(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XXVI. Nettuno re del mare e gli altri Dei marini » pp. 173-183
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(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XXVI. Nettuno re del mare e gli altri Dei marini » pp. 173-183

XXVI

Nettuno re del mare e gli altri Dei marini

Gli Antichi non conoscevano neppure la decima parte della estensione del mare e neppur la parte millesima delle maraviglie che esso racchiude nel suo seno. Ma quanto erano scarsi di cognizioni positive e scientifiche, altrettanto erano ricchi di fantasia e d’invenzione. E non è necessario di aver scoperto come Balboa dall’alto delle Ande il grande Oceano equinoziale per esser compresi di maraviglia all’idea dell’Immenso e cader prostrati a terra, com’esso, o almeno

« Colle ginocchia della mente inchine »

come diceva il Petrarca ; ma basta l’essersi trovato o di giorno o di notte,

« O quando sorge o quando cade il die »

in mezzo olle onde dove non apparisce più terra alcuna e null’altro vedesi che Cielo ed acqua209), per sentirsi intenerito il core210) e rapita in estasi l’immaginazione211). Non deve dunque recar maraviglia che i Pagani i quali avevan popolato di Dei il Cielo e la Terra personificando gli oggetti creati e i fenomeni naturali, avesser fatto altrettanto nel mare. E quantunque non conoscessero in tutta la loro estensione che i principali mari interni di quello che ora chiamasi il Mondo antico, avevan però un’idea generale dell’Oceano che cinge da tutte le parti la Terra, e perciò lo chiamavan circumvagus, ossia che gira all’intorno, perchè vedevano da ogni parte dove finivan le terre da loro conosciute, una immensa e per loro incommensurabile estensione di onde salse, ove andavano a gettarsi le acque di tutti i più grandi fiumi. Cominciarono dunque dal divinizzare l’Oceano stesso come avevano divinizzato il Cielo sotto il nome di Urano, e la Terra sotto il nome di Vesta Prisca o di Cibele. L’Oceano fu dunque considerato come il più antico degli Dei marini, perchè era il mare stesso, come Urano il più antico degli Dei celesti, perchè era lo stesso Cielo. Quindi non solo i poeti greci e i latini, ma pur anco gl’italiani lo invocano come un Nume. Anche il fiorentino poeta Alamanni, il celebre autore della Coltivazione, amantissimo della libertà della patria, che fu in quel tempo oppressa dai Medici, in un suo sonetto prega il padre Oceano, che rammenti

« All’onorato suo figliol Tirreno, »

che si svegli omai ; ma il Tirreno e l’Arno, non men che gli altri mari e fiumi d’Italia dormirono per più di trecento anni !212

Abbiamo detto altra volta (V. il N. XI) che agli Dei davasi il titolo di Padre in segno di affettuosa venerazione ; e l’Oceano lo merita al par di Giove, e pei grandi benefizii che arreca agli uomini colle innumerevoli e maravigliose produzioni ; ed anche, secondo la Mitologia, pel gran numero dei suoi figli, che Esiodo fa ascendere a 6000 ; cioè 3000 fiumi e 3000 ninfe Oceanine. La sua moglie che l’arricchì di sì numerosa prole era Teti 213), dea marina anch’essa, ben diversa però dalla Ninfa Teti, madre di Achille. Secondo Omero, l’Oceano ha il suo palazzo nelle acque del mare agli estremi confini delle Terra, e questo palazzo, secondo altri poeti, è d’oro. Ma quantunque l’Oceano sia venerato come il più antico Dio marino, non ha peraltro l’impero assoluto del mare, che toccò in sorte a Nettuno fratello di Giove, dopo la guerra contro i Giganti, alla quale l’Oceano non prese parte.

Il nome di Nettuno, dio e re del mare deriva, come dice Varrone, da un verbo latino (nubere), che significa velare o cuoprire, perchè il mare ricuopre la maggior parte (precisamente tre quarti) della superficie terrestre214). In greco chiamasi Poseidon, che direbbesi in italiano Posidone e significa spezza navi, nome poco o nulla usato, per quanto io mi ricordi, dai poeti latini e italiani.

Le statue di questo Dio si vedono in molte fonti pubbliche e private ; e la più celebre come opera d’arte è quella di Giovan Bologna in Bologna ; ed una delle più goffe è quella dell’Ammannato nella fonte di Piazza della Signoria di Firenze215). Ma tutte presentano presso a poco gli stessi emblemi o distintivi ; il più caratteristico dei quali è il tridente, che consiste in una forca con tre corni o punte ; ed è questo il potente scettro di Nettuno col quale comanda ai flutti e scuote la Terra cagionando terremoti216). Ha in testa una corona d’alghe o altre piante marine, e sta in una gran conchiglia posta sopra un carro tirato da quattro cavalli marini attaccati di fronte.

