine207). Tutti hanno riconosciuto e riconoscono indispensabile l’azione del Sole sulle uve per renderle atte a produrre il vino ; ma Dante fu il primo a indicare come questa azione si esercita e compiesi. Egli dice nel Canto xxv del Purgatorio :

« Guarda il calor del Sol che si fa vino,
« Misto all’umor che dalla vite cola. »

Lo stesso Galileo 300 anni dopo non aggiunse nulla di più alla formula di Dante col dire che il vino è un composto di umore e di luce. Il celebre Magalotti, relatore delle esperienze dell’Accademia del Cimento, in una delle sue lettere scientifiche (lettera 5ª a Carlo Dati), intese di dare la spiegazione di questo fenomeno con una ipotesi, alla quale allude il Redi nel Bacco in Toscana, parlando del vino :

« Sì bel sangue è un raggio acceso
« Di quel Sol che in Ciel vedete,
« E rimase avvinto e preso
« Di più grappoli alla rete. »

Ma la chimica soltanto colla teoria delle trasformazioni per mezzo della luce, del calorico e della elettricità può darne la più razionale e probabile spiegazione.

Quasi tutti i poeti lodano il vino ; ed anche gli astemii se ne fingono amantissimi : vale a dire adottano e celebrano, come è uso dei più, gli errori e le fantasie popolari predominanti. Il vino (come dice il proverbio) è un balsamo per chi sa usarne temperatamente e secondo il bisogno208) ; ed è un veleno per chi ne abusa : oltre al nuocere alla salute, scorcia la vita, e istupidisce e degrada le facoltà intellettuali e morali.