I Romani avanti la prima guerra punica poco lo consideravano ed adoravano come Dio del mare, ma più generalmente, a tempo di Romolo, come Dio del consiglio sotto il nome di Conso, e in appresso anche come protettore dei cavalli e dei cavalieri col titolo di Nettuno equestre, alludendosi alla favola che questo Dio nella gara con Minerva per dare il nome alla città di Cecrope avesse prodotto il cavallo. Ma quando P. Scipione Africano partì dalla Sicilia andando con una flotta a fiaccare in Affrica la potenza cartaginese, fece dall’alto della nave una pubblica preghiera a tutti gli Dei e le Dee del mare, come lo stesso Tito Livio riferisce nella sua Storia, trascrivendo o componendo di suo le solenni frasi rituali.

Se non è bene che l’uomo sia solo sulla Terra, vale a dire senza aver moglie e famiglia, sarà questo non men vero nel Mare ; e se il matrimonio può convenire in generale a qualunque privato, tanto più conviene a un re, e specialmente a un re assoluto che è padrone di tutto217), e a cui non può mancar mai un lauto trattamento per una numerosa famiglia. Perciò Nettuno si risolse ben presto a prender moglie ; e scelse per sua sposa la dea Amfitrite, figlia di Nereo e di Dori, e quindi nipote dell’Oceano e di Teti. Da prima pareva che Amfitrite acconsentisse a questo matrimonio, ma poi avendo cangiato di avviso, Nettuno le mandò due eloquentissimi delfini a persuaderla ; i quali adempiron così bene la loro commissione, che condussero seco, portandola alternativamente sul loro dorso, la sposa a Nettuno ; ed egli per gratitudine li trasformò nella costellazione dei Pesci, che è uno dei dodici segni del Zodiaco.

Da questo matrimonio nacque il Dio Tritone che fu lo stipite delle diverse famiglie e tribù dei Tritoni, i quali formarono il corteggio e la guardia d’onore delle principali divinità marine.

Amfitrite è nome di greca origine che significa romoreggiante o corrodente all’intorno, e sta ad indicare i flutti marini e gli effetti di essi sui lidi : etimologicamente è un quid simile dell’Oceanus circumvagus dei Latini. È rappresentata questa Dea come un’avvenente giovane con una reticella da capelli che le cinge la testa, – probabilmente a significare la pesca colla rete. Le si dà ancora un carro a conto suo, simile a quello di Nettuno, con un particolar corteo di Ninfe e di Tritoni.

I nomi di ambedue queste Divinità (Nettuno e Amfitrite) significano per metonimia il mare, nelle lingue greca e latina ; ma nell’italiana si preferisce il nome di Nettuno.

Dante, nel Canto xxviii dell’Inferno, rammentò questo Dio nel senso mitologico e figurato :

« Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
« Non vide mai sì gran fallo Nettuno,
« Non da pirati, e non da gente Argolica ; »

per dire che non fu commesso mai prima d’allora nel mar Mediterraneo un sì orribil delitto.

Gli astronomi diedero il nome di Nettuno al più lontano pianeta del nostro sistema solare, preconizzato da Leverrier dietro le osservazioni ed i calcoli sulle perturbazioni di Urano, e veduto per la prima volta da Galle a Berlino il 23 settembre 1846. E coerentemente al nome mitologico, il simbolo o segno astronomico di questo pianeta è un circolo sormontato da un piccolo tridente.

Nella nautica si chiamano Nettuni le collezioni di carte nautiche ; la qual denominazione mitologica è analoga a quella che fece chiamare Atlanti le collezioni delle carte geografiche.

In geologia dicesi Nettunismo il sistema geologico che attribuisce la formazione della maggior parte delle roccie del nostro globo all’azione dell’acqua ; Nettuniani gli stessi depositi di precipitazione, e Nettunisti i seguaci di questa ipotesi.

Anche la moglie di Nettuno ebbe onori celesti dagli astronomi, i quali diedero il nome di Amfitrite al 29° pianeta telescopico scoperto da Marth il 1° marzo 1854. E Cuvier assegnò il nome di Amfitrite a un genere di Annelidi della famiglia dei Tubicoli, che abitano in tubi leggieri che questi animali si fabbricano da sè stessi e seco trasportano. Tra questi si distingue pe’suoi diversi colori l’Amfitrite dorata (Amphitrite auricoma).

I Tritoni eran creduti e rappresentati mezzi uomini e mezzi pesci ; di figura umana dai fianchi in su, e in tutto il resto pesci. La loro occupazione era quella di tenere allegre le Divinità del mare (come i Satiri le terrestri Divinità) e di suonar la tromba marina 218), che era una conchiglia ritorta simile a quelle dette volgarmente nicchie, che orridamente suonano i nostri zotici Eumei alle mandre suine. Forse i Tritoni avran saputo trame più dolci suoni ; ma, comunque ciò fosse, questo strumento è il distintivo per cui riconosconsi i Tritoni stessi nelle opere d’arte. Si sottoscrivono a questa favola anche i naturalisti, poichè hanno dato il nome di Tritone a un genere di molluschi gasteropodi che formano conchiglie talvolta grandissime, e che si trovano nella maggior parte dei mari. Convien qui rammentare principalmente quella conchiglia che i naturalisti dicono Tritone smaltato (Triton variegatus) e che volgarmente chiamasi tromba marina o conchiglia di Tritone ; e di queste alcune son lunghe sino a 60 centimetri. Trovasi chiamata scientificamente Tritone anche la salamandra aquatica ; e Tritoniani furon detti da alcuni geologi quei terreni che sono stati formati nelle acque marine, o anticamente o modernamente.

Turbe infinite di Ninfe o Divinità inferiori popolavano ed abbellivano, nella fantasia dei poeti, le onde del mare ; e ce le dipingono come vaghe e snelle giovinette con lunghe chiome (per lo più verdi)219), sciolte sulle spalle e grondanti acqua, perchè per lo più queste Ninfe nuotano nelle onde e tra i flutti come le folaghe procellarie ; tal’altra cavalcano un pesce e fanno una regata di nuovo genere che niun mortale vide giammai ; e spesso sono accompagnate dai Tritoni che fanno lazzi e salti, e suonano la tromba marina per divertirle.

Queste Ninfe eran distinte in tre classi : Oceanine, o Oceanitidi, Doridi e Nereidi. Le Ninfe Oceanine, così chiamate perchè figlie dell’Oceano e di Teti, erano, secondo Esiodo, 3000 ; e solamente di 41 ce ne dice il nome, di cui farò grazia al lettore, riserbandomi a nominarne qualcuna a tempo e luogo, quando cioè converrà raccontare che prese marito e fu madre di qualche altra Divinità.

Doridi e Nereidi son nomi patronimici di quelle Ninfe che eran figlie di Dori e di Nereo. Queste Ninfe, che eran qualche centinaio, hanno or l’uno or l’altro nome, cioè di Doridi derivato dalla madre, o di Nereidi dal padre ; ma il secondo è il più comunemente usato dai poeti, i quali annoverano fra le Nereidi la stessa Amfitrite moglie di Nettuno e la ninfa Teti madre di Achille. I naturalisti peraltro applicano distintamente ed arbitrariamente queste due denominazioni a due diverse specie di animali marini : chiamano Doridi un genere di molluschi gasteropodi della famiglia dei nudibranchi ; e danno il nome di Nereidi a quelle che volgarmente diconsi Scolopendre di mare. Ai naturalisti, per quanto pare, è molto piaciuto questo nome mitologico di Nereidi, poichè si trova che più e diversi di loro lo hanno assegnato (al solito con qualche aggettivo di specificazione) a molti generi e famiglie di Annelidi e simili animali marini.

Oltre le Divinità native o indigene, ammettevano nel mare i mitologi anche qualche Divinità avventizia o ascitizia, vale a dire trasumanata 220) dalla mortal condizione e natura. Tra queste convien rammentare la dea Leucotoe, il dio Palemone e il dio Glauco.

La dea Leucotoe era in origine la regina Ino moglie di Atamante re di Tebe ; e il dio Palemone il suo piccolo figlio chiamato Melicerta. Dal colmo-della sventura sofferta per l’odio e le persecuzioni di Giunone (nemica acerrima di quella regia famiglia, perchè vi apparteneva Semele madre di Bacco amata da Giove), passarono ambedue all’apoteosi per compassione delle benigne Divinità marine. Ma lasciamo raccontare a Dante la sventura di questa famiglia ; e poi poche altre parole basteranno a compir la narrazione del mito.

« Nel tempo che Giunone era crucciata
« Per Semelè contra ’l sangue tebano,
« Come mostrò già una ed altra fiata,
« Atamante divenne tanto insano,
« Che veggendo la moglie co’due figli
« Andar carcata da ciascuna mano
« Gridò : tendiam le reti sì ch’io pigli
« La lionessa e i lioncini al varco :
« E poi distese i dispietati artigli
« Prendendo l’un ch’avea nome Learco,
« E rotollo e percosselo ad un sasso ;
« E quella s’annegò con l’altro incarco »221.

E l’altro incarco era l’altro figlio chiamato Melicerta ; e la favola aggiunge che invece di annegarsi divennero la Dea Leucotoe e il Dio Palemone.

Ora è da notarsi che gli Antichi fecero presiedere Leucotoe (chiamata dai Romani anche Matuta) alla calma del mare, e Palemone ai porti (e perciò fu chiamato anche Portunno). E fu saggio consiglio l’affidar la protezione dei naviganti e le due cose più da loro desiderate, cioè la calma del mare ed il ritorno in porto, a due Divinità che avevan provato le più terribili procelle di questo mare infido della vita222.

Di Glauco poi raccontano uno dei più strani e singolari miti, unico nel suo genere ; e di cui nulladimeno seppe valersi Dante come di similitudine per dare idea di uno dei suoi più straordinarii e sublimi concetti. La favola è questa : Glauco era un pescatore della Beozia, il quale un giorno si accorse che i pesci da lui pescati e deposti in terra sopra l’erba, gustando di quella prendevano un nuovo vigore e quasi una nuova vita, e spiccando un salto ritornavano in mare. Volle provare anch’egli a gustar di quell’erba, che subito gli fece lo stesso effetto, e sentendosi spinto e sollevato da forza soprannaturale, si trovò in un istante senza avvedersene in mezzo al mare, accolto dalle Divinità marine e trasformato in un Dio protettore della navigazione. Gli fu conservato il nome di Glauco che significa verde-azzurro, bene adatto ad indicare il colore che riflettono le onde del mare. Dante volendo raccontare che egli nell’ascendere al Cielo con Beatrice si sentì trasumanato e sospinto da forza soprannaturale verso il Cielo, ed in sì breve tempo,

« ….. in quanto un quadrel posa
« E vola, e dalla noce si dischiava, »

trovò a proposito di citar l’esempio di Glauco per offrirci qualche immagine più sensibile del suo concetto :

« Nel suo aspetto (di Beatrice) tal dentro mi fei
« Qual si fe Glauco nel gustar dell’erba,
« Che il fe consorto in mar cogli altri Dei »223.

Proteo, secondo gli antichi Mitologi, era figlio dell’Oceano e di Teti, ed avea per ufficio di condurre a pascer le mandre di Nettuno, che erano composte principalmente di orche, di foche e di vitelli marini. A questo Nume costituito in sì umile ufficio attribuirono una prerogativa degna dei più grandi Numi e dello stesso Giove, quella cioè di prevedere il futuro ; ed inoltre di poter prendere qualunque forma che più gli piacesse. Vi aggiunsero ancora una sua stranezza, che egli cioè non volesse presagire il futuro se non costretto, e che per esimersene si trasformasse in mille guise ; ed inventarono che bisognava legarlo mentre dormiva per costringerlo a dare i responsi, perchè allora, per quanto si sbizzarrisse a trasformarsi, se finalmente voleva riprender la primitiva sua forma e figura di Nume, trovavasi come prima legato, ed era costretto a rispondere veracemente alle domande che gli erano fatte.

Questo mito racchiude molte importanti verità e molti utili insegnamenti. Proteo che si trasforma in tutti gli esseri, ossia corpi dei tre regni della Natura, rappresenta la materia che prende tutte le forme, la qual materia perciò con allusione mitologica elegantemente è chiamata proteiforme. Proteo conosceva qualunque segreto degli Dei e ciò che fosse utile o dannoso ai mortali, ma per rivelarlo ad essi bisognava che vi fosse costretto : così la materia contiene in sè tutti i segreti della Natura, ossia le leggi che regolano il mondo fisico, ma non le rivela, se non costretta. Il modo di costringer Proteo era quello di legarlo ; ed egli allora prendeva successivamente tutte le più strane forme, ma finalmente ritornava in quella primitiva, e allora rendeva all’interpellante la desiderata risposta. Così la materia è tenuta avvinta coll’assidua osservazione dei fenomeni e colle reiterate esperienze, e quando essa, dopo aver subìto tutte le fasi dell’analisi e della sintesi, ritorna nella forma primitiva, rivela allora il segreto richiestole. E come non bisognava stancarsi ad aspettare, se Proteo con una lunga serie di trasformazioni tardasse a riprender la sua prima figura, così conviene che gli studiosi non si stanchino dal proseguir lungamente le loro osservazioni ed esperienze, se voglionc scuoprire i segreti, ossia le leggi della Natura.